Dal Colorado a Yellowstone sulle orme di Yoghi e Bubu

Giro circolare da Denver intorno alle Montagne Rocciose, passando per diversi parchi nazionali e Yellowstone
Scritto da: Vertical
Partenza il: 10/07/2013
Ritorno il: 25/07/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
Ascolta i podcast
 
Quest’anno siamo stati indecisi fino all’ultimo sulla meta del viaggio: mia moglie aveva in sospeso una operazione al legamento crociato lesionato ancora questo inverno sciando e quindi “in teoria” io avrei voluto fare una vacanza, una volta tanto, più “soft” , tipo spiaggia e bagni. Invece, ancora una volta, il richiamo degli USA e delle sue meraviglie naturalistiche è stato più forte delle avversità fisiche.

“Ma sei proprio sicura di farcela? Non è che poi andiamo via e zoppichi tutta la vacanza?” “No no fidati, sto benone, poi camminiamo poco”… sì sì credici.

Una volta deciso per gli States, l’obiettivo specifico invece era facile e piuttosto preciso: la meta principale del nostro viaggio doveva essere il parco di Yellowstone, che avevamo dovuto saltare in occasione del nostro precedente viaggio lungo la Route66 perché effettivamente troppo “fuori rotta”, ma che già allora avevamo visto e agognato come meta irrinunciabile di un futuro viaggio della zona.

Dal punto di vista logistico la soluzione più intelligente e logica per raggiungere Yellowstone era di sicuro volare su Salt Lake City (o al massimo su Las Vegas) ma, facendo un po’ di simulazioni sui voli, i costi erano decisamente, e inspiegabilmente, elevati su queste due mete, così ho cominciato per tentativi a cercare altre città vicine.

Alla fine Denver si è dimostrata assolutamente economica, poco più di 800€ a testa con KLM, e tutto sommato anche piuttosto strategica dal punto di vista logistico. Con un giro circolare che toccasse, oltre a Yellowstone, tutta una serie di parchi e città molto diverse dalle grandi pianure centrali attraversate nei nostri precedenti viaggi.

Una volta definita la città di partenza e di arrivo del nostro giro, mappa turistica alla mano, ho cominciato a buttare giù un percorso logico che andasse a toccare tutte le zone più interessanti dell’area, in un percorso circolare che partendo appunto dal Colorado, passasse poi attraverso Utah e Wyoming (più alcuni piccoli sconfinamenti in Idaho, Montana e South Dakota ).

In breve, e per avere subito una descrizione sommaria del viaggio, il giro si è sviluppato secondo queste tappe principali: Denver – Colorado Springs ( visita a Garden of the Gods e ascesa al Pikes Peak) – Grand Sand Dunes National Park – Durango ( con puntata alla cittadina di Silverton) – Parco di Mesa Verde – Parco di Canyonlands – Moab – Parco di Arches – trasferimento a Salt Lake City ( puntata a Park City) – Jackson Hole – Grand Teton National Park – Parco di Yellowstone – Cody – Devil’s Tower – Mount Rushmore – Frontier Days Festival a Cheyenne – rientro a Denver e partenza.

A differenza del viaggio lungo la Route66, in cui non avevamo prenotato i motel lungo la strada, ma ci fermavamo di volta in volta dove ci pareva più comodo, questa volta avendo un itinerario più stretto anche come tempi abbiamo prenotato tutti gli alloggi direttamente dall’Italia con Booking o alle volte direttamente dai siti dei vari motel. Penso che, per alcuni dei luoghi in cui abbiamo soggiornato , questa scelta fosse praticamente obbligata, perché nel periodo estivo la disponibilità di alberghi decenti a prezzo adeguato può finire molto rapidamente, soprattutto a Yellowstone, Moab e Jackson Hole , quindi occhio per queste zone a muovervi per tempo.

Partiamo dunque il 10 luglio da Venezia con direzione Denver, Colorado; ma sarebbe stato troppo facile un volo diretto, così decidiamo di metterci dentro due scali: uno ad Amsterdam e uno a Minneapolis per un totale di 17 ore di viaggio complessivo. Arrivati a Venezia però c’è una piccola sorpresa: al check-in al posto di assegnarci subito i biglietti di tutte e tre le tratte, ci forniscono solo quelli fino ad Amsterdam, adducendo un “problema ai terminali”; ma “tranquilli, una volta ad Amsterdam andate al desk dell’imbarco e lì ve li stampano”.

Ma sì certo, nessun problema. Arriviamo però a questo famoso desk, giusto di fronte al gate di imbarco e vediamo un certo trambusto , con anche una live concitazione da parte di alcuni passeggeri che si accalcano al bancone. E così dopo diversi viaggi in giro per il mondo, dopo averne sempre sentito parlare come se si trattasse di una creatura mitica e rara da incontrare, facciamo conoscenza del famoso “signor Overbooking”.

“Sì buongiorno signori, a farla breve voi 8 al momento siete senza posto a sedere, ma non preoccupatevi, contiamo di imbarcarvi tutti perché ci sono alcuni posti vacanti bla bla”.

Imbarcano due, poi altri due, poi infine altri due; quando tocca a noi: “The plane is full”. “Come full, e noi?” “Voi state qui ad Amsterdam e partite domani” Ah ottimo.

In breve, in quel momento non è stato proprio bello, anche perché non sapevamo quanto questo ritardo ci avrebbe sballato tutte le prenotazioni e le tappe che avevamo già fissato con tempi piuttosto scanditi, in più la hostess che ci hanno affidato per risolvere il problema ( un cerbero ) in un primo momento ci aveva detto che il primo volo disponibile era solo il giorno dopo alla stessa ora della sera, che voleva dire un giorno intero perso! “Ma possibile che non ci sia nessun altro volo prima?” “E no mi spiace , per Minneapolis è uno solo al giorno” “Si ma noi non dobbiamo andarci per forza, noi dobbiamo arrivare a Denver!” “Ah, allora cambiando scalo combino, vi mando a Detroit e poi da li a Denver, partite domani mattina alle 8”.

Trasferimento in taxi in albergo, cena di pesce pagata, giro turistico per Amsterdam ( molto rapido, eravamo in pantaloncini corti e t-shirt e ci saranno stati 10 gradi, assurdo a luglio), colazione, voucher da spendere in aeroporto e 600€ cash a testa di risarcimento: praticamente ci hanno rimborsato tutto il volo, non so mica se alla fine è andata poi così male!

La mattina dopo siamo pronti a bordo per partire, ma ovviamente non può andare così liscio: “scusate sono il capitano bla bla…” guasto al motore con intervento in pista dei meccanici, 2 ore fermi prima ancora di partire, e una certa ansia quando poi siamo decollati, con il motore revisionato al volo. Intanto mi vedo un film; macchè, la nostra fila di sedili, solo la nostra fila , ha i televisorini guasti ( 9 ore di volo senza nulla da fare); e ovviamente perdiamo la coincidenza a Detroit. Per fortuna c’era un volo un’ora dopo.

Bon, alla fine arriviamo a Denver verso le 16 di pomeriggio dopo che eravamo partiti da casa una cosa come 30 ore prima: un filo stanchini aggiungerei.

Ma non possiamo indugiare perché questa sera dobbiamo essere a Colorado Springs per riagganciarci alle prenotazioni ed al programma originario perdendo solo il primo giorno. Quindi via di corsa al noleggio e recuperiamo l’auto che abbiamo già prenotato e pagato dall’Italia. Anche qui una piccola ansia, perché avevo rinnovato la patente da poco e prima di partire non mi era ancora arrivato il tagliandino del rinnovo e avevo un foglio sostitutivo volante che non credo valesse nulla in USA. Vedo l’addetto compilare con i miei dati, arriva alla scadenza, lo vedo alzare un attimo un sopracciglio, prosegue dritto senza dire nulla , bravo ragazzo! Poi però cerca di rifilarmi così “en passant” una raffica di assicurazioni e abbonamenti a non so cosa: “Scusa ma questi 480$ per cosa sarebbero?” “Tasse e assicurazione”. “Non voglio NULLA che non sia obbligatorio” “ok allora sono 70$”. Ecco va, molto meglio.

Scelgo dal parco macchine una Dodge Challenger, lo ammetto, solo ed esclusivamente per il colore rosso fiammante, e partiamo in direzione Colorado Springs.

Prima però bisogna uscire da Denver, la “Mile High City”, detta così perché sorge esattamente a 1.600 metri di altitudine, un miglio appunto. In realtà pur essendo in altura c’è un caldo assurdo , ed il traffico è molto più caotico di quello che mi aspettassi. Sono un po’ preoccupato perché ho fissato delle tabelle di marcia piuttosto serrate e se trovassimo un traffico simile in tutto il viaggio non ho proprio idea di come potremo starci dentro.

In realtà per fortuna appena usciti dalla capitale le strade sono tornate deserte e non abbiamo più visto traffico e ingorghi per tutto il resto del viaggio.

Lungo la strada arriviamo ad un complesso di Outlet di moda dove avevamo programmato di fermarci; io sarei stato anche abbastanza dilaniato, ma “era nel programma”, così tocca fermarci a fare shopping, anche un po’ surreale, praticamente non c’era anima viva in giro, solo noi, boh.

Arriviamo al tramonto a Colorado Springs, una cittadina veramente carina, soprattutto la zona a nord, denominata “Old Colorado City” in cui hanno cercato di mantenere tutte le abitazioni in stile molto retrò, con tanti localini e ristoranti interessanti. Mia moglie poi è esaltatissima e continua a ripetermi che qui “viveva” la Signora del West, quella della serie televisiva, ahahah. Scarichiamo i bagagli nel motel e resistendo alla tentazione di buttarsi a dormire senza cena, visto che siamo entrambi distrutti, usciamo in cerca di un posto qualsiasi per cenare. Girando a caso siamo fortunatissimi e incappiamo in una microbirreria , che in tutto il Colorado sono in realtà molto diffuse. Lì ci mangiamo il primo di una lunga serie di buonissimi hamburger e birra artigianale.

La mattina, con il favore del jet lag ci alziamo prestissimo in direzione del Garden of The Gods, un parco appena fuori dalla città con conformazioni di roccia rosso mattone. Vedere l’alba in un luogo del genere è magico, con il sole che sale piano piano ad illuminare le pareti. Data l’ora mattiniera ci illudiamo di essere gli unici turisti del parco, e lo saremo stati se non fosse per un gruppo di atleti locali che proprio lì si sono dati appuntamento per allenarsi con il fresco della mattina. Appena si allontanano abbiamo il piacere di girovagare praticamente da soli, in compagnia soltanto dei cerbiatti che saltellano indisturbati in mezzo ai cespugli e sui vialetti, un vero paradiso terrestre.

Veniamo abbordati da una coppia di vecchietti i quali, non appena scoprono che siamo italiani, ci seppelliscono immediatamente di complimenti per il nostro paese , che hanno visitato molte volte e di cui sono innamorati. Quindi ci chiedono dove siamo diretti ora e sentendo “il Pikes peak” ci esortano una volta in cima ad assaggiare le famose ciambelle che vendono nel rifugio della vetta. Sarà fatto.

Il Pikes Peak è una montagna appena a ridosso di Colorado Springs, e vanta un’invidiabile altezza di 4300 metri. Questa però non la renderebbe particolare, se non fosse per il fatto che si può raggiungere la cima anche direttamente in auto attraverso una strada piuttosto tortuosa di circa 25 km. Inoltre magari per i più il nome Pikes Peak non dice nulla, ma un appassionato di corse automobilistiche sicuramente sa che qui ogni anno si corre una delle più famose e antiche corse automobilistiche d’America ( seconda solo alla 500 Miglia di Indianapolis); e di certo un appassionato di rally ha ben presenti le immagini dell’edizione dell’88 in cui Ari Vatanen ha portato la sua Peugeot in cima alla montagna con la strada completamente sterrata a velocità che non si erano mai viste prima.

Ecco, sinceramente non avrei mai pensato di mettere a mia volta le ruote della mia macchina sulla stessa mitica strada un giorno, ma la vita è sempre una sorpresa ed è veramente una grande emozione salire ,anche se molto più lentamente , sulle stesse curve. Certo ora la strada è completamente asfaltata, e questo toglie un po’ di avventura, ma i guardrail sono sempre assenti e i dirupi sottostanti sono parimenti sempre lì. Inoltre la gara del 2013 si è svolta giusto la settimana prima ( si corre sempre il 4 luglio) e sull’asfalto si vedono ancora tutti i segni delle rodate dei passaggi dei bolidi da corsa.

In cima smontiamo dall’auto ed effettivamente l’altitudine si fa sentire, visto poi che in poco più di mezz’ora si fanno oltre 2000 metri di dislivello. Quella che si nota è anche l’assenza di ossigeno, data dall’aria più rarefatta, ed infatti uno degli slogan presenti in tutte le magliette, tazze e souvenir vari è la scritta “Got Oxygen?” Per sfidare la nostra resistenza facciamo anche una piccola corsetta ed è incredibile effettivamente sentire come il fiato venga a mancare immediatamente.

Per completare la nostra visita non manca altro che assaggiare le famose ciambelle che tutti ci hanno consigliato: non si può dire che siano particolarmente “sane” o “prive di olio” ( questo è un eufemismo per dire che sono straunte!) ma bisogna ammettere che il gusto era davvero buonissimo. Noi comunque ne abbiamo prese 2, mentre molti degli avventori ripartivano con il sacchetto da 12 pezzi!

Scesi dalla montagna indirizziamo il navigatore verso sud e verso il primo dei parchi nazionali che abbiamo in programma di visitare in questo viaggio. Dato che sappiamo già che saranno molti, optiamo per il pass annuale , che costa comunque solo 80$ ad auto, in questo modo non sarà neppure necessario fare eventuali code agli ingressi, visto che abbiamo una corsia preferenziale!

Dopo circa 2 ore di auto raggiungiamo dunque il Great Sand Dunes National Park, che come dice il nome è famoso per le sue immense dune di sabbia, oltre 230 metri, le più alte di tutto il nord America. Il meteo purtroppo non ci assiste e sembra proprio che stia per prepararsi un bel temporale. Avendo letto sulla guida che le dune possono essere molto pericolose in caso di fulmini, chiediamo un po’ di ragguagli ai Rangers al Visitor Center, ma questi non sembrano molto preoccupati , anche se ci consigliano anche loro di rientrare non appena dovessimo sentire tuoni in lontananza.

Il luogo è piuttosto strano: c’è questa distesa di sabbia che sembra una immensa spiaggia, poi però si innalzano le dune enormi e modellate dal vento, mentre lo sfondo è costituito dalle vicinissime catene delle montagne rocciose. Disseminate per tutte le dune anche un discreto numero di persone che si arrampicano di qua e di là a gruppetti, alcuni trascinandosi dietro tavole da surf/snowbord, anche loro incuranti dei nuvoloni neri che si addensano intorno a noi.

Livia non è molto a suo agio a camminare nella sabbia soffice in salita e accusa un certo dolore al ginocchio malandato, quindi decido di partire io soltanto alla ricerca della cima di una delle dune più alte. Inutile dire che la salita su per la sabbia cedevole è una fatica immonda: anche una distanza ed un dislivello tutto sommato modesti si percorrono in un tempo lunghissimo e a costi di fatica moltiplicati. Raggiungo comunque una piccola altura, e mentre sono lì che mi godo il panorama all’improvviso cade esattamente sulla collina affianco alla mia il primo fulmine. Sarà stato comunque a 300 metri di distanza ma assicuro che non è mai una cosa piacevole e la sensazione di pericolo, lì in cima completamente esposto alle intemperie, è evidente.

Probabilmente anche tutti gli altri turisti fanno il mio stesso ragionamento perché immediatamente ogni singola persona presente sulle dune gira i tacchi e prende a scendere verso il parcheggio delle auto. Io decido di non percorrere lo stesso itinerario della salita, lungo il crinale, ma mi butto direttamente giù per la parte di massima pendenza, a grandi salti, correndo mentre la sabbia scivola velocemente affianco a me come una sorta di piccola valanga: una sensazione fighissima ed esaltante, ho anche fatto un video con il telefono in mano.

Giunto nella pianura comincia anche a piovere; gocce pesanti e fitte che bagnano immediatamente. Per fortuna, penso, che Livia a quest’ora sarà già arrivata alla macchina, così almeno lei può ripararsi… ops, le chiavi dell’auto le ho io in tasca! Allora parto in una corsetta leggera per fare prima possibile, ma complice il bagnato + sabbia + sandali ai piedi, l’unico effetto che ottengo è quello di riempirmi praticamente ovunque di sabbia. Quando arrivo al parcheggio lei è bagnata quasi quanto me, ma almeno pulita, mentre tutti quelli che arrivano con me dalle dune sono un disastro; così si scatena un balletto di spogliarelli improvvisati, con gente che semplicemente in mutande si piazza sotto la pioggia battente per farsi ripulire prima di risalire in auto.

Guardandoci intorno il cielo ora è veramente plumbeo, e temendo un ulteriore peggioramento del temporale magari con grandine, visto che non ho preso la Casko, non indugiamo ulteriormente e ripartiamo in direzione Durango, dove abbiamo prenotato l’albergo per questa notte.

Riguardando ora sulla mappa il percorso di questa prima giornata, con il jet lag, la stanchezza e tutto, mi pare incredibile che abbiamo fatto tutte queste cose, più 500km di macchina e la salita la Pikes Peak, ma non mi pare di ricordare che fossimo particolarmente distrutti alla fine, boh.

Fatto sta che arriviamo a Durango in tardo pomeriggio e la cittadina ci accoglie con un tramonto rosso violaceo magnifico, uno di quelli che si vedono solo appena dopo un temporale.

Per cena seguiamo semplicemente la massa e ci accodiamo ad una moltitudine di persone in coda presso un’altra birreria molto tipica, in un edificio di mattoni rossi . Per gestire la coda ci danno un a specie di telecomando, nel frattempo uno può girovagare per la cittadina e quando comincia a suonare si torna al ristorante perché vuol dire che è il tuo turno, geniale! Così mentre la coda scorre facciamo un giro per il centro, ed andiamo a visitare la attrattiva più famosa di Durango, che è costituita dalla stazione e relativa ferrovia. Si tratta in realtà di una linea costruita alla fine del 1800 per servire le miniere di oro e argento situate più a nord , fino alla cittadina mineraria di Silverton tra le montagne; mentre dagli anni ’50 ad oggi è stata trasformata in una linea totalmente turistica che correndo per circa 70 km porta ogni giorno i turisti attraverso una gola impervia fino alla stessa cittadina, con vagoni d’epoca e una locomotrice a vapore.

Noi purtroppo non siamo riusciti a fare questo tragitto, soprattutto perché tra andata e ritorno con il treno, che per forza di cose procede molto lentamente essendo a vapore, avremmo dovuto investire quasi tutta la giornata. Dato però che le guide descrivono Silverton come molto interessante, così incastonata tra le montagne e selvaggia, decidiamo comunque di andarci in auto, per una strada che corre quasi parallela alla ferrovia, ma molto meno tortuosa.

Così, dopo esserci mangiati una magnifica bistecca al sangue con patate dolci fritte accompagnata da una ennesima birra artigianale, siamo a dormire prestissimo per essere pronti alla partenza la mattina successiva.

La rotta verso Silverton è veramente meravigliosa e, per la prima volta da quando siamo partiti, ci infiliamo verso le montagne. Le strade di montagna americane però sono molto diverse da quelle italiane: qui è difficile trovare tornanti o salite molto strette, pare sempre di essere in collina, poi però uno si rende conto che sono decine di chilometri che si sta salendo costantemente, tra curvoni ampissimi e rampe rettilinee senza fine anche con una certa pendenza, si sale…sale sale….e alla fine quando si giunge al passo ci si accorge che si è sopra i 3.000 metri di altitudine e intorno ci sono ancora chiazze di neve a luglio.

Poi si scende e si arriva nella piana in cui sorge la cittadina di Silverton. Incastonata tra le alte cime pare davvero un rudere dei primi del ‘900. L’unica strada asfaltata è la via principale che taglia in due il paese, tutte le altre strade sono ancora in terra battuta. Gli edifici in legno coloratissimo ospitano ora caffè , ristoranti e negozi di souvenir, ma nell’epoca d’oro delle miniere di metalli preziosi tutti questi locali erano in realtà dei bordelli.

Il paese aveva infatti una popolazione in pratica al 100% composta da minatori e ovviamente non c’era molto altro da fare quando non si lavorava, quindi ho letto che nel periodo di massima espansione il paese poteva vantare la bellezza di 86 case chiuse ( con 5.000 abitanti!).

L’unico altro edificio altamente frequentato al tempo era… la prigione locale: nel weekend a causa dell’alcool e delle risse continue per soldi, affari di donne, noia, le carceri si trovava ad ospitare costantemente decine e decine di persone che poi venivano rilasciate solo il lunedì mattina per tornare a scavare dentro le montagne: doveva essere un posto incredibile al tempo.

Ora invece è una città assolutamente schiava del turismo, ma tutto sommato ancora abbastanza “reale “ per essere credibile; facciamo colazione al Brown Bear Cafè, con un bancone in legno antichissimo e ancora tutti gli addobbi del 4 luglio alle pareti e al soffitto, mangiando dei pancakes giganteschi e bevendo litri di tè ghiacciato; nel complesso una trasferta che a noi è piaciuta tantissimo , anche se rimane un po’ l’amaro in bocca per il mancato viaggio con il treno che doveva essere altrettanto suggestivo.

Ripartiamo dunque in direzione sud e ci dirigiamo verso un’altra meta che promette di essere molto interessante e unica nel suo genere: per il pomeriggio abbiamo infatti in programma di visitare il sito patrimonio Unesco di Mesa Verde.

Mesa verde, come dice il nome stesso è una mesa, ovvero un altopiano che si innalza dalla pianura desertica ed è famoso per la presenza di tutta un serie di antichi insediamenti della popolazione Anasazi, gli antenati dei pellerossa. Il parco è organizzato benissimo, ma occhio perché allo stesso tempo è anche decisamente esteso come dimensione. Il Visitor Center si trova a poca distanza dalla interstatale, ma da lì per arrivare ai siti più belli e importanti mancano ancora almeno 40 km di una strada sicuramente molto bella ma allo stesso tempo molto tortuosa e piena di curve.

Per visitare gli insediamenti è obbligatorio prenotare la visita presso il Visitor Center, perché esclusa la casa che si trova proprio vicino a museo ( denominata “Spruce Tree House” che è liberamente accessibile) tutte le altre sono visitabili solo con l’accompagnamento dei Ranger. Entrando al centro visitatori c’è il tabellone con tutti i siti, gli orari di visita e i posti ancora disponibili. In pochi minuti ci prenotiamo per la “Balcony House” che dovrebbe essere quella un po’ più avventurosa da visitare, con scalette di legno e passaggi angusti tra la roccia in cui strisciare; ed è inoltre l’unico sito che non è visibile dalla strada.

Facciamo dunque i famosi 40 km attraverso una strada che prima ci porta a scalare il fianco della mesa e poi ci fa correre attraverso praterie e valli erbose lungo il pianoro che si trova sopra l’altopiano, fino a che ci uniamo al gruppo in attesa di partire nel nostro turno. La nostra ranger è gentilissima, anche se un po’ ci spaventa prospettandoci una camminata che pare la scalata del K2 ( mentre in realtà è poco più di una passeggiata), ma come al solito tutte le attività fisiche sono commisurate alla popolazione americana, notoriamente fuori forma ed in sovrappeso.

La Balcony House (che in realtà non è una sola casa quanto piuttosto un conglomerato di abitazioni) si trova abbarbicata sotto il ciglio della mesa, incassata in un anfratto a metà parete con una splendida vista sul burrone sottostante. Al giorno d’oggi per accedervi hanno scavato nella roccia una lunga scalinata in discesa che porta appena sotto alle case, che poi si raggiungono attraverso una scala a pioli di legno appoggiata alla roccia alta circa 10 metri. Questo passaggio che nelle guide sembra un cimento superardito in realtà è una cosa che fanno anche i bambini bendati, unica nota di colore la mette mia moglie che per la giornata ha ben pensato di indossare una minigonna, per la gioia dei turisti che seguono.

Inoltre poco dopo per entrare nel cuore del complesso di edifici bisogna passare anche per un cunicolo nella roccia ,effettivamente molto angusto, da percorrere carponi: altro show di mia moglie, ahah. Ah per la cronaca il passaggio è così stretto che nel visitor center hanno anche ricostruito un modellino dello stesso, così se il ranger al momento della prenotazione ha qualche dubbio sul fatto che un turista ci passi, può invitarlo a provare subito la fattibilità o meno, cioè in pratica come i tester per i bagagli a mano negli aeroporti!

Comunque il sito è veramente interessante, conservato benissimo e fa riflettere sul modo e il luogo in cui queste persone vivevano così isolate in mezzo al deserto ed in condizioni climatiche sicuramente estreme sia in estate che in inverno. Poi le riflessioni si fanno ancora più enigmatiche e sconvolgenti se consideriamo che questo sito pare provenire direttamente dal neolitico, mentre il momento di massimo splendore di questa civiltà risale “solamente“ all’anno 1000. Noi nello stesso periodo stavamo fondando l’Università di Bologna e si stavano diffondendo in tutta Europa le prime cattedrali gotiche, il confronto è incredibile.

Per ritornare al livello della strada hanno scavato una serie di gradini direttamente nella roccia e con l’aiuto di corrimani di acciaio si riguadagna la sommità dell’altopiano; un tempo invece non esisteva nulla di tutto questo ( anzi l’inaccessibilità o quasi dei sito era proprio il suo maggior pregio) e gli abitanti originari per accedervi dovevano letteralmente arrampicarsi su e giù dalle rocce lisce e verticali con solo l’aiuto di piccoli fori scavati nella roccia in cui infilare piedi e mani, e proprio all’ingresso del parco c’è una bellissima statua ( logo del parco) che ritrae una persona nell’atto di scalare queste pareti con una gerla sulla schiena.

Visitiamo il museo, che non è nulla di che ma almeno ha l’aria condizionata, e sommariamente anche tutte le altre “House” che invece sono visibili anche dalla strada senza visita guidata, alcune veramente imponenti per il numero di edifici che le compongono.

La sera abbiamo come destinazione un paesino dimenticato da Dio denominato Monticello. Lo avevamo scelto solo ed esclusivamente perché dal punto di vista logistico era molto comodo per il giorno successivo. Ora la zona ci pare quasi familiare perché in occasione del nostro viaggio di nozze, quello lungo la Route66 , eravamo arrivati proprio da queste parti, salvo poi deviare decisamente verso ovest e tornare verso Las Vegas e la California.

Per cena usciamo in cerca di un luogo dove mangiare, ma leggendo un po’ di pareri su Tripadvisor pare che in paese non esista neppure un posto non dico buono, ma neppure decente. Decido di allargare la ricerca e la app mi informa di un localino appena fuori dalla cittadina, in direzione sud specializzato in bistecche, fatta!

Ci mettiamo dunque in viaggio su questa strada assolutamente deserta, in mezzo ad una prateria completamente spoglia a perdita d’occhio. Ad un certo punto appaiono una serie di cartelli stradali minacciosi che informano “Zona attraversamento animali selvatici”. Si ok , ne ho visti anche da noi, ma di animali mai neppure l’ombra. Qui non è così. Sarà stata anche l’ora sbagliata, il tramonto, ma veramente hanno cominciato ad attraversarci la strada così dal nulla correndo come pazzi una serie di cerbiatti ( o simili) del tutto incuranti delle auto. Poco più avanti un cartello ancora più minaccioso: un display illuminato con scritto “Numero di animali investiti da inizio anno: ” – 100 e passa bestie, ed effettivamente a bordo strada vediamo diverse carcasse di animali morti, anche grossi. Ad un certo punto il navigatore mi annuncia “Hai raggiunto la tua destinazione”. Esattamente in mezzo al deserto, nulla a decine di miglia in ogni direzione, chissà dove cacchio era quel ristorante! Comunque siamo tornati a cena in centro , in un posto strambissimo tipo figli dei fiori, percorrendo tutta la strada al ritorno con l’ansia di veder sbucare da bordo strada un ennesimo animale incurante delle auto. Comunque, se non era chiaro, evitate di fermarvi a dormire a Monticello, un posto tristissimo.

La mattina dopo freschi e riposati ci presentiamo all’ingresso di un ennesimo parco nazionale: Canyonlands.

Questo è un parco veramente enorme: già per arrivare dalla provinciale fino al Centro Visitatori sono quasi 70 km di strada nel deserto, che noi percorriamo molto presto alla mattina per poter fare una camminata ancora con temperature accettabili. Il Parco sorge intorno alla confluenza dei fiumi Colorado e Green River ed è diviso in due sezioni completamente separate tra loro: una a sud della confluenza denominata “The Needles” ed una più a nord dal nome altisonante di “Island in The Sky”. Dato che le due sezioni sono separate dal canyon del Colorado, per passare da una all’altra è necessario fare un giro infinito ( passando per Moab) e percorrendo non meno di 200 km, giusto per capire la dimensione.

La mattina visitiamo dunque i Needles (gli “aghi”) denominati così per l’aspetto “puntuto” della catena montuosa che vediamo profilarsi proprio di fronte a noi: una cresta di migliaia di cime dai colori sgargianti tra il rosso mattone ed il bianco candido, con in mezzo tutte le migliaia di sfumature tra i due colori. Il cielo è stranamente nuvoloso, che è piuttosto assurdo perché qui in estate è quasi sempre sereno, ma arrivati al centro visitatori i rangers ci consigliano di fare subito la camminata più lunga che abbiamo in programma per la giornata perché il caldo, ci dicono, può essere notevole. Facciamo quindi un trail non troppo lungo, con magnifici panorami mentre piano piano il cielo si apre e spunta un sole feroce che nel giro di pochi minuti rende la nostra camminata nel deserto un mezzo calvario. Non c’è anima viva in giro, centinaia di miglia di deserto desolato in ogni direzione, sperduti tra le rocce mentre seguiamo le tracce del sentiero poco battuto, intorno a noi rocce sospese con cappelli tipo fungo, un panorama marziano sia come colori che come temperatura.

Questo parco sarebbe anche adattissimo per essere visitato con i fuoristrada, perché ci sono moltissime piste sterrate che potrebbero portarci a zone ancora più desolate e incontaminate, ma con la nostra Dodge dobbiamo accontentarci solo di una piccola deviazione in terreno accidentato fino ad un belvedere in cui la cresta dei Needles si allarga completa davanti ai nostri occhi. Dopo una ennesima breve camminata nel deserto a vedere le ricostruzioni di alcuni accampamenti di cowboys di inizio secolo, siti in alcune grotte naturali, siamo assolutamente distrutti dal caldo e dalla disidratazione e quindi decidiamo di uscire da questa zona del parco e portarci verso Moab per una pausa ristoratrice.

Piombiamo a Moab con solamente un’idea in testa: la fountain di MacDonalds! Con la complicità del free refill alle bibite credo di essermi bevuto non meno di 2 litri di MountainDew, nettare degli dei.

Rinfrancati saliamo nuovamente in macchina per andare a visitare l’altra parte di Canyonlands, ovvero “L’isola nel Cielo”. Il nome devo dire che è assolutamente azzeccato perché a differenza dei Needles, dove ci si muoveva molto vicini al fondo dei canyon, qui invece tutto il panorama si osserva da sopra una specie di altopiano sospeso a precipizio sulle diverse valli scavate nei millenni dai fiumi Colorado e Green River.

Il panorama di insieme è totalmente straordinario e rende perfettamente l’idea di come l’acqua abbia scavato questa zona per secoli e secoli. Ci rechiamo infatti prima di tutto al cosiddetto Grand View Point Overlook, rivolto proprio in direzione della congiunzione dei due enormi fiumi. Non provo neppure a descrivere il panorama, fate una ricerca su google o guardate le mie foto, e comunque nessuna renderà mai l’idea del panorama di insieme. Il ciglio del baratro si affaccia poi completamente verticale sulla pianura sottostante e quindi l’effetto di volare è ancora più accentuato che, per dire, in luoghi come il Grand Canyon. Per fare una foto faccio inorridire la moglie sporgendomi fino al limite di uno sperone di roccia proteso nel vuoto, sotto e intorno a me centinaia di metri di salto verticale, da capogiro anche per me che come sport principale faccio arrampicata sportiva e alpinismo.

Galvanizzati da questo panorama visitiamo anche tutta un serie di “microtrail” per vedere più cose possibili della zona: come invasati saliamo in auto , parcheggiamo e partiamo quasi di corsa su per il sentiero. In serie visitiamo una specie di cratere gigantesco che sembra formato dall’impatto di un meteorite (“La cupola ribaltata”); vediamo un arco sospeso nel vuoto che sembra una enorme finestra ad incorniciare la pianura e per finire scaliamo anche la “Roccia della Balena”, un’enorme collina di roccia tondeggiante si cui saliamo con una certa fatica.

Ultima tappa della giornata, sulla strada per rientrare a Moab, facciamo una ultima deviazione per un punto panoramico: Dead Horse Point, dove arriviamo devo dire in condizioni di fatica e insolazione assolutamente devastanti. Il luogo era anche bellissimo con una ennesima vista grandiosa sulle anse del fiume Colorado, ma essendo un parco diverso e separato da Canyonlands ( sui paga anche un biglietto a parte) ha una politica un po’ diversa e qui hanno fatto un lavoro di messa in sicurezza con muretti cementati tutto intorno agli strapiombi, lastricando tutti i sentieri , che a dire il vero rovina un po’ la naturalezza del luogo. Suggestivo però per il fatto che esattamente qui è il posto in cui hanno girato la scena finale del film Thelma & Luise, quella in cui si buttano con l’auto nel Grand Canyon, ecco, non era affatto il Grand Canyon, ma era proprio qui a Dead Horse Point.

Ormai il sole sta tramontando e finalmente possiamo rilassarci nel nostro Motel a Moab. Mi raccomando, se prevedete di fermarvi qui in alta stagione, prenotate con anticipo perché il luogo è superturistico e gli alloggi non infiniti. Noi ci siamo fermati all’Inca Inn, lo scrivo perché pur essendo un posto tutto sommato economico ci siamo trovati benissimo e lo consiglio vivamente, con la sua piscina affacciata direttamente sulla statale, si poteva sorseggiare una birra godendosi la vista del passaggio delle auto, abbastanza comico.

Moab è una cittadina fantastica, un posto veramente fuori dal mondo. Accerchiato da montagne di roccia dai colori incredibili , offre poi una infinità di opportunità turistiche. Oltre ad essere vicinissima ad alcuni dei parchi nazionali più belli della zona è meta di turisti appassionati degli sport più vari: dalla mountain bike, all’arrampicata, al kayak, al rafting, le gite con i motoscafi, giri con i fuoristrada… di tutto.

La sera mentre ci godiamo un tramonto indescrivibile andiamo a cena in un Diner veramente tipico dove mangiamo tutto sommato discretamente ma nulla di che, se non fosse per il dessert che decido incautamente di ordinare a fine pasto. “Ehi, qui fanno la banana split come specialità, solo 4$, proviamola!” Ora, io non vorrei essere preso per fanfarone, ma veramente quella banana split era una cosa inimmaginabile: l’unica cosa di dimensioni umane era per forza di cose la banana; sopra però ci avevano piazzato 3 palle di gelato di non meno di 10 cm di diametro l’una e una montagna di panna montata che credo non fosse meno di mezzo chilo , più granella e salsa di cioccolato , più ciliegie sciroppate in cima: era sicuramente almeno un kg di roba. Quando me la hanno consegnata al tavolo, io stavo già ridendo, la signora del tavolino vicino al nostro è scoppiata a ridere a sua volta e mi ha detto “Buona fortuna!”. Ne ho mangiata meno di metà, ho dovuto smettere quando cominciavo ad avere dei tremori alle mani dati dall’eccesso di zuccheri.

La mattina dopo siamo pronti pimpanti per un’altra giornata, per fortuna almeno oggi non dobbiamo sbaraccare la camera, perché per la prima volta da quando siamo partiti ci fermiamo per due giorni nello stesso luogo. Oggi infatti visiteremo il parco di Arches, che è proprio attaccato a Moab. Come al solito partiamo prestissimo( dopo una splendida colazione a base di waffel caldi però) perché le previsioni meteo sono meravigliose e quindi temiamo il gran caldo.

In più studiando le mappe che consegnano all’ingresso dei parchi abbiamo visto che vale la pena fare diverse camminate, alcune neppure troppo corte, per vedere le meraviglie della zona, la prima delle quali per visitare il famosissimo “Delicate Arch”, e quindi vorremo farlo con il fresco.

Lo dico subito per sgomberare ogni dubbio: questo posto è di una bellezza devastante, sicuramente una delle cose più belle ed emozionanti che abbiamo visto nei nostri viaggi negli USA. La cosa che lascia senza parole è in questo caso la incredibile concentrazione di meraviglie della natura che si trovano in un’area così ristretta. Questo parco infatti è anche tutto sommato piuttosto piccolo, saranno 20 km in tutto, ma ad ogni svolta ti stupisce con cose ogni volta diverse e impressionanti : si parte dall’ingresso che, con due tornanti su per la montagna attraverso un varco, sembra farti entrare in un mondo incantato e segreto, non potevano congegnare un accesso migliore di questo. Poi si passa la zona di “Wall Street” con le sue pareti verticali ed incombenti lisce come muri, la zona delle dune di sabbia pietrificate da una parte della strada ed esattamente di fronte una foresta di pinnacoli di roccia dalle forme assurde. Quindi si arriva alla inconcepibile “Balanced Rock”, un macigno di dimensioni inusitate sospeso praticamente nel vuoto, ed il giardino dell’Eden. Da una parte la zona delle “Finestre” con la loro concentrazione incredibile di Archi di tutti i generi, mentre imboccando l’altro braccio della strada si passa attraverso la “Fornace Infuocata” che soprattutto al tramonto con il favore del sole si incendia letteralmente di mille colori, per giungere alla fine della strada al “Giardino dei Diavolo”.

E’ quasi inconcepibile che la natura da sola abbia prodotto questo in autonomia, concentrando tutto in questa zona (e questa zona soltanto): sembra finto, un parco tematico creato ad arte.

E non abbiamo ancora visto l’arco più famoso, uno dei simboli dello Utah, il Delicate Arch.

La salita a piedi avviene lungo una rampa liscissima di roccia battuta dal sole che non fa venire tanta voglia di percorrere, ma alla fine si rivela più rapida del previsto. A differenza di ieri qui, pur essendo mattina presto, ci sono parecchie persone, come una processione muta lungo il sentiero tra le rocce: tra rampe, cenge sospese sulla valle e tratti sabbiosi tra gli arbusti. La cosa bella è che l’arco non si vede mai fino all’ultimissimo secondo, cioè fino a quando aggirando un ultimo sperone di roccia ci si rivela in tutta la sua grandezza. L’aspetto più impressionante poi non è neppure l’arco in se, che pure è meraviglioso ed elegantissimo, ma ancora più incredibile è il luogo in cui questo si è venuto a trovare: esattamente al centro di un anfiteatro naturale scavato da millenni di piogge, una specie di stadio sospeso sopra la valle con delle quinte naturali ed esattamente al centro, assurdo ed inconcepibile l’arco perfetto ad incorniciare la valle. Anche qui potete vedere tutte le foto del mondo ma la visione di insieme che si ha essendo lì non è riproducibile su pellicola.

Galvanizzati da questa visione, risaliamo in auto e ci portiamo nella zona di Devil’s Garden, dove inizia un trail, volendo anche piuttosto lungo, in cui sono concentrati moltissimi archi, alcuni enormi. Il sentiero si inerpica via via sempre più selvaggio mano a mano che si prosegue allontanandosi dal parcheggio. Ci sono anche dei tratti da camminare sulle rocce, sempre sotto un sole che ora è diventato devastante, ci spingiamo non senza fatica, arco dopo arco, fino al Double O Arch, che effettivamente valeva la pena con i suoi due fori sovrapposti uno sopra l’altro. Quando poi ci incamminiamo indietro verso la macchina, ci rendiamo conto di tutta la strada percorsa, l’acqua è finita da un pezzo, il sole ora è esattamente a picco sulle nostre teste e anche i brevi tratti che all’andata erano all’ombra ora sono impietosamente assolati. Ci mettiamo più di un’ora a rientrare, con solo un singolo pensiero fisso in testa: la fontanella dell’acqua del parcheggio. Quando finalmente ci arriviamo non sto a descrivere la goduria di infilare direttamente la testa sotto il getto.

Mancherebbe da visitare ancora la zona delle Windows, ma siamo veramente provati e dunque decretiamo che possiamo anche tornare al volo domani mattina prima di lasciare Moab. Quindi decidiamo per oggi di alzare bandiera bianca e tornare in motel a rilassarci in piscina immersi nella frescura.

La mattina dopo imbarchiamo armi e bagagli e facciamo una veloce puntata nuovamente nel parco per vedere “La parata di elefanti”, che è impressionante per quanto effettivamente le rocce assomiglino davvero a delle teste di elefanti ed il doppio arco appena affianco. Anche questa una zona decisamente suggestiva, in cui tutte le rocce dall’aspetto bizzarro sono state ribattezzate in base all’animale o alla forma che più ricordano.

Uscendo dal parco Livia ha modo di battezzare anche lei un pinnacolo: “ehi guarda quella roccia dus dus! “, non so come le sia venuta in mente ma sembrava davvero la forma del dispenser del sapone liquido ( che credo si scriva “Douche Douche”…boh, quello della pubblicità anni 90 cmq!), ridiamo come dei cretini a questa scemenza.

Ora dobbiamo andare verso la capitale dello Utah, Salt Lake City, e abbiamo di fronte a noi un bel pezzettino di strada di circa 400km, purtroppo tutti piuttosto noiosi in autostrada. Quindi come se non avessimo abbastanza km da fare decidiamo anche per una deviazione che da Moab ci fa seguire il corso del fiume Colorado risalendolo verso la sorgente. Una strada superpanoramica sempre a livello del fiume seguendo le mille anse della valle. Lungo il tragitto incrociamo pochissimo traffico, solo ogni tanto la zona si popola quando doppiamo alcuni ranch sperduti in cui appassionati di pesca/rafting/canoa si ritrovano per mettere in acqua le loro barchette in una atmosfera di relax totale. A posteriori una deviazione che valeva assolutamente la pena in zone molto belle ( infatti ho letto che anche qui hanno girato diversi film western in passato).

Il resto della strada è come previsto una autostrada infinita, dritta come un fuso in mezzo ad un paesaggio piuttosto ripetitivo e noioso, che ci deposita a Salt Lake City nel primo pomeriggio. Per questa volta abbandoniamo i motel e soggiorniamo in un hotel anche piuttosto carino in pieno centro città. A me Salt Lake è piaciuta abbastanza, soprattutto la corona di montagne verdissime che si vedono appena alle spalle del centro cittadino. La city è un luogo piuttosto strano, non saprei come altro definirlo, sembra tutta una grande sceneggiatura a puro uso e consumo della comunità Mormone che governa la città, come volessero dare la migliore faccia possibile alla loro confessione religiosa: la loro chiesa che pare un castello, tutte le aiuole curatissime, la città nuovissima e moderna, ordine e pulizia… ma allo stesso tempo tutto pare monumentale, senza anima ed anche la gente che vediamo in giro ha un’aria seriosa, quasi triste, boh.

Visitiamo tutto il centro a piedi, è piccolissimo, e facciamo un po’ di shopping nei vari mall: molto bello soprattutto quello che hanno costruito rimodernando la vecchia stazione dei treni, vicino all’immenso stadio del basket degli Utah Jazz. Verso il tramonto si scatena un temporale con cielo nerissimo, fulmini e pioggia a catinelle. Pur essendo a ridosso delle montagne e a 1.300 metri di altezza la pioggia è calda; qui in inverno si arriva come ridere a -20° e ora sembra di essere in Messico.

Per cena vogliamo interrompere la infilata di bistecche, hamburger e carni varie che abbiamo mangiato quasi ogni giorno dall’inizio del viaggio e leggendo su vari siti sembra che qui ci sia una pizzeria napoletana rinomatissima, così ci andiamo. Cavolo, era buona davvero, e gli stessi proprietari gestivano appena fuori dal ristorante anche una gelateria artigianale, discreta anche quella: da non credere.

La mattina, con un cielo nuovamente blu cobalto puntiamo la bussola decisamente verso nord in direzione Wyoming! Prima di lasciare lo Utah però ancora una piccola deviazione per visitare la stazione sciistica (in inverno ovviamente) di Park City che si trova a neppure 50 km dal centro di Salt Lake City. Facciamo colazione nello Starbucks locale e guardando le piste da sci ora verdissime immaginiamo lo splendore che deve essere questo posto durante i mesi invernali, con tutte le megaville e localini caratteristici che vediamo mi sa che è un posto decisamente expensive.

Oggi abbiamo da percorrere una bella vagonata di km, quasi 570 ci separano infatti dalla cittadina di Jackson Hole, sita proprio nel cuore del Grand Teton National Park. Il tragitto inoltre è anche piuttosto noioso: speravo infatti che ora avremmo cominciato a vedere un po’ di montagne, mentre intorno a noi continuano a sfilare pianure desertiche sconfinate. Decidiamo di non perdere tempo con deviazioni inutili e puntiamo decisi alla meta, unica sosta, per il pranzo la facciamo nella graziosa cittadina di Pinedale, proprio a ridosso delle prime foreste.

Cito solo questa tappa, oltre che per il posto carino e anche abbastanza turistico, solo perché qui abbiamo mangiato divinamente in una birreria con terrazza panoramica di nome Wind River Brewing Company, dietro consiglio della signorina dell’ufficio turistico. Oltre alla birra eccellente ( ma in questo viaggio devo ammettere che abbiamo quasi sempre bevuto birre artigianali ottime) , io personalmente ho mangiato uno steak sandwich che ancora mi fa venire l’acquolina in bocca, una cosa meravigliosa. Ulteriore nota di merito per il locale: quando siamo andati via ho furbescamente dimenticato la carta di credito sul tavolino, (no comment avevo scritto che la birra era ottima!) ed il cameriere si è fatto di corsa mezzo paese per restituirmela, inseguendoci addirittura dentro un negozio di articoli sportivi in cui eravamo entrati a fare shopping, un santo!

Giungiamo a metà pomeriggio a Jackson Hole e qui finalmente siamo proprio nel mezzo della bolgia. Questa cittadina prettamente montuosa immersa tra foreste di conifere e picchi imponenti è infatti uno dei luoghi più turistici della zona. Anche trovare da dormire qui non è per nulla uno scherzo: noi in questo caso siamo dovuti scendere abbastanza di livello: era comunque decente con piscina e tutto il resto, ma di sicuro la catena di più basso livello tra tutte quelle in cui abbiamo alloggiato, e nonostante questo abbiamo pagato più che in qualsiasi altro posto in cui ci siamo fermati.

Il centro del paese è curatissimo, con negozi di souvenir e ristoranti tutti in stile country montano, tronchi di legno enormi ovunque, animali impagliati di qualsiasi razza e dimensione, turisti ogni dove. Alle 17 proprio nell’isolato centrale, che è un parco pubblico, mettono in scena uno spettacolo con cowboy e banditi con finti duelli di pistole, scazzottate, tutti in costume d’epoca: per carità sembrava di essere a Gardaland però a loro piacciono queste cose.

Per la sera abbiamo un programma meraviglioso, andiamo a vedere il rodeo! Bando agli scherzi qui la cosa è presa molto sul serio, non per nulla è lo sport ufficiale del Wyoming. Facciamo anche la coda per entrare ( con un biglietto neppure troppo amichevole), ci sono i camion dei migliori cowboy , i quali prima dello spettacolo hanno anche il banchetto per gli autografi. Lo spettacolo ce lo siamo goduto alla grande; non andrei a vederlo tutte le sere, però una volta era da fare, oltretutto con un tramonto viola rosato come sfondo in una serata fantastica. Lo speaker poi era bravissimo a galvanizzare il pubblico con canti e coreografie. In mezzo a tutta quella gente di ogni parte d’America ci sentivamo perfettamente integrati mentre addentavamo nelle tribune i nostri hotdog pieni di salse ( Livia ha azzardato addirittura un chili-dog, un hotdog ricoperto di una mestolata di salsa chili piccante, sanissimo!).

Jackson come dicevo è la città più vicina al Grand Teton National Park, che a differenza di tutti gli altri parchi che abbiamo visitato in Usa ha un aspetto una volta tanto piuttosto europeo. Infatti le montagne appuntite che danno il nome al parco ( ah, per la cronaca, se ve lo stavate chiedendo , Grand Teton vuol dire esattamente “Grosse Tette” , proprio per la forma delle cime che lo caratterizzano), assomigliano abbastanza, per caratteristiche orografiche, alle nostra vallate delle alpi occidentali, con molti laghi glaciali, immense foreste di conifere, enormi pilastri di granito e ghiacciai anche in estate.

La strada corre proprio ai piedi di questa cresta di montagne, esattamente parallela ad essa e ogni tot si staccano strade o sentieri in direzione delle valli incassate tra una cima e l’altra. Decidiamo di fare una prima camminata, non troppo battuta turisticamente, per vedere alcuni laghi, ma dopo aver letto ovunque avvisi e cartelli minacciosi che spiegavano cosa fare in caso di avvistamento di orsi, Livia è piuttosto agitata.

Il sentiero in effetti è assolutamente desolato, non incrociamo anima viva né si vedono altre tracce umane: unico segno di civiltà il cartello che ci invita ad avere a portata di mano lo spray antiorso e di fare più rumore possibile mentre si cammina, preferibilmente usando gli appositi sonagli da mettere alla caviglia. Inutile dire che noi ovviamente non avevamo nulla di tutto ciò. Io poi, che ho una vena maligna, non perdevo occasione per tranquillizzarla: “Ehi, hai visto anche tu muoversi qualcosa laggiù tra gli alberi?” Ahahah ! Così raggiunto il laghetto, abbiamo fatto marcia indietro subito e ci siamo portati in una zona più frequentata.

Quando si va a Grand Teton il giro classico prevede la sosta a Jenny Lake: un posto effettivamente bellissimo, con questo specchio d’acqua proprio a ridosso di cime altissime, che vi si riflettono tra i pini, con tutta una serie di cascate che dai ghiacciai delle vette si gettano direttamente nel lago. Il 99% dei visitatori parcheggia la macchina, fa 5 metri a piedi, prende il battello che li porta alle cascate, vedono le cascate e riprendono il battello per rientrare. Noi ovviamente no, e così ci pippiamo tutto il giro del lago fino ad arrivare alle cascate, con anche una ulteriore deviazione per vedere gli alci ( che ovviamente non vediamo) e scaliamo anche il colle da cui le cascate precipitano fino ad un belvedere. Per il ritorno siamo un po’ distrutti e decidiamo di cedere al richiamo del battello, che effettivamente è comodissimo e facciamo anche conoscenza con una originaria americana che però ha vissuto anche lei in Italia.

Le chiediamo come sa faccia a pagare la tratta di rientro, visto che tutti gli altri avevano preso il biglietto andata e ritorno. “ Fate finta di niente” . Ah bene, ha imparato subito come funziona da noi! Ed effettivamente era semplicissimo passare via dritti, perché quando scendiamo il nocchiero semplicemente avvisa “Quelli che devono pagare il ritorno passino alla cassa”, così, senza nessuno che controllasse , sulla fiducia. Ma cavolo, ci lamentiamo sempre che da noi non funziona niente, e poi alla prima occasione ne approfittiamo così, non esiste, e infatti siamo passati a pagare.

Per pranzo: picnic lungolago: qui ci sono aree picnic ovunque, tutte piene, sono dei dannati invasati dei picnic! Parcheggiano l’auto a un metro dal tavolino e cominciano a scaricare una serie infinita di frighi di plastica enormi da cui esce di tutto: panini, bibite,birre, patatine. Noi col nostro tramezzino e una Bud Light facciamo un po’ pena. Per smaltire anche il pranzo, dopo esserci riposati facciamo una ulteriore camminata, stavolta in piano e quasi tutta lungolago nella zona di Colter Bay, una specie di porticciolo con le barche ormeggiate, visto che questo è il lago in assoluto più grande del parco, un mezzo mare di 103 km quadrati.

La camminata in questo caso oltre ad essere molto rilassante si rivela anche bellissima, costeggiando distese di specchi d’acqua ricoperti di ninfeee, zone paludose patria di lontre e castori ( uno lo vediamo scivolare in acqua mentre rientrava nella tana ) e uccelli di ogni tipo. Per finire incrociamo anche due cervi intenti a brucare pacificamente in una radura.

Ripartiamo felici anche da questo parco che effettivamente meriterebbe molto più tempo per essere visitato, soprattutto per avere occasione di salire a piedi verso le cime più alte, che dalla strada sono lontanissime ed invitanti. Ci accontentiamo per questa volta di guardarle dall’auto gettarsi direttamente nel lago: sembra un mare con le montagne che escono direttamente dalle acque.

Ora siamo veramente in ambiente montano, ed anche le strade che percorriamo sono una volta tanto abbastanza tortuose. Gli americani medi, abituati sempre a strade a mille corsie e inesorabilmente dritte, non appena vedono due curve vanno in panico totale. Per fortuna hanno inventato una gestione dei sorpassi assolutamente civile ed efficace: nelle strade a due corsie, che comunque sono enormemente più larghe delle nostre, deserte , e quindi uno potrebbe superare quando vuole , ogni qualche centinaia di metri creano degli allargamenti di careggiata. Questi “pullouts” abbinati ad un milione di cartelli “Slower traffic use pullouts” fanno si che ogni volta che uno vede sopraggiungere alle sue spalle un’auto più veloce, immediatamente si scosti consentendo il sorpasso. Noi non è che corriamo come ossessi, ma era magnifico arrivare alle spalle magari di un camper e vederlo subito andare in agitazione in attesa di incrociare il primo pullout; avevamo anche coniato un termine quando poi si levavano: “Finalmente questo lento si è “pullizzato!”… ormai lo usiamo anche qui in Italia, solo che ovviamente qui nessuno si pullizza mai.

Con grande emozione arriviamo dunque di fronte al famoso cartello che ci avvisa che stiamo entrando nel parco di Yellowstone, dove non possiamo esimerci dalla foto di rito! Abbiamo ovviamente delle aspettative elevatissime per questo luogo che tutti ci hanno descritto come unico e incredibile, e per visitarlo bene ci siamo ritagliati qui ben 5 giorni interi.

Per dormire siamo stati costretti a prenotare a West Yellowstone, un paesino appena fuori dai confini del parco, perché i pochissimi resort che si trovano al suo interno sono prenotati praticamente di anno in anno ed anche muovendosi come noi verso marzo per le prenotazioni è quasi impossibile trovare posto. Avevamo anche valutato l’opzione campeggio, ma oltre allo sbattimento di portarsi dietro tutta l’attrezzatura anche in questi non è facile trovare posto perché, pur essendo moltissimi, accettano un numero di persone massimo molto limitato. West Yellowstone è comunque una alternativa validissima ed anche dal punto di vista strategico non è male, per non parlare del piacere di sentire il navigatore dell’auto che vi avvisa “Siete giunti a uest iellostone”, esattamente come è scritto.

Il parco è gigantesco, giusto per capirsi la strada ad anello che fa tutto il giro dell’area è lunga più di 280km e anche per questo motivo sono necessari diversi giorni per visitarlo bene.

Già il primo contatto con Yellowstone è strepitoso: vallate verdissime con fiumi che corrono serpeggiando, distese di prati piene di animali al pascolo, ed ogni tanto appena dietro la strada centinaia di fumarole delle diverse zone termali, con i loro pennacchi bianchi verso il cielo. Automobili che sciamano da un sito all’altro, ma traffico mai troppo congestionato o soffocante: dal punto di vista logistico contando l’afflusso mostruoso di turisti che deve sopportare è organizzato in maniera ineccepibile.

Mentre si corre lungo la strada è facile alle volte improvvisamente trovare dei rallentamenti, con auto parcheggiate a bordo strada in maniera selvaggia e gente a piedi in giro per i campi con macchine fotografiche in mano. Quando vedevamo queste scene sapevamo che in giro c’era qualche animale selvaggio nella zona: il primo giorno addirittura vediamo un cartello stradale con tanto di luce lampeggiante che ci avvisa “Presenza di Bisonti”. Ahah, la prendiamo sul ridere, salvo poi girare l’angolo e quasi investiamo un bisonte gigantesco proprio a bordo strada, assurdo. (In realtà non è poi neppure così assurdo perché sono animali molto ripetitivi per quanto riguarda i loro spostamenti, e quindi è facile trovarli sempre negli stessi punti).

Se dovessi descrivere tutto quello che abbiamo visto ci metterei 10 pagine, mi limito a dire che questo parco è indubbiamente una delle cose più incredibili che io abbia mai visto nella vita. Tutto quello che si presenta davanti agli occhi è così inconcepibile e al contempo così bello che a mio parere vale il viaggio in USA anche da solo.

In 5 giorni visitiamo tutte le zone termali principali, per prima quella dell’Old Faithful, il geyser più famoso del parco perché erutta con una frequenza precisa di circa 80 minuti, ed infatti entrando nel bellissimo Visitor Center del parco è sempre bene in evidenza il tabellone luminoso che avvisa degli orari previsti di eruzione di tutti i geyser più facilmente prevedibili. La zona dell’Old Faithful è indubbiamente una cosa pazzesca, si cammina su queste passerelle di legno proprio affianco alle sorgenti, ognuna con colori e caratteristiche diverse, con attività diverse tra gorgoglii, zampilli ed un ribollire infernale e continuo.

I colori dei diversi specchi d’acqua denotano già dalla vista la temperatura e proprio quelli più cristallini, quelli con l’azzurro cielo più intenso che sarebbero i più invitanti da toccare sono in realtà quelli più caldi con temperature vicinissime ai 100°. Proprio per questo motivo sono perfettamente trasparenti in quanto nessun microrganismo può vivere a tali temperature. Mano a mano che l’acqua perde gradi si vedono invece altri colori, dal rosso all’arancione, giallo, verde in un tripudio di arcobaleni concentrici dovuti alla presenza delle diverse forme di vita. Solo in questa area sono concentrati più geyser che in tutto il resto del mondo, se non è unica come cosa questa!

Inoltre anche l’organizzazione dei sentieri, delle tabelle informative, complete anche di alcune bellissime litografie d’epoca che ritraggono gli stessi luoghi agli albori del parco, quando si poteva entrare solo a cavallo, rendono la visita piacevole e formativa: lo scrivo tutte le volte che veniamo qui in Usa, noi una valorizzazione di questo tipo del territorio e delle meraviglie che hanno ce la possiamo solo sognare.

Poi quando mancano 10 minuti all’orario previsto di eruzione, tutti si assiepano a distanza di sicurezza sulle panche disposte a semicerchio e aspettano si ripeta puntuale la meraviglia del getto d’acqua nel cielo fino a oltre 40 metri. La tensione è palpabile e ad ogni gorgoglio si vedono scattare in alto centinaia di macchine fotografiche per immortalare il primo getto, anche abbastanza comica come scena. Poi all’improvviso lo spettacolo della natura inizia ed è incredibile pensare come tutto questo si ripeta assolutamente identico da decine (centinaia?) di migliaia di anni. I “tempi geologici”, se ci penso, mi sconvolgono sempre e fanno capire rapidamente quanto poco contiamo, con i nostri si e no 100 anni, nella storia del mondo; anche questo è formativo.

Saltiamo dunque da un settore all’altro del parco, ognuno con le sue caratteristiche: alcuni hanno pozze d’acqua immense, con i loro colori brillanti che si perdono tra i fumi del vapore prodotto dall’acqua bollente. Altre zone sono un ribollire di fanghi argillosi, altre ancora si trovano proprio a ridosso del lago e vediamo il contrasto tra le acque fredde di superficie e quelle roventi che provengo direttamente dal centro della terra.

La zona di Mammoth Terrace è ancora diversa e caratterizzata da delle colate di calcare bianco candido che scendono lungo il lato di una collina, ricoprendola completamente come una glassatura di zucchero su cui l’acqua zampilla in cascatelle formando migliaia di micropozzanghere.

Uno dei luoghi più impressionanti è quello di Norris Geyser Basin, una depressione che veramente dà l’idea di buttare un occhio alle origini della terra. Ho letto che qui è dove si incrociano tre diverse placche tettoniche, è il luogo del parco in cui si registrano il maggior numero di microterremoti, è il punto in cui il mantello di roccia che separa il magma dall’atmosfera è più sottile, è il luogo in cui le emissioni di vapore sono più ricche di sostanze acide: in breve sembra di entrare all’inferno.

Quando ci si affaccia sul bacino è tutto un ribollire di acque dai colori più disparati, soffioni di aria riempiono il cielo con il loro suono incessante come una pentola a pressione, tra laghi di colore opalino e geyser che ad intervalli regolari soffiano getti d’acqua: so che sembra stupido, ma sinceramente mentre si è lì si ha davvero la sensazione di essere in un luogo pericoloso, in cui potrebbe succedere qualsiasi cosa da un momento all’altro, ed anche guardando diversi documentari anche loro confermano che quando prima o poi tutta la zona si risveglierà veramente, accadrà qui prima che altrove.

Ah si, a proposito, l’ultima megaeruzione del parco di Yellowstone, che altro non è che un immenso vulcano, risale a oltre 150.000 anni fa, e contando che secondo gli studi effettuati queste eruzioni si ripetono in media ogni 100.000 anni, siamo già in ritardo di 50.000; noi per sicurezza ci siamo andati, sai mai, ahah.

Non so come sia il meteo normalmente a Yellowstone, ma per quanto ci riguarda tutti e 5 i giorni in cui ci siamo fermati il cielo è stato incredibile: mai neppure una nuvola, un sole pazzesco che abbinato ad una altitudine in media tra i 2000 e i 2500 metri alla sera ci faceva tornare a casa letteralmente tostati. Un pomeriggio in cui avevamo anche camminato più del solito, leggo sulla guida che c’è anche un posto in cui è possibile fare il bagno nel fiume e già immaginiamo il piacere di immergersi un po’ nella frescura. Io credevo fosse un posticino tranquillo, con un comodo accesso e punto lì. Quando ci arriviamo troviamo invece un sacco di auto parcheggiate, gente ovunque con materassini che si fa trascinare dalla corrente, alcuni come noi previdenti con il costume, altri più selvaggi si buttano in jeans, in pratica una vera e propria spiaggia. Il fiume passa tra due costoni di roccia e c’è gente che tuffa da altezze siderali ( io pure, che non riesco a resistere al richiamo di un bel posto da tuffi), poi si allarga e scorre placido nella valle. L’acqua è caldissima: il fiume è anche quello che arriva direttamente dalla zona dell’Old Faithful e dunque raccoglie parecchia acqua termale e dentro si sta veramente da Dio, un posto mitico, a saperlo prima potevamo andarci anche tutte le sere.

Per cena tornavamo sempre a West Yellowstone, dove sono presenti diversi ristoranti anche se alla fine siamo andati sempre nello stesso: un saloon carino specializzato ovviamente in carne alla griglia; se capitate in zona dovete assaggiare la tagliata di bisonte, è buonissima. Una delle sere poi ci capita una cosa che a raccontarla sembra finta. Premetto: in tutto il viaggio abbiamo incrociato un numero veramente esiguo di Italiani, giusto qualcuno a Moab e poco più, veramente da contare su una mano. La sera entro in questo ristorante e vado a chiedere un tavolo; il tipo mi informa che c’è un attimo da aspettare e mi chiede un nome da segnare sul blocco delle prenotazioni. Io butto un occhio sul foglio, l’ultimo nome è il mio: intendo prima di dirglielo! Giusto prima di me c’era un altro italiano, anche lui di nome Paolo. Sono rimasto un attimo attonito, poi gli ho detto “ ehmm…the same” avrà pensato che in Italia ci chiamiamo tutti Paolo. Poi, in effetti, sono arrivati e ci abbiamo fatto anche due chiacchiere… Stavano facendo un giro simile al nostro, anche loro partiti da Denver!

Giusto per rimanere in ambito culinario la mattina dopo riusciamo anche a fare colazione alla Running Bear Pancake House, sempre a West Yellowstone. Dico “riusciamo” perché già la mattina prima ci avevamo provato ma eravamo stati rimbalzati per la quantità di gente. Stamattina siamo prestissimo e contiamo di rifocillarci per bene in vista della giornata che si preannuncia lunga. Ordino un pancake a due piani (double stack), che è proprio il minimo da loro: sono grandi quanto il piatto e sopra mi mettono una secchiata di sciroppo di fragole, più fragole fresche, più una quantità assurda di panna montata. “Guarda che bravi, mi hanno messo anche una pallina di gelato alla vaniglia!” Ne prendo una bella cucchiaiata e ficco tutto in bocca: era burro! Una intera boccia di burro. Per mandare giù tutto ordino un frullato di mirtilli, metà del bicchierone è pieno di altra panna montata: 6.000 calorie prima ancora di iniziare la giornata.

Meglio se facciamo qualche altra camminata per smaltire, così andiamo nella zona di Canyon Village in cui non ci sono geyser ma solo delle incredibili cascate. E’ il nostro ultimo giorno nel parco e sembra che, per farci un ultimo regalo, ci voglia far vedere più animali selvaggi di quanti ne abbiamo visti in tutti gli altri giorni: i bisonti ci attraversano la strada in continuo; in una radura paradisiaca vediamo il solito assembramento di automobili e, una volta smontati, alcuni esemplari adulti di cervi Wapiti con dei palchi enormi intenti ad attraversare un corso d’acqua proprio a pochi metri da noi, e per finire anche un coyote.

La zona delle cascate è parimenti imponente: due salti piuttosto alti incassati tra le rocce di una gola angusta. Per vedere da vicino una delle due, facciamo una camminata denominata “Sentiero dello zio Tom”, più di 300 gradini fino ad un belvedere proprio sotto la cascata, giusto perché dovevamo fare poca fatica in queste vacanze! La cosa impressionante di queste cascate non è la altezza, che pure è notevole, ma piuttosto la portata d’acqua: veramente immensa e potente, un muro d’acqua bianca spumeggiante che stordisce con il suo rombo continuo amplificato dalle pareti della gola.

Usciamo dal parco verso est, in direzione di Cody, non prima di aver attraversato ancora una volta altre vallate in pieno stile western: praterie sterminate con il fiume che vi corre in mezzo tracciando curve sinuose, una valle incontaminata e piena di pace. Yellowstone ci rimane nel cuore come uno dei luoghi più incredibili che abbiamo mai visto, niente di quello che potevamo aver visto nelle foto o letto nelle guide potrebbe rendere l’idea di cosa sia dal vivo quel parco: uno sguardo privilegiato al cuore del pianeta terra.

Giungiamo a Cody verso sera e se devo essere sincero mi aspettavo un posto diverso. Questa che si autodefinisce “La capitale mondiale del Rodeo” alla fine ci è sembrata un po’ poco “western”, o perlomeno molto meno di altri posti che abbiamo attraversato. Il rodeo però è vero: lo fanno tutte le sere in un stadio enorme appena fuori città. Ma dato che eravamo già stati a Jackson qui non siamo tornati, e purtroppo se non si va al rodeo la sera è tutto un mezzo mortorio. Anche il centro storico si riduce proprio a due palazzi in croce, per fortuna almeno abbiamo trovato un ottimo posto per cenare in cui ho fatto conoscenza per la prima volta di una “baseball cut steak” : non avevo neppure idea di cosa fosse, ma era il piatto della casa quindi toccava provarla! Cercatela su google! Comunque era ottima!

Unica attrattiva veramente valida della città è il Buffalo Bill Center, un museo dedicato da una parte ai nativi americani e dall’altra, come dice il nome, alla vita di Buffalo Bill, tra le altre cose fondatore della città. Lo visitiamo la mattina appena aperto dopo una leggera indecisione per il costo piuttosto esorbitante del biglietto di ingresso . Inoltre il tipo alla cassa cerca a sua volta di dissuaderci, cercando di addebitarmi sulla carta di credito la irrilevante cifra di 50.000$ a biglietto! Boh, non so cosa ha combinato ma sull’SMS della banca questo c’era scritto “Transazione negata per 50.000$ Buffalo Bill Center”. Meglio se paghiamo cash va. Il museo comunque è superconsigliato, veramente bello ed istruttivo, entrambe le sezioni sono curatissime e ben strutturate, con ricostruzioni efficaci e tante informazioni. Avrebbe necessitato di molto più tempo, mentre oggi per noi purtroppo è un’altra di quelle giornate in cui abbiamo miglia su miglia da macinare.

Da qui infatti voliamo per più di 500 km ancora verso est in direzione di un altro monumento Nazionale, la Devil’s Tower, sita ancora in Wyoming ma proprio al confine con il South Dakota. In più, oltre alla distanza enorme da percorrere, credo di sbagliare anche un po’ strada; ovvero ho fatto sicuramente il tragitto più breve ma ben bene attraverso una zona montagnosa piuttosto impervia attraverso la Bighorn National Forest: secondo me era più rilassante fare il giro lungo, mah.

Fatto sta che dopo cinque/sei ore di auto arriviamo in zona Torre del Diavolo e, nomen omen, ad attenderci dopo tanto sole c’è un meteo che definire apocalittico è poco. Non so se avete presente la Devil’s Tower: è quella montagna surreale che si vede nel film “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Già la forma è inconcepibile, il nome una promessa, e noi vi arriviamo verso il tramonto mentre tutto intorno si sta addensando un temporale con nuvoloni nerissimi, vento che spazza la prateria e fulmini. Tutto sommato anche suggestivo, con il sole basso all’orizzonte e quindi sotto il livello dei nuvoloni carichi di pioggia, ma di certo non adatto a visitare alcunchè.

Infatti, non facciamo tempo a parcheggiare giusto sotto alla montagna, che si scatena un supertemporale che ci costringe a rimanere letteralmente chiusi in auto: non potevamo fare neppure i 10 metri che ci separavano dal centro visitatori, pena doversi cambiare da cima a fondo. Per fortuna dura abbastanza poco e poi smette di colpo lasciandoci modo di fare rapidamente il sentiero che aggira tutto il monte; anche molto bello e per nulla faticoso ci permette di valutare tutte le pareti della montagna piuttosto da vicino. Per me, che come sport arrampico, è un po’ una tortura limitarsi a guardare perché ho visto delle foto meravigliose delle vie di scalata che si possono trovare tra quei prismi perfetti e mi piacerebbe metterci le mani sopra, ma non sarà questo il caso. Inoltre il tempo non è per nulla ancora a posto e pur avendo addosso i kway sappiamo che, se tornasse a girare male, ora di tornare all’auto ci anneghiamo.

Mentre rientriamo verso il parcheggio ci accorgiamo di tutta una serie di nastri di stoffa appesi agli alberi proprio alla base delle montagna: sono le offerte votive lasciate dai discendenti dei nativi americani della zona. Essendo infatti un monte sacro per loro, nel mese di giugno sono molte le celebrazioni che vengono officiate in questo luogo ed anche la scalata del monte è vietata. Al riguardo anche dentro al centro visitatori è disegnato un bel murales che racconta la spiegazione mitologica dell’aspetto “rigato” di questa montagna. La leggenda indiana narra infatti che un giorno ci fossero sette bambine intente a raccogliere fiori e fossero state aggredite da un orso; il grande spirito allora fece innalzare verso il cielo l’area di terrendo in cui si trovavano ed i segni sulle pareti della montagna non siano altro che le unghiate lasciate dall’orso nel tentativo di raggiungerle. Sarà falso ma rende bene l’idea dell’aspetto che oggi vediamo.

Mentre risaliamo in macchina il sole fa capolino sotto le nuvole e illumina magnificamente la parete ovest del monte, con lo sfondo nero del cielo è una visione da cartolina, solo che possiamo godercela poco perché all’improvviso, dal nulla e senza una goccia di pioggia cominciano a cadere dal cielo dei meteoriti di ghiaccio assolutamente paurosi. All’impatto al suolo facevano un “fumetto”. Ricordo che avevo rifiutato la assicurazione facoltativa, quindi sono un pelo intimorito che uno di questi bolidi centri la nostra macchina e così scappiamo a gambe levate ( meglio a ruote levate, ahah) . Purtroppo la perturbazione andava esattamente nella nostra direzione e quindi dovevamo fare un pezzetto di strada, quando poi ricominciava a grandinare ci fermavamo, aspettavamo che andasse avanti e poi la inseguivamo, grandinava, ci fermavamo e via così: un po’ snervante.

Arriviamo in South Dakota che è già buio, in un paesino abbastanza inutile in mezzo al nulla, Spearfish, ma comodo per il giorno successivo quando vogliamo visitare il Monte Rushmore. In realtà avremmo voluto arrivare fino a Rapid City, che era sicuramente un posto più animato, ma dopo più di 600 km eravamo cotti. Unico aspetto positivo della serata, come al solito il cibo. Ceniamo infatti nella ennesima birreria, un tipico sport bar con milioni di televisori alle pareti per seguire tutti gli eventi sportivi della giornata e mangiamo un hamburger con anelli di cipolla fritti assolutamente validissimo. In più ero indeciso su che birra ordinare, e la cameriera mi informa “Se vuole le può provare prima”. Provare le birre? Ma cos’è, il paradiso?… e mi ha portato una serie di bicchierini di assaggio, che già finiti quelli ero mezzo ubriaco prima ancora di cominciare a cenare.

E siamo così giunti al nostro ultimo giorno di viaggio: è vero che il volo lo avremo solo domani , ma partendo la mattina presto, quindi questo lo considero l’ultimo giorno “vero”.

Facciamo finta di nulla e godiamoci questa ultima cavalcata automobilistica che passando per il Monte Rushmore ci condurrà poi a Cheyenne e quindi finalmente di nuovo a Denver, per chiudere in bellezza sono 720 km anche oggi!

Pronti via, partiamo decisi verso Rapid City, la strada è bella e sgombra di traffico, ci sono dei lavori in corso ma nessuno che lavora, miglia e miglia di limite di velocità ridotto, accidenti ci metto un secolo così, chissenefrega del limite. Un miglio dopo ovviamente: lampeggianti alle spalle, olè, fermati dalla stradale. Oltretutto erano miglia e miglia che leggevamo cartelli minacciosi “Multe doppie in caso di lavori stradali”, e quindi già temevo il salasso, contando anche la patente semiscaduta! Ma che sfiga, proprio l’ultimo giorno dopo quasi 5.000 km! L’agente va a fare i controlli nella sua auto, una Camaro spettacolare oltretutto, e vedo che comincia a compilare qualcosa. Ritorna con calma e mi porge un foglietto, cerco immediatamente l’ultima riga per vedere la cifra: “ It’s just a warning” mi dice. Eh!? Cioè non è una multa? No, solo un avviso per questa volta, ma andate piano. Si agente, si figuri agente, bacio le mani agente. Che culo.

Forse si era impietosito perché gli abbiamo detto che stavamo andando al Monte Rushmore e per degli ultrapatriottici come loro il fatto che degli Italiani sentano il desiderio di andare a vedere uno dei simboli del loro paese era un punto a favore. Ed in effetti sembra incredibile ma per loro è veramente una meta di pellegrinaggio: organizzano i pullman con le comitive munite di magliettine e cappellini tutti uguali e scritte tipo: “Club degli scacchi – visita Mount Rushmore 2013”, maniaci.

Devo dirlo? La prima visione che si ha delle teste dei presidenti, quella dal parcheggio, è un po’ una delusione. “Ehi, ma sono piccole! Credevo fossero molto più grandi!” Ma è un solo colpa della distanza, perché poi avvicinandosi ci si rende conto che in realtà sono decisamente mostruose come dimensione ed anche molto accurate! Certo poi, se si vede il progetto originale, in cui le statue dovevano essere dei mezzi busti (Lincoln anche a tuttotondo!) e non solo delle teste, rimane una sensazione di incompleto. Resta il fatto che hanno fatto un bel lavoro anche dal punto di vista della coreografia, con tutte le bandiere dei 52 stati , la passeggiata commemorativa, una cosa ben fatta e dentro si può anche mangiare una bella grigliata (anche quella è molto patriottica!).

Si riparte come dicevo verso Cheyenne, non prima di una brevissima deviazione per andare a vedere l’abbozzo della statua di Cavallo Pazzo. In pratica anche i discendenti dei pellerossa, per commemorare uno dei loro capi più carismatici, stanno scavando una montagna lì vicino per fare anche loro una statua monumentale. Il progetto è assolutamente ambizioso e una volta che ( se!) sarà completato, sarà una cosa micidiale. Ad oggi si vede solo un abbozzo sulla montagna ed al massimo può valere la pena la visita quando ci sono programmate le esplosioni con il tritolo che viene usato per sgrezzare il monte. Noi tiriamo dritti perché vogliamo arrivare prima possibile a Cheyenne.

Questa città in effetti non avrebbe nulla di particolarmente accattivante, se non in questi giorni dell’anno, in cui si svolgono i “Cheyenne Frontier Days”: una manifestazione western gigantesca che richiama gente da tutta America, oltre 200.000 visitatori ogni anno.

Già prima di arrivare a Cheyenne si capisce dalla mole di traffico la portata dell’evento, macchine ovunque. Noi arriviamo anche ad un orario abbastanza tranquillo, appena dopo pranzo, mentre il clou della giornata sarebbe ovviamente alla sera con il Rodeo. Ci sarebbe anche posto per parcheggiare l’auto giusto affianco all’ingresso della fiera, ma vogliono 10$, ci mancherebbe altro, posso parcheggiare poco distante in un quartiere residenziale, trovo una stradina e parcheggio comodissimo.

I Frontier Days sono una figata, all’ingresso ti danno anche una mappa con tutte le attrazioni: fulcro della fiera è lo stadio del Rodeo, che è gigantesco con tribune coperte a più anelli, tutto intorno un sacco di tendoni, bancarelle, stand di roba da mangiare. C’è anche un bel luna park, ma molto più curato dei nostri. Sulle guide c’è scritto che se riuscite a vedere in giro una persona senza cappello da cowboy, è un miracolo; in realtà qualcuno senza cappello l’ho visto, mentre non ho visto praticamente una ragazza senza shorts di jeans, direi che il cambio è andato bene!

Appena entrati andiamo a caccia di qualcosa da mettere sotto i denti e veniamo catturati dal richiamo fumoso di uno stand con delle griglie enormi dove ci mangiamo uno spiedone di dimensioni assurde. Vorremmo anche assaggiare i famosi “corn dog” (hot dog su uno spiedino impastellati e fritti), ma ci fanno troppa paura, ahah. All’improvviso purtroppo si scatena un mezzo diluvio, cavolo ci perseguita da ieri!, ma ne approfittiamo per imbucarci in un tendone dove un complesso suona musica country, neppure male. Dopo pochissimo, come era iniziato smette di piovere ed esce immediatamente un bel sole, il cielo lavato dalla pioggia torna immediatamente limpido, anzi più limpido di prima.

Una delle sezioni più belle è quella dei “campeggiatori d’epoca”; in pratica chiunque voglia può allestirsi il suo carro western, piazzarlo nella zona apposita e vivere per tutti i giorni della fiera come dei veri pionieri, cucinando nel fuoco da campo, dormendo nei carri e utilizzando solo attrezzatura di inizio secolo (il XIX° ovviamente) compresi vestiti e tutto il resto. Un’apposita giuria alla fine assegna i premi che poi possono essere fieramente esibiti gli anni successivi, alcuni accampamenti erano assolutamente perfetti.

Nella sezione dedicata agli indiani assistiamo a uno spettacolo con i loro balli tradizionali e poi, mentre la gente comincia a fluire copiosa per la serata noi purtroppo dobbiamo riprendere la strada verso casa, e verso Denver. Torniamo dunque a recuperare la macchina nel nostro vialetto. “Toh, una pubblicità sul parabrezza”. Macchè, una multa! Ma che cavolo di multa è? Qui hanno parcheggiato tutti. Incorrect parking – wrong way parking: 10$.

Maddai, la multa più stupida dell’universo! Multato perché ho parcheggiato con l’auto nel senso di marcia opposto! Mi informo come si pagano le multe: basta mettere i soldi dentro la multa stessa, che è fatta a forma di busta e buttarla in un cestone in comune, figo! Solo che arrivo in comune e ovviamente è chiuso, sono tutti al Rodeo! Chiedo informazioni ad un tipo lì di fronte all’ingresso, che stava palesemente broccolando una tipa in un pickup, e mi dice che mi apre lui la porta, era il custode del comune! Vado a contare i soldi che mi erano rimasti: ho solo 9$! Ho dovuto anche elemosinare, sempre al custode, il dollaro mancante: “In cambio ti do due euro” ,ma non li ha voluti, ed in effetti che cavolo se ne faceva di una monetina da due euro a Cheyenne.

Ormai è buio, ripartiamo in direzione Denver, gli ultimi 150 km. Ho fatto tutti i conteggi per arrivare con la benzina giusto all’autonoleggio senza dover rabboccare, visto che il pieno me lo aveva fatto pagare 70$ (e in tutto il viaggio non lo ho mai pagato più di 40$) non voglio lasciargli niente. Mano a mano che ci avviciniamo il computer di bordo cala, cala, cala troppo, forse ce la facciamo, ecco ora no, si si ce la facciamo! Arriviamo in tangenziale a Denver: coda in autostrada, fermi a passo d’uomo. Quando mancavano solo tipo 10 miglia di autonomia residua usciamo assolutamente alla cieca alla prima uscita, solo per cercare un distributore, che per fortuna troviamo quasi subito, dove mettiamo la bellezza di 5$ di benzina. Già mi vedevo ad elemosinare un passaggio in mezzo all’autostrada al buio, momenti di panico per risparmiare due spiccioli, dei furboni!

L’ultima cena americana siamo costretti a consumarla in un posto assurdo, il resto era tutto chiuso già alle 10 di sera: una specie di drive in dove uno parcheggia l’auto, ordina da un display e ti arriva direttamente la cameriera portando la comanda con i pattini! Peccato che è solo gelateria, così sono costretto a cenare con una megacoppa di gelato! Mestamente, un cucchiaino alla volta consumiamo la nostra cena nella tristezza, ripensando a tutte le meraviglie viste anche in questo viaggio.

La mattina dopo sbrighiamo rapidamente la restituzione della macchina, solo una lievissima apprensione per il controllo della carrozzeria, visto che uno dei blocchi di ghiaccio di Devil’s Tower aveva effettivamente fatto un discreto bozzo sul cofano, ma nessun problema, non l’hanno quasi guardata.

Ripartiamo in direzione dell’Italia, con Livia che questa volta tifava per un nuovo overbooking, visto che avevamo in programma uno scalo a New York e avrebbe gradito una sosta forzata di una notte anche lì, ma questa volta il volo fila liscio e rientriamo senza intoppi.

Come al solito, mi domando quanti di quelli che hanno iniziato a leggere questo racconto possano essere arrivati a queste ultime frasi. Spero che qualcuno ci sia e si sia magari divertito a leggere le nostre avventure. Se per caso volete anche qualche informazione più “tecnica” ( alloggi, ristoranti, logistica varia) chiedete pure anche su Facebook ( nome in firma), perché qui come da premessa avevo privilegiato il racconto e le sensazioni. Chi inoltre volesse approfondire la zona “classica” dell’ovest (Grand Canyon – Las Vegas – California) può anche leggere l’altro mio report di viaggio, quello della Route66 del 2010, che anche lì ci sono diversi spunti interessanti.

Per quanto ci riguarda, se ripenso a questo viaggio non posso che confermare le sensazioni già espresse tutte le volte che siamo stati negli States: è un paese meraviglioso in cui ogni singolo stato ha da offrire paradisi naturalistici di bellezza disarmante. Inoltre gli americani potranno avere un milione di difetti, ma di certo non quello di sfruttare male le loro risorse: ogni parco, ogni monumento nazionale, ogni museo è talmente ben organizzato, ben valorizzato, ben presentato che anche la visita è sempre un estremo piacere. I servizi che forniscono oltre ad essere di qualità eccelsa (a prezzi accettabilissimi) sono anche sempre attenti alle categorie meno avvantaggiate: basti pensare alla piena accessibilità di gran parte dei parchi anche ai diversamente abili (anche a Yellowstone per dire vedevamo girare anziani e disabili con le loro macchinine elettriche).

Per non parlare dei servizi assurdi e spessissimo gratuiti che forniscono anche alle famiglie con bambini piccoli, con tutti i programmi tipo “Piccoli Rangers”, i corsi e le escursioni loro dedicate in tutti i parchi: cose impensabili.

Se ora guardo la mappa degli Stati Uniti e provo a tracciare tutti i percorsi che abbiamo fatto, l’impressione è quella di aver visto tutto sommato un bel pezzo del paese; ma quando si è lì l’impressione è del tutto diversa: ogni singolo luogo, ogni singolo parco necessiterebbe di visite ripetute, di mesi di tempo prima di poter dire di averlo conosciuto. Gli spazi sono a tal punto sconfinati che rimane il dubbio di aver letto solo la copertina del libro; come chi visitasse l’Italia e passasse un giorno a Venezia, uno a Roma e uno a Firenze e pretendesse di aver visto tutto quello che c’è da vedere nel nostro paese.

Con questa riflessione vi saluto e ringrazio chi ha avuto la pazienza di leggere tutto; chi volesse inoltre vedere anche qualche foto (oltre alle poche che pubblico qui) può sempre venire a trovarmi su Facebook, alcune mi paiono anche ben riuscite.

Chiudo solo con un proverbio Indiano:

Per voi uomini bianchi il Paradiso è in cielo; per noi il Paradiso è la Terra.

Quando ci avete rubato la Terra ci avete rubato il Paradiso.

Paolo Mariuz 2013



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche