I Balcani e il lampredotto

Un viaggio low cost tra Albania, Montenegro e Kosovo. Sapori forti, aspri, decisi e tanti amici occasionali con storie interessanti
Scritto da: Bushwag
i balcani e il lampredotto
Partenza il: 03/08/2012
Ritorno il: 18/08/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
Sempre più spesso ho l’impressione che tra viaggio e cibo ci siano numerose affinità. Un viaggio, come un cibo, agisce su di noi stimolando diverse percezioni sensoriali. Un viaggio, come una ricetta, è composto da ingredienti che vanno scelti e mixati con cura e dà un tocco personale che renda il piatto unico, enfatizzando i sapori di nostro maggior gradimento. Le ricette tradizionali sono parte integrante di un viaggio e talvolta dicono tante cose sul Paese che visitiamo, dal punto di vista climatico, storico, culturale e religioso. I viaggi, come alcuni cibi, possono provocare dipendenza, quest’anno la mia si chiama Balcani. Volendo completare questo giochino di analogie, potrei provare ad abbinare una ricetta ad un viaggio in questa regione d’Europa. Di certo si tratterebbe di un piatto economico, con ingredienti poveri ma dai profumi e dai sapori forti, forse non adatti a tutti i palati, ma in grado di regalare emozioni e, nel tempo, di risvegliare ricordi, anche e soprattutto per il contesto in cui tale ricetta viene preparata, mangiata, condivisa: una trattoria famigliare, di quelle di una volta, o magari un chiosco, dove ci si dà del tu, dove non è raro fare amicizia e scambiare quattro chiacchiere con perfetti sconosciuti che ci regalano attimi apparentemente insignificanti e che invece ricorderemo a lungo se non per sempre.

Ecco, abbinerei un viaggio nei Balcani ad un panino con il lampredotto mangiato in un chiosco di Firenze… qui gli ingredienti della magia sensoriale sono l’abomaso, il pane fragrante ed intriso degli umori di cottura, il sapore forte della salsa verde, l’odore penetrante della pelletteria esposta sulle bancarelle, il vociare degli ambulanti e la ressa di turisti che sgomitano… là gli ingredienti sono un intrigante mix di culture e religioni, splendidi paesaggi talvolta abbruttiti da cumuli di spazzatura, begli edifici accanto a orrori ed errori architettonici, spirito d’avventura e capacità di adattamento in un ambiente dove la buona volontà deve spesso sopperire alla carenza di servizi e informazioni. Viaggiando da solo, utilizzando mezzi pubblici per gli spostamenti e frequentando ostelli, è quasi impossibile non incontrare gente interessante, anche e soprattutto in un’area come i Balcani, dove è facile trovare turisti avventurosi o abitanti del luogo con storie affascinanti da raccontare. L’elemento umano in questa vacanza, come nel lampredotto finisce per essere fondamentale.

Come al solito la mia vacanza è stata improntata al risparmio e alla massimizzazione del tempo a disposizione, cercando di vedere il più possibile, anche se a volte avrei voluto sostare di più in alcuni luoghi e meno in altri. Purtroppo è impossibile conciliare pianificazione e improvvisazione. L’Albania ha il potenziale per poter diventare una popolare destinazione turistica, ma deve ancora applicarsi focalizzandosi, e non poco, su alcuni aspetti, specialmente sui servizi, sulle informazioni turistiche, ma anche sul traffico automobilistico e sullo smaltimento dei rifiuti. Il Montenegro è praticamente già pronto, non solo per la costa, che attira turisti da tutta Europa, ma anche per una maggiore attenzione dei Montenegrini alla tutela e valorizzazione del territorio, con la presenza di diversi parchi nazionali che spaziano dall’ambiente lacustre a quello alpino. Il Kosovo invece è purtroppo ancora lontano dall’essere una meta turistica “normale” sebbene ci siano alcune attrattive di indubbio interesse. Tuttavia la disorganizzazione, l’apparente mancanza di leggi o di rispetto di queste, la sensazione di far-west che a tratti si respira possono essere note insolite in grado di incuriosire il turista meno superficiale e rappresentare un plus. Personalmente auspico un miglioramento delle condizioni di vita e dei redditi medi per le genti di questi stati, ma, forse egoisticamente, non vorrei che si omologassero troppo ai nostri stili di vita, perdendo quelle note di originalità che a poche centinaia di km da casa ci fanno sentire così diversi. Allo stesso tempo, talvolta ho la sensazione che le maggiori differenze non siano tanto di tipo culturale quanto piuttosto legate ad una sorta di sfasamento spazio-temporale. Non trovo differenze così esagerate tra gli ambienti rurali del Kosovo o dell’Albania e le campagne italiche di una cinquantina di anni fa o anche meno; incluse pratiche che oggi consideriamo barbare ed a noi estranee come le faide o i matrimoni combinati, ma che fanno invece parte del nostro retaggio culturale. A volte ho la sensazione che visitare certi luoghi eserciti su di me un fascino particolare proprio per l’idea di un viaggio nel tempo e non solo nello spazio.

Arrivato all’aeroporto Rinas di Tirana con volo Alitalia da Genova via Roma (150€ A/R), ho subito ritirato valuta locale da uno dei bancomat che si trovano di fronte ai banchi del check-in. Ad agosto 2012 il cambio era di circa 140 leke per un euro. Per chi ha un budget molto limitato ho avuto l’impressione che si possa passare senza problemi la notte in aeroporto: panchine senza braccioli permettono di distendersi, il luogo è pulito e tranquillo, infine credo che da mezzanotte alle cinque non ci siano voli e che quindi sia piuttosto silenzioso. In effetti la mia intenzione era quella ma poi ho visto che ci sono alcuni alberghi a poche centinaia di metri dal terminal e così ho optato per il Verzaci hotel, raggiungibile a piedi in cinque minuti, e che offre camere dignitose e pulite, con aria condizionata, per 25€ a notte (colazione inclusa). A chi arriva in serata sconsiglierei pertanto di prendere un taxi che vi costerebbe quasi la stessa cifra, alla quale dovrete poi aggiungere la spesa per il pernottamento in centro. Fate come me, dormite in zona aeroporto e la mattina seguente dopo colazione prendete il Rinas Express, un bus navetta per il centro che ha corse rade (ogni ora) ma regolari. Costa solo 250 leke e in circa 30 minuti vi porta a due passi da piazza Skenderbej, il cuore di Tirana. Da lì, senza avere nemmeno il tempo di prendere confidenza con la capitale ho raggiunto a piedi la stazione ferroviaria e la adiacente Rruga Karl Gega da cui partono i bus per Scutari (Shkodra). Nell’area piuttosto degradata intorno alla stazione ferroviaria ci sono alcuni negozietti e venditori ambulanti dove potrete acquistare a prezzi irrisori cibo e bevande da consumare durante il viaggio. L’alternativa ai bus sono i famosi furgon, una sorta di taxi collettivi, in genere dei van che vengono stipati con 6-10 persone. Sono più veloci ma leggermente più costosi, hanno spesso una guida spericolata, poco spazio per i bagagli, ed in genere partono solo quando sono pieni. Per chi fosse interessato, i furgon per Scutari partono da “sheshi zogu i zi” che si trova a circa 15 minuti di cammino dalla stazione ferroviaria. Superati gli ingorghi che caratterizzano il traffico di Tirana, con il bus raggiungerete Scutari in circa due ore e mezza pagando un corrispettivo di 300 leke (il biglietto si fa a bordo). Durante il trasferimento sono stato colpito da una cosa: il numero di autolavaggi, ben maggiore di quello dei panifici, e che forse evidenzia ancor più quanto l’auto sia uno status symbol in Albania. Del resto occorre ricordare che fino al 1990 ai normali cittadini non era consentito possederne una.

Il primo impatto con Scutari non è entusiasmante, decine di taxisti ti si avvicinano offrendo corse per il Montenegro a prezzi eccessivi. In effetti Scutari per me doveva essere semplicemente luogo di partenza per raggiungere dapprima le Alpi albanesi e poi Kotor in Montenegro ed evidentemente la stessa gente del posto considera la propria città come un mero luogo di transito. Shkodra si presenta piuttosto polverosa e disordinata. Sulla piazza principale svetta il vetusto hotel Rozafa che quasi sembra ostentare sfacciatamente il suo fascino retrò e decadente di stampo comunista-statalista, tuttavia la vicina area pedonale è gradevolissima, soprattutto alla sera quando gente di ogni età si riversa in strada per il “Xhiro”, come qui viene chiamato quello che da noi potrebbe essere definito “struscio”. Ci sono begli edifici in stile tradizionale recentemente ristrutturati o in ristrutturazione e decine di bar e ristoranti dove potrete gustare una pizza niente male (una capricciosa e due birre medie, 740 leke) o magari un piatto di carne alla griglia (braciola, patatine, due birre medie 950 leke) facendo attenzione che, come capitato a me, il cameriere non cerchi di gonfiarvi il conto. Le principali attrazioni turistiche sono la fortezza Rozafa e lo studio fotografico Marubi. Quest’ultimo al sabato, giorno del mio arrivo, è chiuso e quando sono tornato a Scutari di lunedì era già chiuso per cui non ho potuto ammirare le splendide foto d’epoca in esso esposte.

La fortezza Rozafa si raggiunge dal centro con uno dei rari e sgangherati bus cittadini (20 leke), oppure con una camminata di circa 25-30 minuti. Al ritorno dopo aver atteso invano un bus per più di mezz’ora ho optato per questa soluzione. La sua posizione è estremamente affascinante ed offre viste mozzafiato su Scutari e dintorni; l’ingresso costa solo 200 leke ma sarebbe meglio chiederne anche il doppio ed offrire in cambio un opuscolo che spieghi qualcosa in più di quanto facciano i rari pannelli esplicativi che si incontrano vagando per la fortezza. Di positivo c’è che si può girare liberamente ovunque, raggiungendo anche aree potenzialmente pericolose, incontrando magari serpenti e tartarughe. E’ pure possibile visitare cunicoli bui e stanze sotterranee (ero munito di torcia), ma il brivido dell’esplorazione rimane incompiuto: non si trova mai niente di sensazionale. Il tempo trascorso alla fortezza è stato reso più piacevole dall’incrocio con un occasionale compagno di viaggio, un ragazzo polacco che stava girando per i Balcani in autostop. Argomento di conversazione il viaggio e il viaggiare, e da buon autostoppista mi ha regalato curiosi aneddoti inerenti al suo viaggio ed alle persone incontrate. Insieme abbiamo poi visitato la moschea di piombo (xhamia e plumbit) che si trova ai piedi della fortezza e che nei periodi piovosi viene a trovarsi parzialmente immersa nelle acque del fiume, tanto che l’ingresso si raggiunge tramite una passerella. Bartosz, questo il nome del ragazzo, ha poi deciso di piantare la tenda poco lontano dopo aver chiesto a gesti (nemmeno il mio italiano, spesso utile in Albania, è stato d’aiuto) il permesso a un contadino armato di falce messoria. Sebbene con quello strumento potesse incutere timore, il fattore si rivelerà persona ospitale e di cuore visto che tornerà per offrire una bottiglia d’acqua al Polacco. Io invece, meno avventurosamente, avevo prenotato una camera in città. L’hotel Kolping, gestito da un’organizzazione religiosa tedesca, si presenta come una soluzione economica, tranquilla, piuttosto centrale. La camera pulita, spaziosa con aria condizionata perfettamente funzionante. Tutto troppo bello per 25€ a notte, inclusa un’abbondante colazione. Infatti quando rientro in albergo, dopo cena, scopro che è in corso un banchetto nuziale con musica sparata a volume folle…e sarà così fino alle due di notte…con tanto di mia sfuriata all’una e mezza visto che la mattina seguente avrei dovuto svegliarmi alle 6,30.

L’indomani il furgon per Theth si riempie, strada facendo, di gente e di mercanzie che l’autista compra per strada al fine di recapitarle agli abitanti di quello sperduto villaggio montano. Dopo circa due ore facciamo sosta ai piedi delle Alpi nel villaggio di Boge, dove finisce l’asfalto. Nel mentre passa una carovana francese a bordo di super-jeep recanti la scritta “Raid des Balkans”, ci salutano con un vago senso di superiorità, ma dopo nemmeno mezzora di strada non asfaltata li raggiungiamo. La carovana è ferma, uno dei maxi fuoristrada è in panne, mentre il nostro vecchio “van” con gomme spaiate e sedili rifoderati procede lentamente ma inesorabilmente verso la meta… questa volta forse lo sguardo di superiorità lo abbiamo noi… alla faccia della tecnologia. Va detto che il viaggio verso Theth è in sé un’esperienza che merita di essere vissuta, a patto che non patiate il mal d’auto… da Boge infatti si fanno circa due ore e mezzo di strada sconnessa, con continui sballonzolamenti, non c’è parapetto e spesso si costeggiano strapiombi che invitano a guardare altrove… quando poi si incrociano altri mezzi, il pilota è costretto a notevoli equilibrismi alla ricerca di un punto in cui possano passare due mezzi per volta. Prima di arrivare al villaggio è quasi d’obbligo una sosta nei pressi della stele a ricordo di Edith Durham, una scrittrice inglese che all’inizio del secolo scorso visitò i Balcani rimanendone stregata. Theth più che un villaggio è un insieme di case sparse; in gran parte si tratta di abitazioni in pietra con tetto in lamiera che ben si inseriscono nello scenario montano. Molte di queste offrono servizio di guesthouse, hanno intorno un po’ di terreno coltivato o adibito a frutteto, qualche animale da cortile che scorrazza tra i visitatori e non mancano arnie, pecore e mucche. Insomma gran parte del cibo che viene servito in tavola è autoprodotto, o come è di moda dire oggi, a km zero. Apprezzabile anche il fatto che quasi tutte le abitazioni siano dotate di pannelli fotovoltaici e pannelli solari per la produzione di energia elettrica e di acqua calda. Si respira una piacevole aria bucolica e la temperatura è decisamente più mite rispetto al bollente fondovalle. A pranzo conosco Paolo e Angelo che stanno viaggiando per i Balcani in mountain bike ed hanno al loro attivo numerose imprese di questo genere con tante storie da raccontare. Li invidierò non poco la mattina seguente, quando partiranno per proseguire il loro avventuroso e faticoso, ma, proprio per questo, più gustoso ed intenso viaggio. La giornata trascorre piacevole, con i ritmi blandi della vita montana e contadina, tra le chiacchiere con Angelo e Paolo e una passeggiata per il paese: campi, pascoli, casette di pietra, un torrente gelido e impetuoso, una chiesetta con il tetto di scandole in legno, e la “torre chiusa” dove in passato si rintanava chi cercava di scappare a qualche sanguinosa faida. Alla guesthouse Gjecaj (20€ per posto letto, pranzo, cena, colazione) quel giorno l’italiano è la lingua comune visto che in serata si aggiunge un gruppo di veronesi, e nel sentire gli altri a tavola che tra un bicchiere e l’altro di raki pianificano la propria escursione il rimpianto per non potermi aggregare aumenta, così come la convinzione di tornare un giorno per concedermi una vacanza a base di trekking in queste montagne ancora così selvagge e scarsamente antropizzate. Il cibo poi è semplice ma abbondante, genuino e gustoso, insomma anche se serbo il rimpianto per non aver affrontato escursioni sulle Alpi Albanesi non rimpiango certo di essermici recato.

Il giorno seguente il furgon passa a prendermi per riportarmi a Scutari. Per la cronaca il prezzo del servizio sarebbe di 800 leke, se gliene offrite 900 potrebbero storcere il naso visto che dai turisti si aspettano anche più di 1000 leke, ma se fate vedere di conoscere il prezzo non dovrebbero insistere a chiedere di più (detto per inciso, all’andata ho pagato 10 euro e la cosa non mi è dispiaciuta. Secondo me sono anche meritati considerando che il viaggio dura più di quattro ore e che l’autista si trova a dover guidare su strade decisamente difficili e pericolose). Sul furgon incontro dei ragazzi albanesi con cui già avevo condiviso il viaggio di andata, così finisco per fare amicizia con un paio di loro: Stefano e Claudio (molti albanesi utilizzano spesso un nomignolo italiano). Il calcio è l’argomento iniziale di conversazione ma poi si spazia su altri fronti. Stefano, studente di economia del turismo, ha intenzione di creare un sito internet per far conoscere Theth e sviluppare il turismo in loco, organizzando escursioni o noleggiando biciclette e canoe. Claudio è pastore evangelico ed entrambi fanno parte di un’associazione di volontariato denominata “Puls” che si occupa di aiutare i più deboli. Saputo della mia disavventura la prima notte in albergo a Scutari si offrono di ospitarmi. Non avevo ancora pagato l’hotel e non mi avevano chiesto documenti al check-in per cui avrei potuto dileguarmi ed accettare la loro proposta, ma non sono il tipo adatto a certi comportamenti. Giunto in albergo riesco ad ottenere uno sconto considerevole sul prezzo della prima notte, così chiamo Stefano per dirgli che li ringrazio per la loro offerta ma che mi fermerò al Kolping. Ci incontriamo comunque per dipingere le panchine di una casa di riposo per anziani e persone con problemi psichici. E’ bella la sensazione di rendersi utile anche quando si è in vacanza, e la birra che mi hanno poi offerto ha avuto un sapore speciale dopo quella gratificante azione. Claudio passerà poi a prendermi anche la mattina dopo per portarmi in auto al punto in cui partono i bus per il Montenegro, facciamo colazione insieme e poi le nostre strade si dividono, ma di certo non dimenticherò la sua amicizia e quella di Stefano.

La mia destinazione in Montenegro è Kotor (conosciuta anche come Cattaro) che raggiungo nel primo pomeriggio dopo tre cambi di autobus, uno dei quali al volo: Scutari-Ulcinj partenza ore 9 da sheshi demokracia, costo 700 leke, durata circa due ore. Ulcinj-Budva preso al volo nella stazione dei bus di Ulcinj, costo 7€, durata circa un’ora e mezza. Budva-Kotor atteso nella stazione dei bus di Budva, costo 3€, durata del viaggio circa 40 minuti. Già dal prezzo degli autobus ci si accorge che il Montenegro è un po’ meno economico dell’Albania ma almeno presenta il vantaggio di utilizzare l’euro come valuta ufficiale; scordate però che vi vengano dati come resto le unità più piccole, i “ramini”, infatti quasi sempre arrotondano il conto, ovviamente a loro vantaggio… Lungo il trasferimento ho modo di ammirare la meravigliosa Sveti Stefan e la caotica Budva. Kotor si trova in una splendida posizione, in fondo all’omonimo fiordo, il più bello e lungo del Mediterraneo. Le placide acque della baia sono incorniciate da aspre montagne che salgono tutto intorno ripidissime e brulle, una sorta di trait d’union tra l’azzurro del cielo e quello del mare. La città vecchia è piccola ma splendida e non c’è cosa migliore che perdersi tra le sue viuzze e piazzette ammirando chiese e palazzi che risentono chiaramente della dominazione veneziana.

Ogni angolo di Kotor sa regalare un’emozione, magari anche semplicemente un gattino (ce ne sono tantissimi) addormentato plasticamente su una scalinata come a sottolineare la tranquillità che regna nella città nonostante le frotte di turisti stanziali o di croceristi che sbarcano quotidianamente. Kotor è tranquilla ma non certamente noiosa, ci sono parecchie cose da vedere, la vita notturna è abbastanza vivace, ci sono numerosi ristoranti, bar, artisti di strada. Imperdibile è poi la salita lungo le mura cittadine (3€) che porta alla fortezza e che consiglio di fare al tramonto, un po’ per soffrire meno la calura lungo i 1300 scalini esposti al sole, un po’ perchè durante e dopo il tramonto lo spettacolo sulla baia è ancora più emozionante. Per quanto riguarda il pernottamento avevo richiesto una camera privata al Montenegro hostel e per 20 euro a notte mi sono ritrovato in un appartamento, esterno all’ostello e spazioso: salotto, cucinino, bagno da condividere con gli ospiti dell’altra camera da letto. Il vantaggio di essere nel centro storico di Kotor lo si sconta un po’ alla notte: fino all’una la musica viene trasmessa dai bar vicini ad alto volume, ma è quasi inevitabile che sia così. In quanto ospite esterno avevo comunque accesso a tutte le strutture e alle iniziative dell’ostello, ed ho aderito con entusiasmo alla gita al parco nazionale del Durmitor (35€). Dapprima abbiamo costeggiato il mare fino a Perast per poi salire di colpo di quota fino a raggiungere un’area di sosta che offre una vista impareggiabile sulla baia. Giunti in prossimità del parco ci concediamo un abbondante brunch a base di salumi e formaggi locali (6,5€). Il paesaggio diventa rapidamente montano, direi quasi alpino. Pagato l’accesso al parco (2€) effettuiamo una passeggiata intorno al lago nero che ci delizia con uno scenario da favola: mucche liberamente al pascolo, un lago dalle acque turchesi, un fitto bosco di conifere e un cielo azzurro e terso. Durante gli spostamenti con il van familiarizzo con l’autista, un ragazzo appassionato di calcio, e con una ragazza australiana che sta girando l’Europa in attesa di trasferirsi per studio ad Amsterdam. Le chiedo dove vorrebbe andare in Italia, ha le idee un po’ confuse, così la aiuto a perfezionare un itinerario per i pochi giorni che ha a disposizione. Il fatto che Kotor sia forse l’unica meta fortemente turistica del mio viaggio emerge al ristorante. Avendo a disposizione un appartamento con cucina mi ci reco solo una volta, scelgo il menu fisso con una bibita gassata da bere e, seppur senza grosse aspettative, rimango deluso. La zuppa di verdure è praticamente un brodo insipido, i calamari sono abbondanti ma affogati nell’olio. In altre località montenegrine, con 15 euro avrei mangiato sicuramente meglio.

Da Kotor effettuo poi un’altra escursione, questa volta per conto mio, e mi reco a Cetinje che si raggiunge facilmente via bus in un’ora e mezza al prezzo di 6 euro. Adagiata su un altopiano all’interno del parco nazionale di Lovcen, oggi si presenta come una polverosa e tranquilla cittadina di provincia con circa 15000 abitanti, ma fino al 1918 fu capitale del Montenegro ed alcuni palazzi, un tempo sede di ambasciate o dimore di importanti figure politiche, lo stanno a testimoniare. Ci sono anche numerosi musei dei quali forse il più interessante è quello di storia (3€) che presenta alcuni reperti di indubbio valore ma che purtroppo offre pochissime informazioni o didascalie in inglese. Sebbene una specie di custode ossessionato dalla vista delle vostre ginocchia possa disincentivarvi, merita una visita anche il Monastero, la cui piccola cappella custodisce una bella iconostasi ed alcune pregevoli reliquie: il corpo mummificato di S.Pietro di Cetinje, la mano di S.Giovanni Battista e tre piccoli frammenti della Sacra Croce. Non oso chiedere al tipo che “sorveglia le ginocchia” perchè il museo del monastero sia chiuso… capisco che sia un luogo sacro e richieda decoro, ma penso anche che di fronte a Dio siamo sempre nudi, e non credo che Dio o i presenti possano essere turbati dalle mie ginocchia nude per un minuto mentre applico la parte inferiore ai miei bermuda. Probabilmente comunque il museo è chiuso perchè sono le ore 13, così ne approfitto per un corroborante pranzetto a base di una specialità locale: un’enorme njeguski steak (carne di maiale ripiena di formaggio e prsut) servita con patate fritte e due birre medie Niksicko. I prezzi sono più bassi che a Kotor e me la cavo con 12€.

Mi lascio Kotor alle spalle salendo su un bus che mi porta a Podgorica (2 ore e 15 minuti, 7€). Difficilmente contrasto poteva essere più stridente. Podgorica non ha un’illustre storia alle spalle. Fino alla fine della seconda guerra mondiale era una cittadina commerciale di circa 15000 abitanti, ma nel dopoguerra, con il nome di Titograd e lo status di capitale del Montenegro, conobbe una rapida ed incessante crescita. Le caratteristiche del suo recente sviluppo fanno sì che ci siano ben pochi edifici di valore architettonico, mentre abbondano i tristi casermoni da periferia socialista. Quando prendo possesso della camera, all’hotel Europa (40 euro a notte con colazione, piuttosto caro per gli standard locali) sono in corso lavori di ristrutturazione con tanto di martello pneumatico in funzione, e mi chiedo cosa mai mi abbia spinto a venire qui…la risposta è semplice e veloce: Podgorica è snodo cruciale del sistema dei trasporti montenegrini, il che mi darà modo di raggiungere Ostrog con il suo monastero, ed infine di trasferirmi in Kosovo. Per curiosità turistica, ma anche per sfuggire al martello pneumatico, lascio subito la stanza e, privo di entusiasmo, inizio a visitare la città. Allontanandomi dall’hotel, situato nella zona della stazione dei bus e dei treni, ed andando in centro il paesaggio migliora un po’ con parecchio verde pubblico, sebbene non curatissimo, abbellito da numerose statue. Tra queste segnalo la più singolare che ritrae il cantante Vladimir Visocky a torso nudo che imbraccia una chitarra ed ha un teschio ai suoi piedi. Singolare e degno di menzione anche il “bird of peace”, si trova circa duecento metri sulla destra oltre il Millennium Bridge, raffigura un uccello stilizzato ed è stato realizzato utilizzando armi da fuoco deposte dopo uno dei recenti conflitti balcanici. Un aspetto positivo di Podgorica è che è fatta quasi interamente a griglia con ampi vialoni, il che rende quasi impossibile perdersi. Cosa che invece potrebbe accadervi a Stara Varos, la città vecchia, che merita di essere visitata: bei vicoli con case tradizionali, un paio di moschee e la clock tower. Il simbolo di Podgorica è attualmente il Millennium bridge che consiglio di visitare alla sera per godere dei giochi di luce offerti dall’illuminazione artificiale. Magari prima potreste fare un salto alla chiesa di S.Giorgio, la più vecchia di Podgorica, che però al momento della mia visita era in ristrutturazione, oppure rilassarvi nel verde del Parco di Gorica e qui visitare il monumento ai caduti, fedele allo stile del realismo socialista. Insomma, ben poco di interessante per il turista…e capisco l’imbarazzo della gentilissima ragazza che mi ha ricevuto all’ufficio informazioni quando le ho chiesto cosa valeva la pena di essere visto… Verso sera può essere piacevole passeggiare nell’area compresa tra trg republik (la piazza principale) e il millennium bridge, in questa zona infatti si concentrano molti negozi, bar, ristoranti e la zona è in gran parte pedonale. Ho cenato al Duhovni centar, un posto particolare che sembra quasi estrapolato da un convento e che infatti è gestito da un’associazione religiosa. I prezzi sono davvero bassi, il cibo buono e il servizio cordiale per cui non posso che consigliarlo. Magari cercate di non esordire subito con una topica come ho fatto io che ho chiesto un hamburger…mi ero scordato che fosse venerdì e che quindi la carne fosse bandita dalle loro tavole…ho ripiegato su una pizza vegetariana e su un dolce. Rimedierò la mia razione di proteine il giorno dopo, mangiando due piccoli ma succulenti hamburger con mashed potatoes, un’omelette con prosciutto e formaggio, e due succhi di frutta, il tutto per soli 5,90€.

Per andare a visitare il monastero di Ostrog bisogna prendere un bus in direzione Niksic. Ce ne sono parecchi, e per risparmiare qualcosina ricordate di fare il biglietto fino a Bogetici. Da lì potrete prendere un taxi, fare autostop o andare a piedi. In un attimo di follia, preso dallo spirito del pellegrino, opto per l’ultima opzione. Percorro quasi 9 km di strada in salita, quasi sempre sotto il sole, nelle ore più calde (37°C). Quando arrivo in cima sono quasi sfigurato ma felice; mi riposo godendomi il paesaggio della vallata sottostante e mi disseto ad una fonte. La chiesa del monastero inferiore, che molti trascurano ingiustamente, vanta splendidi affreschi dai vividi colori sui quali domina il blu. Il monastero superiore è un luogo magico e sacro per gli ortodossi, non solo di Serbia e Montenegro, infatti vedo transitare moltissime auto con targa bielorussa e ucraina. Si raggiunge dal monastero inferiore con un servizio navetta (0,5€) o una camminata di due km che alcuni fedeli fanno a piedi scalzi…io penso di aver dato abbastanza e mi tengo le scarpe, ma proseguo comunque a piedi. Indubbiamente la posizione del monastero superiore è unica: incastonato e scavato in una parete verticale di roccia. Sebbene non possa non rimanere incantato dall’edificio, la fila per entrare in chiesa è lunga, io sono stanco, ed immaginando che dentro la chiesa la calca sia tanta rinuncio ad entrare limitandomi a rimirare e fotografare questo controverso monastero che secondo alcune voci fu nascondiglio di Radovan Karadzic, accusato di crimini di guerra. Per il ritorno al monastero inferiore prendo la navetta e poi cerco un passaggio per Bogetici. Al secondo tentativo vengo caricato da una coppia serbo-montenegrina di Belgrado, non parlano nemmeno molto bene inglese, ma si fa subito amicizia e addirittura mi regalano anche un braccialetto ricordo del monastero che conservo a casa, nel mio angolo dei ricordi di viaggio. Arrivato a fondovalle vado ad aspettare il bus per Podgorica e sono fortunato (forse un premio per il mio pellegrinaggio?) visto che ne passa uno proprio mentre arrivo. In proposito segnalo che in Montenegro i bus costano qualcosa in meno se salite al di fuori delle apposite stazioni.

Dopo cena mi aspetta il trasferimento a Pristina, capitale del Kosovo. Il bus delle 21,30 è al completo, per fortuna trovo posto nel sedile centrale dell’ultima fila e posso così distendere le gambe a mio piacimento. Il viaggio si rivelerà però abbastanza fantozziano. Dopo nemmeno un’ora dalla partenza sostiamo a lungo, troppo a lungo in una sorta di autogrill. Ripartiamo e dopo poco iniziamo ad avvertire dei rumori sinistri fino a che una gomma scoppia. Questo inconveniente si ripeterà ancora, tra lo spavento e le imprecazioni dei passeggeri. Alla fine arriviamo a Pristina alle 7,30, più di due ore dopo l’orario d’arrivo previsto. Il ritardo si rivela però provvidenziale perchè essendo domenica, fino alle 10 non ci sono autobus per Gracanica e devo così trascorrere meno tempo in attesa all’interno dell’autostazione. Il centro di Pristina infatti dista quasi due km e, stanco per la notte in viaggio, preferisco aspettare nell’edificio in questione sonnecchiando e mangiando qualcosa. Del resto non ci sono molte alternative ad un paio di chioschi che vendono cibo; il massimo è un maxi schermo che trasmette immagini delle olimpiadi, il bagno ricorda quello del film Trainspotting, è pure a pagamento ed il sorvegliante appare quasi infastidito quando gli faccio notare che non c’è carta igienica.

Gracanica è un’enclave serba, praticamente isolata dal resto del paese e del mondo, ma proprio per questo il monastero che ospita non è più presidiato dalle forze Kfor; rimane solo il filo spinato sul muro di cinta ed alcune lapidi a ricordo delle vittime serbe cadute per mano dei kosovari albanesi. Purtroppo va detto che a distanza di tredici anni dal conflitto continuano le rappresaglie albanesi ai danni dei Serbi che da feroci carnefici (così almeno sono sempre stati dipinti dalla stampa internazionale, ed in parte sarà anche vero) sono diventate vittime pressochè indifese del revanscismo albanese. Ancora un paio di mesi fa una coppia serba, tornata dopo anni in Kosovo, è stata uccisa a Gracanica tra l’indifferenza della polizia kosovara. Non voglio e non posso esprimere giudizi sulle guerre nei Balcani, anzi con senso di vergogna devo ammettere che al tempo in cui si sono verificate, mi lasciavano piuttosto indifferente. Supposto che le guerre siano sempre ingiuste, credo di poter dire che in guerra nessuno è solo carnefice o solo vittima, ma è certo che la storia la scrivono i vincitori. I Serbi hanno perso e le loro malefatte sono state enfatizzate, mentre quelle che hanno subito sono state sottaciute se non occultate. La chiesa di Gracanica all’esterno è imponente, ma all’interno non è poi molto grande. Gli splendidi affreschi risentono del peso dei secoli e degli oltraggi umani. E’ in corso un battesimo per cui non volendo disturbare non mi fermo molto a lungo all’interno dell’edificio.

Ritorno a Pristina con l’ennesimo bus preso al volo (0,5€) e inizio a visitare la città. Purtroppo le prime impressioni confermano le informazioni raccolte prima e durante il viaggio: la città è sporca, disordinata, disadorna, una città-cantiere a tempo indeterminato. Perfino i pochi monumenti hanno un qualcosa di grottesco. La biblioteca sembra una prigione racchiusa come è da sbarre di ferro…la cattedrale serba, un guscio vuoto, che mai verrà terminata è chiusa da filo spinato e circondata da un campo incolto…di fronte al monumento della fratellanza slava ci sono delle statue di figure antropomorfe senza viso che sembrano irriderlo…perfino il bazar che per me è sempre fonte di spunti interessanti è piuttosto triste…come, a distanza di anni dal conflitto e dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza, trovo triste l’eccessiva ostentazione della radice albanese: ci sono più cappelli plis e bandiere albanesi qui che a Tirana (mentre sono quasi assenti quelle kosovare).

Per fortuna nel pomeriggio mi trasferisco a Prizren e mi riconcilio con il Kosovo. Anche qui permangono le ostentazioni etnico-culturali, ma se non altro la città vecchia ha molto da offrire all’occhio del turista e l’atmosfera è più rilassata e piacevole che nella capitale. Il quartiere Marash è una piccola perla, dominato dai minareti delle numerose moschee e dalla fortezza “kalaia” che soprattutto al tramonto offre una vista incomparabile sulla città. Ci sono tanti edifici tradizionali e, cosa non di poco conto, molti pannelli che semplificano la vita al turista spiegando non solo dove ci si trova ma anche fornendo informazioni storico-culturali. Alla sera poi è bellissimo sostare in uno dei ristoranti con tavoli all’aperto, cenare magari mentre il muezzin intona la preghiera serale ed osservare il continuo passaggio di gente di ogni età che si riversa in strada per vedere, farsi vedere, incontrarsi, chiacchierare. Insomma è chiaro che della cultura albanese e kosovara ho apprezzato molto lo xhiro, il fatto che la gente viva ancora le piazze e le strade e non si barrichi in casa o dentro i locali come invece capita troppo spesso alle nostre latitudini. Al ristorante Besimi, nella piazza con la fontana (shadervan) cuore dello xhiro, con 5€ potrete mangiare: due palline di urenbes (una sorta di formaggio cremoso aromatizzato con peperoncino) un piatto con 8-10 pezzi di kebab (non quello a cui siamo abituati, qui si tratta di pezzi di salsiccia e polpettine) con insalata e patatine fritte di contorno, una porzione di baklava e una birra Peja in bottiglietta. Consiglio di alloggiare al City hostel: camera privata con aria condizionata, bagno condiviso ma pulito e spazioso, colazione semplice ma soddisfacente inclusa, una bella terrazza in cui rilassarsi ammirando dall’alto una vasta area di Prizren, il tutto per 20€ a notte. Il plus dell’ostello è il giovane Jusufi: simpatico, iperattivo, gentile e sa offrire un sacco di informazioni utili (oltre che qualche birra agli ospiti dell’ostello). Anche lo shopping è abbastanza piacevole: alle marche internazionali si affiancano molti negozi di artigianato locale che spaziano dall’abbigliamento tradizionale alla coltelleria e alla gioielleria, con una spiccata predilezione per la lavorazione della filigrana. La chiesa serbo-ortodossa della Vergine di Ljevis, patrimonio Unesco, dopo i vandalismi degli anni passati è al momento oggetto di restauri. Un poliziotto dall’aria pacifica sorveglia l’ingresso e non ha avuto problemi a farmi entrare nonostante i lavori in corso. Peggio è andata alla chiesa lungo la strada per la fortezza: ne restano solo i muri perimetrali. Avrei voluto visitare una tekke per assistere al rituale derviscio dello ziker. I dervisci sono una costola dell’islamismo, predicano la povertà e ritengono che il loro leader spirituale possa entrare in contatto con la divinità. Il rituale per eccellenza è lo ziker, durante il quale roteano a lungo su se stessi fino ad entrare in uno stato di trance. Purtroppo però nei due giorni in cui ho soggiornato a Prizren non erano previste esibizioni aperte ai turisti. Ad essere previsti sono invece i blackout che di tanto in tanto si verificano. In Kosovo siccome pochi pagano le bollette, le città vengono suddivise in aree di merito in base alla virtuosità media dei suoi abitanti. Ci sono zone in cui l’elettricità è praticamente sempre garantita, altre in cui di tanto in tanto viene tolta, ed altre ancora in cui per quasi metà giornata si è “al buio”. In molti casi, soprattutto nei bar e ristoranti, si rimedia con rumorosi generatori il cui scoppiettio diventa una sgradevole memoria sonora di un viaggio in Kosovo, così come le autoradio con volume altissimo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Il mio ostello non era provvisto di generatore ed una sera abbiamo continuato a chiacchierare nella reception a lume di candela, in una sorta di simpatica atmosfera di coprifuoco. Un po’ meno simpatico salire le scale al buio, per fortuna avevo con me una torcia tascabile a dinamo (ero preparato a questa eventualità grazie al sito www.inyourpocket.com le cui guide, scaricabili gratuitamente, offrono parecchie informazioni utili anche su questa zona spesso e ingiustamente un po’ trascurata dalle guide più famose).

Da Prizren è consigliabile una gita fino a Peja (Pec in serbo). Ero intenzionato ad abbinarla alla visita del monastero di Decani, ma in questo luogo ho finito per fermarmi molto più a lungo di quanto pensassi e ho dovuto rinunciare a visitare anche Peja. A Decani, scesi dal bus potete prendere un taxi ma io consiglio di raggiungere il monastero a piedi. Si cammina per meno di due km, le case si fanno sempre più rade fino a sparire, la confusione del paese, il rumore delle auto e dei generatori lasciano posto alla quiete e alla tranquillità dei campi ordinatissimi che circondano il monastero, sembra un luogo idilliaco ma il primo posto di blocco Kfor (con militari italiani) mi riporta alla realtà. Anche se fortunatamente non si spara da anni (l’ultimo attacco al monastero, con granate di mortaio, mi pare risalga al 2007) questa è un’area ad alto rischio ed ancora oggi i religiosi rischierebbero l’uccisione se lasciassero il monastero senza scorta. Visoki Decani è particolarmente odiato dagli Albanesi/Kosovari perchè la sua storia, certificata da numerosi documenti, sconfessa la tesi secondo la quale i monasteri siano stati usurpati dai Serbi a precedenti colonie di monaci albanesi cattolici. Fortunatamente in altre zone del paese la situazione è meno tesa. Gli stessi Padri del convento mi hanno detto che per esempio a Prizren possono girare senza scorta, e le reazioni dei Kosovari albanesi si limitano agli insulti e alle bestemmie o al massimo ad una spintarella, ma non rischiano la vita come invece gli accadrebbe a Decani. Al secondo posto di blocco si consegna il passaporto ai militari che, ottenuto il via libera dai monaci, lo trattengono dando in cambio un pass per accedere al monastero. Varcata la soglia del massiccio portone ci si trova di fronte ad una splendida visione: la chiesa è incorniciata da un ordinatissimo prato la cui erba è di un verde quasi irreale, su tre lati si dispiegano gli edifici che costituiscono il monastero, mentre sul quarto il muro perimetrale è affiancato da alberi ad alto fusto. L’imponente edificio è in stile romanico-gotico. La mia visita è stata impreziosita dalla squisita ospitalità e disponibilità dei monaci. Dapprima Padre Petar mi ha illustrato in modo dettagliato l’edificio sacro, gli affreschi raffiguranti le vite dei santi e gli eventi più importanti della vita cristiana, la splendida iconostasi, soffermandosi anche sulla storia del monastero e sulle peculiarità dei riti ortodossi. Davvero emozionante trovarmi in uno dei luoghi più sacri della cristianità ortodossa, nonché un monastero la cui storia ha visto un susseguirsi di furti, incendi, devastazioni senza eguali, che però non hanno mai avuto la meglio sulla fede di chi lo abita. La conversazione con Padre Petar è poi proseguita, di fronte a un buon caffè e dei biscotti, sul balcone di uno degli edifici laterali. Qui siamo stati raggiunti anche da Padre Andrej e quasi inevitabilmente abbiamo finito per parlare pure del recente conflitto in Kosovo. Dalle parole e dai toni dei due religiosi è emersa chiaramente una sorta di rassegnazione per quanto riguarda il presente e di pessimismo per quanto riguarda il futuro, non solo sulla sorte dei Serbi in Kosovo, ma anche su quella di un’umanità in cui l’odio e il disprezzo sembrano essere valori preferiti a pace e amore. Mi hanno infine mostrato una sorta di libro degli ospiti in cui dei carabinieri italiani avevano fissato i propri pensieri e le proprie emozioni, nel 1941…dopo oltre settant’anni, nei quali il mondo è cambiato profondamente, l’esistenza del monastero e di chi vi dimora è purtroppo ancora affidata alla protezione dei nostri militari. Sarebbe bello un giorno tornare qui e vedere i contadini Albanesi/Kosovari lavorare gomito a gomito con i monaci Serbo/ortodossi, ma i sogni sono purtroppo, troppo spesso, destinati a rimanere tali.

L’ultima tappa della mia permanenza in Kosovo è frutto di un errore di pianificazione. Avevo intenzione di rientrare in Albania utilizzando il battello che solca le acque del lago Koman, e a tal proposito Gjakova era la base di partenza ideale. Purtroppo però quest’estate tale servizio è stato soppresso così ho dovuto ripiegare su un banale autobus di linea Gjakova-Tirana, di sicuro meno stancante, ma anche decisamente meno affascinante. Gjakova ha poco da offrire a un turista e il primo impatto è traumatico: la stazione dei bus è decisamente squallida e la sala d’aspetto pervasa da un penetrante odore di urina. Merita una visita il quartiere antico Qarshia che sebbene gravemente danneggiato nel corso della guerra, emana pur sempre un certo fascino con la strada polverosa; le casette basse spesso aggraziate da facciate in legno, ospitano numerose attività commerciali tra le quali meritano una menzione le falegnamerie che producono splendide culle in legno dai colori vivaci. In questo quartiere si trovano anche la torre dell’orologio, la moschea, una tekke e il miglior albergo della città, il Qarshia e Jupave dove ho pernottato e cenato spendendo in tutto 52€.

Il bus per Tirana parte alle sei di mattina, il che se non altro permette di ammirare le luci dell’alba. Il viaggio costa solo 10 euro ed in circa quattro ore vi porta nella capitale albanese, attraversando anche alcuni bei paesaggi. Alla frontiera non viene praticamente effettuato nessun controllo. E’ la seconda volta che arrivo a Tirana e che “scappo” immediatamente dalla città. Questa volta infatti, dopo circa venti minuti a passo sostenuto, raggiungo la stazione da cui partono i bus per Berat e nell’attesa della partenza del mio mezzo gusto un morbido e gustoso panino con formaggio e prosciutto. Fa molto caldo e per reidratarmi prendo anche un the freddo. La spesa totale è di 200 leke, vale a dire 1,5€. Il bus (300 leke) dapprima è vittima degli ingorghi di Tirana e poi di una strada piuttosto dissestata, ma, come previsto, in circa tre ore mi porta a destinazione, mentre dal finestrino vedo scorrere le immagini di numerosissimi bunker, che alla luce delle difficoltà a rimuoverli saranno probabilmente il ricordo di Hoxha che gli Albanesi conserveranno più a lungo.

La cittadella di Berat (100 leke) è davvero bellissima ed è estremamente piacevole perdersi tra pergolati, antichi portoni in legno e case tradizionali protette da muri di pietra tinti di bianco. Di tanto in tanto poi la vista si apre regalando splendide immagini della vallata sottostante o del gruppo del monte Tomorri. Le numerose chiesette sono tutte chiuse, pagando si possono visitare, ma non sono certo che ne valga la pena. Continuo l’esplorazione del quartiere Mangalem, e poi mi reco al quartiere di Gorica che si trova proprio di fronte e che ospita un paio di belle chiese, tra cui quella di S. Tomi (S.Tommaso). Qui c’è un tipo curioso e mezzo sdentato, forse il custode, che scopro essere tifoso del Toro, come me, e ci abbracciamo spontaneamente ricordando i bei tempi in cui la nostra squadra sapeva regalarci emozioni più forti che negli ultimi anni di anonimato. E’ ora di cena e la scelta del ristorante Ajka, gestito da famiglia di origine armena, si rivelerà giusta. Il cibo è ottimo, economico e le porzioni generose: grigliata mista di carne così abbondante che stento a finirla, verdure di contorno, due birre medie e un conto di 850 leke. La terrazza del ristorante poi offre una vista splendida sul Mangalem e sulle sue case bianche, sapientemente illuminate, rendendo giustizia a chi ha definito Berat “la città dalle mille finestre”. Come credo ovunque in Albania, anche qui in serata la gente si riversa in strada per il xhiro e ovviamente mi aggrego anche io con entusiasmo, salvo poi rischiare di finire dentro ad un tombino (purtroppo capita spesso in Albania di trovare tombini divelti senza che il pericolo sia segnalato). Avevo deciso di trascorrere solo una notte a Berat, e me ne pento, anche per la squisita ospitalità dell’hotel-guesthouse Nasho Vruho (20€ a notte con colazione e drinks di benvenuto e di commiato).

La mattina dopo visito il quartiere islamico, con le moschee, la tekke e il mercato coperto dove accanto alle variopinte bancarelle di frutta e verdura ci sono dei poco igienici banchi macelleria. Un aspetto positivo che merita di essere sottolineato della cultura albanese è proprio questa sorta di armonia religiosa per cui è comune vedere a breve distanza chiese, moschee e tekke, e la religione non è vissuta in modo estremista/integralista come invece purtroppo avviene in molti stati. Non so quanto questa tolleranza sia dovuta ai cinquant’anni di ateismo durante il regime di Hoxha o al rispetto per la figura di Madre Teresa ed ai suoi insegnamenti, ma è un dato di fatto che la religione venga vissuta in modo soft ed è qualcosa che personalmente ho apprezzato non poco, considerando che a breve distanza la religione è stata utilizzata come uno degli argomenti di fondo per alimentare il conflitto etnico tra Serbi ed Albanesi del Kosovo.

Il bus che mi riporta a Tirana costa inspiegabilmente 100 leke in più di quello che fa il percorso inverso ed a metà pomeriggio riesco finalmente ad approfondire la conoscenza con la capitale albanese. Purtroppo la prima impressione sulla città non è positiva, così quella sull’ostello che mi ospita. Il bagno è piccolo, la carta igienica va gettata in un cestino, le docce minuscole, le camere non hanno armadietti con lucchetto, e bisogna lasciare il passaporto come garanzia per l’utilizzo delle chiavi, mentre in tutti gli altri casi, in Albania, nessuno mi aveva mai chiesto un documento. L’opinione sull’ostello (12€ posto letto con colazione) verrà almeno in parte riscattata dall’atmosfera amichevole, dalla gentilezza del personale e da un piacevole giardino che consente di sfuggire un po’ alla calura che avvolge Tirana in questa torrida estate 2012. Al contrario purtroppo non cambierà molto la mia opinione sulla città: c’è poco da vedere e non ho provato quel feeling che talvolta scatta anche con luoghi apparentemente poco turistici, insomma Tirana su di me non ha esercitato alcun tipo di fascino. Apprezzabile il tentativo di vivacizzare la città tinteggiando con colori pastello e figure geometriche i tristi e grigi palazzoni eredità del periodo comunista. La moschea di Ethem bey è sicuramente da visitare anche perchè tra le decorazioni, oltre alle canoniche figure geometriche, ci sono insolite immagini di paesaggi, con alberi ed edifici. La statua del partigiano ignoto è esemplare nella sua fedeltà allo stile realista sovietico. Poco lontano ci sono altre sagome, questa volta in carne ed ossa, che similmente vorrebbero rivendicare i loro diritti, soprattutto quello al lavoro, visto che in zona si radunano operai in cerca di occupazione, come testimoniato da un paio di martelli pneumatici piantati nell’asfalto. I bazar, le merci e le genti che lo animano esercitano normalmente su di me un certo fascino, ma forse anche per via dell’orario pomeridiano, ho trovato quello di Tirana piuttosto sonnolento, poco colorato e poco stimolante. L’imponente statua di Skenderbej, l’eroe nazionale, passa quasi inosservata isolata come è al centro dell’omonima, enorme, piazza. Al contrario non passa inosservato lo splendido mosaico che, sulla facciata del museo di storia, rievoca gli avvenimenti più importanti per il popolo albanese. Il museo merita una visita (200 leke) anche se sono rimasto deluso dal fatto di non trovare, contrariamente a quanto avevo letto, una sezione dedicata al periodo della dittatura comunista. A ricordare una delle pagine più buie della storia albanese ci pensano l’orribile Piramide che doveva essere il mausoleo di Hoxha e che oggi versa in stato di semi-abbandono, ed alcune statue seminascoste nel retro della galleria d’arte e che riproducono icone del periodo in questione: Lenin, Stalin, una donna partigiano (Shote Galica) e un lavoratore dell’industria pesante. Il quartiere Blloku, un tempo riservato alla nomenklatura ed inaccessibile alla gente comune, è piuttosto animato alla sera: è la zona della movida, ma l’esibizione di lusso e ricchezza, soprattutto in un paese povero, non la gradisco, pertanto preferisco tenermi ai margini e passeggiare lungo il largo viale che conduce alla zona universitaria. Qui in un angolo c’è una statua di Madre Teresa, umile e sobria come la Santa, ma dal modesto valore artistico. Spiace dirlo ma il viso ricorda più quello dell’urlo di Munch che quello di questa piccola ma grande donna. Il mio angolo preferito di Tirana è Rruga Murat Toptani, un viale alberato e pedonale che alla sera è illuminato da gradevoli giochi di luce colorata e che costeggia le antiche mura del palazzo di Giustiniano e la galleria d’arte nazionale.

Da Tirana con un furgon (1 ora, 200 leke) si può raggiungere Kruja, la città natale di Skenderbej al quale è dedicato un museo. Ci sono anche un castello ed un museo etnografico, e nella zona acciottolata del bazar si trovano souvenir di ogni genere, dalle “cineserie” ai pezzi di antiquariato passando per liquori e abbigliamento tradizionale. Io ho optato per un negozio leggermente defilato che vende suppellettili e posate in legno d’ulivo. I miei ricordi di Kruja però sono legati soprattutto e ad un’immagine vista durante il tragitto: una capretta legata all’esterno di una macelleria mentre di fronte a lei, a tre metri di distanza, una sua simile veniva scuoiata…purtroppo, o per fortuna, non ho avuto la prontezza di fotografare questa scena cruenta, per non dire raccapricciante.

L’ultima sera in ostello la trascorro chiacchierando con una ragazza albanese e un ragazzo milanese e per una volta provo la piacevole sensazione, abituale per i turisti anglofoni, di poter parlare nella propria lingua anche all’estero con gli stranieri, correggendo magari alcuni loro errori lessicali. In cambio apprendo qualche gioco di parole in albanese. Per esempio, non me ne vogliano i Pescaresi, ma nominando la loro città natale potrebbero suscitare ilarità in Albania… ”pes” vuol dire cinque, “cara”… ve lo lascio immaginare…

E’ l’ora di salutare Tirana e di tornare a casa. Il Rinas Express delle dieci viene rallentato dai consueti ingorghi, ma arriva comunque largamente in anticipo rispetto alle mie esigenze. Al bar dell’aeroporto il cameriere raddoppia il conto di due turisti giapponesi (440 leke diventano per magia 7 euro), poi ci prova anche con me ma ha meno fortuna: pago in leke e comunque conosco il tasso di cambio.

A Roma mi accorgo di quanto i Balcani e la loro disorganizzazione non siano così distanti… Il volo Alitalia per Genova partirà con un’ora di ritardo… non male per un volo che dura 50 minuti. Una pozza di crema pasticcera sul pavimento provoca almeno tre cadute nei corridoi dell’aeroporto, prima che qualcuno provveda a rimuoverla. Mentre il bus ci porta al nostro aereo, vediamo una valigia caduta a terra, sulla pista, che viene schivata o ignorata da mezzi per il trasporto dei bagagli. In aereo due signori che hanno da tempo raggiunto l’età della ragione, litigano, sfiorando la rissa, per lo spazio nelle cappelliere.

Sì, i Balcani sono sempre più vicini, o quantomeno l’idea stereotipata che ne abbiamo. Il problema è capire quanto siano loro ad essersi avvicinati alla nostra supposta superiore civiltà, o quanto noi ad esserci abbassati alla loro supposta inferiore cultura. Di solito si dice che la verità sta nel mezzo… e di solito si dice anche che la verità fa male…

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