Zanzibar, l’isola dei bambini

Una settimana di fuga nella perla dell'oceano Indiano, tra spiagge bianche, natura lussureggiante e un popolo da scoprire. E un bagaglio di emozioni da conservare.
Scritto da: madeinflorence
zanzibar, l'isola dei bambini
Partenza il: 21/02/2012
Ritorno il: 29/02/2012
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
Wageni wakaribishwa, Zanzibar yetu Hakuna matata

Zanzibar nchi nzuri, hakuna matata.

[Stranieri siete i benvenuti, a Zanzibar non c’è alcun problema

Zanzibar è un paese bellissimo, non c’è alcun problema]

Queste poche parole riassumono perfettamente cos’è Zanzibar. Riprese da una famosa canzone in lingua swahili, Jambo Jambo, dal ritmo orecchiabile e coinvolgente, costituiscono la colonna sonora di ogni vacanza in questa splendida isola.

Fatta questa premessa, è quasi superfluo sottolineare quanto abbia positivamente impressionato questo gioiello incastonato nell’Oceano Indiano, che non ha deluso le aspettative e ha confermato le ottime recensioni di cui gode il paese a livello turistico.

Il lungo e nevoso inverno italico invoglia ad una settimana di ferie al caldo… e quale migliore meta di Zanzibar, con la sua natura, la sua storia e il suo splendido mare. Non essendo i prototipi del “turista da villaggio” alla ricerca della sequenza giornaliera colazione-sdraio-pranzo-lettino-cena, la possibilità di visitare l’isola con un ventaglio di escursioni, alternate a momenti di relax sulla spiaggia, ha rappresentato un invito irrinunciabile.

Il fenomeno delle maree, vera e propria peculiarità del luogo, non ha pesato nella scelta del villaggio. Incuriositi e niente affatto intimoriti dall’effetto delle maree, abbiamo optato più per necessità che per scelta per il My blue Boutique a Nungwi, all’estremità nord, dove la conformazione della costa rende tale fenomeno meno energico rispetto al versante orientale. A conti fatti, devo ammettere che tale scelta si è rivelata vincente. L’alternanza ciclica di bassa ed alta marea è infatti comunque ben visibile ma non tale da pregiudicare la balneazione: un giusto compromesso tra chi non desidera percorrere centinaia di metri per bagnarsi i piedi e chi vuole comunque godersi questo affascinante fenomeno naturale.

Il My Blue è un ottimo resort che offre servizi di qualità. Le camere standard sono a piano terra e si affacciano sullo splendido giardino, meticolosamente curato; le camere deluxe sono invece al primo piano e hanno un piccolo terrazzo. Punto di forza del complesso è la splendida sala dove vengono serviti i pasti: un buffet vario e assai apprezzato è a disposizione a colazione, pranzo e cena; eccellenti l’angolo della frutta fresca, dove vengono tagliati sul momento ananas, manghi, papaie, cocomeri e frutti della passione e il barbecue su cui si alternano carni o pesci a seconda del giorno. Il menù include solitamente sia piatti internazionali che locali; durante la settimana non mancano una cena a base di ricette zanzibarine e una dedicata alla cucina italiana.

La spiaggia attrezzata con lettini ed ombrelloni è sempre sorvegliata dal personale della struttura e non manca mai l’assistenza; è esigua però rispetto al numero di ospiti. Se l’intenzione è quella di dormire fino a tardi, il rischio è quello di non trovare posto facilmente.

L’animazione è soft, mai invadente. Il venerdì e il sabato sera sono organizzate due serate a base di musica, cocktail e divertimento in altrettanti locali sulla spiaggia. Il primo, il Waikiki, non merita considerati i 45 minuti di auto che ci vogliono per raggiungere la località di Pwani Mchangani; il Kendwa Rocks invece, a poche centinaia di metri dal My Blue, è una gradevole soluzione per ballare a piedi nudi sulla sabbia.

Di tutt’altro tenore l’escursione pomeridiana a piedi al vicino villaggio di Nungwi: un forte impatto con la realtà che circonda gli ovattati villaggi turistici. Edifici fatiscenti, piccole bancarelle con frutta e canna da zucchero, alici essiccate al sole su luride stuoie stese in terra, tanta sporcizia, polvere e povertà. Toccante la visita alla scuola, dove centinaia di bambini, con le loro divise bianche e blu, si accalcano nelle aule ben disposti a distrarsi per battere il cinque al turista di turno. Quaderni, matite e penne portati dall’Italia sembrano non bastare mai: i piccoli alunni scalpitano per accaparrarsi una semplice penna e si entusiasmano per il dono ricevuto. I loro grandi occhi scuri commuovono e gli enormi sorrisi conquistano. Qui non si sceglie, ma si apprezza ciò che si ha o ciò che si ha la fortuna di ricevere. La frequenza della scuola pubblica è essa stessa un privilegio. Ogni villaggio, anche il più piccolo, ha una scuola ma le famiglie che non possono permettersi di comprare la divisa ai propri figli non possono mandarli a scuola.

Ad ogni ora del giorno si vedono bambini che giocano e corrono nei presi delle scuole: il loro numero è così cospicuo che le lezioni vengono svolte in due turni, uno mattutino e uno pomeridiano.

La simpatia coinvolgente di Gianduiotto, uno dei beach boys che staziona quotidianamente sulla spiaggia antistante il My Blue ci ha convinto ad affidarci a lui e al gruppo capitanato da Suleman, nome d’arte Nino D’Angelo, per le escursioni in tutta l’isola. Sono ragazzi del posto che, grazie al turismo italiano, sono riusciti a trovare una occupazione stabile e fruttuosa e sfuggire così alla dilagante disoccupazione che investe trasversalmente tutto il sistema sociale. Offrono escursioni ben organizzate ed affidabili, identiche nei programmi a quelle proposte dal resort ma a prezzi leggermente più bassi. Sono dotati di permessi appositi, rilasciati dal governo al termine di un corso di studio specifico. Fare le escursioni con chi è nato e cresciuto nell’isola ha un sapore autentico e genuino. Considerando inoltre il caos che regna lungo le strade di Zanzibar e la spavalderia degli autisti al volante, non è molto prudente aggirarsi da soli.

I beach boys parlano perfettamente italiano, spesso anche il dialetto (Gianduiotto è “specializzato” nel toscano), sono informati su artisti, politici e cantanti italiani e su quanto accade nel nostro paese. Ogni volta che ti vedono è un’occasione buona per salutarti e parlarti, orgogliosi di chi apprende qualche vocabolo in lingua swahili: Jambo, hakuna matata, asante sana, poa, pole pole, chakula chema sono le parole più ricorrenti che entrano inevitabilmente a far parte del “vocabolario del turista”.

Ho trascorso tante ore a discutere in riva al mare con loro, traendone una interessante opportunità di confronto. Da un lato il nostro mondo occidentalizzato, liberale e convulso dall’altro la loro religione islamica moderata, la difficile convivenza con la Tanzania e l’insito concetto di vivere giorno per giorno.

Una realtà a tratti parallela ed a tratti discordante da quella dei beach boys, è rappresentata dai Masai, ragazzi provenienti dalla Tanzania che lasciano il continente per cercare fortuna e soldi a Zanzibar durante la stagione turistica. Alcuni trovano impiego come sorveglianti del villaggio: ben presto ci si abitua alla loro presenza discreta e silenziosa, quasi in contrasto con la vivacità del rosso acceso delle vesti che indossano. Gli altri invece, la maggior parte, si arrangiano vendendo collane, quadri, braccialetti e manufatti di legno. Una fitta serie di bancarelle, o come le chiamano loro “uffici”, fiancheggiano l’esterno del villaggio. Simpatici cartelli in italiano invitano il turista a fare affari in quello che è il regno della contrattazione. Se volete acquistare, armatevi di pazienza ed intavolate una trattativa da veri mercanti. All’istante impareranno il vostro nome, vi inviteranno a dare “ solo un’occhiata” alla loro mercanzia, anche se “oggi tanto non si compra”. Difficile non fare amicizia con alcuni di loro: Giacomino, il masai in miniatura, il giovane Holly, punto di forza delle partite a calcio Tanzania vs Italia giocate sulla spiaggia, Peppino di Capri che passeggia con la scimmietta Shakira, Carlo e le sue immancabili treccine. Prima di tutto abili venditori certo, ma anche simpatici personaggi che non negano mai un sorriso. Non mancano i momenti in cui le loro richieste di acquisto diventano pressanti: essenziale essere sinceri, se non si è interessati meglio farlo presente piuttosto che posticipare un “improbabile acquisto”. Ognuno di loro incarna una bizzarra fusione tra elementi tradizionali masai ed influenze moderne: lobi delle orecchie perforati, l’ampia shuka a scacchi, gli spessi bracciali di perline e i sandali ricavati da copertoni di pneumatici sono accostati a occhiali da sole alla moda, tracolla trendy e cellulare con la suoneria di Fabri Fibra… Se vedete Peppino di Capri con indosso una maglietta eclettica e un po’ trash sappiate che è “colpa” mia: quello che era un ricordo di una vacanza a Ibiza, ormai di qualche estate fa, è stata barattata con un paio di foto con Shakira (la scimmia e non la cantante purtroppo!).

Molti di questi ragazzi Masai sono anche i protagonisti di uno spettacolo corale di danze e canti tradizionali, organizzato dal villaggio all’interno del programma settimanale di intrattenimento serale che prevede quattro interessanti serate folkloristiche.

La nostra settimana è volata via alternando un giorno dedicato alle escursioni ad uno tutto tintarella e snorkeling. Una giornata intera richiede il cosiddetto Blue Safari: sospinti dal vento si solca un mare cristallino a bordo dei dhow, tipiche imbarcazione a vela, in direzione dell’isola che non c’è, un piccolo atollo di sabbia bianca che emerge e scompare con l’alternanza delle maree. Nei pressi dell’isola c’è un tratto di barriera corallina nella quale la flora, disposta in una florida composizione artistica, supera la parata scenografica composta da stelle marine, ricci e pesci di ogni genere. Il pranzo, a base di pesce e crostacei, viene servito su un’isola adiacente celebre per un maestoso baobab caduto, ma tuttora in vita. Con grande curiosità assistiamo alla trattativa per la vendita del pesce appena pescato (tra cui esemplari di murene e pesci palla!), condotta a suon di grida e animata da una serrata gesticolazione, tra un pescatore e dei locali.

Da non perdere l’escursione di mezza giornata a Stone town e alle piantagioni di spezie. Coltivate nell’interno dell’isola, le spezie sono una delle ricchezze di Zanzibar: zenzero, cardamomo, pepe, cannella, chiodi di garofano, zafferano, noce moscata e vaniglia, costituiscono un antico retaggio della dominazione omanita e una risorsa fondamentale per l’economia del paese. La visita alla piantagione si conclude con un assaggio di cocco fresco, squisito, e con dei piccoli doni artigianali fatti con foglie di palma intrecciate.

Stone town è la città vecchia della capitale, Zanzibar city, spesso conosciuta solo per aver dato i natali a Freddie Mercury, leader dei Queen, figlio rinnegato da questa terra che ne conserva solo una scialba memoria.

Frutto storico unico, derivato dalla mescolanza di stili e dalla secolare armonizzazione tra cultura bantu, araba, persiana, indiana ed europea Stone town si ama o si odia. Fin da subito. La sensazione che lascia addosso non è tanto quella di aver visitato con troppa fretta i luoghi di interesse (il Palazzo delle meraviglie, l’area dell’antico mercato degli schiavi, i bagni persiani) che hanno contribuito ad annoverare la città tra i siti patrimonio dell’umanità, ma piuttosto di non aver “vissuto” a sufficienza la vera anima della città. Assaporando a pieno il contrasto tra i colori vividi delle vesti dei suoi abitanti e lo sfondo bianco dei palazzi, le anguste strade del centro, gli affollati bazar, gli splendidi portoni lignei intarsiati, gli intensi odori del mercato, l’aria polverosa, la concentrazione dei giocatori di domino in piazza, il diffuso senso di decadenza e le crude immagini di povertà. Il dedalo di vicoli del centro città, il frenetico lungomare teatro degli acrobatici tuffi dei ragazzi del posto, il mercato coperto di Darajani con la sua commovente umanità meritano di più di una fugace visita di un paio di ore. Un continuo richiamo di sensazioni, di fotogrammi a forte impatto emotivo che non lascia indifferenti.

L’altra escursione, anch’essa di una intera giornata, è a carattere faunistico-naturale. Quella più attesa e che ha, in parte, deluso. Pezzo forte del tour è infatti l’avvistamento di delfini nel tratto di mare antistante la baia di Kizimkazi, e la possibilità di nuotare tra loro o almeno nei pressi. Ma nonostante gli spostamenti e gli inutili tentativi di avvistamento dei delfini nemmeno l’ombra. Rientrati a terra ci spostiamo nella foresta di Jozani, una piccola area protetta abitata dal colubo rosso, una delle specie di scimmia più rare con i suoi 1500 esemplari. Le scimmie, per nulla intimorite dai turisti, sono facilmente avvistabili appena entrati nella foresta. Simpatici sguardi ci seguono nei nostri movimenti senza sottrarsi, tra un balzo e l’altro, agli scatti fotografici a loro riservati.

Lasciato il centro di Zanzibar e giunti al porto di Stone town, con una breve navigazione di circa 20 minuti si attracca a Prison Island, isoletta pochi chilometri al largo della capitale. Concepita come luogo di detenzione prima e di quarantena dopo, deve la sua fama alla colonia di tartarughe giganti che ospita. Certa la loro provenienza dalle Seychelles, più nebbiosa la dinamica che le ha condotte fino a Zanzibar. Tra le ipotesi più accreditate quella che le annovera tra le proprietà di un sultano di Zanzibar dell’800. Queste tartarughe, dalle dimensioni davvero gigantesche e dalla longevità sorprendente, vivono in un ampio spazio recintato, al riparo dai cacciatori di frodo.

L’ultimo giorno, dopo una mattinata rovinata da un violento acquazzone seguito fortunatamente da un sole splendente, ci siamo regalati una breve escursione pomeridiana in barca all’isola di Mnemba per un po’ di snorkeling sulla splendida barriera corallina che circonda l’atollo.

Mnemba è un’isoletta ad una quarantina di minuti di barca da Nungwi, con un cuore verdeggiante di vegetazione circondato da un spiaggia di sabbia bianca finissima. Presa in concessione da Bill Gates, è stata trasformata in un luogo di villeggiatura esclusivo con cottage di lusso; solo agli ospiti è consentito attraccare sull’isola. Intorno, calde e limpide acque rapiscono gli amanti dello snorkeling in una entusiasmante nuotata alla scoperta di un mondo sottomarino pullulante di vita e dai colori vivaci.

Le escursioni, in mare o sulla terraferma, sono un’occasione imperdibile per osservare da vicino la quotidianità di Zanzibar e della sua gente. Le uscite in barca avvicinano all’affascinante mondo di pescatori e marinai che popolano le acque intorno all’isola. Capita, non di rado, di imbattersi in esili imbarcazioni di legno che, con l’unica dotazione di una vela strappata, sfidano con una destrezza inaspettata il mare. Al pari dei pescatori di polpi ed aragoste che, con rudimentali fiocine, scandagliano i fondali durante le ore di bassa marea o riparano, con arte, i segni del tempo sulle loro barche a riva.

Durante gli spostamenti in pulmino scorre, al di là del finestrino, una frenetica successione di immagini che stimola i sensi. Lungo le poche strade che tagliano l’interno dell’isola si incontrano decine di villaggi, niente di più che una scuola ed un pugno di capanne di fango e legno, circondati da una rigogliosa vegetazione. Le case e gli edifici sono allineati lungo la strada perché è qui che si svolge tutta la vita. Ad ogni chilometro sale il desiderio di gridare all’autista di fermarsi: per scendere e contemplare il lento incedere della vera Zanzibar, lontana dai grandi resort e dal turismo di massa. Questa è l’escursione più emozionante: tra carretti trainati da ciuchi, basi (autobus locali) stracarichi di persone alla fermata, “macellerie” con la merce in bella mostra al sole, floridi bananeti, venditori di frutta fresca e una miriade di bambini. Un’isola di bambini, vivaci e sorridenti, che vivono con innocenza un presente non facile ed un futuro incerto, dominato da disoccupazione e povertà diffusa. La miseria in cui versa la maggior parte della popolazione colpisce come uno schiaffo in pieno volto. Fin dalle prime ore del mattino si vedono ovunque uomini che, seduti, rimangono in attesa del domani. Senza niente altro che il tempo; quel tempo che scorre lento o, come direbbero loro, pole pole. E che rende la sopravvivenza quotidiana uno scopo e allo stesso tempo un onere.

Questa stessa umanità si incontra camminando sulla spiaggia in direzione del villaggio di Nungwi. Con il faro bianco e rosso che fa da cornice sullo sfondo, le barche in secca dei pescatori, allineate come tanti piccoli modellini, e bambini di ogni età che corrono sulla spiaggia dietro ad un pallone, si incrociano donne indaffarate nella raccolta di alghe, venditori di conchiglie e ragazzi che dipanano con pazienza le reti da pesca. E’ qui che, durante la bassa marea, affiora una lunga lingua di candida sabbia nel mare. Uno scenario incantevole che si associa ai tramonti infuocati, con il sole che si tuffa nel mare, di cui si gode dalla spiaggia di Nungwi. Anche se, a dire il vero, il sole non è sempre stato un fedele compagno di viaggio. Sole cocente, nuvoloni più o meno passeggeri e qualche pioggia si sono alternati durante la settimana in un clima insolito per il periodo, con l’unica costante di una gradevole temperatura sempre al di sopra dei 30°C.

Un’ultima postilla la merita l’aeroporto di Zanzibar. Definirlo inadeguato per il turismo di massa che ormai si riversa sull’isola, è poco. Armatevi di una bella dose di pazienza per affrontare il nastro trasportatore “a mano”, le bilance pesa valigie, i biglietti aerei scritti a mano, i “professionali” annunci di imbarco, la lavagna con l’operativo dei voli e l’impresa per la compilazione del modulo di richiesta del visto di entrata. Questo luogo, simile ad un set di “Scherzi a parte”, suscita una combinazione tra incredulità, irritazione ed ilarità. Un consiglio: cercate di far prevalere l’ultima, in fin dei conti siete in vacanza e anche questa, nel bene e nel male, è Africa.

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In tinta con il mare

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Colobo rosso

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Aspettando l'alta marea

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Zanzibar, l'isola dei bambini

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Mercato a Stone town

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Prison Island

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Sulla spiaggia, direzione Nungwi

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Giochi...di strada

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Tuffi sul lungomare di Stone town



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