Giappone in solitaria, una terra sorprendente di cui innamorarsi (anche dopo anni)
In un giorno d’estate, mentre guardavo alle imminenti ferie senza vedere niente di interessante all’orizzonte, mi sono ritrovata a leggere Sparire di Fabio Viola. E così ho dimenticato per un attimo di avere paura dell’aereo, di non aver mai fatto un viaggio intercontinentale, di non essere mai stata sola per più di 5 giorni di fila, e in questa momentanea amnesia su chi ero (per come mi conoscevo) ho prenotato un volo a/r da Milano a Osaka per i primi di settembre. Non che Sparire, ambientato in una catastrofe naturale, sia esattamente un libro fatto per rilassarsi, ma l’amore per il Giappone che trasuda dalle sue pagine è stato così contagioso che, appunto, sono sparita a me stessa per qualche istante e ho fatto la pazzia. E allora è deciso: Giappone in solitaria!
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Parlando del Giappone si pensa ovviamente subito a Tokyo (generalmente si parte dalla Capitale, soprattutto se è così famosa), ma a me Tokyo non è sembrata così unica (dalle foto, si intende) da volerle dedicare la prima tacca sulla valigia delle fughe oltreoceano. E così ho fatto un semplice anagramma e ho concentrato la mia vacanza su Kyoto e dintorni. A distanza di anni non me ne pento, anche se ancora a Tokyo non ci sono stata e non posso quindi esprimere un giudizio pieno.
Prima di partire per il Giappone, mi sono preoccupata di stampare le prenotazioni in giapponese e di farmi tradurre in giapponese una scritta di avvertimento: sono asmatica! Se mi vedete in carenza d’ossigeno bla bla bla. Per fortuna ho dovuto utilizzare solo la prima delle traduzioni (la prenotazione degli hotel in giapponese) e devo ammettere che questa scelta, che ho fatto memore del cirillico improvvisato a Mosca, mi è stata di grandissimo aiuto. Sì, perché per quanto il Giappone sia un luogo evoluto, aperto, accogliente, civile e moderno, sono in pochi a parlare inglese e per lo più ci si esprime a gesti (o con l’aiuto di un traduttore). E io il linguaggio dei gesti (non dei segni, ma proprio dei gesti a mo’ di mimo) in Giappone l’ho perfezionato tantissimo, nei lunghi dialoghi in lingue diverse avuti nel corso del viaggio.
I giapponesi sono gentili e disponibili, per tradizione o per cultura non saprei dire, ma sono sempre pronti a dare una mano a chi gliela chiede. Da quello che ho capito, esiste una regola sociale non scritta per cui il giapponese deve aiutarti se sei in difficoltà. E io ho decisamente abusato di questa disponibilità, senza aver compreso il mio abuso finché non è diventato fin troppo evidente.
Diario di viaggio
Osaka (parte 1)
Ma andiamo per gradi. All’arrivo a Osaka, dopo aver seguito le indicazioni di Google Maps, mi ritrovo in un incrocio che non so decifrare e non riesco a comprendere da quale lato si trovi il mio hotel. Chiedo quindi aiuto a un passante, prima parlandogli in inglese e poi mostrandogli con sicurezza la versione giapponese della mia prenotazione. Il poveretto prova a spiegarmi, mi dà indicazioni in giapponese, osserva la mia aria perplessa e il mio bagaglio da 20 kg (era il primo viaggio, mi portavo dietro l’armadio) e alla fine, da buon giapponese, chiama l’albergo per chiedere indicazioni (o per maledirmi, chi lo sa), mi trascina il bagaglio e mi accompagna in hotel, lasciandomi solo dopo essersi assicurato che facessi il check-in. E no, miei cari, non era un pensionato in cerca di un cantiere da guardare, ma solo un lavoratore che ha avuto la sventura di incrociarmi in orario di lavoro e di dovermi/volermi aiutare.
Vista la premessa, il Giappone mi sembra subito cordiale e amichevole e così guardo e sorrido a ogni passante, ricevendo in cambio dolcissimi inchini e occhi sorridenti. Anche lì, non so bene se sia considerato opportuno salutare ogni passante e costringerlo a ricambiare, ma questa cordialità mi ha dato una sensazione di compagnia che mi ha fatta sentire a casa.
Kyoto
Osaka è una città bella, moderna, dinamica, con all’interno luoghi di culto e meditazione che garantiscono una pausa dalla normale vita delle grandi città. È stato bello starci, ma forse ci avrei potuto passare meno tempo, per concentrarmi di più sul mio vero amore: Kyoto. Già il nome è dolce e soave, quasi fosse la protagonista di un cartone animato con cui siamo cresciuti. E con un nome così la città non poteva che essere strepitosa. Nel mio viaggio verso l’albergo mi imbatto in una serie di scenari da cartone animato: ragazzi in divisa e mascherina (non c’era ancora il Covid, siamo nel 2016) che escono da scuola e si fermano sulle rive del fiume, studenti in divisa che saltellano sui sassi per passare da un lato all’altro del fiume, pescatori con stivaloni e cappello alla Sampei che afferrano pesci nel fiume, palloni colorati a indicare gli esercizi commerciali. La passeggiata verso l’hotel mi trasporta in un cartone animato da cui non uscirò tendenzialmente mai più!
Per visitare Kyoto noleggio una bicicletta che terrò per tutto il tempo del soggiorno e userò per spostarmi in lungo e in largo, spingendomi a volte un po’ oltre. La bici è il mio modo preferito di girare le città: consente di spostarsi più velocemente che a piedi, non crea problemi di parcheggio, garantisce soste fotografiche e non ovunque se ne abbia voglia, è assolutamente ecologica e regala un senso indescrivibile di familiarità con la città, come se essere in bici consentisse di superare immediatamente la distanza iniziale tra una città sconosciuta e il suo esploratore.
Questa bici fortunata mi porta a Gion, il quartiere delle geishe, donne bellissime che vedo passare di sera, da sole o in compagnia di un uomo, distinte, eleganti, leggere nel loro passo svelto. Le geishe non corrispondono all’immagine che noi ne abbiamo e sono donne colte e istruite, che garantiscono in primo luogo un intrattenimento mentale e una conversazione interessante. E non si prestano a essere fenomeni da baraccone, ma camminano riservate e leggiadre, senza quasi notare i turisti come me, che ne rubano scatti. Sebbene il mio essere vegetariana mi abbia creato non pochi problemi in un luogo in cui quasi ovunque si trovano pesce e carne (sushi no, mi spiace, non ne ho trovato quasi mai), l’audacia da esploratrice non mi abbandona. E così entro in un locale in cui vedo seduti solo studenti giapponesi, sicura che non sia una trappola per turisti. E se l’istinto ha ragione, tuttavia la povera cameriera giapponese che non parla nessuna parola di inglese ha non poche difficoltà a capire cosa voglio mangiare. Nella sua infinita gentilezza, mi prepara tre diversi piatti prima di trovare finalmente qualcosa che posso mangiare (una polpetta di riso come quelle dei cartoni animati, senza carne/pesce ma solo con riso), rifiuta di farmi pagare le altre cose che non ho potuto mangiare (che offre agli studenti) e mi guarda felice di avermi saputa accontentare. E anche questa, vi garantisco, è un’immagine del Giappone che non si può dimenticare.
Le magie di Kyoto sono infinite. Partiamo con la più ovvia, quella che ancora campeggia nel soggiorno della mia casa, dipinta su un fazzoletto porta-colazione: il santuario di Fushimi-Inari Taisha. Mentre attraverso i suoi infiniti torii rossi e salgo ancora e ancora, accaldata e stanca, sento l’anima farsi leggera e vengo trasportata in un mondo parallelo in cui la realtà circostante è solo immaginaria. E giungo in cima senza sentire la fatica, ma con un gran senso di sollievo e beatitudine. Qui sperimento ciò che in Giappone mi accompagnerà sempre: un senso di pace, una spiritualità potenziata, l’armonia col mondo circostante, la calma. Il Giappone è per me un luogo di meditazione e dialogo interiore a ogni livello e non so dire se siano i templi, i giardini zen, i monaci buddisti o la mancanza di cibo vegetariano, ma è come se la dimensione spirituale abbia sempre il sopravvento.
Delle infinite bellezze di Kyoto non posso che menzionare il bosco di bambù di Arashiyama, dove giungo a bordo di un trenino locale i cui sedili sono interamente coperti di disegni e fumetti (una meraviglia!). Il bosco è fitto, i bambù sono altissimi e verdissimi e anche qui esistono solo uomo e natura, senza nessun elemento di disturbo esterno. A completare il quadro, un uomo corre trascinando un risciò con a bordo due turisti e io mangio il mio gelato matcha in preda a un’overdose di immagini tipiche del Giappone.
Non starò a elencare i luoghi di interesse di Kyoto: quelli li trovate facilmente su internet. Vi dirò invece degli studenti di Kyoto, del suo fiume, delle stradine del centro all’imbrunire, dei giardini zen, delle case in legno, dei templi, del mercato di Nishiki e delle infinite specie di pesci e animali cotti in mille modi, delle geishe di Gion e di come siano diverse dalle prostitute che sono in centro guardate a vista dai papponi, del verde, dei fumetti, delle ninfee, del sentiero dei filosofi. E se questo ancora non vi basta, non vi resta che andarci e scoprire da voi ciò che vi farà innamorare di Kyoto e vi farà sentire una terribile nostalgia, quando sarete tornati a casa.
Koyasan, un luogo unico del Giappone
Il viaggio in Giappone l’ho organizzato coi consigli di qualcuno che ci ha vissuto e questo mi consente di fare una delle esperienze più particolari mai fatte, che da sola vale il viaggio: dormire in un tempio buddista. Ma non in un tempio qualsiasi, magari circondato da palazzi enormi, ci mancherebbe: un tempio posto in cima a una montagna sperduta, dove si trovano solo templi, pochissimi abitanti e un enorme cimitero.
E così mi sveglio prestissimo, prendo un primo treno, poi un secondo treno, poi un autobus che percorre una tratta non raggiunta dal treno e infine, dopo aver salutato una stazione con il tetto fatto di campane a vento, mi avventuro sull’ultima salita, per arrivare finalmente a Koyasan. Qui il viaggio diventa insieme magico e mistico. Mi accomodo nella mia stanza, con le pareti di carta di riso (esistono davvero), il futon, il cuscino di semi, il tavolino basso con il cuscino per sedia, il giardinetto zen davanti. In una parola, entro ancora una volta in un cartone animato e mi immergo in un mondo che per me è del tutto sconosciuto (la struttura è Sekishoin).
Nel tempio incontro 3 ragazzi messicani armati di un formidabile traduttore e di un router portatile (il mio cellulare non prende più) e decido che in questo posto così isolato è bene andarci in compagnia. Così io e i miei compañeros esploriamo Koyasan, ne vediamo un paio di templi e iniziamo ad addentrarci in un cimitero collocato sul cucuzzulo del Monte Koya (il cimitero di Okunoin).
Nessuno di noi si accorge che il sole sta ormai tramontando e così, dopo mezz’ora di cammino dentro a questo cimitero, quando ormai il buio la fa da padrone, ci imbattiamo in una specie di santuario pieno di lanterne arancioni, tavolette di legno con incisioni che credo siano votive e candele accese. A raccontarlo dovrebbe essere da brivido: io e 3 messicani in un cimitero, al buio, in cima a una montagna, con il cellulare che non mi prende. Probabilmente se me l’avessero presentata così dal principio non ci sarei neanche andata…ma per fortuna ho seguito semplicemente l’istinto e ho sperimentato questo luogo di culto in cui ci si sente in pace con se stessi e il mondo circostante, in cui ogni stress è così lontano da non poter essere neanche ricordato e l’armonia con la natura è totale.
Passato il momento mistico di adorazione delle lanterne nel cimitero sulla montagna, io e i miei nuovi amici torniamo alla realtà (per quanto possa definirsi realtà il deserto di un paesino di montagna dopo il tramonto) e cerchiamo un luogo in cui cenare. Dopo ampia ricerca troviamo ancora aperto (alle 18!) un pub che serve da mangiare, neanche a dirlo, solo carne e/o pesce. Mi accontento della mia ciotola di riso in bianco (il pasto più frequente nel mio soggiorno giapponese) e rientro leggera nello spirito e nel corpo nella mia stanza con le pareti di carta di riso.
La mattina un suono gentile mi sveglia per avvisarmi che bisogna andare a fare la preghiera buddista, a digiuno. Noi ospiti ovviamente non partecipiamo al rito, ma osserviamo i monaci nei loro canti e nelle loro meditazioni, mentre statue di Buddha circondate da cibo freschissimo ci ricordano che è una religione di positività e armonia.
Dopo il rito, uno dei monaci mi serve la colazione buddista. Il mio stomaco tutto riso in bianco esulta all’idea di una religione vegetariana che mi offrirà di certo un pasto che posso mangiare interamente, finché non scopre che la colazione è fatta di zuppa di miso e altre cose la cui digestione si completa già in bocca. E sia, in Giappone mi tocca avere fame e mangiare i biscottini che ho portato dall’Italia, ma non importa. Dopo questa pausa di meditazione e spiritualità, è arrivato il momento di tornare alla normalità.
Prima della partenza un monaco buddista dall’inglese perfetto mi chiede di pagare e solo allora scopro che non solo il soggiorno non si paga tramite Booking.com, ma anche che non prendono carte di credito. E io ho solo il corrispettivo di 100 euro e mi servono per rientrare a Kyoto.
È tardi ormai, ma i miei amici messicani si offrono di accompagnarmi all’ufficio postale per aiutarmi a prelevare denaro, usando il traduttore che hanno scaricato (che traduce le scritte dalla fotocamera). All’ufficio postale la mia carta non funziona e un passante si offre di accompagnarmi in una banca, sperando che lì funzioni. Che fai, non sali in Giappone sul furgoncino di uno sconosciuto che ti deve accompagnare in banca? Certo che lo fai, perché è il Giappone, è Koyasan e ti sei dimenticata che esistono persone cattive e malintenzionate. Il mio autista mi aiuta con la carta, ma ancora non funziona. Parla con il titolare dell’ufficio, che non sa come aiutarmi. A quel punto non mi resta che tornare al tempio, dire al monaco che vorrei conservare i miei contanti visto che non sono riuscita a prelevare e sentirmi rispondere che per questa volta sono stata loro ospite, di non preoccuparmi. E ditemi voi come si può non innamorarsi di un posto così.
Alla fine, ho scoperto che la mia banca aveva bloccato la carta perché allarmata dai prelievi in Giappone e ho dovuto mandare mio padre a farla sbloccare. Ma con 9 ore di fuso orario e i locali giapponesi che chiudono alle 18 non è stato per niente facile e per un intero giorno ho dovuto girare per Kyoto sfruttando il wi-fi di Starbucks, visitando parchi gratuiti e mangiando gallette di riso per strada. Ma ormai ho imparato la lezione.
I wc intelligenti
Recentemente mi sono imbattuta in una scena di Bullet Train in cui Brad Pitt familiarizza con i WC giapponesi e se ne innamora. E chi sono io per non condividere una passione con un personaggio interpretato da Brad Pitt? La scintilla è scoccata all’arrivo in aeroporto, quando sono entrata nella toilette ed è partita in automatico una musichetta delicata, credo volta a garantirmi la privacy contro eventuali persone in attesa all’esterno (o a farmi venire un infarto, decidete voi).
L’amore è poi aumentato quando, sulla destra, ho visto una serie di disegnini a indicare il sedere e una donna, con relativo getto d’acqua: dunque questi WC hanno un bidet incorporato! La meraviglia è completata dai pulsanti con cui si può aumentare, diminuire o fermare la musica; da quelli per regolare il getto d’acqua; da quello per spargere deodorante. Ma è solo nel tempio buddista, quando sperimento il WC riscaldato, che capisco perché i giapponesi sono davvero superiori a noi.
Peraltro, ma non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, i bagni pubblici erano sempre puliti, non solo perché il personale interviene con frequenza, ma anche perché il rispetto per gli altri è valorizzato da quelli stessi che in questo bagno musicale ci fanno i bisogni. E forse con la giusta colonna sonora anche noi potremmo diventare più civili.
I ristoranti giapponesi
Alzi la mano chi non ha mai visto Kiss Me Licia e non ha così pensato che i ristoranti in Giappone abbiano queste tendine colorate con sopra gli ideogrammi a indicarne l’ingresso. Ebbene, è davvero così! Non ci saranno Marrabbio e Giuliano, ma tutti i ristoranti hanno le insegne con queste tende (noren), spesso accompagnate da altre decorazioni per attirare l’attenzione. I giapponesi, si dice, amano soffrire, e questo luogo comune mi sembra convincente nel momento in cui mi accomodo, a Osaka, in un ristorante del tutto fuori dai luoghi turistici, dove incontro per lo più uomini soli o impegnati in cene di lavoro, tutti rigorosamente seduti sui talloni o con le gambe incrociate, intenti a consumare il pasto su un tavolino che, fuori dal contesto, potreste prendere per uno scalino che conduce a pochi cm più in alto.
La flessibilità dei giapponesi non mi appartiene e così, per quanto consumi tutta la cena nella posizione a gambe incrociate, sento la sofferenza che mi trafigge. Ma è certo che sono solo io a soffrire, perché immagino che loro siano cresciuti in queste posizioni scomode e abbiano quindi molta più elasticità di me. In giro per Osaka, sempre in un quartiere non turistico, mi imbatto in un ristorante in cui quasi tutti gli avventori sono soli e consumano i ramen in piedi, al bancone, senza scambiarsi una parola. È venerdì sera, ma siamo ben lontani dai pub inglesi dove uomini soli bevono e contemporaneamente danno confidenza a chiunque. Qui ognuno è chiuso nella propria solitudine, non ha voglia di parlare col vicino e alla fine anch’io non mi sento dell’umore giusto per condividere questo pezzo di vita solitaria.
Nelle zone turistiche e vivaci delle città, al contrario, insegne luminose, cartoni animati, polpi tridimensionali, dragoni, pupazzi e plastici in vetrina a raffigurare le portate danno un’immagine molto più colorata e dinamica della ristorazione. Ma la perla è Kyoto (ma guarda un po’): viuzze strettissime e semibuie animate dalle tende discrete dei ristoranti, pochi passanti, silenzio, quiete, magia giapponese.
Osaka
Il mio primo impatto con il Giappone è Osaka ed è subito un mix di templi, cartoni animati e insegne colorate. Già dai primi passi mi accorgo che il Giappone è un fumetto diffuso e che tutto, dai segnali stradali agli annunci nei locali, è affidato a un fumetto o a un disegno. E basta questo a farmi innamorare di un amore che crescerà durante tutta la vacanza. A colpirmi, però, è la presenza di questi luoghi di culto (che vedo per la prima volta) all’aria aperta, silenziosi, con un’aura di sacralità e rispetto che contrasta con il traffico delle strade vicine.
E così passo attraverso i torii, vedo scritte che non comprendo, scorgo targhette di legno votive, mi imbatto in un Buddha con ai piedi frutta fresca, scorgo ciotole in legno nei pressi di una fonte e, senza capirci assolutamente nulla, so comunque di essere in un luogo di culto e mistero. Poco dopo, la dinamicità di Dotombori mi sorprende. Lungo il fiume luci e colori, pupazzi, insegne, giovani, polpette di polpo per ogni stomaco, luci colorate.
Il giorno dopo visito il castello di Osaka, mi imbatto in una sposa giapponese (è in ciabatte, signori, questo sì che è un popolo che ha capito tutto dalla vita), percorro le strade intorno al castello, visito templi. Prima della partenza passo ancora una notte a Osaka e questa volta soggiorno nel quartiere Umeda, per conoscere un volto tutto diverso della città. Osservo l’Umeda Sky Building, passeggio per il Nakano-shima, mi spingo a fare shopping allo Shinsaibashi (è infinito) e inizio a imparare qualcosa in più del Giappone. L’ultima notte decido di dormire in un Ryokan, un albergo tradizionale giapponese, in cui però si divide la casa con i proprietari. All’ingresso devo togliere le scarpe, metterle in un apposito ripiano e indossare dei calzini puliti che mi offrono i proprietari. Salgo le scale in legno e arrivo nella mia stanza, con pavimento in tatami e futon. Lo so, ho già fatto questa esperienza a Koyasan, ma qui conosco persone che vivono in una vera struttura tradizionale e sono al centro di una città modernissima.
Completo la mia esperienza con un bagno in un onsen, del tutto priva di vestiti. La parte più importante dell’esperienza è la cura con cui ci si deve lavare prima di entrarci (forse non mi sarei lavata così a fondo neanche dopo una settimana nel fango). Non riesco a rilassarmi: essere nuda in una vasca non fa per me, se non sono a casa mia. Ma le giapponesi che sono accanto a me sono tutte rilassate e gioiose e anche questa è una di quelle cose in cui io non colgo la vera bellezza, come il mangiare a gambe incrociate soffrendo interiormente.
Nara
Dalla stazione di Osaka prendo un treno che in poco meno di un’ora mi porta a Nara. Alla stazione, al momento della discesa dal treno, la prima sorpresa: un cerbiatto è venuto a prendermi, mi guarda e aspetta proprio me. Un cerbiatto! Io di cerbiatti ne ho intravisti solo in Toscana, al mattino presto, quando ancora nessuna macchina è in circolazione, e non sono proprio pronta all’idea di un luogo popolato da cervi e cerbiatti che interagiscono con gli uomini quasi fossero cani con i loro padroni.
L’entusiasmo è alle stelle! Chiedo a un passante di farmi una foto mentre accarezzo un cervo e non realizzo che nell’altra mano tengo una banana che costituirà a breve il suo spuntino (anziché il mio…). Il cervo mi ha rubato la banana dalle mani (probabilmente pensando gliela stessi offrendo) e anche a questa condivisione di cibo non sono pronta. Io e Bambi a mangiare banane, chi lo avrebbe mai detto. Ma Nara non è solo cerbiatti: camminando mi imbatto nel tempio Todaiji, il più grande edificio in legno del mondo, e anche qui tavolette votive in legno, Buddha e i suoi amici, torii, acqua, spiritualità, purificazione.
Il mio amore infinito per Nara è appena appena scalfito dalla sosta per il pranzo. Devo essere capitata in un posto ottimo, perché tutti i giapponesi consumano la loro zuppa con un rumore allucinante e terminano con un paio di ruttini (ho scoperto poi essere segno di gradimento) ma io detesto questo genere di rumori e il gradimento preferisco sia manifestato rubando le banane agli altri, come fanno i cerbiatti. Mi siedo a terra per consultare la guida, un paio di cerbiatti mi si siedono accanto, assaporo ancora la gioia e lo stupore di questa convivenza uomo-animale che non avrei mai immaginato e risalgo sul treno per Osaka, non prima di aver regalato la mia ultima banana ai miei nuovi amici.
Un luogo da sogno
Nella mia vita mi è capitato diverse volte di conoscere gente che ha nostalgia del Giappone e dopo questo viaggio ne conosco il motivo. Non saprei come descrivere questa sensazione di cordialità, pace, calma, spiritualità, armonia, connessione con la natura che si percepisce in Giappone.
So che in Giappone il tasso di suicidi è molto alto e chiedo spiegazioni a un’italiana conosciuta a Osaka, moglie di un giapponese, che mi chiarisce che in Giappone si richiede un livello altissimo di efficienza, che la solidarietà sociale è tale che bisogna restare al lavoro ben oltre l’orario per essere sicuri di fornire il proprio contributo, che ferie e malattia sono considerate in modo negativo, che c’è molta solitudine. Non so quanto questo sia vero, ma di certo il lato oscuro del Giappone non l’ho neanche intravisto, circondata come ero da ordine, legalità e accoglienza.
Da questo viaggio ho anche imparato quanto siano farlocchi i ristoranti gestiti da cinesi o altri asiatici che dichiarano di offrire cucina giapponese, magari offrendo sushi di scarsa qualità. Io di sushi non ne ho visto mai (né l’ho mai cercato), ma ho visto un’infinità di piatti che di solito nei nostri ristoranti “giapponesi” non compaiono.
Più di tutto, in questo viaggio ho vissuto in un mondo di pupazzi e fumetti e mi sono sentita la protagonista felice di un cartone animato.
Arrivederci, Giappone.