Copenaghen – Inseguendo la Sirenetta

"Lontano, in alto mare, l'acqua è azzurra come petali di bellissimi fiordalisi e trasparente come cristallo purissimo, ma è molto profonda, così profonda che un'anfora non potrebbe mai toccarne il fondo e bisognerebbe mettere uno sopra l'altro molti campanili prima di arrivare al fondo. Laggiù abitano le genti del mare." Con queste parole...
Scritto da: lorecoll
copenaghen - inseguendo la sirenetta
Partenza il: 27/11/2001
Ritorno il: 29/11/2001
Viaggiatori: da solo
Ascolta i podcast
 
“Lontano, in alto mare, l’acqua è azzurra come petali di bellissimi fiordalisi e trasparente come cristallo purissimo, ma è molto profonda, così profonda che un’anfora non potrebbe mai toccarne il fondo e bisognerebbe mettere uno sopra l’altro molti campanili prima di arrivare al fondo. Laggiù abitano le genti del mare.” Con queste parole inizia la “Sirenetta”, forse la più famosa favola di Hans Christian Andersen, portata sul grande schermo nella versione edulcorata di Walt Disney.

Nell’originale danese, come spero tutti ricorderanno, viene narrata la storia di una piccola sirena che per guadagnare l’amore di un bel principe ed un’anima immortale rinuncia alla voce ed alla sua casa in fondo al mare, trasformandosi in ragazza tra mille dolori e peripezie: sacrificio del tutto inutile perché il principe sposerà un’altra. E lei, piuttosto che ucciderlo e tornare sirena, sceglie di gettarsi tra i flutti, trasformandosi in schiuma: e scopre così che guadagnerà comunque un’anima immortale, ma solo dopo trecento anni di buone azioni. Amore, nostalgia, opportunismo, abnegazione, tragedia: quanti sentimenti ci sono in questo racconto bello e triste che mi accompagna sin dall’infanzia e che, a ben guardare, tutto è meno che una favola per bimbi? Un viaggio per lavoro in Danimarca, quindi, non avrebbe avuto senso senza almeno una visita alla celebre statua della Sirenetta, posta su uno scoglio nel porto di Copenaghen.

Siamo alla fine del novembre 2001. Il viaggio di andata non è dei migliori: uno sciopero del personale della pulizia che riduce Fiumicino ad un letamaio; un viaggio a poca distanza da un agitatissimo nigeriano che viene rimpatriato a viva forza da tre poliziotti; un forte ritardo nel volo verso Malpensa che quasi compromette la mia coincidenza per la Danimarca (ma che viene fortunosamente compensato da un altro ritardo nel volo che parte da Milano); maltempo, nuvole, qualche vuoto d’aria che fa ballare l’aeroplano.

La prima immagine che ho della costa danese è dolce e malinconica: un mare cupo screziato di smeraldo, prati verde sulla sponda del mare, qualche albero ancora vestito delle ultime pennellate d’oro dell’autunno. Ed una manciata di rotoballe di paglia rivestite di plastica bianca, quasi come se un gigante si fosse divertito a spargere sulla campagna una confezione di enormi rotoli di carta igienica. Ed un impianto per l’energia eolica, con grandi eliche bianche che girano lentamente nel vento. L’aeroporto è molto elegante ma un po’ troppo asettico, con tutto quel marmo bianco e quel metallo attorno: divertenti gli addetti che girano su monopattini blu, sconcertanti i cartelli digitali che segnalano la fine di ogni nastro trasportatore, quasi non si vedesse! Scendo alla stazione centrale della ferrovia, un bell’edificio in mattoncini rossi, ed uscendo passo davanti al Tivoli, un grande giardino con padiglioni già imbandierato di luci natalizie. Ora che arrivo al Kong Arthur – ottimo hotel vecchio stile in Nørre Søgade, posto su un bel canale, che ho scelto e prenotato via Internet – sono quasi le sei ed è notte fonda da almeno due ore. Prima di incamminarmi in un rapido giro della città mi rivolgo alla reception con una mappa in mano e formulo la fatidica domanda “Where is the Little Mermaid?” Mi viene indicato un punto un po’ fuori mano sulla cartina e mi viene riferito che c’è parecchia strada se voglio andare a piedi: io rispondo che tanto ho tempo, mi rimbocco la sciarpa e mi avvio. “Al suo ritorno aveva cento cose da raccontare: la cosa più bella però, diceva, era stendersi al chiaro di luna sopra un banco di sabbia, nel mare calmo vicino alla costa, e guardare la grande città dove scintillavano le luci come mille stelle, e ascoltare la musica ed il frastuono dei carri e le voci degli uomini, e guardare le torri e i campanili delle chiese e ascoltare il suono delle campane: proprio perché non sarebbe mai potuta andare in quei luoghi, l’attiravano tanto i campanili”.

Copenaghen è la città dei canali e dei campanili: una specie di misto tra Venezia e Praga. Penso che con la neve deve essere davvero bellissima. Molti anche i giardini, un po’ scheletrici contro il buio lattiginoso della notte. Per quel che riguarda i campanili, in particolare, ce n’è per tutti i gusti: di legno, di piombo, di marmo; bianchi, verdi, azzurri; a pizzo, a cono, a cupolette. Molti sono veramente belli, quasi nessuno è illuminato al pari di buona parte dei monumenti. Strana Copenaghen: ogni parcheggio, cortile, via androne, è illuminato praticamente a giorno, mentre i monumenti vengono lasciati nel buio a dormire il loro sonno di pietra. Città elegante, fredda e un po’ scostante nella sua perfezione, Copenaghen, quasi una bella ed impeccabile hostess danese il cui volto perfetto venga ammirato e subito dimenticato. Mentre passeggio a passo svelto mi fanno compagnia anche le descrizioni di una misteriosa Copenaghen coperta da un manto di gelo che sono contenute in un best-seller di qualche anno fa “Il senso di Smilla per la neve”, di Peter Høeg, ambientato per metà in Danimarca e per metà in Groenlandia.

Attraverso una lunga via nel centro, proprio nel cuore della city, molto illuminata, piena di eleganti negozi che vendono ogni tipo di merce e che in buona parte espongono già clamorose decorazioni natalizie: devo riconoscere ancora una volta che l’Europa del Nord non è seconda a nessuno in quanto a scenografie di Natale. Mi fermo ai grandi magazzini Magasin, avvolti in una immensa cascata di minuscole lucine bianche: faccio un giro nel reparto degli articoli per bambini e scelgo di comprare per mia figlia Altea un coloratissimo maglioncino di cotone, che una targhetta rivelerà poi essere “Made in China”. Non trovo traccia dei bellissimi piumoni stile patchwork che pure ricordo di aver visto in altri Paesi scandinavi. Ma il richiamo della Sirenetta ed i prezzi piuttosto alti mi convincono a ripartire.

Per le strade vedo frotte biciclette cavalcate da gente di ogni tipo, che sfrecciano a velocità supersonica per le numerose vie ciclabili. Molte spingono o trascinano fantasiosi carrozzini e carrettelli, carichi di merci o di bambini scafandrati ed imbacuccati che sembrano godersi un mondo la loro folle corsa nella notte. Gi edifici sono piuttosto severi ed esibiscono quasi tutti dei locali a seminterrato, occupati per lo più da bar, rimesse di biciclette o piccoli laboratori artigiani. Noto che in giro per la città c’è una concentrazione insolitamente alta di ristoranti giapponesi e messicani, chissà perché (anche il volo da Malpensa era pieno di giapponesi, a dire il vero). Raggiungo la via Nihavn, una delle strade più celebre della city, che si affaccia su un ennesimo canale dal quale è separata da un Mercato natalizio, così tipico dei Paesi nordici, il più bello dei quali ebbi occasione di vedere la prima volta che andai a Vienna, vari anni fa: in questo caso si tratta di una fila di allegre baracche che vedono dolciumi, giocattoli e ninnoli e che alle sette di sera già chiudono i battenti. Sull’altro lato della strada si affacciano tanti ristorantini che in buona parte esibiscono menù danesi a prezzo fisso e che spesso espongono sulla porta bracieri fiammeggianti che richiamano i clienti: molti localini sono già affollati di turisti vocianti. Mi annoto mentalmente per dopo l’ultimo ristorante verso il porto, dove vedo un interessante menù di pesce, poca gente ed un’atmosfera calda e semplice, e proseguo oltre, nella notte che si va facendo sempre più fredda.

Sempre guidata dalla mia inseparabile cartina attraverso rapidamente Amalienborg (la piazza del Palazzo Reale) che a quell’ora è già più che deserta: noto qua e là le figurette colorate dei soldati della guardia, che portano dei colbacconi di pelo e se ne stanno impalati ai quattro cantoni. Mentre mi chiedo come facciano a resistere al gelo scocca l’ora e tutti di scatto si rianimano: tra strilletti gutturali ed uno sciaguattare di tacchi e bandoliere i soldati si spostano in modo cadenzato, secondo una rumorosa coreografia che mi dà tutta l’idea di essere stata messa a punto al solo fine di sgranchire le giunture intorpidite. A destra della piazza intravedo una specie di portale che penso essere stato realizzato da Pomodoro, ed anche il porto: bene, dopo oltre un’ora di cammino la meta inizia ad avvicinarsi.

” Ma ricordati – disse la strega – una volta assunta la forma umana non potrai ridiventare sirena mai più! Mai più discendere sul fondo del mare presso le tue sorelle e nella casa di tuo padre; e se non conquisterai l’amore del principe al punto che egli per te dimentichi padre e madre, ed abbia tutto il cuore e la mente fissi in te, e lasci che il prete ponga la tua mano nella sua mano perché siate marito e moglie, tu non otterrai un’anima immortale! Se egli sposa un’altra donna il primo mattino dopo il matrimonio il tuo cuore si spezzerà e tu non sarai che schiuma sulle onde!”. Percorro quartieri sempre più isolati ed infine arrivo al porto vero e proprio, anche questo ben illuminato ma completamente deserto. Mi metto in caccia della celebre statua, senza riuscire a trovare il bandolo della matassa in quanto in giro non ci sono né cartelli né indicazioni di sorta. Sono stanca ed indispettita ma non mollo: da almeno mezz’ora non vedo anima viva Ad un certo punto, affacciandomi sui flutti, vedo brillare da lontano qualcosa sugli scogli: è lei! Ma non posso proseguire sulla sinistra perché l’inferriata di un giardino chiude la strada fino alla sponda e non consente in alcun modo di passare. Dentro di me tiro un moccolo, penso quasi di andarmene ma alla fine non demordo: chissà se e quando avrò un’altra occasione. Allora torno sui miei passi: dopo un po’ mi sembra di vedere un ponticello nel buio che potrebbe andar bene, mi arrampico su una specie di pista ciclabile e casualmente mi ritrovo sulla strada giusta. Attraverso dei giardini che immagino essere abbastanza eleganti, ma li intravedo soltanto in quanto il buio qui è appena rischiarato dalle luci gialle sull’altra sponda dello stretto: fiancheggio un grosso edificio ed alla fine, eccola! Su uno scoglio c’è una statua di bronzo dorato a grandezza naturale, che la guida sulla città rapidamente sfogliata in albergo mi diceva essere stata realizzata sul modello della moglie dello scultore: rappresenta una ragazza dall’aria malinconica, con lo sguardo rivolto verso il mare aperto, come se continuasse ad aspettare chi non arriverà mai da lei, e con le gambe che sono ancora in parte pinne. E’ seduta un po’ di traverso, in una elegante posizione che ricorda assai da vicino quella delle donne tailandesi: ad illuminarla solo un piccolissimo riflettore e la luce velata di una luna giallastra che si riflette tra i rifiuti che galleggiano in acqua. Rabbrividisco al pensiero che la statua è stata più volte decapitata e fatta oggetto di atti vari di vandalismo (una volta la testa è stata addirittura fatta sparire e dovette quindi essere sostituita con una copia): la guida della città le elencava tutte con un sadismo malcelato, riportando data e tipo di offesa subita con una precisione che per un attimo mi ha fatto stringere il cuore.

Varie persone vengono a dare un’occhiata, turisti nordici penso, si fermano un paio di minuti e tornano indietro. Nei commenti delle loro lingue gutturali mi sembra quasi di avvertire una sorta di deluso “Tutto qui?”. In effetti la statua è piuttosto piccola e poco valorizzata: ma un sogno non si misura in centimetri..

“Si chinò, baciò il principe sulla bella fronte, guardò verso il cielo dove il chiarore dell’alba cresceva sempre di più, guardò il coltello tagliente e di nuovo il principe. Nel sonno egli mormorò il nome della sposa: essa sola viveva nel suo cuore. Il coltello le tremò nella mano. Poi lo scagliò lontano, tra le onde, che rosseggiarono dov’era caduto: gocce di sangue parvero zampillare dall’acqua. Guardò un’ultima volta il principe e si gettò in acqua. Sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma… Sulla nave ricominciava la vita animata del giorno; essa scorse il principe e la sua dolce moglie che andavano in cerca di lei e che guardavano tristemente la schiuma delle onde, quasi sapessero che s’era gettata in mare. Invisibile a tutti essa si accostò, baciò in fronte la sposa, sorrise al principe e si allontanò con le figlie dell’aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo.” Ora posso tornare indietro anch’io. I piedi iniziano a dolere per i tanti chilometri percorsi ed il viso è insensibile per il vento freddo. Mi fermo a rinfrancare corpo e spirito al ristorantino adocchiato a Nihavn, sorbendomi una superba zuppa di aragosta e gamberi alla luce di tanti lumini dorati. Malinconica Copenaghen, perfetta e solitaria come quella figuretta dorata nel buio.

Domani andrò in treno a Køge, verso sud, e mi godrò altri paesaggi danesi: alte ciminiere che sbuffano vapore nella foschia; un velo di brina sulla campagna, nel primo mattino; un sole che resta basso tutto il giorno, passando da una lunga alba ad un lungo tramonto. E su tutto il respiro possente del mare, la sua calma forza, i suoi flutti gelidi, la sua sabbia bianca e scintillante come ghiaccio finemente tritato.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche