Cronaca di un viaggio a Sutton Courtenay
Durante il viaggio osservavo attraverso i vetri del treno un continuo susseguirsi di grandi distese verdi qua e là frammentate da ordinate file di case dalla forma tipicamente inglese, poco alte, disposte a schiera e con diverse canne fumarie sui tetti: era curioso osservare come queste, piuttosto che essere una nota stonata nella natura circostante, si integrassero perfettamente con questa, come se ne facessero parte. Da quella breve considerazione la mia mente cominciò ad elaborare tutta una serie di immagini che, una dietro l’altra, si susseguivano come in un film, immagini simili a ricordi che, però, erano soltanto dei finti ricordi che si erano in me venuti a creare dopo aver letto le descrizioni contenute all’interno dei libri di Orwell: come è strano che questi assumano i connotati dei veri ricordi, apparendo ai miei occhi reali quanto i frammenti di vita realmente vissuti, questa, probabilmente, è la magia dei libri resa ancor più strabiliante dall’incredibile facoltà di descrivere le cose che Orwell possedeva, la facoltà di trasmettere non solo i fatti narrati ma anche le sensazioni che i protagonisti di questi suoi romanzi vivevano. Tutto questo mi faceva vivere una sorta di Déjà-Vue (La sensazione illusoria di aver già visto una certa immagine o aver vissuto la situazione in cui ci si trova al momento), sentivo una certa familiarità con quei luoghi e questo mi faceva sentire un po’ meno straniero; quel panorama d’altri tempi, privo di grandi costruzioni e con tantissimo verde, mi fece pensare per un attimo che i luoghi dove Orwell trascorse parte della sua vita, forse, non dovevano essere tanto diversi da adesso.
L’orologio segnava quasi mezzogiorno quando, mettendo piede all’esterno della piccolissima stazione ferroviaria di “Didcot Parkway”, mi recai alla ricerca di un taxi che mi conducesse alla mia meta: il cimitero della chiesa di “All Saints Church” di “Sutton Courtenay”. Qualche minuto dopo mi trovavo seduto sul taxi che, dopo un breve percorso tra strade e stradine di campagna, mi lascia innanzialla chiesa di “All Saints Church”.
Devo dire che mi ero informato accuratamente circa la dislocazione della sepoltura, attingendo da diverse fonti ma, evidentemente, questo non era sufficiente, infatti, mi trovavo all’interno di questo piccolo cimitero senza la più pallida idea di dove mi dovessi recare (diverse fonti riferivano di un’indicazione affissa all’interno bacheca presente all’ingresso dell’area, indicazione che riportava sia il luogo esatto della sepoltura che il reale nome di George Orwell, cioè, Eric Arthur Blair); feci un giro intorno al perimetro della chiesetta nella speranza di imbattermi in qualcuno che potesse aiutarmi ma le due entrate della chiesa erano chiuse e non c’era traccia di nessuno nei dintorni.
A quel punto, vista l’impossibilità di ottenere aiuto da qualcuno, iniziai a girovagare disordinatamente tra le tante lapidi cercando di leggere le loro iscrizioni e devo dire che questa non fu un’operazione agevole, in quanto, per come avevo avuto modo di accorgermi in altre occasioni, la maggior parte dei piccoli cimiteri inglesi versa in uno stato di parziale abbandono: incisioni quasi o completamente illeggibili, lastre di copertura spezzate, arbusti ed erbacce tutto intorno e, soprattutto, nessun tipo di ordine che rendesse agevole la ricerca di un defunto.
Era già trascorsa quasi un’ora quando, quasi sul punto di rinunciare e lasciare quel luogo, mi trovai inaspettatamente innanzi all’iscrizione che riportava“Here Lies Eric Arthur Blair Born June 25th 1903 Died January 21st 1950”: seminascosta da un piccolo alberello piantato proprio in mezzo alla sepoltura avevo di fronte la mia meta: la tomba di George Orwell.
Esattamente nel modo lui stesso indicato nelle ultime volontà, una stringata iscrizione riportava la frase “Qui giace Eric Arthur Blair nato il 25 luglio 1903 e morto il 21 gennaio 1950”. Avevo immaginato questo momento e, pur consapevole che mi sarei trovato innanzi ad una sepoltura molto semplice, non avrei mai pensato di dover constatare un simile stato di abbandono generale: giaceva in quel luogo senza alcuna chiara indicazione che lo identificasse, come se a nessuno al mondo importasse di lui, privo di qualunque elemento, seppur discreto, che ricordasse alla gente il grande uomo che fu in vita.
Pur perfettamente consapevole che nella morte non dovrebbero esistere differenze tra gli uomini, non posso esimermi dal pensare alle parole del grande Ugo Foscolo che, all’interno del carme “Dei sepolcri” composto nell’anno 1806, attribuiva alle tombe una duplice funzione: innanzitutto, quella di consentire ai vivi di colloquiare con le persone care scompare, lasciando loro l’illusione che esista ancora un filo che li unisce a loro ma, soprattutto, cosa ancora più importante, quella di ricordare a chi vi si reca in visita, le opere compiute in vita dai defunti e, proprio per questo, esse rappresentano una preziosa fonte di ispirazione ed esempio per l’umanità intera. Rimasi una decina di minuti in silenzio ad osservare quel vecchio blocco di marmo rovinato dal tempo; il sentire la sua presenza a pochi centimetri da me, seppur in quel modo, suscitò in me degli attimi di grande emozione: nonostante fosse defunto mezzo secolo addietro e giacesse ora all’interno di una modesta sepoltura quasi del tutto abbandonata, egli riusciva ad incutere in me una forte soggezione.
Me ne andai dopo qualche minuto lasciandomi alle spalle quel piccolo cimitero di campagna; man mano che mi allontanavo sentivo che quell’esperienza avrebbe lasciato in me indelebile nel tempo il suo segno, facendomi meditare a lungo sul significato delle parole del Foscolo prima citate, chiaramente comprese dopo quel giorno.