Dal Montello alle Ande

Finalmente è giunto il giorno tanto sospirato: si parte per il Perù! Il gruppo di avventurieri è composto da me, mio marito Andrea e da una coppia di amici, Marica e Carlo Alberto. La meta del nostro viaggio è da sempre nei nostri desideri più reconditi, sin da quando a scuola studiavamo la storia degli Incas, della barbara invasione...
Scritto da: FedeP
dal montello alle ande
Partenza il: 19/08/2006
Ritorno il: 04/09/2006
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
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Finalmente è giunto il giorno tanto sospirato: si parte per il Perù! Il gruppo di avventurieri è composto da me, mio marito Andrea e da una coppia di amici, Marica e Carlo Alberto. La meta del nostro viaggio è da sempre nei nostri desideri più reconditi, sin da quando a scuola studiavamo la storia degli Incas, della barbara invasione spagnola e ci insegnavano che il Titicaca è il lago navigabile più alto della Terra: poter vedere coi nostri occhi quei luoghi rappresenta la realizzazione di un sogno. Consapevoli del fatto che si tratta di un viaggio impegnativo e faticoso, ci siamo determinati ad intraprenderlo prima che la vecchiaia incipiente ci privi delle forze necessarie… Abbiamo prenotato da tempo il Volo KLM Venezia – Amsterdam – Lima (con scalo tecnico a Bonaire, Antille Olandesi). Il servizio a bordo si rivela generoso, ma di scarsa qualità: le attempate e rubiconde hostess olandesi si aggirano con frequenza spasmodica tra i passeggeri ponendo il quesito amletico “chicken or pasta?”, che diventa un tormentone ossessivo che prelude al trangugiamento di intrugli di composizione non ben identificata. Del resto il volo è lungo, non si sa che fare… Pur di passare il tempo si mangia quello che passa il convento! Arriviamo a Lima sabato sera 19 agosto: all’aeroporto ci attende Giusy, italiana trapiantata in Perù, che è il nostro primo contatto con la Perù Paradise di Michele Mosca (anche lui migrato in terra andina dalla grigia Milano), che ci ha organizzato il tour personalizzato. Nell’accompagnarci all’albergo Giusy ci fornisce un’infarinatura di informazioni generali sul Perù, anticipando in particolare un dato fondamentale per dei gourmandes come noi: PARE che si mangi molto bene, staremo a vedere. Dormiamo all’Hotel La Faraona nel quartiere Miraflores, un tre stelle senza particolari attrattive, ma centrale e pulito. Ci danno il benvenuto offrendoci il primo (di una lunga serie) pisco sour, cocktail tipico della costa peruviana, che è stato una mano santa per digerire “chicken or pasta”; facciamo due passi in zona pedonale per sgranchirci le articolazioni duramente provate dalle lunghe ore di viaggio. Primo impatto: Lima non sembra poi così perigliosa come la dipingono le guide turistiche. Domenica 20 agosto (Pisco – Riserva di Paracas) Dopo una colazione abbondante e curata incontriamo Franco: ci comunica che sarà lui l’autista che ci accompagnerà per tutto il tour con la sua auto lustra e super comoda e, soprattutto, parla italiano: grande giubilo! Partiamo alla volta di Pisco, lasciandoci alle spalle la degradata zona periferica di Lima Sud. Prima sorpresa: sulla costa c’è deserto VERO, con le dune di sabbia. Si susseguono gli stabilimenti balneari: in estate probabilmente ci sarebbe stato di che divertirsi, ma in Perù ad agosto è inverno e la famosa garùa (=foschia) la fa da padrona, ammantando di grigio gli orizzonti che si perdono tra le dune e l’oceano. Arrivati a Pisco ci sistemiamo all’Hotel Embassy Beach: la Lonely Planet e il Touring lo descrivono come un albergo a quattro stelle, ma, a parte la piscina (evidentemente non utilizzabile in questa stagione), per la verità non è un granché e le stanze sono anche un po’ sporchine; pazienza, tanto è solo per una notte. Ci mettiamo alla ricerca di un posto carino per l’almuerzo, passando dalla Plaza de armas (scopriremo poi che ce n’è una per paese, come i matti…). La prima scelta (Posada Hispana) esta serrado e allora ripieghiamo su “As de oros”: dopo aver fatto impazzire Franco per la traduzione del menù e sganassare la cameriera per la nostra confusione, io e Carlo facciamo i diffidenti e ci buttiamo su una corvina a la plancha, semplice semplice; Marica e Andrea, più coraggiosi, ordinano una zuppa di pesce che si rivelerà strepitosa e che io sto loro ancora invidiando (quelle chele di granchio erano una vera delizia): come si suol dire, chi non risica non rosica… Ci servirà di lezione. Io, invece, ho purtroppo indirizzato male quel briciolo di coraggio sperimentatore che avevo in animo, coinvolgendo nell’esperimento la povera Marica: come non provare la mitica INKA Cola (=bevanda dolce e gassata di colore giallo, a base di erba luigia)? Ne sorseggio un po’: mi pare di bere una Big Bubble, tanto è stucchevole… Ma per non fare brutta figura me la bevo tutta, senza fare tante storie. Quando gli altri (ignari) l’hanno assaggiata mancava poco che mi picchiassero! Soddisfatti per il pranzo (e per il conto: in Italia non ci si mangia manco un toast con quei prezzi) torniamo in albergo per attendere la guida che ci porterà a visitare la Riserva di Paracas, area naturalistica protetta che si affaccia sull’Oceano Pacifico. Aspetta e spera: la guida non si vede… Missing! Alle 15, con il fumo dalle orecchie per la rabbia, decidiamo di andarci da soli con Franco. Dopo varie telefonate finalmente intercettiamo la desaparecida che ci raggiunge all’ingresso della Riserva. In fretta e furia incominciamo il giro: vediamo la “cattedrale”, conformazione rocciosa modellata dal vento, tutto intorno dune di sabbia multicolore, sembra di stare sulla luna (non che ci sia mai stata, ma ho visto il filmato dell’allunaggio del 1969…). Oramai è tardi (essendo inverno, alle 18 è già buio) e degli stormi di uccelli che popolano la zona rimane poca traccia; il museo è chiuso, ma almeno, dopo lunghe insistenze, riusciamo a farci portare al mirador de lobos marinos (=leoni marini) e li avvistiamo dall’alto della scogliera mentre fanno la siesta. Rientriamo in albergo per la cena, scoprendo con rammarico che la zona ristorante è tutta all’aperto: è vero che l’inverno a Pisco non è freddo come a Cortina d’Ampezzo, ma comunque non è un clima adatto a cenare sotto un porticato! Carlo giudiziosamente ricorda che i nostri veci raccomandavano di “magnar al caldo e dormir al fredo”, ma qui in Perù evidentemente le perle di saggezza popolare veneta non sono state importate. Ingurgitiamo una bisteccona alla griglia alla velocità della luce; poi, per riprenderci dal brivido, ci facciamo portare in camera un bel pisco sour, ci ubriachiamo e giochiamo a carte. Lunedì 21 agosto (Isole Ballestas – Nasca) Oggi è in programma la gita in barca alle Isole Ballestas: alle 8.00 del mattino, puntuali come orologi svizzeri, siamo pronti al porto in tenuta da marinaretti, ma c’è ancora garùa e non ci fanno partire per ragioni di sicurezza; dopo due ore ancora niente: cominciamo a disperare. Nell’attesa facciamo un incontro davvero fortunato: compare a riva un’intera famiglia di delfini! Finalmente alle 11.00 ci imbarchiamo: chi la dura la vince! Nel tragitto verso le isole vediamo la Candelabra, un enorme geroglifico scavato nella sabbia lungo la scogliera, ci dicono che forse si tratta di un messaggio ai naviganti di epoca pre-inca. Giunti alle Ballestas, sembrava di stare nel film Uccelli di Hitchcock: stormi, miriadi di volatili di tutte le specie, pinguini nani, leoni marini a centinaia spiaggiati sugli scogli, li vediamo vicinissimi! Unico neo: l’odore del guano… Carlo, esperto safarista e animalista convinto, sta facendo un reportage fotografico degno del National Geografic e nell’entusiasmo non si rende conto che… Il mal di mare è in agguato: quando decide di sedersi è ormai già bianco come un cencio, solo l’intervento amorevole della guida Rosa lo salva dal patatrack. Di rientro al porto troviamo ancora i delfini, insieme ai pellicani che svolazzano intorno alle barche dei pescatori, a caccia di un facile spuntino. Una volta sbarcati, si riparte di corsa verso Nasca (passerà alla storia la frase di Carlo che, rivolgendosi a un bimbo che lo stava guardando incuriosito, lo apostrofa lapidario: “niños, non c’è tripas per gatis – tiengo todo lo stomaco rabaltado”): l’indomani i voli sulle linee sono super-pieni, bisogna anticipare il sorvolo ad oggi pomeriggio. Nel tragitto verso Nasca attraversiamo la città di Ica, famosa per la produzione di vino e del Pisco, tipico liquore peruviano: si susseguono le cantine, anche se non si capisce bene dove prendano l’uva, visto che siamo ancora immersi nel deserto di dune di sabbia e di vigne non se ne vede neanche l’ombra. Arriviamo in tempo millimetrico all’aeroporto di Nasca, imbottiti di Xamamina: chi ci ha preceduto ce ne ha raccontate di cotte e di crude sullo stile, ehm, spericolato, dei piloti dei cesna a 4 posti che vengono utilizzati per il sorvolo. Io e Andrea partiamo per primi: l’aero decolla e… Ci accorgiamo che la portiera dalla nostra parte è APERTA! Guardiamo con occhi iniettati di terrore il pilota che sereno e felice come una Pasqua ci dice “tranquili, no hay problema!”… Sarà, ma noi trascorriamo tutto il sorvolo aggrappati alle maniglie di quella sottospecie di velivolo e recitando il rosario, pregando tutti i santi che non ci facciano cadere giù. In qualche modo riusciamo comunque a vedere questo strano mistero che sono le linee di Nasca. Nel frattempo anche Carlo e Marica sono partiti e tornano apparentemente in forma smagliante (miracoli della chimica farmacologica!). Riposino in albergo (Paredones Inn, molto spartano ma pulito) e poi cena a “El pòrton”; Carlo rinuncia perché lo stomaco è ancora “rabaltado” e ha un po’ di febbre (è già stato eroico a fare il sorvolo nonostante l’“incidente” delle Ballestas…). Ci allietano con uno spettacolo folklorico, danze e musica a suon di flauto di pan: per ora è ancora una novità gradita alle nostre orecchie, in seguito a volte ci verrà voglia di rompere il “piffero” in testa agli esuberanti musici andini… Martedì 22 agosto (Chauchilla – Puerto Inkas – Arequipa) La mattina all’alba si va a visitare il cimitero delle mummie di Chauchilla: si tratta di una vasta area desertica ove sono state rinvenute numerose tombe scavate nella sabbia, all’interno delle quali sono stati sepolti i corpi mummificati di uomini, donne e bambini del popolo Nasca. Forse è un po’ macabro, ma ci consente di cominciare a entrare in contatto con gli usi e costumi delle civiltà pre-inca. Peccato solo che il meglio di questo sito se lo siano goduti i tombaroli che lo hanno scoperto e che hanno trafugato quanto c’era di più interessante ben prima che potessero vederlo gli archeologi. Il viaggio verso Arequipa è molto lungo, perciò ci mettiamo subito in cammino. Una valutazione a consuntivo della prima parte “costiera” del viaggio: tutte le cittadine da cui siamo passati sono sorte e si sono sviluppate in stretta connessione alle attrazioni naturalistiche ed archeologiche che vi si trovano e che meritano decisamente una visita; ma, al di là di quelle, si tratta di luoghi molto degradati e caotici, dove il ritardo nello sviluppo economico e sociale si palesa evidente nella fatiscenza degli edifici, nell’assenza di servizi, nelle condizioni igieniche approssimative. Certamente quella dei peruviani è una povertà dignitosa e orgogliosa, ma sempre povertà resta. Nessun rimpianto, dunque, nel passare oltre e dirigerci verso le città storiche del “vero” Perù tradizionale. Dopo un numero imprecisato di chilometri percorsi sulla sconfinata e desertica scogliera oceanica, Franco propone di fermarsi per pranzo a Puerto Inkas; noi siamo scettici: ma che si potrà mai trovare in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini? E invece, addentratrici lungo una strada sterrata che conduce verso l’oceano, giungiamo alla spiaggia: siamo soli, con il rumore delle onde che si infrangono sulla battigia e le aquile che volano sopra di noi: che emozione, abbiamo trovato un angolo di paradiso! Consumiamo un ottimo pranzo a base di pesce nel ristorantino sulla spiaggia: assaggiamo anche il ceviche, piatto tipico a base di pesce marinato, appurando però che non si confà ai nostri palati mediterranei, perché infarcito di coriandolo. Breve riposino sulle amache, ci soffermiamo con un ultimo sguardo languido sull’Oceano Pacifico e riprendiamo il lungo tragitto verso Arequipa. Lungo il percorso scorrono sotto i nostri occhi chilometri e chilometri di spiaggione oceaniche e in cielo volano numerosi e minacciosi i GALLINASSI (=avvoltoi; quanto ci piace questa parola… E quanto sono brutti!). Pensavamo: siamo sulla costa, dobbiamo arrivare a una città che si trova a 2.300 metri sul livello del mare, dovremo fare una strada tutta curve e tornanti come sulle nostre montagne; invece mancano pochi chilometri a destinazione e non si vede che pianura: qui è tutto un altipiano sconfinato! Le strade di Arequipa (750.000 abitanti) sono un manicomio e i taxisti sono degli omicidi/suicidi. Ciononostante l’ottimo Franco ci conduce sani e salvi all’Hotel Casa Andina: molto accogliente. Io, in stretta ottemperanza alla profilassi anti-soroche (=mal d’altura) consigliata da tutti i viaggiatori, mi avvento sul mate de coca (=infuso di foglie di coca), che servono a fiumi nella hall dell’albergo. In effetti, come gira la cabeza con l’altitudine! Nonostante la stanchezza, dopo un accurato e scientifico confronto incrociato tra guida del Touring, Lonely Planet e internet (le decisioni importanti vanno ponderate) scegliamo per la cena il Ristorante Zig-Zag: la scelta si rivela davvero azzeccata (e come poteva essere altrimenti!), il locale è molto grazioso e il servizio è di prim’ordine. Prendiamo il primo contatto con la cucina andina, in particolare con il quinua (cereale che cresce in alta quota) e con la carne di alpaca: ci gustano mucho entrambi! Col quinua fanno un risottino “all’onda”, con dentro una quantità industriale di formaggio fresco di montagna fuso (fantastico!). Carlo raggiunge il momento di massima estasi culinaria del viaggio davanti a un tagliere di carne mista (alpaca, manzo, struzzo) servita sulla griglia ardente, con contorno di salse e patatine, bavaglione al collo e coltello affilato in mano! Mercoledì 23 agosto (Arequipa) Ahhhh, finalmente siamo fuori dalla garùa della costa e abbiamo un bel cielo blu e terso sulla testa! Colazione a buffet in albergo, dove assaggiamo il famoso succo di papaja di Arequipa (che in effetti ha un sapore molto diverso, meno dolciastro, rispetto a quella che si trova nelle altre zone) e la marmellata di awaymanto (ci pare di aver capito che si tratti dell’alchechengi). Inizia la somministrazione collettiva di Aspirinette (doping!) nel dubbio che le foglie di coca non bastino ad allontanare lo spettro del mal d’altura. Ci è concessa una mattinata libera: anzitutto visitiamo, accompagnati da un’ottima guida archeologa, il museo della mummia Juanita, vergine offerta in sacrificio dagli Incas alla Pacha Mama (=Madre Terra) sulla cima di uno dei vulcani che circondano Arequipa, conservatasi nei secoli grazie ai ghiacci perenni che si trovano in alta quota. Certo che fa un po’ impressione pensare che ‘sti Incas praticassero il sacrificio umano solo cinque secoli orsono! Ci perdiamo, poi, tra le viuzze della città costellate di edifici coloniali bianchi magnificamente decorati e ci concediamo un po’ di shopping: troviamo convenienti e di qualità i capi di alpaca venduti nei negozi che si trovano nel chiostro della Compagnia di Gesù. Pranziamo in velocità (… E vai col filettino di alpaca!) e poi ci aspetta per il city tour la nuova guida Norma, che si rivelerà essere una forza della natura. Visitiamo i due miradores (Yanahuara e Carmen Alto), dall’alto dei quali vediamo la città incorniciata dai vulcani con le cime innevate e dai terrazzamenti coltivati. Poi visitiamo il Convento di Santa Catalina: che vita queste suore! E che colori, sembra di essere a Siviglia! Le fotografie si sprecano, mentre favoleggiamo su quanti e quali vizi e stravizi devono essersi concesse quelle “povere” (?) “vergini” (?) europee mandate qui in “clausura” (?) ai tempi della conquista spagnola… Infine, prima del calare delle tenebre, visitiamo la Cattedrale, la Plaza de armas (aridaje!) e la Compañia de Jesus, con gli altari barocchi che sprizzano oro da tutti i pori. Dopo una preghierina alla statua del Gesù dei miracoli (che non fa mai male), diamo di nuovo l’assalto ai negozi di alpaca. Acquistato un buffo nascimento (=presepe) tipico di Arequipa, diamo un’occhiata alla Chiesa di San Francisco. Cena leggera in albergo, due passi per cercare un posto dove assaggiare la chicha morada, bevanda analcolica a base di mais rosso bollito, tipica di Arequipa, di cui ci ha parlato Norma (non la troviamo da nessuna parte, e quando la chiediamo tutti ridono: boh?!) e poi “mui buenas noches a todos!”. Giovedì 24 agosto (Chivay – Terme de La Calera) Partenza di buon mattino per l’escursione al Colca Canyon: “sempre più in altoooo!”. E’ obbligatoria la bombola di ossigeno a bordo dell’auto E NON AGGIUNGO ALTRO… Per strada dopo un po’ vediamo già le prime vigogne, lama, alpaca e uccelli di palude di tutti i tipi. Da un certo punto del percorso Franco non può più accompagnarci: l’escursione al Canyon è appaltata con clausola di esclusiva agli autisti e alle agenzie del luogo. Perciò arriva un’altra auto, scambio degli ostaggi, matesito de coca e via che si riparte. Dopo un lungo tratto sterrato (mamma mia, quanta polvere abbiamo mangiato!) arriviamo al paesino di Chivay: questo è vero Perù, con le donne che indossano i vestiti tipici coloratissimi anche per zappare l’orto, il mercatino e… La Plaza de armas, of course. Consumiamo un ottimo pranzo tipico a buffet, per 15 soles (=4 euro) a testa: i pentoloni di coccio custodiscono gustose zuppe di verdure, carne e cereali; proliferano i piatti a base di carne di alpaca, peperoni piccanti, patate e mais di infinite varietà. E poi giù mate de coca a-go-go. Ci intratteniamo in “centro” per una breve visita al mercatino: non vorrete mica che si sia venuti fin quassù per non comprare niente?! Per strada passano i bimbi di ritorno da scuola: persino io che sono piuttosto “allergica” ai bambini debbo ammettere che quelli peruviani sono davvero belli, con gli occhioni neri neri, i capelli scuri scuri, le guanciotte arse dal sole… Alcuni di loro vengono portati dalle madri ad esibirsi nella piazza, con tanto di abitino tipico ed agnellino al guinzaglio, per farli immortalare nelle foto dai turisti in cambio di qualche soles; noi, previdenti, ci siamo portati dall’Italia una scorta di penne e pennarelli da distribuire, che sicuramente per i bimbi sono più utili e più educativi del vil denaro. Dopo aver contribuito nel nostro piccolo all’economia di Chivay (nella fattispecie acquistando delle tovaglie), ci sistemiamo in albergo, un caratteristico e delizioso lodge (Pozo del Cielo); il tempo di indossare il costume da bagno e siamo già diretti alle Terme de La Calera per un rilassante bagno nelle acque riscaldate dal magma dei vulcani andini (sgorga a 80 gradi, in piscina la raffreddano fino a 40°). L’altitudine (qui siamo a 3.800 metri s.l.d.m.) e l’acqua calda ci abbassano “leggermente” la pressione, e a farne le spese è soprattutto Andrea, che finora ha del tutto preso sotto gamba il problema. Fortunatamente la defaillance gli dura poco e così siamo ben presto tutti pronti per la cena, servita con cura e amore con vista sulla vallata illuminata dalla luna, con sottofondo di musica andina dal vivo gentilmente offerta dai soliti suonatori di poncho vestiti. Stavolta riescono anche a rifilarci il loro CD musicale (ma dove diavolo vanno a incidere i dischi a Chivay?!). Tanto per spezzare la monotonia della foglia di coca, dopo cena ci offrono un mate de anìs per aiutare la digestione oppure di manzanilla per conciliare il sonno. Siccome in Perù il riscaldamento in camera è praticamente un lusso, al Pozo del Cielo hanno ingegnosamente ovviato al problema consegnando una bella borsa dell’acqua calda ad ogni ospite: che piacere trovare quel bel calduccio sotto i quattro strati di coperte di alpaca che sono sovrapposti sul letto! Si va a dormire (si fa per dire, io all’una ero già sveglia come un grillo, anche questo è un effetto collaterale dell’altura – o forse sto facendo abuso di sostanze stupefacenti, alias mate de coca?!). Venerdì 25 agosto (Canyon del Colca – Juliaca – Puno) Ad ore 5.00 ci siamo levantadi dal letto per essere i primi ad assistere al volo delle 8.00 del condor, in partenza dal gate n. 1… La temperatura esterna mi pare freschina, così mi bardo come l’omino Michelin, con tanto di calzamaglia termica nera (con questa tutina mi sento i super poteri della Mujer Araña!). Lungo il percorso sterrato (ancora inalazioni di polvere!) che conduce al mirador del condor, ci fermiamo in un paio di paesini andini, nella cui piazza principale (de armas, naturalmente…), alle 6 e sottolineo 6 del mattino, davanti alla chiesa coloniale si sta tenendo una danza collettiva folklorica “spontanea” di bambini in costume tipico: ma si può tirar giù dal letto con questo gelo quei poveri cristi solo per far contenti i turisti??!! Comunque, fa piacere riscontrare che anche nel più sperduto paesello di alta montagna, oltre alla Plaza de armas, c’è anche la scuola per tutti, un ambulatorio medico e… Un bel campetto da calcio (panem et circenses…). Alle 7.45 siamo in pole position in una zona del mirador un po’ defilata dalla massa dei turisti; e come da programma, alle 8.00, puntuale, … El condor pasa! Un tuffo al cuore: tre metri di apertura alare, che eleganza in quella planata! Dopo la prima fugace apparizione, però, i condor, forse seccati dalla massiccia presenza di avventori-voyer, si danno alla macchia. Qualcuno propone di sacrificare un turista gettandolo dal dirupo, sperando che i condor lo gradiscano per colazione… Alle 9.30 perdiamo le speranze e decidiamo di ritornare a Chivay. Ma proprio mentre ci stiamo dirigendo all’auto, esattamente sopra le nostre teste ne sbucano ben tre, di cui uno è la femmina aficionada di Norma! Carlo imbraccia macchina fotografica, grandangolo, teleobiettivo ecc. Ecc., deciso più che mai a vincere il Premio Pulitzer per la categoria “piccoli fotoreporter crescono” (nemmeno due ore dopo in auto Marica-il-censore gli avrebbe cancellato dalla memoria della digitale circa 50 scatti giudicati RIPETITIVI…). Lungo il viaggio di rientro ammiriamo la vista sul famoso Canyon del Colca, il secondo più profondo del mondo, e sui terrazzamenti coltivati ancora brulli per il freddo dell’inverno: possiamo solo immaginare quanto siano belli e rigogliosi con il verde che caratterizza la stagione estiva delle piogge. Ci fermiamo per una foto al punto più alto del nostro intero percorso: 4.850 metri s.l.d.m.! Facciamo una sosta a Chivay per un altro pranzo a buffet (finalmente riusciamo ad assaggiare la chicha morada: è dolcissima, sembra un “vin brulé” senza “vin”!), concluso come da prassi con un matesito de coca, per poi affrontare il lungo tragitto alla volta di Puno. All’area di servizio dove ci aveva “ceduti”, Franco ci riprende a bordo. L’amorevole e premurosa Norma ci consiglia di ingurgitare l’ennesimo matesito prima di ripartire (ma non è che con questo ritmo rischiamo davvero di piombare nel tunnel del mate?!): stavolta oltre alle foglie di coca ci mettono anche un’altra strana erba, che dovrebbe aiutare la digestione. Anche i paesaggi che questo trasferimento ci dà l’opportunità di vedere non mancano di affascinarci: dal finestrino vediamo scorrere immensi e sconfinati spazi aperti, sui quali pascolano indisturbati maiali, mucche, pecore e camelidi, accuditi da campesiños a dorso di mulo, le donne sempre elegantissime nei loro abiti multicolori e multistrato, spesso con un bimbo raggomitolato nei grandi scialli sgargianti annodati sulla schiena (altro che “ovetto” e passeggino a 4 ruote motrici!). La strada è lunga e non ci sono autogrill… Il mate de coca è altamente diuretico, si sa, e perciò l’autonomia della nostra vescica è molto ridotta. Non siamo nemmeno ancora arrivati a Juliaca che siamo tutti contorti sui sedili sperando ardentemente di trovare un bagno. Siccome non se ne vede neanche l’ombra, alla fine Franco ci sguinzaglia tutti su un bel prato d’erba, dietro un casotto dei campesiños: ahhh, che liberazione! La scelta “bucolica” si rivela quanto mai tempestiva ed azzeccata, considerando che poco più avanti la strada… Non c’è più: stanno facendo dei lavori, hanno “levantado todo l’asfalto” e siamo costretti a fare il camel trophy sulle dune di ghiaia e sabbia per entrare in città (qui i nostri amministratori locali non sono passati: niente rotonde né circonvallazioni…). Per Juliaca ci passiamo soltanto, il tempo a) di renderci conto che è un girone infernale caotico brulicante di gentaglia e “Trici-taxi” e b) di essere fermati da un vigile (il famoso “tecnico”) che, nonostante la perfetta regolarità dei documenti di guida di Franco, pretende un “obolo” per farci proseguire: in pratica è notorio in Perù che i poliziotti di Juliaca e Puno, poiché ritengono di percepire uno stipendio troppo basso (circa 180 dollari al mese), hanno pensato bene di arrotondare chiedendo il “riscatto” ai pullman turistici: in altre parole, ABUSO DI POTERE e CONCUSSIONE. Ce la caviamo con cinque soles e tante risate nel fare il verso a Franco che, con la sua solita calma serafica, cercava di convincere il vigile a lasciarci passare (“mi tecnico, tiengo el permiso, esta todo regular!”). Arriviamo a Puno in serata; consumiamo una cena “ospedaliera” nell’albergo La Hacienda (siamo a 4.000 metri di altitudine e si fanno sentire tutti, meglio star leggeri!) e cerchiamo di recuperare le forze per la visita al lago Titicaca. L’albergo è carino e curato, peccato solo quegli spifferi dalle finestre dotate di chiusura non propriamente ermetica… E qui il clima, soprattutto di sera, assomiglia purtroppo a quello che noi intendiamo per “inverno”. Siamo partiti da pochi giorni e già l’argomento clou delle nostre conversazioni è: io l’ho fatta, io no, Imodium, purga, fermenti lattici, ecc. Ecc…. Primo bollettino medico del soroche: Carlo continua a non dormire per il mal di stomaco (sospetta gastrite), Marica fa un uso abnorme della toilette, io soffro di insonnia permanente e Andrea di mal di testa (ha ingurgitato un blister di Moment in tre giorni, ma guai a dire che lui soffre di mal d’altura: “NON E’ VERO, ho spesso mal di testa anche in Italia!”). Sabato 26 agosto (Lago Titicaca) L’escursione al Lago Titicaca si preannuncia un must e quindi partiamo carichi di aspettative dal porto di Puno. In realtà, appena giungiamo alle isole galleggianti degli Uros (indios che vivono su zattere fatte di canna di totora, in case di totora, con barche di totora, arnesi di totora, ecc. Ecc.) ci rendiamo conto che sono state trasformate in un Gardaland per turisti. Comunque la situazione a suo modo è affascinante, il paesaggio quasi irreale, sembra di camminare su un materasso ad acqua; facciamo incetta di souvenir. Con le barchette di totora (Titanic) ci spostiamo in una seconda isola. Qui si consolida il fondato sospetto che questi indios, che si professano custodi delle antiche tradizioni ed apostoli della vita a contatto con la natura, in realtà la sera si infilino jeans e felpa firmata e vadano a dormire al caldo nell’albergo di lusso che dà su quest’ansa del lago… Ripresa la barca a motore, ci dirigiamo all’Isla Taquile: raggiungere la piazza dal porto comporta l’affrontare una bella salitona rompifiato (siamo sempre a 4.000 metri, che non sono affatto bruscolini…), ma dall’alto possiamo apprezzare la splendida vista sul lago, le cui acque scintillano sotto i raggi di un sole radioso: sembra un mare da quanto è grande, all’orizzonte si vedono i ghiacciai della Bolivia. Pranziamo a base di ottima trota del LAGO, in un ristorante vista LAGO. Acquistiamo guanti di alpaca, lavorati a mano dagli abitanti dell’isola, uomini inclusi, che sferruzzano felici per le vie del paese, e che hanno costituito una cooperativa per la ripartizione degli oneri e dei guadagni derivanti dal turismo: molto democratico, questo aspetto dell’isola ci è piaciuto. Torniamo al porto, stavolta scendendo da un sentiero situato sul lato opposto dell’isola, attraverso la famosa gradinata dei 500 scalini (meno male che li abbiamo fatti in discesa anziché in salita!) e riprendiamo la nostra barchetta: la temperatura esterna è ancora gradevole, così ne approfitto per dedicarmi sul ponte esterno al mio sport preferito: prendere il sole! Rientriamo a Puno, dove diamo una rapida occhiata all’immancabile Plaza de armas, nella cui Cattedrale si è appena svolto un matrimonio, con tanto di mariachi e fiumi di petali di fiori. Cena all’Ukuku’s: solita supita di verdure varie per scaldare lo stomaco e tanta carne e papitas in tutte le forme. Marica si lancia su un cordero al horno e ne rimane soddisfatta (anche se ancora non abbiamo appurato se era agnello o pecorone!). Domenica 27 agosto (Sillustani – Raqui – Capella di Andahuayllas – Cusco) Partiamo di buon’ora per visitare la suggestiva Sillustani, necropoli di epoca inca e pre-inca, situata su un’altura che si affaccia su un piccolo laghetto dalle acque blu: tutti siamo rapiti, percepiamo un’energia particolare e un’atmosfera magica in questo posto scelto dagli antichi popoli peruviani per la sepoltura dei loro morti e per la celebrazione di riti legati al sole e alla luna… Tutti tranne, ovviamente, l’insensibile e materialista Andrea, che interrompe il nostro silenzio assorto e contemplativo con un “uffa, io prendo sonno!”. Da Sillustani proseguiamo, prendendo la via verso Cusco. Dopo la sosta per il pranzo, visitiamo il Tempio Inca di Raqui e la Capilla coloniale di Andahuayllas, considerata la Cappella Sistina del Sud America (è carina, ma chi l’ha chiamata così ci è mai stato davvero a San Pietro??!!). In quest’occasione Franco ci fa da guida e si rivela particolarmente efficiente e premuroso anche in questa veste. Raqui si suppone sia stato in realtà una sorta di cittadella di frontiera doganale per gli Incas: lo si desumerebbe dal fatto che è l’unico sito ad essere circondato da mura difensive. Il complesso archeologico, seppure molto malandato, è stato sapientemente restaurato e merita una visita (anche se la Lonely Planet gli dedica tre righe in tutto…). Per strada si discute di calcio: noi italiani, ringalluzziti dalla vittoria del mondiale di calcio, facciamo un po’ i fighi col nostro autista Franco, ostentando il nostro orgoglio patrio (che rispolveriamo sempre e solo quando si vince: per la serie “saltare sul carro dei vincitori”!). Poiché tutto il mondo è paese, anche Franco, che è di Cusco, è un grande tifoso della squadra locale, il Cienciano. Sorpresa delle sorprese: vien fuori che l’attuale allenatore del Cienciano è nientepopodimenoche Julio César Uribe, ex calciatore che ha militato nel CAGLIARI! Andrea scoppia di gioia, ora sa che a Cusco si sentirà come a casa! Franco minaccia di portarci a vedere l’allenamento della squadra, ma per fortuna il malsano proposito finisce nel dimenticatoio… Arriviamo in serata finalmente a Cusco, dove alloggiamo al nuovissimo Hotel Casa Andina Private Collection, ricavato da un edificio di epoca coloniale ristrutturato: trattamento di lusso e camere spaziose ed accoglienti. Ci accontentiamo di una cena veloce, leggera e senza pretese in Plaza de armas, che cogliamo nel suo massimo splendore di sera, tutta illuminata ed incorniciata dalle montagne da cui è contornata la città: un manto di stelle luminose nel cielo, un presepe di lucine sui pendii. Lasciando scorrere lo sguardo a 360 gradi intorno a noi comprendiamo all’istante perché gli antichi Incas chiamarono la città Q’osqo, che significa OMBELICO DEL MONDO (e ne sa sicuramente qualcosa JOVANOTTI…!). Lunedì 28/08 (Cusco – 4 rovine) Abbiamo una mattinata libera e, dopo un’abbondante colazione lunga, ci concediamo una passeggiata a zonzo per il quartiere degli artisti e degli artigiani di San Blas, curiosando tra le botteghe in cui sono esposti quadri multicolori; visitiamo anche la bella Chiesa e la piazzetta. Più tardi ci dirigiamo al Convento con annesso Museo di Santa Catalina, dove si trova esposta una collezione di quadri iconografici di autori cusqueñi: diciamo che noi siamo abituati ai ben diversi e superiori standard artistici raggiunti dai nostri pittori a quel tempo (1550-1650), ma comunque l’ingresso è compreso nella “Cusco-card” e quindi tanto vale dare un’occhiata. Infine, diamo di nuovo uno sguardo a Plaza de armas, stavolta illuminata dal sole e splendente nell’aria cristallina. Pranzo vegetariano veloce (il cui pezzo forte è stato il dessert: cioccolata calda fatta col pregiato cacao peruviano), prima del city tour programmato per il pomeriggio: Cattedrale, Tempio Inca del Koricancha, sul quale e a spese del quale gli spagnoli hanno costruito la Chiesa di Santo Domingo. Il Tempio era originariamente una sorta di osservatorio astronomico, le cui pareti erano integralmente ricoperte di oro zecchino e pietre preziose: naturalmente tutto ciò che luccicava è stato lestamente trafugato dagli spagnoli; poi, siccome delle costruzioni inca non si butta via niente (come del maiale…), i muri di pietra sono stati “riciclati” per realizzare la Chiesa cattolica (praticamente una sorta di raccolta differenziata ante litteram!). A proposito della Cattedrale va segnalato che vi si trova un quadro di un pittore spagnolo di epoca coloniale (che guarda caso si chiama Zapatero) raffigurante l’Ultima Cena: la nostra guida Victor ci segnala che accanto a Gesù è rappresentata la MARIA MADDALENA… E in Perù non hanno la minima idea delle polemiche che ci sono state in Europa a seguito del “Codice Da Vinci” di Dan Brawn: bisogna assolutamente farglielo sapere, è un altro tassello a fondamento della sua tesi! Usciti dal centro ci dirigiamo alle 4 rovine Inca, che si trovano sulle alture che contornano Cusco: Sachsayhuaman, Quenqo, Tambo Machay e Puca Pucara. I siti sono incastonati tra il verde, in posizione panoramica sulla città, e testimoniano ancora oggi la magnificenza e l’imponenza di ciò che un giorno c’è stato. Tuttavia lascia sempre un po’ l’amaro in bocca rendersi conto che la stragrande maggioranza di quello che gli Incas avevano faticosamente eretto è stato dagli spagnoli smontato, come si trattasse di mattoncini Lego, e utilizzato come materiale edile per realizzare le loro modeste costruzioni coloniali. E va riconosciuto che gli Incas le sapevano davvero tagliare bene le pietre: si vedono dei massi megalitici perfettamente squadrati e levigati, incastrati uno sull’altro come in un gigantesco mosaico, che proprio non si riesce a farsi una ragione di come siano riusciti a trasportarli e comporli così in alto e così bene! Arriva la pioggia a disturbare la nostra passeggiata, ma, appena il tempo di arrivare al mirador del Cristo Blanco che già appare un doppio arcobaleno su Cusco! Cena tipica al Ristorante Don Tomas: assaggio il lechon (=maialetto) al forno con l’immancabile contorno di ottime patate di montagna: meglio del porcheddu che fa mia suocera in Sardegna (temo che una volta che avrà letto questo Andrea chiederà il divorzio…). Martedì 29 agosto (Valle Sacra: Ollantaytambo, Mosoq Runa, Pisaq) Giornata dedicata alla visita della Valle Sacra, attraversata dal fiume Urubamba. Visitiamo dapprima il sito archeologico di Ollantaytambo, cittadella caratterizzata da un ripido terrazzamento, in cima al quale gli Incas stavano costruendo un Tempio dedicato al Dio Sole, allorché sono arrivati gli spagnoli a rompergli le… Uova nel paniere. Ai piedi del sito si trovano alcune pietre semi-lavorate, che gli Incas non hanno fatto in tempo ad issare a monte proprio a causa dell’interruzione di cui sopra, e che sono per questo soprannominate le “pietre stanche”. Diciamo che dopo l’arrampicata sui gradini di stanco non c’erano solo le pietre… La salita stronca il fiato, ma la vista dall’alto del complesso (le fondamenta inca sono ancora alla base delle case oggi abitate) ripaga la fatica. Un acquazzone ci coglie quasi alla fine della nostra visita del sito, così acceleriamo il passo e ripartiamo. Prima di pranzo abbiamo programmato una visita alla casa famiglia Mosoq Runa (“Gente nuova” in quechua, antica lingua delle popolazioni andine – http://www.urubamba.org/index.htm) di Urubamba: l’ha fondata Ada, nostra connazionale, solo 6 anni fa e il suo progetto sta facendo velocemente passi da gigante. E’ ammirevole la sua dedizione e la volontà che l’ha condotta a vivere in questo paesino sperduto nelle Ande, per aiutare i numerosi bambini disagiati che vivono nella zona. Dopo pranzo, rallegrati dal ritorno del sole, ci dirigiamo verso Pisaq: nel centro coloniale visitiamo il mercatino, il più grande che abbiamo visto in Perù e il più decantato dalle guide e dai turisti: in realtà noi abbiamo appurato (purtroppo a posteriori) che i prezzi di Pisaq sono i più cari sulla piazza e la fregatura è dietro l’angolo; ne so qualcosa io e quel tappeto che ora giace nel salotto di casa mia… Uff! Favolose e ben conservate sono invece le rovine Inca di Pisaq, che si trovano sulla vetta della montagna che domina il paese: con una lunga ma piacevole passeggiata si attraversano le varie zone del sito, in particolare quella del tempio, all’interno del quale si vedono i resti di un Intihuatani (sorta di meridiana utilizzata per studiare lo scorrere del tempo e delle stagioni, a scopo cerimoniale e agricolo). Per cena decidiamo di accontentarci di una fetta di torta (sono veramente esagerate le torte peruviane: cinque strati di morbidezza!) e mate de manzanilla in albergo, per poi concederci un po’ di meritato risposo. Mercoledì 30 agosto (Valle Sacra: Chinchero, Moray, Maras – Cusco) Accompagnati dal nostro amico Franco in veste di guida ufficiosa, visitiamo il sito archeologico Inca di Chinchero: rivediamo la consueta struttura della cittadella già riscontrata in Valle Sacra (terrazzamenti per l’agricoltura, tempio, zona residenziale, granai), anche se qui, purtroppo, gli spagnoli sono stati particolarmente invadenti: i muri Inca sono ridotti per lo più a far da fondamenta alla Chiesa cattolica e ad altri edifici coloniali. Interessante il mercatino nella piazza: non si sa se per la presenza di Franco che, essendo indigeno, fa da censore dei prezzi, o semplicemente perché qui sono più onesti, fatto sta che i venditori di Chinchero sono decisamente meno esosi di quelli di Pisaq. E così ci scappa anche il flauto di pan e la coperta di alpaca… Ci dirigiamo poi all’anfiteatro di Moray, struttura terrazzata ad imbuto ricavata da una vallata della montagna, che gli Incas usavano come laboratorio di ricerca agricola. Tappa successiva alle Saline di Maras: un fiume sbuca dalle montagne e porta con sé il sale di una miniera; l’acqua viene raccolta in vasche profonde circa 40 cm e, evaporando, lascia affiorare il sale. E’ un lavoro molto duro, ma per noi visitatori è un paesaggio irreale, sembra una distesa di ghiaccio e neve! Io e Marica ci avventuriamo in passeggiata tra le vasche e non riusciamo più a trovare la via di uscita… Nel frattempo Andrea e Carlo se ne stanno beati a fare uno spuntino a base di frutta fresca, ignari di aver rischiato di perdere tra i cumuli di sale il loro bene più prezioso… Pranzo a buffet in Valle Sacra (si segnala, per la rubrica “tre forchette Michelin”, la tipica papa a la huancaina, cioè patata bollita immersa in una gustosissima salsa di peperoni, formaggio e arachidi) e poi torniamo a Cusco. Pomeriggio libero: visitiamo la Chiesa della Compañia, dove troviamo una brava e gentile praticante-guida che ci spiega per bene lo stile barocco-meticcio e, soprattutto, ci fornisce una spiegazione tranquillizzante in merito al fatto che tutti i Cristi in croce dipinti dai pittori cusqueñi portano la gonnellina di pizzo e sono di carnagione scura: lo dipingevano con fattezze e vesti di tradizione inca per rendere più accettabile agli indios l’imposizione della religione cattolica ad opera degli spagnoli. Abbiamo anche l’opportunità di salire fino alle torri della Cattedrale, da cui si gode di una bella vista sulla Plaza de armas. Dopo aver assistito ad un pezzo di Messa nella Iglesia de La Merced e preso la benedizione finale del prete cusqueño, facciamo una passeggiata per le vie del centro, dove si scorgono numerosi resti di costruzioni in pietra degli Incas, seppure, come al solito, violentate e sopraffatte dagli edifici coloniali; poi ci concediamo una cena chic all’Inka Grill, ristorante decantato da tutte le guide. In effetti la sua fama è ben meritata: che delizia quel filetto al pepe, l’alpaca alla griglia, gli gnocchi di patate e… Il CUY (=porcellino d’india): Carlo è l’unico coraggioso che lo ordina, ma lo assaggiamo tutti. Ma che sarà mai: è come un coniglio, anche se ha molta meno carne e molti più ossi! Prima di buttarci tra le braccia di Morfeo ci intratteniamo per un digestivo nella bella sala con camino del nostro albergo: se di giorno la temperatura a Cusco e dintorni si è rivelata molto più gradevole del previsto (si sta benissimo anche in maniche corte), la sera fa decisamente piacere un po’ di tepore extra. Giovedì 31 agosto (Machu Picchu) E’ giunto il grande giorno: si va a MACHU PICCHU!!! La partenza dall’albergo è prevista ad ore 5.00: facciamo svegliare il cuoco un’ora prima del solito per prepararci la colazione e le sue conseguenti maledizioni vanno ad annientare gli effetti delle benedizioni ricevute in Chiesa dei giorni precedenti… Alle 6.00 siamo alla stazione dei treni di Urubamba per prendere il trenino che ci condurrà ad Aguas Calientes (da Ollantaytambo in poi non c’è più strada carrabile, l’unico mezzo per raggiungere la cittadella è il treno). I binari del treno passano senza la minima protezione a un passo dalla case e dai campi coltivati; per far spostare la gente e il bestiame che li attraversano il macchinista deve strombazzare come un pazzo in continuazione. Dopo Ollantaytambo il paesaggio cambia radicalmente: siamo agli avamposti della foresta amazzonica e le sterpaglie lasciano il posto alle liane e ai fiori. Vediamo fuori dai finestrini gruppi di turisti atletici e coraggiosi che percorrono il cammino Inca (trekking della durata di 2 o 4 giorni che conduce, attraverso sentieri tracciati dagli Incas sulle montagne, direttamente a Machu Picchu): la prossima volta (?) “ANCHE NOI lo facciamo!”. Scesi dal treno ad Aguas Calientes prendiamo un pulmino che percorre 8 Km di strada a zig-zag sul costone di una montagna sino alla cittadella, e… Ecco! ecco! si intravedono i primi scorci del sito! Ci arrampichiamo con tutta l’energia che abbiamo in corpo sugli ultimi gradini che ci conducono al mirador e, o mio Dio, che MARABILLA!!! La cittadella se ne sta lì, tra la giungla e il cielo, tra spuntoni di vette andine ricoperte di fitta vegetazione, con le nuvole che scorrono veloci sui cocuzzoli, con i lama che pascolano nel verde incuranti di tutto e di tutti. Siamo senza parole, da brivido. Per ben sei ore vaghiamo ovunque, prima con la guida e poi da soli, per gustarci ogni singolo angolo di questo posto unico al mondo. Siamo appagati. Il sito ricalca la struttura tradizionale della cittadella Inca, ma è l’ubicazione a renderlo unico e incommensurabilmente affascinante. Tante storie si sono narrate su Machu Picchu (la città perduta, l’ultimo rifugio prima della conquista spagnola, posto esoterico, ecc.), ma in fin dei conti a noi poco importano le classificazioni e le spiegazioni storiche: è una MARABILLA, punto e basta. Peccato solo per due delusioni cocenti: 1) io e Marica rimaniamo a lungo aggrappate alla roccia sacra, che dovrebbe infondere energia magnetica, traendone come conseguenza solo un dolorino reumatico alle braccia; 2) Carlo sta ancora cercando la “Grotta del sole”, menzionata dalla sua guida, ma in realtà inesistente (“faccio causa al Touring!”). Alle 14 abbiamo appuntamento con la guida Victor per la discesa a valle col pullman. A bordo vediamo dai finestrini che c’è un pazzo vestito da guerriero inca che scende dal dirupo di corsa e fa a gara con il nostro mezzo motorizzato: ovviamente vince lui, sale sul pullman e chiede l’obolo (ESTA LOCO!). Ci fermiamo a pranzo ad Aguas Calientes dove ci prendiamo la prima (e per fortuna unica) inchiappettata della vacanza (no comment) e diamo un’occhiata all’onnipresente mercatino in attesa del treno delle 16.45 per Ollantaytambo. A bordo, per ammazzare il tempo, Marica, Carlo e Andrea improvvisano una bisca clandestina e si danno al poker: Marica, fingendosi un’inesperta ed ingenua principiante, lascia gli uomini in mutande e con un palmo di naso! Scesi dal treno troviamo il buon Franco che ci attende per riportarci a casetta a Cusco. A ragion veduta possiamo senz’altro dire che la scelta di non dormire ad Aguas Calientes e restare di base a Cusco non è stata affatto sbagliata, anzi: il paese di per sé è piuttosto bruttino, praticamente una macchina mangia-soldi dei turisti; è vero che abbiamo fatto una levataccia, ma non casca il mondo, in compenso non abbiamo dovuto fare un’altra volta i bagagli. E, inoltre, arrivando col primo treno alle 9 del mattino abbiamo evitato la calca che c’è sia all’alba sia verso le 11 quando arrivano i treni successivi più affollati: insomma, un successone! Onore al merito a Marica, che aveva studiato a fondo le varie opzioni individuando infine decisamente la migliore. Ceniamo al ristorante La Retama, dove c’è un ottimo di gruppo di suonatori e danzatori tipici (Carlo si lancia in un ballo frenetico con una dansadora scosciata in minigonna…) e gustiamo un buon lomo saltado. Siamo belli bruciacchiati dal sole del Machu Picchu, abbiamo il segno delle maniche sulle braccia, che sono diventate bicolor, o altrimenti dette “braso camionero”… Venerdì 01 settembre (Tippon – Pikillackta – Cusco) Oggi cambiamo direzione, basta Valle Sacra: Franco, tornato in veste di guida, ci porta a Sud-Est di Cusco, alle rovine di Tippon e di Pikillackta: le prime sono un sito Inca caratterizzata da un sofisticato sistema di canalizzazioni irrigue, le seconde risalgono alla civiltà pre-inca Wari e ci consentono di cogliere le differenze sostanziali di abitudini e abilità costruttiva rispetto a quanto visto nei giorni precedenti. Vicino alle rovine crescono ancora gli alberi dalle cui foglie veniva anticamente estratta una sostanza utilizzata per mummificare i corpi dei defunti… Io non perdo l’occasione per strofinarne un po’ sul contorno occhi: se erano proficuamente adoperate per l’imbalsamazione certamente saranno efficaci come antirughe! Avviandoci verso l’auto dopo la visita del sito di Tippon, l’attenzione della bucolica Marica viene invece attirata da un altro albero, che le pare un sambuco: Franco conferma che è un sauco, le cui bacche in Perù vengono usate per fare un’ottima marmellata (che peraltro io mi sono sbafata per giorni convinta fosse fatta coi mirtilli…). Allorché la nostra “Heidi” si dirige entusiasta verso la pianta in questione per analizzarne le caratteristiche, Franco la informa che in Perù il sauco selvatico è considerato un albero magico, stregato: gli spiriti che lo abitano si impossessano di coloro che si avvicinano troppo… Immediato dietrofront di Marica, perché, come si suol dire, “non è vero ma ci credo”! Questa credenza è una delle tante manifestazioni dell’animismo di cui è permeata la cultura antica peruviana e che ancora oggi influenza la vita quotidiana della gente. La Pacha Mama è considerata sacra: non è raro vedere qualcuno che apre una bottiglietta d’acqua e il primo sorso lo versa alla terra, per restituire simbolicamente alla natura ciò che la stessa ci ha dato. Scampato il pericolo, visitiamo anche il villaggio di panificatori di Oro Pesa, ove abbiamo modo di vedere gli abitanti alacremente all’opera nello sfornare panini morbidi e fumanti: ne approfittiamo per uno spuntino, immaginando quanto sarebbero buoni “tocciati” nel caffelatte… Vabbè che la cucina peruviana è ottima, ma un minimo di nostalgia della dieta mediterranea è umano, no? Lungo la strada di ritorno verso Cusco attraversiamo nell’ordine: un paesino dove in tutti i “ristoranti” si cucinano solo ed esclusivamente i chicharrones (=cotenna di maiale fritta: praticamente un attentato al colesterolo, ma io mi sarei magnata pure quelli…); un altro paesino dove invece la specialità è il cuy; e infine una serie di chioschi (già visti altrove) dove si serve il caldo (=brodo) de gallina, particolarmente in voga tra gli indigeni per smaltire le sbornie di Pisco… Tutto il mondo è paese: scopriamo che anche in Perù si suol dire “gallina vieja hace buen caldo”… Aggiornamento calcistico: Franco, orgoglioso, ci annuncia che il Cienciano è primo in classifica; Andrea, che è già informatissimo anche sul campionato peruviano, lo smentisce: è secondo. E Franco se ne esce con: “en la mia television esta primo!”… E in effetti aveva ragione la sua televisione… Pranziamo alla Casona del Inka, in bella posizione panoramica su una Cusco particolarmente soleggiata. Ultimo pomeriggio libero: visitiamo il Museo Inka e la Iglesia con convento de La Merced. Al Museo la guida ci fa fare un bel ripasso sia di lingua spagnola (ormai nosotros ablamos español sin problema…), sia di cultura e tradizioni inca e pre-inca; abbiamo, inoltre, modo di vedere anche una discreta quantità di reperti (in particolare ceramiche e tessuti) delle varie popolazione indigene. Per salutare e ringraziare degnamente Franco per la cortesia e la simpatia dimostrate durante tutto il nostro soggiorno, lo invitiamo a cena con la moglie al ristorante Pacha Papa a San Blas. Finalmente assaggiamo la chicha, la bevanda sacra sin dai tempi degli Incas, ricavata dal mais rosso bollito e fatta fermentare naturalmente (2-3°): Franco ce ne concede solo un assaggio, perché, essendo una bevanda naturale, ha la caratteristica di continuare la fermentazione nella pancia e quindi si rischia la “pansa camionera”… (che fa pendant col “braso” di cui sopra). Sabato 02 settembre (Lima) In mattinata abbiamo il volo interno per Lima: lasciamo con tanto rimpianto e a malincuore Cusco e il nostro ormai caro amico Franco. Ci sistemiamo in albergo a Lima, al Sol Melià (ci siamo concessi un piccolo lusso per poterci riposare per bene prima del lungo viaggio di rientro). Inconveniente con la reception che non trovava la nostra reservation, ma in breve tempo tutto è risolto. Nel pomeriggio prendiamo un taxi sgarruppato e facciamo un giro al centro commerciale Larcomar a Miraflores, dove sul lungo-oceano vediamo bei parchi verdi, come il Parque dell’Amor; poi facciamo un salto a Barranco, il quartiere coloniale degli artigiani: mah, avevo sentito dire che Lima non è granché, ma, dopo aver visto tanta bellezza nei giorni precedenti, a Barranco sono colta da una mezza crisi depressiva… C’è anche di nuovo la garùa… Andiamo in un supermercato per comprare un po’ di cibarie tipiche da portare a casa (quinua, marmellata di awaymanto, mate de coca…) Ceniamo in albergo, dovendo far a meno della compagnia di Marica che, sentendo forse l’altitudine al contrario, preferisce stare a letto per cercare di riprendersi. Approfittando della mia affiliazione al Club Mas della catena Sol Melià, ci facciamo offrire una bottiglia di “cava” di Pisco: facciamo gli “sboroni” pasteggiando a champagne… Domenica 03 settembre (Lima) Rifocillati da una colazione a dir poco luculliana, ci aspetta il city tour (Marica purtroppo è ancora K.O.): visitiamo con la brava guida Dora il Museo archeologico, dove mettiamo insieme i tasselli delle varie informazioni acquisite nel viaggio sugli Incas e sui popoli pre-incas e riusciamo così finalmente a risolvere due grandi enigmi ricorrenti del viaggio: 1) la parola “inka” originariamente indicava soltanto i capi del popolo Quechua; gli spagnoli, come al solito, non hanno capito niente ed hanno iniziato a utilizzare il termine per identificare l’intera popolazione; 2) la cultura inca ha radici profonde (religiose, architettoniche, agricole) nelle culture che l’hanno preceduta: è vero che gli Incas hanno portato l’impero alla massima espansione ed hanno raggiunti i maggiori livelli di sviluppo, ma non lo hanno certamente fatto partendo da zero (il che ci sembrava francamente inspiegabile considerando che la loro egemonia è durata poco più di un secolo). In particolare, le tecniche costruttive e tessili, i simboli (la croce inca), il culto religioso animista (condor = aldilà, puma = vita terrena, serpente = inferi) si ritrovano pari pari in culture (quale quella Chavìn) esistenti già 1.500 anni avanti Cristo! Rituffandoci nel passato prossimo del Perù, facciamo poi un giro per il centro coloniale di Lima, visitando la Cattedrale, il palazzo del Governo e del Comune e il convento con le Catacombe di San Francisco. Anche qui siamo ben lontani dagli sfarzi di Cusco. Pranzo al MAC DONALD’S, per dare il colpo di grazia allo stato depressivo… Alle 20.30 abbiamo il volo di rientro KLM. Alle 17.30 siamo già in aeroporto per sbrigare le varie formalità; e meno male che ce la siamo presa larga coi tempi, visto che tra check-in, controlli antidroga, immigrazione, tasse di uscita, controllo passaporti, controllo bagagli ecc. Ecc. Ci costringono praticamente alla processione con 14 fermate della via crucis… Finalmente imbarcati, nel corso del volo ci diamo per morti per evitare il continuo e martellante quesito: “chicken or pasta?”. **** Il viaggio è stato favoloso, persino oltre le nostre aspettative: il Perù è davvero come tutti dicono una terra magica, suggestiva, emozionante, colorata, ricca di storia, di tradizioni, di bellezze naturali e di persone semplici e gentili. Certamente è un viaggio impegnativo, c’è da affrontare l’altitudine, tanti chilometri da percorrere, ma la fatica è ripagata ampiamente da quello che si vede e si vive… Le guide sono zeppe di inviti alla prudenza, descrivono il paese come un covo di delinquenti: certo, non girerei per le periferie di Lima di notte, ma per il resto non abbiamo MAI avuto la sensazione di essere in pericolo. Al contrario, abbiamo conosciuto tutte persone gentili, disponibili e generose. Ha risposto pienamente alle nostre aspettative anche la cucina: chi l’avrebbe mai detto che in Perù si mangia così bene e, oltretutto, a prezzi che per noi italiani post-euro sono ormai solo un ricordo lontano… Un ringraziamento finale va ai miei compagni di viaggio, con cui mi sono divertita tanto e che hanno contribuito a fare di questa vacanza un’esperienza irripetibile.


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