DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .7
Superata la migración boliviana di Tambo Quemado la strada asfaltata di recente puntò verso nord. Il paesaggio era dominato dalla mole imponente del Volcán Sajama, el Señor del aire, che con i suoi 6542 metri è la vetta più alta della Bolivia. Anche se c’è un’accesa disputa al riguardo. Molti sostengono infatti che per errori nelle misurazioni la vetta più alta sia in realtà il Cerro Ancohuma, sul crinale occidentale della Cordillera Real. Ufficialmente è alto 6427 metri, ma sembra che superi i settemila. Se ciò fosse vero l’Ancohuma non solo sarebbe la montagna più alta della Bolivia, ma supererebbe addirittura l’Aconcagua in Argentina, classificandosi al primo posto tra le vette andine. Sembra incredibile, ma da queste parti non esiste ancora una cartografia precisa. Va considerato che per questa gente le montagne sono divinità, dimore degli Apus, degli Auquis e degli Achachilas. E misurare una divinità non ha alcun senso.
BOLIVIA ADDIO Fu un’emozione tornare a La Paz dopo due mesi, perché la sentivo già mia, riconoscevo le sue strade, i suoi profumi e sapevo come orientarmi nel suo consueto marasma. E fu anche un sollievo trovarsi a ‘soli’ 3600 metri di altitudine. Finalmente mi si riaprì l’orecchio destro. Ritornai all’alojamiento di Calle Illapu e riuscii ad ottenere la stessa stanza dell’altra volta. C’era una bella giornata di sole, l’ideale per una passeggiata. Mentre camminavo in mezzo alla fiumana di gente che gremiva il marciapiede, un tizio mi superò in tutta fretta perdendo dalla tasca un sacchetto di plastica avvolto con cura. Un signore che procedeva di fianco a me lo raccolse prontamente, si voltò verso di me e, sempre continuando a camminare, mi domandò: “Hai visto dov’è andato?” “No.” Notai in trasparenza che il sacchetto era pieno di banconote. “Che razza di culo” pensai, mentre accennava una corsa per cercare di raggiungere il distratto. Ma ormai si era dileguato tra la folla. Più avanti lo raggiunsi. Sembrava quasi dispiaciuto.
“Sono soldi!” mi disse sottovoce.
“Eh, ho visto” gli risposi. “Maledetto” pensai.
“Dividiamo?” Dopo i fasti di Mykonos, dove per ben tre volte avevo trovato dei soldi per terra, l’avidità prese il sopravvento. Lo seguii in un portone, ma arrivò subito il tizio tutto trafelato. “Scusate, non avete per caso trovato una busta per terra? Mi è caduta poco fa… C’erano dei soldi dentro” ci disse.
“Noóooo” rispose il fortunato e tirò fuori il suo portafoglio miseramente vuoto. “Guardi qui, non c’è niente. Non abbiamo visto nessuna busta. Dai” si rivolse a me, “fagli vedere che non abbiamo trovato nulla.” “Sì, per favore” mi supplicò lo sbadato.
Mi limitai a negare, assicurandogli che non avevo trovato un bel niente. Che era vero, in fondo. Si scusò ed uscì. Ci guardammo in giro furtivi e cambiammo portone. Ma la storia si ripeté identica.
“Ma siete proprio sicuri di non averlo trovato voi? Sono disperato, c’erano tremila dollari dentro.” Avrei negato qualunque cosa! “Erano segnati e saprei riconoscerli. Se non vi dispiace vorrei controllare che non ce li abbiate voi.” Il signore gli mostrò nuovamente il portafoglio, svuotò le tasche, fece di tutto. Insistettero entrambi perché gli mostrassi il mio portafogli. Si ostinò a tal punto che gli feci vedere che avevo solo bolivianos. Al che me li sfilò brutalmente e iniziò immediatamente ad impacchettarli in una busta di plastica. “Ecco, vedi… Erano messi in questo modo.” Era successo tutto in una frazione di secondo. Non feci in tempo ad allungare la mano per riprendermeli che gridò: “La polizia!” e si mise il sacchetto in tasca, losco come se si fosse trattato di cocaina. Ma anche se fosse stata davvero la polizia? Probabilmente faceva leva sul senso di colpa che cova molta gente nei confronti della legge. Ma non fu quello a farmi rinsavire. Quel grido mi fece tornare in mente l’episodio di Varsavia. Lo sbadato mi diede il pacchetto e fece per uscire. Lo afferrai per il collo e lo sbattei contro il muro. Il compare, perché erano d’accordo, uscì di corsa dal portone. Vìstosi alle strette tirò fuori il pacchetto coi miei soldi, solo che non riuscivo a controllarli. Con la mano sinistra lo tenevo per il bavero, nella destra avevo il portafoglio vuoto, il pacchetto fasullo e i soldi veri. Nel tentativo di divincolarsi si trascinò in strada, ma non lo mollavo. Una volta che accertai che i miei soldi c’erano tutti, e che non erano falsi, allentai la presa e scappò a gambe levate. L’episodio aveva richiamato una folla di curiosi, che decise di venirmi in aiuto quando ormai erano già lontani. “Di sicuro erano peruviani” mi dicevano per consolarmi, sicuri che avessero portato a termine la loro malefatta. Qualunque episodio succeda, per i boliviani è sempre colpa dei peruviani. Adesso capivo l’avvertimento che mi aveva dato l’albergatore di Estancia Cacapi. Ma andava bene così, erano solo due poveracci che avevano tentato di turlupinare il turista fesso. La colpa era mia, che mi ero comportato con troppa sicurezza e disinvoltura. Nel pacchetto non c’era carta straccia come pensavo, bensì vecchi pesos boliviani fuoricorso che adesso conservo come ricordo.
Persi tutta la mattinata per avere la certezza che la macchina fotografica non si poteva riparare. O meglio, bastava pagare cento dollari, claro. Era la conferma che cercavo. Rinunciai una volta per tutte. Nel pomeriggio andai ad informarmi sugli orari e sui prezzi degli autobus per il Perú. Attorno al cimitero, nella zona alta di La Paz, si trovavano numerose compagnie di autobus e di minibus che garantivano i collegamenti con le città di frontiera. Si trattava di sgangheratissime flotas di seconda classe, perfettamente inserite in uno dei quartieri più grigi della città, abitato in prevalenza da indigeni. Era un unico, enorme mercato senza confini definiti. Nelle strade principali in forte pendenza i marciapiedi erano ostruiti da file interminabili di bancarelle che vendevano ogni sorta di oggetti, dai vestiti dozzinali agli spuntini cucinati su bracieri o su fornelli a gas, dai pezzi di carne sanguinolenti ammassati sui banconi di legno a intere batterie di pentole. Nelle viuzze laterali era lasciato libero solo un piccolo andito centrale, roba che per percorrere cento metri ci voleva un quarto d’ora. Raggi di sole spezzavano qua e là l’ombra colorata dei teloni di plastica che ricoprivano i padiglioni addossati gli uni agli altri. Negli spazi liberi sostavano i venditori di spremute d’arancia e gli arrotini. Su una fila di banchi con le gambe disuguali per compensare la pendenza della strada erano allineate decine di taniche di alcolici. Tirai dritto nauseato senza nemmeno guardare. Lungo Avenida Mariscal Santa Cruz un centinaio di campesinos sfilavano in corteo sventolando le bandiere a scacchi coi colori dell’arcobaleno. Era triste vedere i discendenti del popolo fiero che era riuscito a mantenere la propria lingua e le proprie tradizioni anche sotto l’invasione degli incas, rivendicare adesso qualche diritto. Quelli che un tempo erano i padroni di mezzo Sudamerica ora erano stranieri in casa propria. Ma l’aspetto più triste era che nessuno li considerava.
In alojamiento conobbi Miguel, un cileno di Santiago. Divideva la camera adiacente alla mia con uno svedese che aveva conosciuto ad Arica. Era solo di passaggio, la sua meta era Guajará-Mirim, cittadina sulla sponda brasiliana del Río Mamoré, che segna il confine tra la Bolivia e il Territorio di Rondônia. Viveva lì ormai da quindici anni e non sembrava intenzionato a tornare, anche se a volte il clima terrificante dell’Amazzonia gli faceva rimpiangere le Ande. In Cile aveva un figlio, ma non si era voluto sposare. Mi disse che solo così lontano da casa poteva rifarsi una vita. “Io volevo chiamarlo Epaminondas, come il personaggio del romanzo di Bardallosa. Lo conosci?” “Claro” risposi, mascherando la mia ignoranza.
“Ma lei non ha voluto, ha detto che sono tutto matto. E l’ha chiamato Douglas Adolfo… Ma si può dare? Comunque non me ne sono andato per questo.” Solo alla fine mi resi conto che si riferiva allo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. La loro dannata pronuncia che fa sembrare la vi simile alla bi mi aveva fuorviato. Mentre si abbandonava a queste confidenze arrivò Erik lo svedese. Ventitré anni, biondo, un metro e novantotto. Aveva vissuto per qualche mese a Barcellona, poi tramite l’università era andato a lavorare per sei mesi a Santiago. Adesso si faceva due mesi di vacanza prima di ritornare a Barcellona. “In Svezia l’università è gratis e in più ci sovvenzionano con borse di studio. Puoi fare quello che vuoi e se hai un minimo di fantasia ti permette di specializzarti o di lavorare all’estero. I professori sono disponibili a consigliarti e a darti una mano, ti seguono e ti mettono in contatto con altre università del mondo. Quando ti laurei il lavoro è quasi automatico, ma io preferisco viaggiare” mi disse al termine della chiacchierata.
“E’ inutile che ti pavoneggi tanto, anche in Italia è così, anzi meglio!” Questo avrei voluto dirgli. La verità è che con gli scandinavi facciamo sempre la figura dei sottosviluppati. Mi chiese una dritta su un posto valido in città. Ma non era interessato all’archeologia, i monumenti lo annoiavano, i paesaggi lo deprimevano. L’unica cosa che lo interessavano erano le ragazze. Un allupato. Cercava in tutti i modi di sfruttare il suo fascino esotico per conquistare le sudamericane. Offrimmo la cena a Miguel, perché non aveva più un soldo. Ma non voleva approfittarsene ulteriormente, così dopo mangiato tornò in camera. Noi due andammo al Prado a berci una birra. Neanche il tempo di sedersi che già stava rimorchiando una ragazza seduta un paio di tavolini più in là. All’una schiodai dal bar e affrontai la faticosa salita per tornare all’alojamiento. Mi chiedevo se avesse trovato quel locale per caso o su precisa indicazione di qualcuno.
Alle quattro del mattino sentii bussare alla porta. Maledizione a me. Ci eravamo messi d’accordo che, se per caso avesse combinato, gli avrei ceduto la mia singola e io sarei andato in doppia al suo posto. Aprii la stanza in stato comatoso. Lui con un sorriso fiero stampato in faccia esprimeva gratitudine da tutti i pori, lei con lo sguardo basso mi salutò imbarazzata. Mi aprì l’altra camera e si chiuse nella mia. Miguel probabilmente non si accorse di nulla. Riuscii a riaddormentarmi, nonostante i cigolii e le botte del letto contro il muro.
Alle sette e mezza bussai. Erik si affacciò alla porta, sorrise soddisfatto e commentò: “Fue riquísimo.” La ragazza era già andata via in taxi. Mi ringraziò nuovamente e andò a dormire nell’altra stanza. Raccolsi tutte le mie cose, scavalcai le venditrici e fermai un micro che mi scaricò al mercato dei fiori, di fronte al cimitero. L’oficina era congestionata di passeggeri e di bagagli. Con gli ultimi bolivianos avanzati comprai un pacco di galletas al cacao per il viaggio. L’autobus non tardò ad arrivare. Era un vecchio Mercedes di quelli bombati, sottratto miracolosamente alla demolizione. Il parabrezza crepato era coperto per metà da tendine colorate piene di frange e per l’altra da adesivi di immagini sacre. Dallo specchietto pendevano svariati chilogrammi di rosari. Partì inverosimilmente in orario e con pochissimi passeggeri in piedi. Ma lo stupore durò ben poco. Siccome nei paraggi c’era troppa concorrenza, autista e bigliettaio avevano pensato bene di rifarsi a El Alto. Procedevamo a passo d’uomo. Il bigliettaio urlava dalla portiera aperta la destinazione, sottolineando che “Hay asientos”, mentre in realtà il mezzo era già ben oltre la capienza. Non tardò molto che dal fondo cominciarono a levarsi dei cori di proteste. I passeggeri, esasperati dal bigliettaio, di rimando gli urlavano “¡No hay!”, insistendo per accelerare invece di andare avanti a singhiozzo. L’autobus si lanciò sferragliando sulla strada investita dal forte sole dell’altipiano. Per ben due volte fummo costretti a fermarci per noie al motore. Alcuni preferirono fermare i minibus che sopraggiungevano per continuare il viaggio con più tranquillità. Mi sedetti fuori e aspettai con gli altri passeggeri che l’autista riparasse il guasto. Tutto si aggiustò, come sempre, e il viaggio proseguì senza altri intoppi. Dopo Tiahuanaco la statale si ridusse ad un’interminabile serie di buche con un po’ di strada intorno. Superata la migración boliviana di Guaqui, arrivammo infine a Desaguadero, che sorge sull’omonimo río, unico emissario dell’immenso Lago Titicaca.
Un gruppo di scugnizzi scalzi si offrì di guidarmi alla frontiera, anche se era ben visibile e distava solo qualche centinaio di metri. Non furono particolarmente insistenti e mi seguirono solo perché, presumo, non avevano di meglio da fare. Desaguadero è la città più merdosa, orripilante e squallida che mi sia capitato di vedere. Le case erano costruite per metà, i maiali grufolavano nelle strade fangose e le rane saltellavano nelle pozzanghere d’acqua rossa. Con queste strazianti immagini davanti agli occhi mi apprestavo a lasciare la Bolivia. Oltrepassai il ponte sul fiume e mi voltai per l’ultima volta indietro. Ormai sapevo che le città di frontiera non rendevano giustizia a questo straordinario Paese. “Addio Bolivia.”