Albania: un tesoro di storia, arte e peculiarità
Piccola, come una principessa, e come una principessa bella e ben dotata: le valli verdi con i frutteti, il mare azzurro con spiagge ancora non vandalizzate dal turismo di massa (sebbene la colonizzazione del cemento stia iniziando: il lungomare di Saranda è tutto un fervore di cantieri che lasciano a mala pena posto alla carreggiata), le località montane incontaminate e ben servite, e su tutto una pervasiva sensazione di storia, come se il passato stesso si presentasse per offrire all’ospite i suoi risultati migliori. E sono proprio le immagini rubate ai tempi che furono che restano con più piacere nella memoria: gli angeli dipinti d’una chiesetta campestre, il selciato sconnesso d’uno dei castelli che punteggiano il panorama, una palmetta o un animale scolpito da un ingenuo scalpello romano, il decoro arabescato d’una moschea. Nulla d’imperdibile – la nostra è una principessa, dopo tutto, non un’imperatrice – ma tutto piacevole. E la principessa, dopo il sonno di cinquant’anni cui l’ha costretta l’isolazionismo di Enver Hoxha, il dittatore comunista che aveva rotto con i sovietici e in cui la Cina stessa aveva perso interesse, si sta svegliando. La democrazia è giovane e la sua nascita è stata sofferta, ma non vedremo più, come nel 1991, decine di migliaia di giovani albanesi in fuga approdare a Brindisi: il cammino verso il progresso è lungo, ma c’è speranza.
Sotto gli ombrelloni d’un bar nell’assolata Elbasan, inebriati dalla fragranza dei tigli in fiore e sedotti dall’imperturbabilità dei pensionati seduti al fresco, deliziati dai colori vivaci delle petunie, delle begonie e della frutta in bella mostra, ci si può perdonare il peccaminoso pensiero che, tutto sommato, una base fuori dallo stivale – no, non nella lontana Africa, che è troppo calda e arretrata per rimanerci – ma qui, vicino geograficamente e allo stesso tempo lontano storicamente e culturalmente, un pied-à-terre ci avrebbe fatto comodo. Possiamo sempre venirci in vacanza: l’italiano, nonostante i trascorsi storici, non è mal visto e un limitato, timido turismo internazionale – quasi per intenditori – sta fiorendo. Difatti, chi penserebbe all’Albania come destinazione per una vacanza? Troppo vicina, troppo… troppo misconosciuta. Adesso che intere regioni vengono cancellate dalla mappa del viaggiatore a causa delle intolleranze religiose e razziali, adesso che i viaggi diventano sempre più corti per via delle difficoltà economiche e degli impegni familiari, è un gran pregio poter saziarsi di storia, di bellezza e di arte a due passi da casa e senza dover confondersi con le folle dei bus turistici.
A differenza dei menzionati dignitari del Regno di Napoli o della Serenissima, che per arrivarci hanno prima apprezzato la sua strategica valenza marittima, ambita da Veneziani, Ottomani e, durante le guerre mondiali, da ambedue i fronti, il primo contatto presenta immediatamente la quintessenza di quel che si ammirerà nel paese, ma fuori contesto, un po’ come venir abbagliati davanti alla vetrina d’un orefice invece di apprezzare la gemma indossata. Per questo la visita di Tirana, dove si atterra, è meglio lasciata alla fine, a mo’ di riepilogo.
Elbasan, dunque: sorta, come tante città albanesi, ad uno degli incroci della Via Egnatia, punto d’incontro e di mercato, fortificata contro le sollevazioni e le invasioni, dotata d’un castello dai Romani e d’una nuova cerchia di mura dagli Ottomani, conserva ancora tracce della famosa via consolare. Da un arco sorvegliato da due leoni s’entra nel distretto delle basse case musulmane. Sopra la ragnatela dei fili elettrici s’erge il minareto della Moschea del Re, ma è Santa Maria, salvata dai vicoli troppo stretti per le ruspe atee di Hoxha, il vero tesoro: se l’ingenuità degli affreschi bizantini fa sorridere, la maestria degli elaboratissimi intagli del pulpito e dell’iconostasi sbalordisce. Ad una delle logge colonnate che fiancheggiano l’edificio si appoggia un foltissimo pergolato di vite: quel che in altre zone del vicino Oriente è solo un pio desiderio – le stentate piante uzbeche e tunisine tornano alla memoria –, qui è realtà! All’esterno dell’abside, parecchie lapidi portano eleganti, indecifrabili iscrizioni medievali, una presenza particolarmente appropriata data la vicinanza della tomba di Kostandin Kristoforidhi, grammatico e lessicografo. Il rispetto per gli studiosi che contribuirono a definire la lingua albanese e a diffondere il sapere traducendo testi è un elemento ricorrente che attesta l’amor proprio di questo popolo di meno di tre milioni di persone. La medesima forte determinazione a custodire i propri valori s’avverte salendo la ripida scalinata che conduce al ritiro bizantino scavato nella parete del rilievo che sovrasta il villaggio di Lin. Gli eremi rupestri, molto simili, del Tigray in Etiopia, ma anche la grotta di Pakou in Laos e quelle di Longmen in Cina, tutte indicano il trascendente come bisogno primario dell’umanità. Nonostante i segni del tempo, l’affresco dell’arcangelo Michele in facciata rimane a baluardo della fede e la speranza nel cielo è completata dalle radici terrene dell’ovale del lago di Ocrida, che specchia questa natura quieta che non conosce espressioni estreme.
La gentile principessa è accompagnata da leggiadra damigella, che nessun principe può ignorare: un salto oltre il confine e si è a Ocrida, in Macedonia. I merli delle mura del castello scolpiscono il profilo della cittadina, adagiata ad anfiteatro sul promontorio che si protende nel lago col minuscolo santuario di San Giovanni Kaneo. Con lenta salita, l’acciottolato, tra case rimesse a nuovo e giardinetti pieni di rose e di colori, porta a San Pantaleone, recentemente ricostruita accanto al sito dove Clemente, santo e uomo di lettere discepolo di Cirillo e Metodio, insegnava l’alfabeto glagolitico e la scrittura cirillica agli slavi cristianizzati. È tutt’un divertimento di archi, archetti, tetti e tettucci così ingegnosamente articolati da sembrare più una prova di destrezza architettonica che un luogo di culto, ma il contrappunto virtuosistico tra il grigio della pietra e il rosso dei mattoni e delle tegole è innegabilmente divino. Là vicino continuano a sbiadire i mosaici d’una grande basilica romana, quella dove Clemente costruì la sua università monastica. Ma il vero prodigio di Ocrida, uno dei principali centri slavi dell’Europa medievale e protetto ora dall’UNESCO, è la millenaria Santa Sofia, coi suoi affreschi e la rinomata acustica che giovani pianisti gareggiano a saggiare. Sul lungolago, oltre il caratteristico quartiere ottomano, mentre la statua di Cirillo rimane intenta a scrivere, la sera invita turisti e nativi a godersi il fresco: tutti i negozi sono aperti, i ristoranti esalano aromi e, muoia chi ci vuol male, la vita è bella. Persino le tombe musulmane, nascoste in un cortiletto, sono amorevolmente vegliate da un roseto. Un collega di Clemente, Naum, santo per gli ortodossi, lasciò Ocrida per fondare il proprio monastero ai piedi del lago. In una stanza, solida e raccolta, più per cospiratori che per fedeli, appoggiando l’orecchio all’altare si percepisce il pulsare d’un cuore: del santo, si dice… o, forse, del proprio. Il monastero che circonda la minuscola pieve ricalca la logica di quello di Ardenices ed è tutto devozione e raccoglimento, ma il chilometro di bancarelle che affianca la spiaggia rivaleggia con i mercatini dei grandi templi cinesi.
In barca s’arriva a delle misteriose sorgenti sotterranee: dal fondo – appena un metro e mezzo sotto – sgorga, dalla sabbia, l’acqua cristallina e fredda (10 °C) da cui origina il lago. Gli alti alberi, l’acqua, l’ombra, la luce, la pace: l’atmosfera è perfetta per un impressionista. Sorpassato l’asinello col carretto sullo sfondo di montagne verdi, con un salto – stavolta senza dover oliare gli ingranaggi – si rientra in Albania, a Moscopoli. Olive, feta, pomodori e pane affrancano il pranzo dal tempo: da sempre si mangia così, qui. E’ un mondo abitabile, dove i rapporti sono empatici e si condivide la vita, a volte difficile, a volte tenera, delle persone attorno. Moscopoli nel XVIII secolo era popolosa ed erudita, con la prima tipografia dei Balcani e una rete di commerci di argenteria, rame, lana, tappeti e pelli che arrivava a Vienna, Venezia e Lipsia. Che sia stata la distruzione perpetrata da Alì Pascià o la decadenza causata dalle mutate rotte dei commerci, oggi Moscopoli è un piccolo villaggio il cui presbitero apre volentieri la porta della parrocchia più importante, San Nicola. Sotto i graffiti, è toccante l’insistenza di quegli antichi affreschi nel raccontare mondi immaginati, miti e storie ormai perse nei secoli. Più in là, in una radura, i dipinti di Sant’Attanasio: sarà lo stile, saranno i soggetti inconsueti, sarà lo stupore di trovare questo florilegio d’arte dove ora crescono i fiori di campo: come che sia, si resta incantati. Nel camposanto accanto vengono lasciate, ai morti da poco, offerte di sigarette, biscotti e ciliegie, mentre i tumuli preistorici di Kamenica, che datano dal XII secolo a.C., non suscitano l’interesse che degli archeologi.
Anche a Corizza, come dappertutto, c’è un viale profumato coi vecchi che guardano i giovani passare, mentre il giorno scivola sugli anonimi edifici allungando le ombre e una risata, una confidenza, una passeggiata girano le lancette verso sera con una dolcezza inconsueta. Gli alberi di viale San Giorgio incorniciano sul fondo la perennemente attraente architettura ortodossa di pietra e coccio della cattedrale, coi suoi colori di terra e le sue forme primarie – cilindri per colonne, archi per finestre, semisfere per cupole –, senza slanci ma protettiva, consapevole della pochezza delle richieste che da qui dipartono verso il cielo. Dietro, oltre le vecchie case dalle ringhiere arrugginite ornate di petunie viola, nel labirinto lastricato di pietre rozze, si nasconde il Museo Nazionale d’Arte Medievale, con una straordinaria collezione di icone realizzate dai più celebrati artisti: Onufri da Berati, i fratelli Zografi e Johannes Çetiri. Drizzano il collo, i pavoni dei capitelli, alle grida dei bambini nell’adiacente campetto di calcio, mentre un toro di marmo addenta da secoli la medesima foglia di palma. I simboli del passato testimoniano le credenze semplici di vite semplici, increduli di poter parlare così di sé alle generazioni attuali, a queste ragazze in jeans colle ginocchia di fuori come in tutti i paesi civili. Solo occasionalmente qualcosa ricorda che il contesto è diverso, e s’avverte una nota dissonante, come l’elmo di Skanderbeg colla testa di capro, scelto come logo dai distributori di benzina Kastrati (che anche nella scelta della denominazione non hanno avuto mano felice). O i supplizi subìti dai dannati, illustrati con dovizia di particolari sulla facciata del nartece della cappella della Resurrezione a Mborja, poco fuori città. Una mano, dall’alto, regge la bilancia sulla quale gli angeli pesano le anime. Son tutte le nostre reminiscenze religiose, che tanto ci sforziamo di ignorare, che ci assalgono in una formidabile summa apocalittica: il colpo d’occhio è devastante, con scene sanguinarie come le torture minacciate nel complesso buddhista Alu Viharaya in Sri Lanka, e ben più efficace dei compassati mosaici della controfacciata della basilica di Torcello o degli ornati dannati di San Petronio a Bologna.
L’orografia accidentata e il parimenti accidentato stato di alcune strade costringono a un lungo percorso che ripassa per Elbasan per raggiungere Berat, il gioiello ottomano. Dal sagrato di San Tommaso, la cascata di case bianche che si riversa nel fiume è tra le più note vedute dell’intera Albania. Memorabilmente costruita secondo un’estetica geometrica su due pendici affrontate divise dal torrente Osum, è “la città bianca” per il colore della pietra locale, ed anche “la città dalle mille finestre”, che la sera si ammonticchiano curiose sul nuovissimo viale che affianca il greto: giardini, bar, musica, luci e gente in giro a tirar tardi, sfatando il mito che l’est europeo sia grigio e triste. Al contrario, ci son bambini e gioia di vivere, ed a ragione, in questa città Patrimonio dell’Umanità che sfoggia con gusto le sue attrattive. Il castello, anzitutto: un’acropoli, ancora in parte abitata, con musei – importante quello di Onufri –, luoghi di culto cristiani e musulmani, e ristoranti familiari in un delizioso dedalo di abitazioni di pietra, poco più di case di bambole. Da lassù lo sguardo si distende, ma i resti delle mura, pur confermando le risorse, trasalgono al presentimento di sempre possibili minacce a questa postazione strategica. Oggi un pastore ci pascola le capre, ma qui prosperarono intagliatori specializzati, conciatori e calzolai, si lavorava l’argento, la seta e i metalli: la città vibra ancora d’attività e della pluralità d’esperienze e di fedi. Alla chiesetta di San Michele, arroccata e solitaria, fa da contraltare la Moschea degli Scapoli in mezzo al viavai del lungofiume. E una visita al Museo etnografico permette di entrare nelle stanze di quegli antenati, di capire la logica delle loro dimore, di apprezzare gli oggetti del loro quotidiano: sì, anche in passato sapevano godere la vita. Di grande interesse storico e architettonico sono il Serraglio (Palazzo del Governatore) coi suoi archetti quasi frivoli, e i soffitti lignei della teqe, casa di preghiera d’un ordine Sufi, e dell’adiacente Moschea del Re, luminosa in questa città che sembra essa stessa emanare luce. Anche qui, ogni mancia o permesso più o meno ufficiale per visitare o fotografare costa 100 LEK o un euro: a saperlo, ci si sarebbe portati un sacchetto di monete. Ad Argirocastro è la maestosa casa Zekata a rivelare il ritmo degli spazi vissuti. Le tradizionali sedute arabe occupano tutto il perimetro degli spogli soggiorni; i soffitti di legno possono essere incisi, i caminetti dipinti e le finestre sfoggiare vetri colorati, ma solo nella sala di ricevimento degli ospiti tutte le decorazioni si combinano nobilitando l’ambiente, destinato agli uomini e sorvegliato dalle donne dal mafil, la galleria sopraelevata. Il gioco dei passaggi tra muri e schermi di legno, porticine e scalette conserva un’inaspettata intimità. Il çardak, il vasto, ventilato balcone coperto per il caldo estivo, affaccia sulla pianura del fiume Drin, incorniciata dalle montagne della Lunxhëria e sulla quale si sporge la torre dell’orologio del castello. La casa di Enver Hoxha, anch’essa museo, sembra attendere i padroni di casa da un momento all’altro: tutto è presente ed ordinato, come dev’essere in una casa borghese. Le stradine a saliscendi della cittadina sono pensate per gli abitanti ma anche i turisti le trovano accoglienti: per cena ci si possono far servire le deliziose specialità locali in un patio riparato da un grande faggio.
Se il castello di Argirocastro non ha che un museo di armi con annesse prigioni e quello di Scutari sentieri accidentati tra rovine calcinate dal sole, quello di Croia conserva sia la dimensione umana – case e teqe con le tombe di santi uomini – che quella sovrumana – il museo di Scanderbeg. Questo era il quartier generale del grande stratega, eroe nazionale per eccellenza, davvero il miglior uomo del mondo, le cui gesta sono celebrate in decine di volumi di ogni epoca e in ogni idioma, in bella mostra assieme a oggetti commemorativi d’ogni parte del globo. Il vessillo della sua casata, un’aquila nera bicefala su campo rosso, è assurto a bandiera nazionale e a lui, all’alleanza che riuscì a creare tra i prìncipi albanesi, vittoriosa contro gli ottomani per più di trent’anni, l’Europa deve che il confine cristiano-musulmano sia rimasto sul Bosforo, e noi Italiani che l’espansione turca non ci abbia veramente coinvolto. Celebrativo oltre ogni dire, il museo, costruito a mo’ di castelletto da Hoxha, che ambiva alla medesima grandezza, disegna il profilo di Croia sullo sfondo di incombenti montagne. Il museo etnografico del fortilizio, di certo il più completo del Paese, espone la vita della gente comune, le cose umili e silenziose dei lavori servili, dalla spremitura delle olive alle fatiche nell’orto, dall’allevamento degli animali alla fabbricazione del feltro per le babbucce e i tipici copricapi qeleshe. E poi telai, orci, pentole, torchi, bracieri, tappeti di pelli di pecora, pagliericci, costumi tradizionali e affreschi così rustici da essere commoventi. La casa ha perfino un piccolo hamam: è l’Albania fatta a mano che avremmo visto cent’anni fa. Assieme alla torre, unico vestigio del castello medievale, solo il minareto candido della moschea ardisce puntare al cielo. Sotto, i viottoli del bazar, rinnovato da poco, offrono ombra nella calura estiva, coloratissimi d’ogni sorta di souvenir: dalle filigrane, qui tradizionali, a oggetti in alabastro, cuoio, feltro, terracotta e legno. Alle 19:30 la tornata degli acquisti si esaurisce, i negozi chiudono a chiave i loro tesori ed è facile trovare un ristorante con vista sulla piana con lo Jonio in lontananza. Nell’oscurità, la rocca illuminata diventa simbolo della città; ci sono ancora ciabatte all’entrata della moschea ma i richiami dei cani e il rotolare d’un solitario barattolo son tutto quel che si sente. Sporadici lampioni illuminano coppiette a passeggio e, sotto un cielo nero appena perforato da minuscole, lontanissime luci, si intuisce alfine che la vita non è lassù ma qui, in questo paesaggio scombussolato abbandonato alla mercè degli umani rivolgimenti.
Una strada s’inerpica fino al romitorio di Sari Salltëk, un santo della setta dei Bektashi, che in Albania ha il suo quartier generale. Il prelato locale, seduto sul belvedere, s’intrattiene volentieri coi pellegrini. Da lassù, accanto alle selve montane e alla valle, fotogenica coi suoi due laghetti, è evidente perché Croia si rivelò quasi inespugnabile. L’ultimo a cadere in mano agli Ottomani fu però il castello di Rozafa a Scutari. Della devozione della gente per la propria terra parlano le sedici cupolette della Moschea di Piombo, immersa nel verde cosparso di case e di pioppi. Un traffico pacato attraversa le anse del fiume tranquillo: tutto è pace, e dell’estesa cittadella che vide ben altri scenari non restano in piedi che poche mura. Il piccolo museo, che occupa quello che fu il caposaldo meglio difeso della fortezza, traccia, con pannelli e qualche ritrovamento, la storia del territorio, dalle incursioni delle tribù greche agli stati degli Illiri, degli Slavi, dei Bizantini, dei Bulgari, degli Angioini e degli Epiroti che nei secoli si sono succeduti – è sempre stata questa una terra di instabili frontiere, conseguenti alla fortuna dei potentati confinanti. Non son mancate incursioni di napoletani e di siciliani, più riuscite quelle dei veneziani, meno quelle del Fascio nel 1939. Scutari, veneziana per ottant’anni, presenta, tra i significativi legami che mantiene con l’Italia, una curiosità: una fabbrica di maschere, con una ventina di operaie e ben sei negozi a Venezia, ed è tanto incongruo quanto intrigante trovarla qui. Le sue fantasiose creazioni raggiungono ogni dove: c’è uno scatolone pronto per la spedizione in Corea. Si tenta di vincere il caldo con un gelato o una birra nella zona pedonale, abbacinati dal biancore dei muri e dallo sfolgorio delle cupole metalliche della nuova moschea Al Zamil, poco distante dalla nuova ubicazione del Museo fotografico Marubi. Gli eventi salienti e i costumi dei secoli scorsi sono stati documentati da Pietro Marubi, nel 1856 rifugiato politico garibaldino, in migliaia di negativi: testimonianze preziose, considerata la velocità dei cambiamenti in atto. Ne sapeva qualcosa Madre Teresa, nata ottomana, poi serba, bulgara, yugoslava e oggi finalmente così albanese (ma macedone in realtà) da essere onnipresente in Albania: c’è una sua statua in piazza, piccola e dimessa come lei.
Gli stessi angusti bunker di cui Hoxha ha costellato le campagne – ora riciclati come porcili o discariche abusive – sono relitti d’un passato ormai remoto. Per saggiare la quoditianità di quell’epoca occorre visitare l’aggrovigliato covo a prova di esplosione nucleare che il dittatore si fece scavare a Tirana. Oltre all’appartamento residenziale, l’enorme rete sotterranea ospita una esaustiva mostra multimediale sulla storia recente, con filmati di Vittorio Emanuele III re d’Albania, canzoni fasciste da far rizzare i capelli a noi politically correct, foto, mappe, tute antigas e assonometrie di mitragliette antiaeree con didascalie in cinese. C’è perfino un cinema. In città, la Piramide che doveva essere il suo mausoleo è ora in deplorevole stato di disfacimento, ma è comprensibile che, per completare la liberazione mentale dalla dittatura, gli albanesi vogliano demolirne le evidenze, trasformando il significato dei luoghi, che possono così evadere dall’originaria destinazione d’uso.
Rruga Mustafa Matohiti è la Via Veneto di Tirana, un bar all’aperto appresso all’altro e coloratissime architetture post-pop, quasi un’eco dello Xhuxhat, il parco divertimenti per bambini poco distante. Oltre la carcassa dell’Hotel Dajti, un tempo base per incontri politici ad altissimo livello, il Viale dei Martiri della Nazione sfiora il Museo d’arte moderna, prevedibilmente ricco di realismo socialista, e sfocia nella vasta Piazza Scanderbeg, perfetta per le parate fasciste per le quali gli architetti italiani l’avevano progettata. Al centro, Stalin è stato rimpiazzato dall’eroe nazionale, e le linee modeste ma eleganti della moschea di Ethem Beut sono ora sovrastate dal TID, il modesto ma elegante grattacielo presentato in un video proprio all’ingresso delle Corderie alla 15° Biennale d’Architettura a Venezia, una torre che, realizzando la quadratura del cerchio, mira con misurata baldanza all’Europa. La cattedrale ortodossa, da canto suo, nel lampadario e negli archi è quasi una moschea.
Gli squadrati colonnati del teatro dell’Opera e del Museo Storico Nazionale coronano la piazza, algidi baluardi di sapienza che sviliscono, ignorandoli, i banali traffici quotidiani che vi si svolgono. “Esplora il passato per capire il presente e forgiare il futuro”, si legge nel museo. E il passato ha lasciato eccellenti tracce, dai cocci illirici agli dei greci e ai ritratti romani, attraverso le icone bizantine, per finire con i cimeli insanguinati delle guerre mondiali. Il più bel reperto del museo è una testa di Apollo del IV secolo a.C., proveniente dal teatro di Butrinto. Questo sito archeologico, scavato il secolo scorso da un italiano, è il più visitato di tutta l’Albania, e di gran lunga il più evocativo. La città portuale si arroccava su un promontorio là dove l’isola di Corfù maggiormente si avvicina al continente e due ore bastano appena per dare un’occhiata all’imponente teatro greco, alle terme, al foro, al ginnasio, alla villa romana, alla grande basilica e al castello veneziano che occupa l’acropoli. Il percorso si snoda tra siepi di alloro e profumi della macchia mediterranea, ombreggiato dagli eucalipti, mai troppo discosto dall’azzurro calmo della baia. È per l’estensione e la rilevanza delle rovine che l’Unesco le ha concesso l’onore di Patrimonio dell’Umanità, ma Butrinto è anche una delle aree più importanti per la biodiversità in Albania. L’innalzamento del fondo della cala ha infatti creato acquitrini e paludi che molte specie vegetali e animali protette trovano confacente, a differenza dei veterani, qui mandati da Cesare prima e da Augusto poi, le cui ville iniziarono ad allagarsi. Il fiore all’occhiello è il magnifico mosaico bizantino del Battistero, che nulla ha da invidiare a quelli della Galleria Borghese di Roma, del Museo del Bardo a Tunisi o del Grande Palazzo a Istanbul. È lo stupore di scoprire un microcosmo di 2000 anni di storia mediterranea – dai templi ellenici del IV secolo a.C. alle mura ottomane del XIX secolo – in un piccolo bosco che rende Butrinto speciale, un po’ come Angkor Wat: monumenti in un panorama, come tanto piaceva ai viaggiatori del Gran Tour nei secoli passati. Così vanno le fortune del mondo: il villaggio di pescatori che divenne porto strategico è tornato ad essere un villaggio di pescatori.
Pure Apollonia, anch’essa fondata da coloni greci nel VI secolo a.C., fiorita nel periodo romano e famosa per la scuola di filosofia, deve la sua caduta a mutate condizioni idriche: il porto, in seguito a un terremoto, finì per insabbiarsi e di quella “città ottimamente governata”, come scrisse Strabone, non rimane che la facciata d’un tempio, un singolare muro di contenimento a nicchie e il piccolo teatro. Nemmeno gli schiavi illiri autoctoni, col cui commercio Apollonia si arricchì, hanno lasciato progenie: ai giorni nostri ne abbiamo disponibili solo d’importazione. E, nonostante il sole a picco, si avverte un brivido respirando l’aria di Augusto, che studiò in questa che Cicerone definì “grande e importante città”. È così tutta l’Albania, meraviglie coperte dalla polvere dei secoli, grandezze che sorprende trovare offuscate dai recenti rovesci storici e dall’attuale carenza di mezzi, una nazione che, forte della propria nobiltà, si sta svegliando al tocco, ancora timido, dell’Europa.
E lo spettacolare ponte di Mesi sul fiume Kiri vicino a Scutari, quello dai tredici archi e l’unico con una curva, costruito per permettere il trasporto del legname dalle montagne al mare? E il Parco Llogora, montagne forestate che s’ergono dalla sabbia fine delle spiagge, innevate d’inverno e fresche d’estate, attraverso le quali Giulio Cesare inseguì Pompeo? E non è forse il sito archeologico di Byllis coinvolgente quanto quello di Apollonia? Non una parola per Valona? E Durazzo la dimentichiamo? Il principe ha dato soltanto un bacio, s’è appena accorto della bellezza della principessa. Un bacio tira l’altro e già c’è chi ha fatto del litorale albanese la destinazione preferita per le ferie. Tempo al tempo, e la principessa rivelerà le sue grazie e svelerà i suoi misteri. Compreso quello delle vergini giurate, le donne che diventano uomini. C’è un tesoro di storia, arte e peculiarità, denso d’un vissuto remoto e rinomato giusto fuori la porta di casa nostra: godiamocelo senza dirlo troppo in giro.