Quando il dolce arriva nel bicchiere: questa tradizione tipicamente marchigiana sarà una vera carezza per il palato

Manuela Titta, 08 Ott 2024
quando il dolce arriva nel bicchiere: questa tradizione tipicamente marchigiana sarà una vera carezza per il palato
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È tempo di vendemmia, quando al lavoro in vigna sussegue immediatamente la fase produttiva: se siamo nella zona sud delle Marche il fermento non sta solo in cantina, ma anche nei gesti che da sempre si ripetono per la produzione di un vino che è diventato il simbolo della tradizione. Tra le provincie di Ascoli, Fermo e Macerata, il vino cotto ce l’hanno quasi tutti: sono quelle bottiglie che rappresentano il lavoro vissuto come un rituale, quando i passaggi sono scanditi dalla presenza delle persone che vivono questo momento come l’imperdibile appuntamento stagionale, dove tutto si ripete per rendere omaggio ad un passato millenario. Vediamo perché si celebra questa tradizione tipicamente marchigiana. 

Cenni storici

Il vino cotto è un vino dolce e forte dal profumo ampio, dal colore molto intenso, un’ambra scura dalle sfumature nocciola: è limpido con un sapore in perfetto equilibrio fra acidità e dolcezza, la sua gradazione alcolica va dai 13 % ai 16 %, un vino ideale per l’invecchiamento. Prodotto nelle zone collinari e pedemontane, si ottiene dal mosto bollito: questa bollitura è una pratica che risale all’antichità classica con la quale si otteneva una bevanda utilizzata come condimento o correttivo del vino. Presso gli antichi Romani venivano prodotti e variamente consumati diversi tipi di mosti cotti: nel 191 a.c. Plauto (nella commedia “Pseudolus”) include il vincotto tra le migliori bevande da mescersi in un lauto banchetto, altri riferimenti li troviamo in Plinio il Vecchio in diversi passi della Naturalis historia e nel Libro X del De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella. I mosti più frequentemente menzionati nelle fonti scritte sono il defrutum, la sapa e il caroenum: questa tipologia di vino era favorita perché reggeva meglio il trasporto da una regione all’altra, era anche utilizzata dagli Imperatori Romani, degustatori per eccellenza, che concludevano i loro banchetti riempiendo i calici di vino cotto “caroenum”, bevanda dal sapore d’uva passita. La concentrazione del mosto per questi tre prodotti si otteneva tramite ebollizione e a seconda della percentuale di acqua residua (e della relativa concentrazione in zucchero) si differenziavano i vari prodotti: il caroenum era ridotto di un terzo, il defrutum della metà e la sapa di due terzi del volume originario.

Le Marche Sporche

Dal fiume Potenza al fiume Tronto, ma anche nella adiacente provincia teramana, il vino cotto veniva utilizzato come vino da pasto (la gradazione risultava intorno ai 13%), e come rimedio alla cura per i malanni di stagione. Aveva un utilizzo anche nelle preparazioni dei salumi, nel lavaggio dei budelli o per lavare i prosciutti dopo la salatura, insomma era parte integrante degli usi quotidiani. Ancora oggi si usa berlo caldo (aromatizzato o meno con cannella, chiodi di garofano e scorza di limone) come rimedio contro l’influenza. Risulta che nella zona dell’alto fiume Tronto ci fosse un ingrediente in aggiunta alla preparazione del vino cotto, la mela cotogna: questo frutto consentiva una riduzione più marcata con un prodotto finale da utilizzare nei dolci locali o come companatico. Il Vino Cotto e’ parte integrante del territorio piceno ed è espressione dell’ambiente, dei vitigni e della storia del suo popolo: legato alla tradizione contadina, la sua produzione è tramandata da padre in figlio. La bollitura ne garantiva la stabilità facendolo diventare più dolce e più forte, quanto di meglio per una prolungata conservazione. Ancora oggi il vino cotto rappresenta per ogni famiglia un segno di ospitalità, presente sulla tavola nelle occasioni migliori. 

Il rituale della vinificazione

I racconti dicono che in campagna il bollitore del mosto cotto seguitava a “cantare” fino a febbraio/marzo mentre quello del vino rosso già alla fine di novembre non “canta” più: per questo a San Martino si può assaggiare il vino nuovo! Una volta deraspata e pigiata l’uva, si ottiene il mosto che viene messo in un caldaio (callare), una grossa pentola di rame nella quale verrà cotto a fuoco diretto fino a quando l’evaporazione non riduca di una quantità variabile tra un terzo e un mezzo di quella iniziale; la maggiore o minore concentrazione varia a seconda del grado zuccherino di partenza o del tipo di vino che si vuole ottenere. Non appena raffreddato il mosto concentrato viene “rimboccato” in botti di castagno dove è lasciato fermentare e nel corso del tempo si forma un deposito che consente la separazione dalle fecce. Dopo almeno un anno viene trasferito in un contenitore in cui è già presente il vino cotto degli anni precedenti. Il suo lento e lungo invecchiamento che escluda forti ossidazioni è il punto più delicato ed importante della vinificazione: il giusto dosaggio fra il vino cotto nuovo con quello vecchio, normalmente affidato al metodo solera. 

Abbinamento

Per concordanza la dolcezza del vino cotto è perfetta con la pasticceria secca, ma è sorprendentemente buono se si degusta con i formaggi erborinati: questo connubio è una vera esperienza sensoriale, che proietta il gusto in una dimensione paradisiaca. 



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