Mongolia o dell’Immensità
Nel viaggio abbiamo avuto modo più volte di venire a contatto con la gente comune, soprattutto i nomadi delle steppe, e sono sempre stati incontri pieni di spontaneità, di gioia di poter offrire qualcosa all’ospite che arriva, di lasciare un segno dell’incontro, fosse anche solo un sorriso o un cenno della mano.
Nei loro comportamenti si percepisce un senso di libertà, come se la vita nomade fosse un qualcosa che riguarda lo spirito più che la materialità del quotidiano. La vita non è certo agevole per i pastori che si spostano da una zona all’altra in cerca di buoni pascoli e questa durezza li segna invecchiando precocemente i loro volti, contorcendo le dita, lasciando vuoti nelle loro dentature, ma lascia intatta la brillantezza dei loro occhi neri vivi ed acuti che percorrono senza sosta l’orizzonte infinito di valli e montagne cui solo il cielo fa da argine. Grande il ruolo delle donne che paiono le colonne portanti delle famiglie; sulle loro spalle il peso della conduzione della non facile vita nella ‘ger’, la mungitura di capre e pecore, la preparazione della carne essiccata e dei formaggi, cibo essenziale per la sopravvivenza di tutta la famiglia durante i terribili inverni, oltre, naturalmente al carico di mettere al mondo e crescere un numero considerevole di figli. Eppure, nonostante questi impegni, sono sempre loro ad uscire per prime incontro al viaggiatore illuminando il volto con sorrisi di grande dolcezza e mostrando orgogliose i bambini che le circondano.
Da queste poche cose si può capire quanto forte sia l’impatto con la Mongolia per noi europei: non si tratta solo di vedere paesaggi o monasteri, qui si viene in contatto diretto con una forma di vita che non si discosta di molto da quella dei Mongoli che nel 1300 conquistarono l’impero più vasto della storia dell’umanità.
Ora vorrei parlare un po’ del viaggio vero e proprio. Viaggio che ha richiesto una lunga preparazione, sia per la difficoltà intrinseca di prenotare biglietti e definire itinerari, sia per poter arrivare preparati all’appuntamento con questo grande paese e non perdere gli aspetti più nascosti che esso offre generosamente al visitatore, che però deve avere la voglia di soffermarsi a guardare con attenzione ed umiltà, cercando di estrapolare particolari dall’immensità da cui è circondato.
Partiti il 25 luglio da Milano, via Zurigo, arriviamo nella mattinata del 26 a Pechino e di qui il mattino successivo alle 7,40 prendiamo il treno per Ulan Baatar. Per circa due ore si attraversa l’area di Pechino e la sua zona industriale poi appare in lontananza la Grande Muraglia; il suo avvicinamento è un crescendo di emozione, fino a raggiungere il massimo quando il treno passa attraverso ad essa e si può constatare dal basso la possanza di quest’ora ciclopica. Il viaggio prosegue attraverso zone minerarie cui fanno seguito estese coltivazioni di cereali, frutta e verdure; fra i campi le case dei contadini: raggruppate, unite dai muri di cinta, sono tutte ad un solo piano in mattoni crudi, hanno un piccolo cortile e sovente un orto.
Arriviamo alla frontiera cino-mongola in piena notte, qui il treno si ferma non solo per le formalità doganali e di polizia, ma anche per il cambio dei carrelli, in quanto in Mongolia vi è uno scartamento maggiore che non in Cina. Per effettuare quest’operazione i vagoni vengono alzati con dei martinetti pneumatici, i carrelli cinesi sono sfilati e sostituiti da quelli mongoli. L’operazione prende circa cinque ore, ripartiamo perciò verso le quattro del mattino accompagnati da una allegra marcetta diffusa dagli altoparlanti della stazione.
Il treno procede lento al di là del vetro c’è il nero nulla della notte. Ad un certo momento l’aria si fa irrespirabile per un’enorme quantità di polvere giallognola che permea ogni cosa: è la sabbia del Gobi.
Infatti alle prime luci dell’alba si svela un paesaggio di ondulazioni sabbiose senza fine, il sole colora di rosa il terreno, compaiono dei cammelli, dei cavalli qualche capra. Dopo circa tre ore incontriamo le prime alture steppose che a poco a poco si trasformano in vere montagne dalle cime ricoperte di pinete; il paesaggio si fa sempre più ampio e bello fino ad Ulan Baatar dove arriviamo verso le tre del pomeriggio.
La capitale ci viene incontro con i suoi sobborghi composti da una moltitudine di steccati di legno che racchiudono una casetta ed una ger ed è pittoresco il contrasto con i grattaceli e gli edifici ministeriali che occupano il centro della città. Questo già ci può dare un’idea di quali sorprese ci aspettano nei giorni a venire.
Scendiamo alla stazione di Ulan Baatar sotto un sole caldissimo e, con qualche difficoltà, troviamo la nostra interprete che ci accompagna all’hotel per la notte. La partenza è fissata per il mattino successivo alle dieci.
È il 29 luglio siamo pronti ed impazienti di partire: ecco il fuoristrada Lada 4×4 grigio ferro con piccoli finestrini, rigidi sedili ed altissimi scalini che per venti giorni sarà il nostro servo-padrone, al cui funzionamento è legato il buon esito del viaggio e non solo. Alla guida Gambat una persona della cui eccezionalità ci renderemo conto man mano che il viaggio proseguirà.
Caricati bagagli e persone, facciamo un giro per gli ultimi acquisti di scorte alimentari cui provvede la nostra cuoca Oiuna e poi via lanciatissimi per i circa 130 chilometri di strada asfaltata che portano fuori dalla capitale in direzione nord-ovest.
Passato il ponte che scavalca il fiume Tuul giriamo a destra su una pista, non sappiamo che per oltre tremila chilometri non vedremo più un centimetro quadrato di bitume! Attraversiamo pianure e colline erbose su cui pascolano a migliaia pecore, capre, cavalli, falchi maestosi si alzano in volo dal ciglio della pista per posarsi poco lontano, decine di gru passeggiano eleganti nelle zone più umide mentre l’aria profuma di camomilla e cavalieri al galoppo corrono nelle immense distese verdi.
Verso il tramonto arriviamo su un crinale dove vi è un grande ovoo: da qui il panorama, enfatizzato dai colori del tramonto, dal silenzio e dal fruscio del vento, è grandioso.
Scendiamo e risaliamo decine di vallate, difficile trovare la giusta deviazione per il lago Ogi (Ogi Nuur) dove pernotteremo. Verso le nove alcuni nomadi ci indicano una traccia fra l’erba, la seguiamo per sette chilometri salendo i fianchi di una collina, quando spoggiamo ai nostri occhi appare l’azzurro profondo del lago. La bellezza e la grandiosità di questo posto ci fanno dimenticare i faticosi quattrocentocinquanta chilometri della tappa di oggi: ora siamo qui non più raggiungibili dal telefono, con il generatore di corrente che viene spento alle dieci, dormiremo per la prima volta in una ger e per la prima volta in cielo notturno farà calare su di noi tutta la sua magnificenza. La giornata successiva è dedicata alla visita dei dintorni del lago: al mattino ci allontaniamo di circa trenta chilometri per andare in un sito archeologico dove sono state scoperte rovine della città degli ultimi capi turchi (735 dC) che erano originariamente soldati di ventura diventati poi signorotti ed il cui potere fu distrutto dagli Unni. Vi è una stele con iscrizioni in mongolo antico, sanscrito e runico e soprattutto resti di statue e steli di grande bellezza ed intriga molto il vedere qui forme e stili che siamo soliti collegare con l’Asia Minore.
Il percorso verso le rovine è di estrema bellezza: viaggiamo su di un crinale, nella valle in basso un fiume snoda le sue anse in una pianura verde su cui pascolano enormi mandrie bianche e nere, alcune scendono i fianchi delle colline e vanno verso l’acqua, tale è la purezza dell’aria ed il silenzio che, pur dalla notevole distanza cui ci troviamo, sentiamo distintamente i belati ed il rumore degli zoccoli. Presso una ger alcuni bambini giocano ed una bimba corre nel vento con il suo vestito rosa cavalcando a pelo un puledro nero.
Nel tardo pomeriggio andiamo in riva al lago per osservare gli uccelli che qui passano l’estate, ma un vento maligno non ci permette di vedere molto; pazienza, il mattino seguente una decina di gru ci ripagherà alzandosi in volo proprio davanti al muso del nostro furgone.
Raggiungiamo in mattinata l’antica capitale Karakorin, che non esiste più: sulle sue rovine nel 1500 è stato costruito il monastero di Erdene Zuu, cinto da mura punteggiate da 108 stupa, conserva alcuni edifici di discreto valore e belle tanca all’interno. Il suo fascino è dovuto alla particolare collocazione al centro di una valle erbosa circondata da alture tondeggianti dove si scorgono isolate ger.
Molto più raccolto, ma più ricco il monastero di Shan a poche decine di chilometri dal precedente, qui ci sono parecchi monaci ed all’esterno un gruppo di donne e bambini improvvisa un piccolo mercato delle pulci.
Valli e montagne si susseguono senza soluzione di continuità, il viaggio attraverso ad esse assomiglia sempre più ad una navigazione, la linea dell’orizzonte è un profilo ondulato verde chiuso dall’azzurro profondo del cielo.
Dopo centocinquanta chilometri di strada piantiamo per la prima volta la tenda in una radura verde su cui pascolano tranquilli yak.
Pochi minuti dopo il nostro arrivo da dietro le alture più vicine appaiono due ragazzini a cavallo, si fermano curiosi presso il nostro accampamento: non sono che l’avanguardia di uno stormo di piccolini che arrivano di corsa e si fermano a rispettosa distanza guardandoci timidamente pronti a sorridere ed a mettersi sull’attenti quando vedono le nostre macchine fotografiche. Diamo loro qualche piccolo regalo e loro se ne vanno contenti. Però dopo poco ritornano portandoci un bricco di latte di cavalla: impariamo così la tradizione dei nomadi di contraccambiare sempre un regalo.
La prima notte in completa solitudine passa bene, dormiamo in un silenzio profondissimo ed al mattino ci svegliano i rumori degli animali che riprendono il loro pascolare.
Siamo al 1° agosto e riprendiamo la strada verso Bayangongol. Per i primi ottanta chilometri continuiamo a viaggiare in valli verdi e dolcissime, poi il paesaggio diventa più pianeggiante ed arido fino alla città, dove dovremmo cenare in ristorante, ma per mancanza di energia elettrica la cena salta e così pure il pernottamento presso una famiglia amica di Nyamaa, piantiamo pertanto il campo a poca distanza dalla città.
Il mattino seguente passiamo parecchie ore andando a fare provviste poichè nei giorni seguenti non avremo possibilità di acquistare nulla, né di rifornirci di acqua. Il mercato si rivela colorato ed animato, molte le persone che indossano il tradizione spolverino di seta trapuntata fermato in vita da una fusciacca gialla o arancio. Dopo pranzo viaggiamo in un’immensa pianura attraversata dal letto sabbioso di un fiume in secca, nella parte più verdeggiate numerose sono le ger circondate da armenti.
Ad un pozzo ci riforniamo di acqua per lavarci, poi saliamo un’altra catena di montagne bluastre e scendiamo in una pianura stepposa che si estende a perdita d’occhio.
Verso il tramonto rimettiamo in piedi le nostre tende e vediamo il sole calare accompagnato da una dolcissima canzone che Undra ed Oiuna cantano per noi.
Un’alba spettacolare inizia una giornata che ci regalerà dei momenti veramente belli.
Per un centinaio di chilometri viaggiamo attraverso formazioni rocciose dalle forme dolcemente arrotondate, i sali minerali che le compongono, messi a nudo dall’azione della pioggia e del vento, svelano colori purissimi.
Il nostro Gambat decide di fermarsi presso una ger per richiedere informazioni sulla pista e veniamo tutti invitati ad entrare a fare visita alla famiglia che vi abita. Per la prima volta entriamo in una di queste particolari abitazioni circolari di feltro e legno che da secoli sono la tradizionale e mai abbandonata casa dei mongoli. Gli uomini sono invitati al posto d’onore sul fondo mentre le donne ed i bambini si siedono ai lati. Vengono scambiati saluti e complimenti, informazioni sulla nostra vita, molto li incuriosisce conoscere l’età di ognuno; ci offrono the salato con latte di cavalla, formaggio secco e tabacco agli uomini, contraccambiamo con un piccolo regalo per ogni membro della famiglia. Notevole è l’ordine e la pulizia che regna nella tenda dove accanto al fuso per filare la lana di cammello c’è la radio ricetrasmittente indispensabile per i contatti con la comunità, c’è il vecchio fucile montato su un treppiede per la caccia al lupo, ci sono i tradizionali mobili laccati arancio con bellissimi disegni variopinti come quelli che arricchiscono la porta d’ingresso.
Poi il padre e la madre indossano i costumi tradizionali per farsi fotografare con noi davanti alla loro ger e ci si lascia con un sorriso e la promessa di non dimenticarli e di non essere dimenticati. Nella lunga notte del terribile inverno attorno al focolare forse si riparlerà di quel giorno luminoso d’estate quando quattro bianchi europei che arrivavano dallo stesso paese di Marco Polo sono stati ospiti un po’ timidi e maldestri nel seguire il complicato galateo nomade.
Ci aspetta ora una pianura ricoperta di cespuglietti grigiastri che pare non aver mai fine. Ed in effetti viaggiamo attraverso ad essa per oltre cinquanta chilometri, cui ne seguiranno quaranta il giorno seguente, prima di arrivare all’oasi di Bayantoroi che è un insediamento agricolo risalente agli anni cinquanta. Qui vi è qualche coltivazione di cereali ed un piccolo villaggio di agricoltori, vi è anche la sede del parco naturale di Eej Khairkhan il punto più ad occidente del nostro itinerario nella regione del Gobi Altai, la porta alla grande catena dei Monti Altai.
Arriviamo nella tarda mattinata presso la Montagna Madre, una grande formazione rocciosa che sorge isolata in mezzo alla sterminata pianura. Gli agenti atmosferici hanno modellato le rocce in forme fantastiche, moltissime le cavità dove, in anni meno avari di pioggia di questo, si formano pozze di acqua purissima.
È un luogo magico di grandissima suggestione, foss’anche solo per il serico suono del vento fra le rocce ed il senso totale d’isolamento che si percepisce. In una cavità della roccia c’è un ovoo con molti segni di venerazione. È da considerare con attenzione la devozione di questo popolo verso il cielo e la terra in una forma di religione sciamanica.
Piantiamo le nostre tende all’interno di una capanna di legno che c’è in fondo alla valle e passiamo il pomeriggio aggirandoci fra queste rocce piene di buchi e di protuberanze che invitano la fantasia a cercare delle somiglianze con animali ed umani. Per tornare alla zona pianeggiante già attraversata il mattino precedente passiamo attraverso un boschetto di tamerici in fiore, poi andiamo a fare rifornimento di carburante nel paesino di Bayantoroi e qui il furgone non vuole saperne di ripartire. Gambat incomincia ad armeggiare ed estraendo da sotto i sedili ogni sorta di attrezzi e pezzi di ricambio, senza mai perdere la calma, smonta e rimonta con scarso successo. Alla fine controlla la pompa della benzina e lì trova il guasto. Da un ripostiglio tira fuori una pompa nuova ed in breve effettua il cambio, non vuole però ripartire senza prima aver riparato il pezzo rotto. Dopo poco su di un carretto trainato da un trattore arriva una saldatrice e la riparazione viene effettuata seduta stante. Possiamo ripartire. Per tutto il pomeriggio attraversiamo una piana immensa coperta di cespuglietti che si fanno via via più radi fino a lasciare il posto ad una distesa sassosa sui cui si stagliano le sagome di cammelli solitari che vagano in quest’arida immensità in cerca di qualche filo d’erba. Anche le ger sono quasi del tutto scomparse. Piantiamo le tende per la notte in questo desolato vuoto, le stelle verranno a rendere sontuosa la notte. 6 agosto: questo è forse il giorno in cui siamo più isolati da tutto, infatti stiamo viaggiando ormai da due giorni in ambiente desertico in cui le ger dei nomadi sono quasi scomparse come pure le mandrie e gli armenti, qui regnano i cammelli che brucano invisibili fili d’erba e si dirigono verso improbabili pozzi.
La pista, sempre difficile da trovare, si snoda fra alture tondeggianti dagli splendidi colori, per due volte saliamo su dei plateau di bellissima conformazione rocciosa. La durezza, anche visiva, del granito contrasta elegante con la morbidezza delle colline di minerali dilavati ed l’inoltrarsi fra le gole di queste montagne è procedere verso l’ignoto, sempre aspettando, sicuri di trovarlo, un panorama nuovo, ampio, bellissimo che ripagherà di tutti gli scossoni ed i disagi della terribile pista sui cui il nostro furgone sobbalza e s’impenna come un cavallo che non vuole essere domato.
In mattinata passiamo nel piccolo paese di Shine-Jinst e nel tardo pomeriggio a Bayalig.
Sostituita al volo una cinghia dall’abilissimo Gambat, che ad ogni difficoltà superata s’illumina di un gran sorriso e ci ordina “n’diamo”, viaggiamo fin quasi al tramonto per arrivare alle soglie del South Gobi. Campeggiamo su una piatta distesa sassosa che non ha confini.
Mentre stiamo attendendo la cena di Oiuna, nella luce del crepuscolo appare una luce ed in breve dal nulla si concretizza in una motocicletta con su due pastori vestiti dei loro pittoreschi costumi. Si fermano ed cominciano a conversare con Gambat, Oiuna e Undra, vengono loro offerti the e biscotti, con l’autista consultano la cartina, poi rivolgono a noi la lor attenzione: vogliono sapere da dove veniamo, quanti anni abbiamo, guardano incuriositi le nostre tende e ridendo dicono che sono proprio molto piccole, poi c’invitano nella loro ger. Dopo cena partiamo con i due nomadi che ci indicano la strada. Dopo sei chilometri arriviamo: in due ger vivono una decina di persone, fuori ci sono quindici cammelli unica loro fonte di reddito; la ger è priva di elettricità, siamo invitati ad entrare e la padrona di casa accende la candela, che si percepisce essere un bene prezioso, ci offre the al latte e sale, vodka di cammello e l’immancabile formaggio acido. Grande attrattiva è la telecamera che rimanda le immagini dei nostri ospiti appena registrate. Stiamo per qualche tempo seduti a conversare poi torniamo alle nostre minuscole igloo, ripasseremo da questi nomadi il mattino per farci indicare la pista giusta per il nostro procedere verso le Konkorin Els. Il primo tratto di percorso è tra boscaglie di Saxaò, poi solo più erba stenta costellata da rocce laviche e basaltiche. Dopo circa centosettanta chilometri arriviamo in vista di questo lunghissimo cordone di dune e ci fermiamo in un campo turistico.
Abbiamo fatto sette notti filate di campeggio libero, ma non è che ci sia una gran differenza, poiché qui si dorme in ger, pertanto sempre di tenda si tratta, i letti sono un asse coperto da un sottile materasso, i pasti del ristorante non sono all’altezza di quelli più ruspanti, ma più sostanziosi di Oiuna, unica differenza nel campo ci sono i servizi.
Le dune di Konkorin sono veramente maestose, lunghe circa cento chilometri e larghe venti, raggiungono l’altezza di oltre duecento metri e, sorgendo in una pianura estesissima si possono vedere per tutta la loro lunghezza. Con il mutare della luce solare i loro contorni netti e morbidi assumono aspetti e colori continuamente diversi. Una pista costeggia il lato lungo dell’ammasso sabbioso ed il percorso è di grande spettacolarità, alla fine si arriva ad un bosco di Saxaò, dove, si dice, vivano parecchi lupi; noi abbiamo visto molte gazzelle eleganti e timidi abitanti di ambienti aridi come questo. Il mattino seguente un gruppo di parecchie decine attraverserà la pista che percorriamo verso la valle di Yol o delle Aquile.
Per quasi l’intera giornata viaggiamo in una pianura desolata, poi la strada comincia a salire ed ad incunearsi fra montagne sempre più aspre. Ci lasciamo alle spalle la steppa desertica ed in breve siamo in un ambiente alpino, con montagne di granito grigio, prati , cespugli tipici dell’alta montagna; il passaggio è repentino e stupefacente. Lasciato il furgone prendiamo un sentiero e costeggiando un torrentello andiamo verso la gola vera e propria. Sulle pareti di roccia strapiombante incominciamo a vedere un’aquila, poi un’altra e poi tante che roteano altissime e regali: è uno spettacolo bello ed inusuale.
L’anello che costituisce in nostro itinerario si sta chiudendo, andiamo verso Bayanzag la cosiddetta falesia dei dinosauri, un bacino di sabbie rosse erose dal vento e dalle piogge, dove circa quarant’anni fa sono stati rinvenuti parecchi scheletri interi e uova di dinosauro che ora si trovano al Museo di Scienze Naturali di Ulan Baatar.
La pianura ed il caldo provocano vastissimi ‘miraggi’, pare cioè di vedere acqua all’orizzonte, mentre non vi è altro che terra e sassi. Saliamo verso nord per tre giorni riattraversando ambienti simili a quelli che avevamo percorso all’andata e cioè deserto, steppa predesertica, steppa erbosa fino ad arrivare ad Ulan Baatar che è in una conca circondata da montagne di discreta altezza sui cui fianchi ci sono boschi e pinete: sono i primi alberi che vediamo dopo tremila chilometri.
Staremo un giorno e mezzo nella capitale mongola per visitarne i punti di maggiore interesse: il monastero di Gandam, il museo di Scienze naturali, il museo Choin, compriamo qualche piccolo ricordo in un centro commerciale, qualche maglia di cachemire nella fabbrica dove si effettua il ciclo completo di lavorazione di questa pregiata lana.
Nel tardo pomeriggio assistiamo ad un bello spettacolo di canzoni, musiche, danze e contorsionismo.Interessanti soprattutto i canti che sono di tre tipi: canzoni brevi in cui le note vengono gorgheggiate, canzoni lunghe dove la modulazione della voce fa in modo che le note vengano trattenute e allungate e le canzoni gutturali che riproducono le voci della natura, dal sibilo del vento al gorgheggiare degli uccelli al muggito di grandi animali, è qualcosa di molto particolare ed affascinante. Tutti gli artisti dimostrano grande professionalità, bellissime le voci sia maschili che femminili e grande dignità di comportamento, infatti, pur trattandosi di uno spettacolo per turisti, non c’è volgarità o pressappochismo.
Per cena siamo andati a casa di Oiuna che ci ha presentato il marito e le sue due bellissime figlie, è poi arrivato il fratello che è direttore di orchestra sinfonica ed abbiamo parlato delle musiche dei grandi compositori russi (e lui ha intonato alcune splendide battute dal Principe Igor di Rimskhy Korsacov) per ultima è arrivata Nyamaa vivace e decisa che ci ha consegnato i biglietti del treno Ulan Baatar – Beijing. E sì, domani si parte, la grande avventura mongola sta per finire! Il treno si stacca puntualissimo dal marciapiede e, nel crepuscolo che avanza, comincia il lungo addio a questo magnifico, lontano, sconosciuto paese che per venti giorni ci ha fatto vivere come sospesi nel tempo poiché abbiamo attraversato paesaggi, incontrato popolazioni, visto gesti che nulla avevano di diverso da quelli di millenni fa.
Appendice cinese Persa la Mongolia nel buio della notte, ripercorriamo il tragitto in treno dell’andata fino a Jining, la città cinese capitale dell’Inner Mongolia, qui cambiamo treno e viaggiamo tutta la notte verso Pechino dove arriviamo al mattino presto. Riusciamo ad uscire dalla grande stazione nereggiante di folla ed a guadagnare l’hotel.
Nel pomeriggio in risciò attraverso un reticolo di strade piene di dente, negozi, ristoranti e banchetti andiamo a Tien Ammen: anche qui tanta gente che quasi rendono più piccola ed anche più umana l’immensa piazza. 17 agosto aereo per l’Europa.
Dal 25 luglio al 17 agosto 2002 Percorso: Milano – Zurich – Beijing – Ulan Baatar Ulaan Baatar – lago Ogii Lago Ogii – Kharkhorin Erdene Zuu – Bayankhongor Bayankhongor- Eej Khairkhan – Khongoryn gol Khongoryn gol – valle Yol – valle delle aquile Valle Yol – Bayan zag – Erdene Dalai – Sangiin Dalai – Ulan Baatar Ulan Baatar – Jining – Beijing – Zurich – Milano In treno km 3.700 circa In furgone km. 3.140 di cui oltre 3.000 di pista o semplici tracce sul terreno