Venezuela dei contrasti

Da Caracas all'Orinoco, poi a Los Roques
Scritto da: bussolo
venezuela dei contrasti
Partenza il: 24/12/2010
Ritorno il: 11/01/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €

Prefazione

Dicembre 2010 – Giorgio e Manu – 18 giorni in Venezuela Quest’anno decidiamo di fare il Venezuela. A dire il vero all’inizio avevamo pensato al Cile in fly & drive, come facciamo di solito, ma non avremmo avuto tempo sufficiente per una buona preparazione del viaggio, che presuppone innanzitutto lo studio approfondito del territorio per poter programmare bene l’itinerario. Cominciamo quindi a cercare informazioni su su internet e a leggere diari di viaggio e scopriamo questa Energy Tours, gestita da un italiano, tale Cosimo Amico, che ha messo su famiglia in Venezuela e vive a Ciudad Bolivar. Lo contattiamo e ci fa una proposta che confrontata con i tour operator tradizionali è sicuramente interessante. Versiamo un acconto su un conto a Miami e aspettiamo la partenza.

Venerdì 24 dicembre – caracas

Partenza da Venezia con la pioggia. All’aeroporto facciamo conoscenza con un tizio figlio di emigranti che ha vissuto in Venezuela e parliamo un pò del paese, della frutta da assaggiare tutta (tamarindo, guayaba, papaja, frutto della passione, anguria, melone, banana, mandarini, ecc), dei cibi (juca, platano, poi una polenta con carne incartata su foglia di banana e poi cucinata, l’ayaka, che è tipica di natale e poi altri che assaggeremo sicuramentre), della violenza che purtroppo c’è nel paese, di Chavez, ecc. Partenza quindi per Lisbona in orario. Il servizio TAP é buono, meglio di altri. Arrivati a Lisbona ci imbarchiamo per Caracas con un leggero ritardo perchè la scala mobile di coda si è incastrata sotto al portellone! Faccio un sms ai due numeri di Cosimo che avevo, per avvisare che siamo in tabella di marcia, e uno mi risponde con “esta equivocado”. Oops. Speriamo bene. Nell’attesa sfogliavo su internet cercando Farnesina e Venezuela e vedo fra le altre cose: un aereo di una linea interna caduto a settembre con 13 morti, alcuni italiani sequestrati, le violenze a caracas per le proteste antigovernative, ecc. Speriamo bene di nuovo! E se arriviamo e non troviamo nessuno? Speriamo bene ancora! Arriviamo finalmente a Caracas, l’equivalente delle nostre 3 di notte ma sono le 9 locali, dopo aver penato per lo spazio angusto del sedile. Fuori dell’aereo prendiamo contatto con temperatura e tasso di umidità locali. Ostregheta che afa! Usciamo dall’aerostazione e con soddisfazione vediamo un giovane che mostra un foglio con il mio nome. Eviva! Esistono! Ci presentiamo e mentre ci si organizza per portarci all’Hotel ci presentano uno, con una divisa, che ci cambierà el dinero a cambio 1 a 7 con il dollaro, mentre il cambio ufficiale è a 4.

Sabato 25 dicembre – verso il delta dell’orinoco

La mattina alle 3 sono già sveglio. Colpa del jet lag. Da noi a casa sono le 9 e sono stufo di rigirarmi sul letto. Più tardi arriverà l’amico per accompaqnarci all’aeroporto per l’imbarco per l’orinoco. Si sarebbe dovuti partire la mattina presto ma Cosimo, chiamato al telefono, ci dice che sono stati annullati molti voli a Natale. Aspettare in hotel fino alle 16 è stata una noia mortale e purtroppo una giornata persa. Sarebbe stato meglio oziare al Rancho San Andrès, dove dobbiamo andare (Via el Sur, Km 10 via Aribi, Maturin 6201, Venezuela). Va beh. Ormai è andata così. Mangiamo qualcosa e “gustiamo” un bell’acquazzone tropicale. Finalmente arriva un giovane che ci accompagna all’aeroporto per l’imbarco e si incarica di tutte le formalità. Anche qui, questa volta in uno sgabuzzino in aeroporto e con la supervisione del nostro accompagnatore, contattiamo un altro individuo e cambiamo altri 300 dollari. Paghiamo la tassa di imbarco, circa 32 BFS a testa. Ci spiega che tutti i voli sono assogettati ad una tassa aeroportuale. Ci raccomanda di tenere da parte 325 BFS che è la tassa per lasciare il paese. Che bravi. Per andarsene devi pagare! Ci spiega poi che serviranno circa 35 BFS a testa per ogni ingresso ai parchi. Parliamo del paese e comprendiamo il perchè di questo mercato nero del cambio. La valuta locale non vale nulla all’estero. Se uno deve andare in europa o in america può portare fuori max 3000 euro, ed è un tetto massimo che deve bastare per un anno. Addirittura verso altri paesi dell’america latina anche l’importo massimo esportabile è di soli 500 dollari l’anno. E bisogna spiegare al governo perchè e percosa di quei soldi portati fuori del paese. Per questo tutti cercano di procurarsi valuta buona senza che il governo lo sappia. All’aeroporto troviamo un altro italiano, che però va a Los Roques, e ci par di capire che siamo gli unici “forestieri” presenti. In attesa al gate non posso non notare, da buon maschio, molte ragazze giovani con dei “balconi” favolosi e un didietro “caraibico”. Di fatto due “balconi”. Che piacere per la vista! Forse l’aria del Venezuela fa questo effetto? Dico a Manu di respirare a pieni polmoni. Non si sa mai! Partiamo con un piccolo jet e in circa 1 ora arriviamo a Maturin. Ci mettono una vita a consegnare le poche valige dei passeggieri e purtroppo la nostra bella compagna di viaggio comperata in america gli scassano una ruota! Ma faffan.. Finalmente usciamo e chi ci aspetta non ha dificoltà ad individuarci. Eravamo gli unici “strani” vestiti da avventura presenti sull’aereo. E’ Jonas, detto Indiana Jonas, come abbiamo letto su altri diari di viaggio. Un simpatico ragazzone di 32 anni. Siamo solo noi due. Montiamo sulla toyota land cruiser e partiamo per il ranch, cominciando a parlare di lui, di noi, di Cosimo, del venezuela, del governo, ecc. Gli piacerebbe venire in Europa ed è tifoso di Inter e Real, argomenti che taglio perchè non sono appassionato di calcio. Viaggiamo fin dopo il tramonto, è ormai buio e spesso si va a zig-zag per schivare le buche oltre a rallentare dove ci sono i dossi dei posti di polizia. Arriviamo al ranch e ci accolgono con un buonissimo succo di frutta di benvenuto. L’ambiente è bello e le stanze carine, con tetto in legno e foglie di palma. Al momento ci son solo altri 3-4 turisti. Ceniamo, si mangia bene, con cose loro come carne, riso, juca, una, anzi 3, birre fresche, ecc. Parliamo del più e del meno a approfondiamo la conoscenza reciproca con Jonas. Vediamo poi il piccolo zoo che hanno, con pappagalli, coccodrilli, anaconda e pitone in gabbia. E’ chiaro, come ha detto qualcun’altro, che questi animali sono in gabbia e non nel loro ambiente naturale, ma altri turisti, meno viaggiatori, devono avere la loro parte. E poi, quanti rettilari ci sono in giro a privati? L’indomani alle 8 spostamento sull’Orinoco a visitare gli indios Warao quindi una passeggiata a cavallo. All’ultimo minuto spostiamo la passeggiata a cavallo alle 7. Tanto saremo sicuramente già svegli da un pò. Prima di abituarci con l’orario passerà ancora qualche giorno. Dappertutto, oggi, abbiamo abbondato di “Feliz Navidad”.

Domenica 26 dicembre – delta dell’orinoco

Alzata alle 7 per la passeggiata a cavallo nei pascoli dell’hato. E’ sicuramente meglio al mattino perchè la temperatura è molto buona. Cavallini piccolini e passeggiata al passo modalità trenino. Poverini. Sapranno a memoria tutto a forza di fare sempre la stessa gita! Comunque sia vediamo la vastità dei pascoli del ranch. Colazione favolosa, con succhi, frutta, uova, arepa (polenta in polpettine fritte). Partiamo quindi e in una mezzoretta arriviamo in un paesetto di nome San José de Buja. Qui c’è il molo dove ci imbarchiamo su una lancia, fortunatamente coperta e poi vedremo perchè. Destinazione gli indios Warao, che vivono in maniera ancestrale su palafitte lungo il fiume. La guida un ragazzino, il “capitano”, che avrà si e no 16 anni! Gia qui ci sono alcune comunità indio sulle loro palfitte, ma questi sono più “moderni” perchè vedo che sotto il tetto di paglia hanno anche la tv. Prima di partire facciamo un po di acquisti per i bambini che troveremo. Navighiamo quindi giù per il fiume (siamo a circa 30 km dal mare) e come prima tappa, senza alcun preavviso, ci fermiamo ad una palafitta dove non c’è nessuno, solo cani. Jonas cerca un machete, che non trova, e, presi due bastoni al posto del machete, ci dice di seguirlo per una passeggiata nella foresta. Ah, prima di partire indossiamo degli stivali di gomma che si era procurato per tempo. Cominciamo ad addentrarci nell’aquitrinoso habitat abbandonando la sicura passerella dove eravamo a la sicura lancia. Un po perplessi seguiamo Jonas e… Oops! non si affonda! Camminiamo sopra a foglie di palma, tronchi e quant’altro c’e sul terreno. Beh. Chiamarlo terreno è forse azzardato. Gli stivali sembrano comunque far il loro dovere, anche se qualche volta arrivano al limite. Mano a mano che entriamo nella foresta le cose sembrano complicarsi un po. Dobbiamo camminare vicino alle piante, dove c’è un pò più di solido. Ci sono passaggi relativamente “complessi”, dove bisogna accerchiare delle pozze più profonde sempre camminando il più possibile vicino o addirittura sulle radici degli alberi. Manu la vedo un pò perplessa, ma anche solo per il suo carattere orgoglioso tiene duro. Dice che se gliel’avessero detto prima non l’avrebbe fatto. Anzi che l’avrebbe fatto comunque per non essere da meno. Ad un certo punto un passaggio un pò più arduo fa si che Manu affondi superando il livello di galleggiamento degli stivali e quindi imbarcando acqua. Non importa. Sempre avanti!. Io gongolo un po per il fatto che i miei stivali sono del 46 e hanno quindi una larghissima base di appoggio e, quasi come le ciaspole sulla neve, mi permettono spesso di camminare bene sulle ramaglie sommerse. Sono inoltre alti fino al ginocchio e questo aiuta nelle acque un po più profonde. Finchè ad un certo punto affondo anch’io imbarcando almeno 5 litri di acqua e melma per gamba. Guardo Manu e ci chiediamo, solo pensandolo, “ma siamo sicuri che ce la caviamo e che questo Jonas sa il fatto suo?”. Dopo una mezzoretta diciamo di sì perchè sbuchiamo di nuovo sul fiume dove reincontriamo la nostra lancia. Ma c’è un piccolo problemito: questa non si può avvicinare più di tanto alla “base relativamente solida” su cui siamo. Jonas si muove per avvicinarsi all’imbarcazione e va giù fin quasi al cavallo dei pantaloni. Io con la reflex al collo me la vedo brutta. Comunque sia, riusciamo a “galleggiare” quanto basta, ma comunque ben oltre il limite degli stivali, camminando su delle radici sommerse e risaliamo in barca. Se c’erano pirañas si saranno spaventati. Appena siamo sotto alla capotta della lancia comincia un diluvio universale che fa diventare il paesaggio di una suggestione unica. Eravamo comunque già bagnati. La parte sotto per l’entrata in acqua e la parte sopra dal sudore conseguente l’umidità della foresta. Ci mettiamo direttamente scalzi così son finiti i problemi. Se ci vedesse mia suocera, soli, dispersi su un fiume in mezzo ad una foresta tropicale, su un barchino che… Ma lasciamo perdere. Ripartiamo alla volta degli indios e dopo un pò il diluvio smette. Ad un certo punto prendiamo una deviazione che ci porta ancora di più dentro la foresta di mangrovie e fermiamo il motore. Siamo nel rumoroso silenzio della foresta. Mi piace! Jonas prende della carne e la taglia a pezzetti, poi ci da del bacchetti di legno con filo e amo e ci mettiamo tutti a pescare. Cosa? Ma i pirañas no? Ridendo e scherzando ecco che lui ne prende uno, del tipo con il petto rosso, lingo circa 15 centimetri. Con attenzione lo prende, gli toglie l’amo e mi fa vedere i famosi denti dei pirañas. Foto di rito al pesce e alla dentatura e via ancora a pescare. Manu ne prende due e Jonas dice che è la prima turista femmina che ne pesca più di uno. Anche il capitano ne prende qualcuno. Insomma, alla fine 5-6 pesciattoli li abbiamo presi. Jonas dice che saranno la nostra cena. Avvistiamo le palafitte e attracchiamo. Su due assi di legno espongono dell’artigianato fatto da loro che è molto bello. Riempiamo una borsa comprando un po di tutto e chiacchieriamo, per così dire, con la famiglia indio che ci ospita. Sono una quindicina di persone, di 3-4 generazioni parentali, metà dei quali bambini da un anno in su. Ecco quello che desideravo trovare con questo viaggio. So che posso fare le foto senza problemi perchè avevo chiesto preventivamente a Jonas su usi e costumi di queste persone. Bene o male sono comunque collegati alla civiltà ma mantengono orgogliosamenteil loro stile di vita antico, strettamente legato al fiume e alla foresta. Che immensità ci separa da loro! Hanno sì il motore fuoribordo sulla canoa, ma vivono su quattro tronchi legati con le corde e un tetto di foglie di palma. Le amache, qualche pollo, dei cani, delle pentole e un braciere improvvisato a terra e niente più. Ma li vedo così sereni che qualche domanda esistenziale me la pongo. Fotografo tutto e tutti. I bambini sono una meraviglia. E non vedo giocattoli in giro. Ci spostiamo sulla palafitta che è l’abitazione principale, dove gli anziani sono sulle amache. Siamo tutt’uno con loro. Si parla (diciamo che attraverso Jonas ci si entiende) e si ride quando mostro sul display le foto di loro appena scattate. Sdraiato sul pavimento di tronchi passo le patatine al piccolino di un anno che mi guarda con due occhioni immensi. Se penso che ha l’età della mia nipotina, ultracoccolata da più di dieci persone fra nonni, zii e genitori! E questo marmocchio è qui su dei tronchi con l’acqua sotto. E se cade? E l’acqua? E i pirañas? E le anaconde? Ma sono tutti così naturali… Gli altri bambini saltano di qua e di la sulle palafitte che vederli è una bellezza. Jonas ci mostra anche un barattolo con della specie di segatura rossa con dentro dei vermoni rosa giganti con la testa nera. Dice che si deve togliere la testa e mangiare il resto, che dice essere cremoso e saporito e di avere notevoli effetti terapeutici, addirittura anche come la famosa pillola blu. Mi chiede se voglio favorire ma sinceramente neanche se mi torturano. Magari se mi perdo nella foresta, forse… Ci sediamo sul pavimento e pranziamo al sacco. Dopo Jonas ci chiede se vogliamo provare l’emozione di un giro sulla canoa tipica indio, la curiara, scavata da un tronco di legno. Rispondiamo con un “perchè no” e un ragazzino prepara l’imbarcazione svuotandola prima dall’acqua degli ultimi acquazzoni. Chi ci porta? Ma lui! Un ragazzino di 12 anni che porta a spasso nella foresta aquitrinosa due nonni cinquantenni italiani mai saliti su una cosa così instabile! Infatti, mentre salgo non faccio le cose per bene e inclino la canoa tanto che gli faccio imbarcare mezzo fiume. Solo che Manu era già dentro e già seduta. Va beh. Ora ha il sedere completamente bagnato. E purtroppo anche la compatta nella tasca dei pantaloni. Temo sarà morta. Dopo aver svuotato di nuovo la canoa riprovo e stavolta siamo in assetto (diciamo così). Se fossi toscano direi “maremma majala che equilibrio instabile ha sta hosa qui”. Con la mia stazza probabilmente il baricentro della canoa non è il massimo. Solo a spostare la reflex da un lato all’altro per delle foto la barca si inclina paurosamente così che rimaniamo fermi come stoccafissi cercando di assecondare e per quanto possibile correggere l’assetto. Solo che io influisco per 100 kili! E il ragazzino pagaia tranquillamente sgranocchiando nel contempo le patatine che avevamo portato. Una pagaiata e un crock, e ci infiliamo nelle mangrovie. E noi lì ammutoliti a guardare in giro. Comunque è stato magico. Entrare nella foresta in silenzio, con solo il rumore delle pagaiate e il “rumore” della foresta, è una cosa unica. Dopo esserci allontanati un pò dalla base pensiamo che, per dovere nei confronti di chi ci aspetta a casa, è meglio tornare sul sicuro sulle palafitte. Salutiamo quindi i nostri ospiti indios e ripartiamo alla volta di un’altro paio di famiglie. Ancora 10 minuti di diluvio universale poi smette. Ogni tanto passa qualche lancia con motore a manetta e degli autoctoni a bordo. Non credo di aver individuato molti altri turisti oggi. Attracchiamo ad un’altra palafitta per salutare e dare qualcosa a dei bambini che si avvicinano sui tronchi in un equilibrio che per noi definirlo precario è poco. Manu comunque sale sulla banchina e prende in braccio un piccolino che era con la sua mamma. Ancora delle foto emozionanti e poi partenza per la terza destinazione, dove ci avviciniamo quanto basta per dare un sacchettino di roba al volo ai bambini che arrivano come funamboli su un tronco. Salutiamo e iniziamo il ritorno. Lungo la strada ci fermiamo per una nuova battuta di pesca al piraña. Stavolta sono io il fortunato e ne piglio due di abbastanza grossi. Stasera se magna! In tutto ne avremo una decina. Una quantità più che sufficiente per una buona “sopa de piraña”. Si riparte e poco dopo inizia un altro nubifragio, tanto che è meglio stare in piedi al centro della capottina. Incrociamo una canoa a lato, ferma in panne fra le mangrovie. E’ una famiglia e ci sono due bambini piccoli che sbucano da sotto un pezzo di nylon. Un quadretto che non può non commuovere. Due scriccioli con due faccine bellissime, che guardano attoniti quello che succede. Il nostro pilota scambia due parole, ci passano una cima e iniziamo a trainarli con noi. Sinceramente non credo che viaggiando con le “normali” agenzie viaggi si possano provare queste emozioni. Arriviamo al molo, salutiamo il nostro “capitano” e gli diamo una mancia. Si ritorna all’hato San Andres per una doccia, anche se a dire il vero di acqua oggi ne abbiamo presa a sufficienza, e un po di riposo. All’ora di cena la sorpresa. Una ciotola di brodo, la “sopa”, con il piraña intero dentro. Bella da vedere e, comiunciato ad assaggiarla, veramente buona. Ci sta tutta e va giù che è un piacere. Alla fine, riportato il pesce all’asciutto si mangia lui. Non ne ha tantissima, ma la carne è comunque buona. Finito di mangiare, più che abbondante, tutti a letto ma io mi fermo sotto la cabana per proseguire con la stesura del diario di viaggio. Non devo lasciar passare troppo tempo sennò perdo dettagli importanti.

Lunedì 27 dicembre – verso la gran sabana

Giornata di trasferimento verso la Gran Sabana. Sono 600 km di strada. Non c’è più di tanto da dire, se non che passiamo per Puerto Ordaz, ricca città industriale da 2 milioni di abitanti dove ci sono megaimpianti per il trattamento del ferro e dell’alluminio, poi attraverso altri paesetti animati. Passiamo molti posti di controllo della polizia, poichè questa è l’unica strada che porta al Brasile e ci sono quindi problemi di traffici vari. Rallentare al passo per farsi riconoscere, un saluto e via. Vediamo automobili e pick-up di tutti i tipi, da nuovi a così sgangherati che stanno insieme solo con la ruggine. Noto dei pick-up con impianto a GPL e chiedo a Jonas il motivo, dal momento che la benzina costa nulla, tanto che con meno di 1 dollaro si fa il pieno al gippone. Risposta: perchè il gas lo passa il gobierno e non costa nulla! Urca, dico io deglutendo e pensando al costo del pieno del mio “carro” in Italia. Incrociamo altre jeep di altre agenzie locali, che Jonas conosce, e ci scambiamo a 100 all’ora su due corsie frasi e gesti scherzosi. Lungo il percorso passiamo da una vegetazione media con ampie radure ad un’area con fitta foresta pluviale fino al superamento di un passo a 1400 metri che è l’inizio della Gran Sabana, con il suo territorio aperto e brullo a vista d’occhio. Non c’è una gran fauna perchè il terreno non è fertile a causa del grande contenuto di tannino. Solo serpenti, qualche aquila, avvoltoi e poco altro. Ci sono molte jeep tutte tappate che vanno nella stessa direzione. Jonas ha un contenitore termico sulla jeep e ci fermiamo in un negozietto per ghiaccio, coca cola, ruhm, succo e delle patatine. Arriviamo all’imbrunire al lodge. Essenziale ma adeguato allo scopo, e gli schizzinosi o i sofisticati non devono venire in Venezuela, se non per andare a rosolarsi a Los Roques. Un riposino, cena, aggiornamento del diario e nanna, che domani è una giornata piena.

Martedì 28 dicembre – la gran sabana

Inizia di fatto il tour Gran Sabana e partiamo per l’interno con destinazione Kavanayén. Dopo qualche km di strada principale giriamo su strada sterrata. Ci separano 45 km dalla prima meta, il salto Aponwao (Chiriwana merü), sul rio omonimo, e il territorio degli indio Pemones. Dopo qualche km di strada mi rendo conto che questo può essere considerato anche il paradiso dei fuoristradisti, anche perchè con mezzi diversi dalle jeep è arduo entrarci. FAVOLOSO! Peccato che non guido io e l’invidia verso Jonas è tanta. Passiamo scenari suggestivi e terreno che cambia da sabbioso a ghiaioso e poi di terra rossa, con orrizzonti fantastici. Arriviamo al villaggio indigeno di Iboribò (Liworiwo) e saliamo su una curiara di 4-5 metri con motore fuoribordo (quella dell’Orinoco era molto ma molto più indigena, più piccola e andava con la pagaia). Siamo con una guida indio (obbligatoria) e un ragazzo come capitano e iniziamo a scendere il corso del fiume verso la cascata, che dista circa 25 minuti. A metà strada abbiamo l’inconveniente della rottura del motore. Il ragazzino dopo qualche tentativo di rimediare, con la barca che andava alla deriva con la corrente, ci ancora alla riva e prende di corsa per i campi la strada del campamiento, per procurarsi una nuova imbarcazione. Rimaniamo un quarto d’ora nel silenzio più assoluto seduti in barca, finchè non arrivano i rinforzi e trasbordiamo. Pensiamo che comunque è stato bello anche questo momento. Più avanti attracchiamo e ci incamminiamo sul sentiero che porta alla cascata, di cui sentiamo mano a mano aumentare il rombo. L’escursione in tutto dura un’oretta e mezza, barca compresa. Arriviamo al mirador e il salto, alto 105m e largo 80, è imponente. Anche se è la stagione asciutta (asciutta?! ma se abbiamo preso acqua tutti i giorni!) la portata d’acqua è notevole. Rimaniamo un pò a rimirarlo e a fare delle foto quindi iniziamo la discesa verso la base. A vederla da sotto, un anfiteatro di roccia verticale con la parete d’acqua al centro, lo scenario è spettacolare. Si potrebbe star qui per ore a guardarla. Proseguiamo ancora e dopo 10 minuti arriviamo in un posto chiamato “pozzo escondido”, o “pozzo del amor” dove una piccola cascata di 5-6 metri si getta in un laghetto di 15 metri di diametro. Sotto gli occhi della guida indio giù i vestiti e tuffo nell’acqua fresca (freddina). Una doccia sotto la cascata e le solite foto. Una rinfrescata rigenerante che vale più di una giornata alle terme e che ha valso l’allungamento del trip. Torniamo, risaliamo in curiara per il ritorno e comincia a piovere. Facciamo appena in tempo ad arrivare, scendere e ripararci sotto a una cabana, che inizia il solito diluvio giornaliero. Portare sempre il k-way!. Andiamo a pranzare in un localino del posto poi via verso la destinazione Kanavayèn. Per strada Jonas si ferma presso una famiglia indio (ma conosce proprio tutti questo qui?) a salutare e con cortesia ci offrono un caffè. Stiamo un po con loro e anche qui ci sono dei bambini con i quali cerco di instaurare la giusta complicità per delle belle foto. La casa di questa famiglia, un ex avamposto militare, è sulla sommità di un poggio che domina una vallata mozzafiato con vista su un tepui dal profilo di donna sdraiata. Un posto che da noi varrebbe qualche milione di euro. Ci salutiamo e riprendiamo per il villaggio, con ancora passaggi 4×4 da favola. Arrivati a Kavanayèn Jonas si ferma per gli accordi al ristorante Da Guadalupe e ci troviamo di fronte a una fiesta, una jam session dove i padroni di casa, la Guadalupe e il marito, cantano a scuarciagola abbastanza alticci, consiederato il numero di birre che vedo sul tavolo, mentre una guardia fa una specie di ritmo battendo su un tamburo, un altro accompagna battendo due cucchiai e noi guardiamo e ascoltiamo divertiti. In questo villaggio si trova un convento di frati cappuiccini di cui andiamo a visitiare la chiesa. Iniziamo quindi una passeggiata per il villaggio, passando prima per un punto panoramico dove anche qui la vista si apre su una vallata che sembra jurassic park. Jonas ci dice poi che in effetti qualche scena del film l’hanno girata qui. Passeggiando per il villaggio non posso non notare che, contrariamente ad altri insediamenti visti in giro, anche in altre parti del mondo, questo è molto ordinato e curato. L’erba tagliata, le case in muratura, molto in ordine e con i fiori attorno, niente basura (rifiuti) in giro. Sembra quasi essere in un villaggio residenziale, ma siamo all’interno della Gran Sabana. In effetti, come conferma anche Jonas, è anche opera dei Frati che hanno portato conoscenze e cultura. Le case sono state fatte copiando in qualche modo la struttura del convento e abbandonando quindi quelle tipiche in legno e paglia. Altri villaggi indio non sono così ben messi e la missione ha influito anche sul miglioramento della qualità della vita degli indigeni. Tanti bambini bellissimi che porterò a casa con le foto che faccio mano a mano. C’è una pace e una serenità nelle persone che è lontana anni luce dalle nostre classiche giornate stressate a casa. E al lavoro mi vengono a parlare di “valutazione del rischio da stress correlato”!?! Ma vaffan… Basterebbe solo rallentare un pochino. Andiamo a riposare un pò e a farci una doccia. Siamo all’hotel Kavanaruden, un fabbricato estremamente semplice ed essenziale con un lungo porticato davanti alle stanze. Si parcheggia la jeep in retro, o come dice Jonas “vamos de culo”, davanti al porticato, si mette un cd di ritmi latini e ci concediamo un buon cuba libre. Seduto sotto il porticato al buio (la corrente la danno dalle 6 alle 10) scrivo il diario di viaggio con il secondo bicchiere di cuba libre a lato e l’autoradio della jeep che suona musica del caribe ad alto volume. Fantastico. Ceniamo dalla Guadalupe e poi a nanna. Alle 10 il generatore si spegne e il buio e il silenzio avvolgono tutto.

Mercoledì 29 dicembre – da gran sabana a santa elena de uairen

La sveglia ci fa trovare una giornata cristallina e la vista sul tepui della donna che dorme è perfetta. Via quindi per una una più che abbondante colazione da Guadalupe. Jonas, ricordandosi di quanto avevamo discusso sui cibi venezuelani, si era messo daccordo con la padrona e ci ha fatto preparare l’ayaka, la polenta con carne incartata su foglia di banana e poi cucinata. Solo che avevamo già mangiato come maiali. Comunque metà è andata giù e metà ce la portiamo via, assieme alle ultime eccezionali frittelle di polenta di grano e mais. Lasciamo Kanavayèn e ci aspettano 250 km per arrivare a Santa Elena de Uairén, di cui 70 tutti di fuoristrada. Un bel raid prima di sbucare sull’asfalto e le solite goliardiche sfide con altre jeep. Ad un certo punto, durante un affiancamento con un’altra jeep, stop dell’auto, porte aperte e musica a 100 per un piccolo momento “de vida”. Lungo la strada ci fermiamo a tre cascate: il salto Kawi, dove Jonas parla e scherza con un ragazzino sordomuto suo amico, quindi il salto Kama di circa 50 metri, e la cortina de Yuruany. Prima di pranzo ci fermiamo in una piccola cascata con solita piscina naturale alla base e ci buttiamo per una bella rinfrescata. La temperatura qui è infatti ben diversa rispetto ai 1200 metri di Kavanayèn e fa veramente caldo. Ci si ferma a mangiare al villaggio San Francisco, pojo asado e carne, e dedichiamo una mezzoretta allo shopping lungo una lunga fila di bancherelle di artigianato locale. Ripartiamo e alla nostra sinistra scorrono una serie di tepui, fino al famoso Roraima sullo sfondo. Ancora una fermata alla cascata “Quebrada de Jaspe” dove purtroppo non posso fare il bagno essendo senza costume sotto. Pazienza. Era quello con i toboga naturali in pietra rossa, dove si poteva fare delle belle scivolate col sedere o con la pancia. Arriviamo a Santa Elena e proseguiamo per 15 minuti fino al confine con il brasile, che però non passiamo non avendo la vaccinazione contro la febbre gialla. Facciamo solo la foto alle due bandiere affiancate. Arriviamo quindi a lodge Ya-Koo, una serie di bungalow sparsi nel verde. Ci sarebbe la piscina ma preferiamo una doccia e un riposino. La giornata di trasferimento è stata lunghetta e Jonas non sta troppo bene. E’ da un po che tossisce e forse ora ha anche la febbre. Parliamo del più e del meno e delle ragazze venezuelane. Jonas ci mostra orgoglioso due sue sorelle che sono veramente due gran pezzi di figliola. Ci parla anche della sua famiglia e lo vediamo pulirsi gli occhi per la commozione. E’ proprio un bravo ragazzo. Domani probabilmente ci lasciamo se abbiamo la fortuna di trovare spazio per un volo fino a Canaima e di evitare quindi i 700 km del ritorno a Ciudad Bolivar. P.S.: oggi primo giorno senza pioggia!

Giovedì 30 dicembre – da santa elena a canaima

Ancora una bella giornata e una buona colazione sotto alla struttura principale del lodge. Un posto molto carino. Jonas arriva ed effettivamente sembra un po malconcio. Si dev’essere preso una bella bronchite, fra sudate, aria condizionata a manetta e finetrini aperti a 130 all’ora. Comunque ci dice che un posto in aereo c’è, e qui un elogio a Energy Tours ci vuole. Ci passa Cosimo al telefono per confermare il delta costo per un giorno in più a Canaima e accettiamo. Andiamo con tranquillità all’aeroporto, tanto si si partirà verso mezzogiorno. Facciamo qualche sms a casa e beviamo qualcosa al bar e in quel mentre uno prende una piccola chitarra e con altri tre si mette a cantare, con un altro che fa il ritmo con le nocche sul tavolino. Altra “fiesta” improvvisata, che filmo con curiosità e divertimento. Finalmente sembra che si parte. Salutiamo Jonas, gli infilo un “ricordino” in tasca e passiamo al check in. Check-in?!? Il gabbiotto dove si passa sotto non credo sia acceso, perchè passo senza problemi con il mio gilet pieno di roba e reflex al collo. L’addetto armeggia con il computer del tunnel di ispezione bagagli poi ci dice che è guasto, quindi prendiamo i nostri zaini e passiamo. Potevamo avere di tutto con noi! Pagata la tassa aeroportuale di 21 BFS a testa siamo li ad aspettare con altri due francesi, quando il pilota ci dice che “esta un problemito”. E che? Ora che siamo senza guida, al confine col Brasile e soli? Ci dice che accompagnerà i francesi dove dovevano andare, che dovrebbe essere qui vicino, poi torna e ci porta a Canaima. Mi pare di aver capito che avremmo viaggiato fino ad un certo punto coi francesi quindi proseguito da soli per Canaima, ma dev’essere arrivato qualcun’altro che va a Canaima e deve essere più conventente così. Boh! Intanto mangiamo qualcosa dalla lista del bar dell’aeroporto. Solo bistecca! Passo il tempo continuando un pò il diario di viaggio e speriamo bene! Incontriamo i nostri compagni di viaggio, una giovane coppia argentina che sta girando in libertà su e giù per il paese. Finalmente arriva il nostroa ereo, sono le 3, e ci imbarchiamo. Chiedo di poter stare davanti per fare le foto e mi rendo conto solo dopo che fra io e il pilota, che è un gigante, siamo così compressi che riempiamo la cabina. Il cessna è veramente angusto e dalle condizioni della strumentazione questo mi sembra anche bello vecchio, tanto che noto i due indicatori fuel che segnano un desolante empty! Comunque ne valeva la pena. Sorvolare la foresta con contorno di tepui è fantastico. Ne avviciniamo uno piccolino di fronte e chiedo al pilota se può prenderlo a sinistra in modo da poterlo fotografare bene, e in effetti abbiamo modo di ammirarlo in tutta la sua bellezza. Solo questo valeva il supplemento. Per quanto concerne il volo tutto sommato è andato bene, a parte un po di turbolenza e il pilota che ha giocato a solitario sul blackberry per tutto il viaggio senza quasi mai guardare fuori dal finestrino. E la ragazza argentina continuava a farsi il segno della croce. Atterraggio comunque buono. Troviamo ad attenderci la nostra corrispondente che ci porta al Tepui Lodge che è li vicino. E’ tutto lì vicino, praticamente alla fine della pista. Un coktail di benvenuto, le valige in camera e subito in spiaggia ad ammirare lo scenario da cartolina che è la laguna di Canaima, con una fila di impressionanti cascate, sono sette, che vi si gettano dentro e con i tepui sullo sfondo. Una passeggiata e una sfilza di foto con il sole che illumina di fronte, con la miglior luce possibile, la parete delle cascate. Fantastico. Cena, incontro con la guida che ci spiega l’escursione di domani al famoso Salto Angel e a nanna. Anche oggi mai piovuto.

Venerdì 31 dicembre – da canaima al salto angel

Alzata tranquilla, colazione e qualche foto al lodge, che è molto bello e curato, quindi partenza per l’escursione al Salto Angel. Saliamo su un camioncino, ci spostiamo sopra alle cascate e ci imbarchiamo su una curiara. Carichiamo le vettovaglie e i bagagli essenziali che abbiamo con noi e il tutto viene avvolto in un telo di nylon per non farli bagnare. Siamo con altre due coppie, la nostra guida Jim, una bella ragazza indigena con costumino tipico molto sexy, il motorista Javier e l’aiuto Ponciano. Questo sta seduto a cavalcioni della prua e ha il compito di vedere gli ostacoli per segnalare la direzione ottimale al motorista oppure per correggere la direzione della prua con la pagaia. Il viaggio per il campamiento dovrebbe durare intorno alle 6 ore (capito bene? 6 ore di canoa). Sono le 10 e iniziamo la navigazione e dopo una mezzoretta scendiamo a terra. E’ necessario fare un po di tragitto a piedi finchè la curiara risale le rapide di Majupa, abbastanza pericolose e dove è vietato ai turisti rimanere a bordo. Invece di camminare ci facciamo trasportare da un indio su un rimorchio trainato da un trattore, che è lì a fare il suo business. Risaliamo in barca e via. Sembra tutto molto tranquillo e si viaggia con il motore a manetta, finchè non incontriamo le prime rapide. Cavolo, penso, ma non sono proprio piccoline dai cavalloni che vedo! Il pilota rallenta, le osserva un pò poi parte a manetta e le affronta di brutto, e qui prendiamo la rima lavata completa da capo a piedi. Fortuna che avevo preventivamente bardato la reflex in un sacchetto di nylon. Comunque passiamo, con il motore che urla quando l’elica va in cavitazione. Che figata però. Avanti ancora e le rapide si susseguono, con diversi gradi di difficoltà ed è sempre un’avventura passarle. Ogno volta la barca rallenta, si fa una valutazione su dove è più opportuno passare e poi si parte all’attacco, proprio come i salmoni che risalgono la corrente. A volte si passa facilmente dove, anche se le rapide sono forti, l’acqua è sufficientemente profonda per consentire all’elica di spingere. Altre sono più laboriose e lunghe da passare. Una vera lotta strenuante fra il motore e la corrente. Qualche volta senti che la chiglia raschia sui sassi del fondo, oppure si cozza su qualche roccia sommersa. Il motorista gioca con il motore fuoribordo sollevandolo più o meno sul pelo dell’acqua per non far toccare l’elica sul fondale, spesso molto basso, con un sapiente gioco di acceleratore, e lo spruzzo d’acqua che si vede dietro è spettacolare. L’altro a prua continua a forzare con la pagaia a destra e a sinistra per dare la giusta direzione e per evitare ostacoli. Verso le 12 ci fermiamo per pranzare dove sbuca un piccolo rio con una cascatina, un posto chiamato “pozo de la felizidad”, e mi butto subito con un tuffo per un bagno ristoratore. Fantastico! Un’oretta di sosta e ripartiamo abbandonando poco dopo il rio Carrao per entrare in un affluente, il rio Churun, che è quello che scende dal Salto Angel, e qui il fondale si abbassa ancora di più e le rapide diventano sempre più frequenti e impegnative. Intravedo i sassi sul fondo e i massi presenti qua e là. Su una di queste rapide la barca va in stallo a cavalcioni di un grosso masso, il motore urla e la barca non avanza, anzi tende a tornare indietro. Il “primero” (l’aiutante) e la guida si gettano in acqua, profonda fino alla cinta, e aiutano trascinando a forza di bracca la canoa, con uno sforzo non indifferente vedendo le loro facce. Piano piano l’elica comincia a riprendere presa e si riparte. Che figata! Casi simili si susseguono abbastanza frequentemente e ci sono alcune rapide veramente molto impegnative. La portata del fiume è infatti molto bassa in questo periodo e la navigazione è relativamente complessa e pericolosa. Ad un certo punto troviamo davanti a noi un’altra curiara, questa però con almeno 20 persone a bordo, in completo stallo che sta combattendo con una grossa rapida, con persone in acqua da ambo i lati, turisti compresi, che tirano a braccia. E’ stata una dura lotta ma son passati, poi è toccato a noi la stessa sorte. Si susseguono passaggi veramente suggestivi e faccio una considerazione: non sapevo che si potesse navigare sui sassi e che le canoe si arrampicassero in salita su di essi! Questo è infatti quanto è successo in più di qualche circostanza, e il motorista è stato veramente bravo a gestire il motore, sia con l’acceleratore che alzandolo con l’elica a pelo d’acqua. A mezzora dall’arrivo inizia a piovere di brutto. Acqua sotto e acqua sopra. Metto il poncho ma comunque sono già zuppo dalle imbarcate d’acqua delle rapide. Sono ormai le 16 quando avvistiamo il Salto Angel, con il massiccio immerso nelle nuvole cariche di pioggia, e ci avviciniamo al campamiento dove finalmente arriviamo con altre poche anse di fiume. Scendiamo e ci ripariamo sotto a una grande tettoia completamente aperta, che scopriamo essere il nostro campo, ed è proprio di fronte al salto. Mirabile location, ma veramente essenziale il campo, come tutti peraltro. Il viaggio è durato 6 ore e mezza buone. La lotta con le rapide ha portato via più tempo del solito. Però ora siamo effettivamente di fronte al Salto, anche se piove così tanto che proprio non lo si vede. Solo per qualche attimo compare la parete del Auyan Tepui. Un massiccio del diametro di ben 700 km, alto fino a 1200 metri e da dove il salto si getta con un volo di circa 1000 metri. Continua a piovere e spero vivamente che domattina ci sia il sole. Prepariamo intanto le nostre “camere” legando uno spago per appendere i panni bagnati e con qualche ramo secco faccio degli appendini. Poi vengono legate le amache. Diventa buio pesto e si sente un frastuono di rane che gracidano. Si accende il generatore. I nostri accompagnatori accendono un fuoco e mettono, infilati su dei legni, i polli a cucinare. L’atmosfera è di una suggestione assoluta. Ceniamo con un sacco di roba, niente di elaborato ma tutto veramente buono, e parliamo per attendere la mezzanotte. Faccio una bella chiacchierata con Jim che, con estrema competenza mi spiega del fiume, dell’ Auyan Tepui, della pronuncia Pemon, del pilota americano Angel quando scoprì il salto nel 34, e da cui deriva il nome, dei vari esploratori che seguirono, della comunità di Canaima che si venne a formare a seguito di questo, e di tante altre cose. Sono sotto alla tettoia con il mio netbook, è notte fonta, piove, sono in mezzo alla foresta sotto al Salto Angel e proseguo la scrittura del diario di viaggio. Come direbbe Abatantuono, ECCEZZIUNALE VERAMENTE!! Si sarebbe dovuti andare ad un altro campamiento lì vicino, dove c’era fiesta e musica, per fare una specie di veglione, ma eravamo tutti molto stanchi. Gli altri della comitiva si sono ormai sdraiati sulle amache e qualcuno è già nel mondo dei sogni, ancora prima di mezzanotte, ma io voglio assolutamente attendere questo evento unico, in un posto unico com’è questo! Quando arriva mezzanotte comincio a fare gli auguri ai presenti, ci scambiamo dei feliz año nuevo, non si brinda con nulla e poi a nanna sull’amaca. Finito anche il 2010.

Sabato 1 gennaio – Salto angel e ritorno a canaima

Passo tutta la notte a rigirarmi sull’amaca. Non riesco a prendere sonno. Non so se per colpa delle rane che fanno un casino della madonna o per l’ultimo cuba libre. Avrò dormito sì e no 1 ora a 5 minuti alla volta e continuava anche a passare gente davanti a noi, nelle migrazioni da un campo all’altro. Il motorista e l’altro danno fondo alle riserve di ruhm e li sento parlare fino a mattina. Alle 5, appena inizia a rischiarare, mi alzo definitivamente e mi siedo su una panchina a guardare il Salto Angel. Purtroppo la giornata non promette bene. E’ piovuto tutta notte e il massiccio è avvolto nelle nubi. Ci sono comunque momenti in cui le nubi di passaggio lasciano la visione libera su tutto il salto ed è una meraviglia. Praticamente rimango li un paio d’ore a guardarmi il continuo cambio di luce e di scenario del massiccio con le nubi che vanno e vengono. Fatta colazione, in ritardo perchè i due sono belli “carichi” nel loro tasso alcolico, saliamo sulla lancia che ci porta sull’altra sponda del fiume per iniziare la camminata di poco più di un’ora nella foresta verso il mirador alla base del salto. Prima metà del percorso tranquilla e in piano, poi una salita che si dimostra relativamente impegnativa poichè si cammina su un campo minato fatto di rocce e radici affiornati, il tutto viscido per le piogge e l’umidità elevatissima, che deve essere del 100% dato che a momenti alterni continua comunque a piovere. Una sudata fenomenale. Neanche in sauna una cosa simile. Speriamo serva almeno per far calare la pancia. Arriviamo al mirador e nonostante la parte alta del salto sia nascosta dalle nubi è veramente uno spettacolo e una fortissima emozione. Visto finora solo sui documentari in tv ora siamo qui sotto, per davvero. Ci spostiamo ancora un po più su fino al “pozo” dove vi si getta una bella cascata subito dopo il Salto principale. L’acqua è veramente freschina, ma la sudata fatta per arrivare fin qui, e l’occasione irripedibile di fare un bagno sotto al Salto Angel, fanno sparire le ultime remore e mi tuffo in acqua. E’ sì freddina, ma poi ci si abitua e sinceramente il fatto di sguazzare lì sotto, in quel contesto unico, non mi fa prestare attenzione alla temperatura. Mitico e unico: un bagno sotto al Salto Angel! Fra mirador e bagno stiamo lì un’oretta quindi prendiamo la via per il ritorno al campamiento. La discesa è meno faticosa della salita ma sempre impegnativa, causa appunto sassi e radici. La rinfrescata al “pozo” mi ha fatto rinascere e sto veramente bene, anche se non ho praticamente dormito la notte. Arrivati al campamiento sono completamente bagnato da sudore e umidità e mi dò una rinfrescata buttandomi nell’acqua giallognola del fiume per qualche minuto. Pranziamo e ripartiamo per la ridiscesa del fiume, che dovrebbe essere di circa 4 ore essendo appunto in discesa! Passare le rapide in giù lo si fa a manetta, con strategia ma senza lotte strenuanti. Sembra di essere a Gardaland. Poco dopo abbiamo però l’inconveniente che il motore continua a spegnersi e lo fa spesso proprio quando ci sono da affrontare le rapide. In una di queste, abbastanza tumultuosa, il motore si spegne e, alla deriva in balia delle acque, ci incagliamo addosso a delle rocce. La forza dell’acqua fa inclinare paurosamente la barca ed entra una montagna d’acqua. Le guide si gettano in acqua cercando di contrastare al meglio la corrente e piano piano la disincagliano e passiamo, senza l’aiuto del motore. Una bella strizza! Mi vedevo già tutti a bagno e a sacrificare tutto il mio bel armamentario tecnologico. Alla fine ci è andata bene ma ci son volute ben 5 ore e mezza, con Manu e un’altra ragazza che con dei pentolini continuavano a buttare fuori l’acqua imbarcata, e siamo arrivati col buio, con l’ultima mezzora di navigazione nel fascino delle tenebre. Siamo stanchi morti, ho il sedere che ha preso la forma dell’asse di legno su cui sono seduto e mi fa un male cane, come pure le ginochia per essere accartocciato da ore in una posizione inusuale e scomoda. Allo sbarco chiedo a un’altra guida di quanti chilometri è il percorso fluviale da Canaima al campamiento del Salto Angel, e capisco il perchè del tempo impiegato e di tutti miei dolori: sono ben 86 chilometri di navigazione, per almeno metà sulle rapide! Siamo comunque tutti soddisfatti e concordi nel dichiarare l’escursione veramente unica. Ci rinfranchiamo con una bella doccia a la cena al lodge e prendiamo gli ultimi accordi con la guida per l’escursione di domani al Salto Sapo.

Domenica 2 gennaio – canaima lagoon e ciudad bolivar

Oggi è una bellissima giornata (fortunato chi parte oggi per il Salto Angel) e la laguna di Canaima ha una luce meravigliosa. Sono un po messo male con una bella tosse, probabilmente conseguente al bagno al Salto Angel e alla sventolata presa in curiara al ritorno. Saliamo in barca con una nuova guida e ci avviamo verso il primo salto della laguna. Ci avviciniamo fino a qualche decina di metri e la nuvola di acqua ci solletica. E’ già bella ora che siamo nel perioido di minor portata del fiume, figuriamoci come può essere in agosto. Mi rendo conto che in questo racconto sto forse abusando di aggettivi superlativi ma non posso effettivamente farne a meno perchè è la realtà di questi posti. Continuiamo la traversata e passiamo in sequenza tutte le 7 cascate fino all’ultima, il salto El Acha dove c’è un sentiero che ci passa sotto, come al salto Sapo. Attracchiamo e ci incamminiamo fino al fianco del salto. Ci spogliamo e rimaniamo in costume, mentra la guida mette vestiti e scarpe in una sacca impermeabile. Partiamo e subito siamo sotto a una mega doccia. Avevo bardato la reflex dentro un sacchetto di nylon facendo uscire l’obbiettivo da un buco poi ben chiuso con nastro isolante, e questo mi ha permesso di fare delle foto anche sotto la cascata. Vederla da dentro fa veramente impressione. Sembra essere nel film L’ultimo dei Mohicani. Un’ultima doccia con foto di rito e proseguiamo verso il Salto Sapo che la guida ci dice essere completamente in secca. Il rio Caroni più a monte si divide in due tronconi e quello che va verso le cascate della laguna ha la prevalenza, lasciando in secca l’altro. La passeggiata è in pieno sole in mezzo alle sterpaglie e c’è da fare una sincope (per me che non vado propriamente daccordo con il sole). Arriviamo al Sapo ed è effettivamente solo una distesa di roccia. Vado verso il bordo del salto e sotto c’è una laguna con spiaggia di sabbia bianca. Un paradiso. La guida ci spega cos’è il salto in agosto con il fiume in piena e cerco di immaginarlo nella sua imponenza. Subito dopo c’è il Salto Sapito, dove ancora rimane un pò d’acqua. Scendiamo verso la laguna percorrendo per il sentiero che passa sotto al Salto e c’è comunque una doccia obbligatoria da fare. Giù alla laguna un bel bagno ristoratore. Una meraviglia. Il giro sta per finire e andiamo alla canoa che ci aspetta all’isola Raton, al centro della laguna. Al lodge mi faccio 3 succhi freschi uno di fila all’altro, per reintegrare un po di sali e verso l’una partiamo per l’aeroporto. Sbrigate le forrmalità, il tutto su svolge sotto ad una tettoia brulicante di gente, attendiamo ancora un pò e ci imbarchianmo, stavolta su un turboelica da 20 posti dove fa un caldo infernale. Partenza e decollo un po traballanti, come pure il viaggio che dura un’oretta. All’aeroporto di Ciudad Bolivar ci viene a prendere Cosimo con il suo Ford Expedition e andiamo in posada, che è anche casa sua, e noto la barriera elettrificata (con i 110V) su tutto il perimetro. Confortante. Dice che è un buon deterrente per la microdelinquenza. Ci dice che c’è un problemino (i problemini in Venezuela sembrano essere congeniti) con il volo per Caracas e quindi il trasferimento per Los Llanos lo faremo in jeep, ancora con Jonas. Sono circa 10 ore di viaggio ma saremmo comunque arrivati verso sera anche con i trasferimenti aerei. Non mi dispiace. Almeno vedo il territorio, e poi stare con Jonas ci fa piacere. Cerchiamo poi per un boccone ma essendo domenica pomeriggio non ci rimane che l’onnipresente Mc Donald. Take away e ritorno in posada a mangiare. Parliamo con Cosimo del paese, delle condizioni di vita, della politica, ecc. E’ un discorso troppo lungo e lascio ad ognuno farsi le proprie opinioni. Certamente la parola democrazia stride molto in questo paese, dove dappertutto ci sono militari armati di mitra. E non mi soffermo oltre. Cosimo alle 8 ci acompagna in un ristorante per la cena e dalle auto che vedo in giro, macchinoni americani nuovi fiammanti, capisco che è comunque una città ricca, ma vedo recinzioni elettriche dappertutto. Non dev’essere facile vivere in queste condizioni. Poi a nanna e la giornata finisce qui.

Lunedì 3 gennaio – verso los llanos

Sveglia alle 7, partenza 7 e mezza, colazione per strada e poi via. Do un’occhiata alla cartina geografica e facendo la somma delle distanze parziali da Ciudad Bolivar a poco dopo Mantecal vedo che sono praticamente un migliaio di chilometri. Però: quasi l’Italia da cima a fondo. E dicono che saranno 10 ore di viaggio? Non ci credo. Non è possibile. Secondo me sono ben di più. Avanti e avanti, passiamo città, paesi, paesotti, paesini e comunità. L’area sembra piuttosto povera (in effetti non pensavo che il Venezuela fosse così povero) perchè vedo susseguirsi abitazioni molto spartane, se non addirittura baracche, e anche di fatte con l’argilla come in Africa. La strada sembra desolatamente lunga nei tratti diritti fino all’orrizzonte, ed è per la maggior parte in pessime condizioni e piena di buche tali che se ci cadi con una ruota la lasci lì. Ma non le potrebbero sistemare, visto che l’asfalto ce l’hanno praticamente gratis? Dappertutto cartelli propagandistici con la faccia di lui e con le scritte “revolucion”, “venceremos” oppure “sociaslismo o muerte”. Mi fermo con i commenti. Ad ogni attraversamento di paese, o nei posti di controllo della polizia, i soliti dossi alti 20 centimetri da passare con circospezione, che diventano business per tanta gente che si mette in mezzo alla strada con tavolini, seggiolini e carrelli, per vendere di tutto: pane, bibite e non so cos’altro. Folcloristico. Purtroppo devo considerare che la quantità di “basura” lungo le strade è notevole. E’ certamente un problema culturale ma denota anche un completo disinteresse delle istituzioni. Non serve farsi belli, nelle aree più turistiche, con cartelli inneggianti all’ecosistema, all’ecologia, alla protezione dell’ambiente, quando poi non fai nulla per eliminare la monnezza che sta sul territorio. Nei paesetti la via principale è sempre viva e piena di localini folcloristici e caratteristici. Si vedono auto vecchie anche all’inverosimile, che faranno forse 2 km con un litro, tenute insieme da ruggine e filo di ferro, persino contorte, però con ruote larghe e cerchi in lega da veri tamarri. Passiamo da aree praticamente incolte a zone petrolifere, come intorno a El Tigre, per poi trovare zone agricole, con pascoli, coltivazioni di riso e moltissimi silos per il mais. Fa un caldo bestiale e l’aria condizionata non ce la fa a tenere accettabile la temperatura. Sia io che Jonas siamo con una bandana al collo per tenere protetta la gola. Sembiamo due bandidos. Ci fermiamo presso un carrettino con scritto “guarapo e caña bien frio” gestito da due segnorite. Sopra c’è uno strano marchingegno, una specie di torchio mosso da un motore a scoppio, dove si inseriscono degli spezzoni di canna da zucchero e da cui esce un liquido giallognolo che passa attraverso un barilotto pieno di ghiaggio e viene poi spillato in un bicchiere. Mezzo lime spremuto dentro e la bibita è pronta. L’assaggio e poi me la gusto con estremo piacere perchè è veramente buona e tonificante. Ci voleva proprio. Inoltre, il modo con cui viene preparato è veramente folcloristico. Ci fermiamo poi a mangiare sotto a una tettoia di paglia con il solito braciere dove cucinano la carne tipo churrascheria e poi via di nuovo, che siamo solo a metà strada. A meno di un’ora dall’arrivo ci fermiamo all’ultimo distributore e scopriamo che son due giorni che è senza rifornimenti. Siamo fregati. La benzina rimasta nel serbatoio non è sufficiente a raggiungere la destinazione. Cosa si fa? Siamo una decina di auto e la piazzola è piena di gente che parla e discute e anche Jonas si mette in mezzo per capirne qualcosa. Ma è il nostro giorno fortunato. Un soldato a guardia del distributore si offre di andare alla caserma a prendere un barile da 200 litri di benzina per darne 20 litri a testa. Veramente un gesto inaspettato. Alla fine, dopo ben 14 ore di viaggio (lo dicevo io!), arriviamo davanti al cancello dell’Hato El Cedral. Entriamo e dobbiamo percorrere 7 chilometri di sterrato prima di raggiungere il lodge. Da subito e per tutta la strada centinaia di simpaticissimi capibara, ma ho visto anche pellicani e un alligatore. Al lodge imbastiscono qualcosa da mangiare e poi a nanna a recuperare il massacrante trasferimento. Il cielo è stellatissimo ma non è questo il posto per passeggiatine romantiche, considerati gli animali che ci vivono.

Martedì 4 gennaio – los llanos (su terra)

Siamo svegliati all’alba da una caciara di uccelli di varie specie che fanno un casino incredibile ma piacevole. Ci alziamo, la giornata è tersa e soleggiata, dò un’occhiata al lodge e vedo che in effetti l’area è piena di uccelli, grandi e piccoli, zampe lunghe con becco lungo e curvo, anatre, ecc. Piante enormi, delle palme, la piscina, i bungalow e il refettorio. Ci sono anche molti iguana che girano liberamente e tranquillamente anche ai bordi della piscina. Colazione socialista, nel senso di tavolate comuni tutti assieme, compreso il personale della fazenda, e con la foto di lui sullo sfondo. L’hato El Cedral (Empresa Socialista Ganadera Agroecologica Bravos de Apure) è una azienda agroecologica ed ecoturistica di ben 56000 ettari, con 24000 capi di bestiame. Ci sono diverse sottostazioni sparse nell’area e complessivamente ci lavorano ben 190 persone. Saliamo su un camioncino attrezzato ed iniziamo una prima escursione addentrandoci nel territorio. Ci si ferma un’attimo e la guida Oto prende da un bidone una anaconda da 2 buoni metri e mezzo e risale con lei sul camion per portarla al primo acquitrino e liberarla. Prima la fotografo da meno di un metro, ed è bellissima. C’è un sole cocente ma fortunatamente il camioncino è telonato e c’è una costante brezza. Lasciamo un pò di gente all’imbarcadero per l’escursione in barca e proseguiamo. Ad un lato della strada, che non è altro che una striscia di terra emergente dal resto, ci sono distese di pascoli misti a zone umide e aquitrinose mentre dall’altra una zona di canali piena di vegetazione galleggiante, collegata al Rio Matiyure. Ci sono tantissimi animali dappertutto. Capibara a centinaia, anche sdraiati lungo la strada e che obbligano il camioncino a zigzagare, caimani di tutte le taglie, tartarughe, cervi, iguana, lucertoloni giganti e una infinità di uccelli di moltissime specie, cicogne, aquile, colibrì, martin pescatore, e altri che ricordare tutti i nomi è impossibile. E’ veramente un paradiso faunistico. Ho l’imbarazzo della scelta su cosa e dove fotografare. Dopo un paio d’ore, avremo fatto almeno 15 chilometri di strada sempre diritta, dietro front e si torna alla base. Arriviamo e troviamo il personale intento a cucinare, all’aperto su un enorme barbeque, credo mezzo bue. Si mangia come al solito tutti assieme e poi ci si dedica ad un’attività veramente interessante: lo “scanso”. Non è altro che il riposo pomeridiano, fino alle 15 perchè con il sole cocente che c’è a metà giornata è impossibile stare all’aperto. Ripartiamo quindi col solito camioncino e facciamo una strada in un’altra direzione. Stesso scenario di ecosistema e stessa quantità di foto. Incontriamo anche un formichiere, molto bello, e ci fermiamo su un ponticello dove la guida prende un pezzo di carne da circa 1 kg, la lega ad uno spago e la butta di sotto. Immediatamente si vede un ribollire in cui si intravedono le macchie rosse dei corpi dei pirañas. Mangiano anche in aria quando la guida solleva la carne fuori dell’acqua e in un attimo se la pappano tutta e si mangiano anche l’ultimo pezzo di corda! Dice che qui ce ne sono tantissimi e direi che fra caimani e pirañas non è il caso di perdersi. Più avanti il camioncino lascia la stradina ed entra in un pascolo. Ci dirigiamo fino alle prime piante dove vive una famiglia di pappagalli, i grandi e colorati Ara, che al nostro avvicinarci furtivo fanno un casino incredibile. Ne vedo una coppia che riesco a fotografare bene, poi volano via “brontolando” come forsennati. Anche qui dopo credo ben più di 10 chilometri si torna indietro. D’un tratto l’autista ferma bruscamente e scende. In acqua vicino al bordo della strada, in mezzo alle erbe galleggianti, c’è un bell’esemplare di anaconda tutto attorcigliato su se stesso. La parte più grossa che vedo del corpo ha un diametro di circa 20 cm. La guida e l’autista si tolgono le scarpe, prendo un ferro lungo ad uncino e si avvicinano all’animale. Sono comunque ad 1 metro anch’io, mentre Manu rimane sul punto più alto del camion. La muovono con attenzione per individuare dove sia la testa, per evitare di farsi mordere, e tentano con le mani e con l’uncino di prenderla. Questa però comincia a dimenarsi e a districarsi e scappa via e dalle sue spire esce una tartarura. Se quella di stamane, con un diametro che sarà stato si e nò 8 cm, era 2 metri e mezzo, quanto lunga sarà stata questa? Almeno il doppio! Un momento veramente emozionante. La tartaruga viene messa a riva, la prendo e gli dico che gli è andata bene, poverina. A meno di un chilometro dal lodge Jonas mi chiede se voglio scendere e proseguire a piedi per essere più immerso nella natura, e dico chiaramente di si. Procedo spostandomi continuamente da un lato all’altro della strada, faccio foto di qua e di là e sotto ad una pianta, in acqua con il muso appoggiato a riva, trovo un bel caimano nero dell’Orinoco da più di 3 metri (non vedo dalle gambe posteriori in poi, immerse in acqua). E’ un bestione enorme. Sono a meno di 10 passi. Forse sono stato incoscente, o forse è stato meglio così, ma mi limito ad accucciarmi per fotografarlo per poi dileguarmi tranquillamente. Vicino al campo trovo un’altro gruppo di caimani più piccoli, sono una decina e sono vicinissimi ma sono su una posizione rialzata e ripida della riva. Sembra si mettano in posa per le foto, facendomi vedere le belle dentature e sentire il soffio che fanno con la bocca. Ancora capibara e iguane dappertutto e arrivo. Più tardi quando ho spiegato a Jonas dell’incontro con il grosso caimano e gli mostro le foto questo mi dice che sono stato molto fortunato, e anche molto loco ad avvicinarmi così tanto. Mi è andata bene. I caimani corrono molto più di un uomo! Tempo fa è successo ad uno della fazenda di essere rincorso e non è successo nulla solo perchè c’era la jeep li vicino. Cavolo. Io ero lì, solo, senza jeep, lontano dall’accampamento. E mi lasciate fare una passeggiata da solo senza dirmi nulla?! Ma in quel momento non avvevo alcun timore. Ero solo affascinato dall’animale e magari lui ha percepito questo. Cena socialista, con uno che si mette a suonare una specie di arpa, uno strumento tipico dei llaneros, e poi a nanna. Qui sembra di essere in collegio.

Mercoledì 5 gennaio – los llanos (su acqua)

Ancora una bella giornata. Oggi usciamo in barca per un’escursione di 3 orette sui canali fino al Rio Matiyure. Ci accompagna Victor, una simpatica guida locale con la faccia un pò da Charles Bronson, annerita dal sole. Iniziamo la navigazione su una specie di canale, che poi comprendo essere solo una striscia senza vegetazione poichè tutto il verde che vedo attorno non sono prati ma erbe e piante galleggianti. Vediamo ancora uccelli di tantissime specie e ad un certo punto ci fermiamo per la pesca del pirañas, che qui chiamano El Caribe. Ne prendiamo molti, io un paio, ma poi li ributtiamo in acqua. Entriamo in un affluente vero e proprio, con fitte mangrovie ai lati e Victor ci dice che dobbiamo incontrare Elisa. Attracchiamo, spegnamo il motore e aspettiamo. Poco dopo si avvicina un rapace, ed è Elisa. Victor infila un pezzo di carne sullo spuntone di un ramo e ci allontaniamo qualche metro. La bestia ci osserva, piano piano si avvicina al boccone e inizia il pasto. Che foto! Poco dopo tocca a Iolanda, un altro rapace, che vediamo all’azione in volo su un pezzo di carne che Victor ha lanciato in acqua. Partenza, volo planato, presa infallibile e volo verso l’interno con la preda fra gli artigli. Spettacolare! Più avanti altra fermata, stavolta per l’appuntamento con Pedro, Miguel e Shakira, che sono dei caimani. Su un’asta di legno Victor infila un pel pezzo di carne, lo batte in acqua e aspetta col boccone a mezz’aria. Dalla sponda opposta del fiume si vede avanzare la linea sinuosa del caimano Pedro. Sotto al pezzo di carne si ferma, alza un pò il muso poi con un balzo si erge in verticale fuori dell’acqua fino a quasi le zampe posteriori e tenta di azzannare il boccone, che Victor ha prontamente alzato, con un sonoro schiocco delle mascelle che si chiudono a vuoto. Si ripete questo gioco un’altro paio di volte finchè lui non ha la meglio e si porta via l’agoniato spuntino. Tocca poi a Miguel, un esemplare un pò più grosso, lo stesso gioco. Che scene! Altro che i documentari. E il tutto a due metri da noi. Lì attorno vedo anche diversi altri musi affioranti, con i denti a filo d’acqua e quegli occhi sinistri che ti fissano. Shakira arriva più tardi, da brava femmina si fa desiderare, e si ferma ad osservarci a qualche metro ma non sembra avere voglia di giocare. Per oggi basta. Si ritorna al campo e seduto a cavalcioni sulla prua mi gusto il paesaggio. A terra incontriamo i vaqueros che stanno spostando una mandria da 1400 capi, uno spettacolo anche questa. Ma ora stop alle escursioni, pranzo e “scanso” non stop. Questo pomeriggio relax, che domani si parte per Los Roques. La sera, quando siamo già a letto Jonas ci notifica un altro problemito. Il volo da Barinas è stato annullato e pertanto si va a Caracas in macchina, e sono 800 chilometri per cui si parte con sveglia alle 4 e mezza. Va beh, dico. Almeno vedo il territorio.

Giovedì 6 gennaio – da los llanos a caracas e los roques

Alle 5 siamo già in strada con un sonno micidiale. Ho già perso tutto il jet-lag e per la prima parte di viaggio riesco a dormire in piedi. Solo dopo tre orette ci fermiamo in un locale a mangiare un panino e prendere un caffè. Verso le 8 compare il primo di una serie di inconvenienti che segneranno la giornata come la più tumultuosa. La frizione della Toyota comincia a slittare. Ci fermiamo per un check ed effettivamente si sente odore di bruciacchiato. Iniziano fitti contatti telefonici fra Jonas e Cosimo e intanto si prosegue guidando come si suol dire con l’uovo sotto al piede dell’acceleratore. A 4 ore dalla partenza si decide che non è il caso di andare avanti così: non arriveremmo mai. A San Fernando De Apure si abbandona la jeep e si prende un taxi, una utilitaria Tata. Avanti e avanti, dopo 3 orette, a San Juan de Los Morros, il radiatore comincia ad andare in ebollizione. Rabboccatina d’acqua e fitta serie di telefonate del taxista con la base e di Jonas con Cosimo. Il nostro aereo, ricordiamo, ha l’ultimo check-in alle 15:15. E’ l’una siamo ancora ben lontani da Caracas. Considerato che la parte finale del tragitto è montuosa, prima di arrivare a Caracas, il taxista non se la sente di rischiare e chiama un suo collega per un trasbordo. Alle 2, in un affollato paesino di crocevia, ci fermiamo per il meeting. Nell’attesa vedo e fotografo pullman veramente folcloristici, inneggianti alla Madonna di tutti i tipi, da quella di Fatima a S. Maria Ausiliatrice. Jonas è tesissimo e lo vedo molto preso per noi. Saliamo su un’auto “più veloce”, una Fiesta, e via in autostrada con sorpassi anche sulla corsia di emergenza. Chiedo se si può fare e mi rispondono ironicamente che “qui siamo in Venezuela!”. L’autista infila dei guanti in pelle nera e via ai 160 all’ora, con limite degli 80, con fari lampeggianti a manetta su un’autostrada che sembra la Bologna-Firenze. Solo che qui le regole della strada sono anarchiche e ci sono anche ogni tanto delle belle buche a sorpresa. L’autista sembra aver preso a cuore la nostra esigenza e sfreccia a destra e sinistra nel traffico che sembra Alonso. Arriviamo all’aeroporto alle 15:20 e Jonas si fionda dentro ma è troppo tardi. Il volo è andato, ed e l’ultimo della giornata. Jonas e Cosimo avranno nel frattempo fuso i telefonini e miracolosamente salta fuori un’occasione irripetibile. C’è un piccolo aereo merci della stessa compagnia che parte a momenti e, con le suppliche di Cosimo, accettano di imbarcarci. Si dormirà a Los Roques, mi dice contento Jonas. Ancora una medaglia a Energy Tour. Di corsa il controllo bagagli, un addio alla nostra simpatica guida e via al gate. L’aerino è un trimotore a elica e siamo seduti dietro ai due piloti in una cabina stetta e lunga. Sembriamo su una Smart. Ad ogni modo partenza e via sul mare verso l’arcipelago. In meno di un’ora cominciamo a sorvolare le isolette sparse in un mare cristallino e scendiamo all’aeroporto dell’isola di Gran Roque. Beh, chiamarlo così è un tantino esagerato, con una semplice striscia di asfalto che termina sul mare e la torre di controllo che è un gabbiotto montato su un romorchio. Paghiamo 130 Bfs a testa come tassa di ingresso al Parque Natural de Los Roques e la signora della posada è lì ad attenderci con un carrellino per i bagagli. Sono le 5 del pomeriggio, ben 12 ore dalla partenza, e siamo sfiniti. Chiamo Cosimo per ringraziare, poichè si è veramente fatto in 4 per salvare il salvabile, e poi anche Jonas, che non avevamo potuto salutare per bene all’aeroporto. E’ stato bello e divertente viaggiare con Indiana Jonas, che oltre che essere simpatico e giocherellone è anche bravo, professionale e preparato. Arriviamo alla posada Corsaria, sufficientemente carina come molte altre, non c’è l’aria condizionata ma solo il ventilatore sopra il letto. Il tempo di una doccia, fredda, un giretto per orientarsi un pò e poi la cena. Chiacchierata con una famiglia di italiani, in partenza l’indomani, che ci dice di non essere stata fortunata con il tempo e che è piovuto spesso poi a letto. Che giornata!

Venerdì 7 gennaio – los roques

Decidiamo di ambientarci con un’escursione su una delle isole più vicine, Francisquì, dove c’è anche un ristorantino in cui si mangia pescado e aragosta. All’isola si arriva in 10 minuti, l’acqua è blu, azzurra e turchese e la spiaggia bianca. Molte barche alla fonda. Puro Caribe, da cartolina. Per me crema ultraprotettiva tipo cemento. Fa un caldo bestiale e se tenti di andare all’ombra delle mangrovie vieni mangiato vivo dai mosquitos. Ci ho provato e ora sono butterato come con la varicella. Non posso certo dire che sia un brutto posto, anzi. Le foto hanno colori da favola. Ma per me che sono bianco latte e che non vado daccordo nè con il sole nè con la salsedine appiccicaticcia nè con la sabbia fine non è sinceramente il posto ideale. Era più ideale la laguna di Canaima, meno calda e di acqua dolce. Si griderà all’eresia, ma mi chiedo come possa qualcuno fare migliaia di chilometri solo per stare a fare il pollo asado su una sdraio. Erano 100 metri di spiaggia molto affollata di ombrelloni e di gente che arrostiva al sole per ore senza far nulla e poi o andava al ristorante o bivaccava con la propria “cava” (contenitore termico con dentro ghiaccio, bibite e cibo). Almeno io prima ho visto territorio e gente, e sono le cose che ricordo con maggior piacere. Mangiamo del pesce al ristorante e nel mentre assistiamo allo sterminio delle aragoste. Poveracce, scelte dai turisti, prese e tagliate a metà con un coltellaccio, da vive, che le vedi inarcarsi come se urlassero e poi gettate su una piastra a cucinare. Ho guardato più volte la scena e non mi è piaciuta. Ne avranno fatte fuori una trentina. Finito il pranzo via di nuovo sotto il sole. Per Manu il sole non è assolutamente un problema ma io, dopo una breve esplorazione da una parte e dall’altra della spiaggia sono dovuto rimanere rintanato sotto la tettoia del ristorante come un profugo. Domani proviamo un’escursione fra le più lontane, Cayo De Agua. Al rientro giriamo per il caratteristico paesino, che non è altro che un assembramento di posade dipinte di molti colori con delle stradine di sabbia, cercando qualche segnale wi-fi non protetto, che trovo in prossimità del parco giochi. Controllatina alla posta e un’occhiata al giornale online per vedere se ci sono novità in Patria, poi a cena. La nostra ospite è una brava cuoca e si mangia molto bene.

Sabato 8 gennaio – los roques

Partenza per la famosa Cayo De Agua, chiamata così perchè ci sono delle sorgenti di acqua dolce dove i locali andavano a prendere acqua prima che costruissero il desalinizzatore. Attenzione a proteggere camere e telefonini perchè l’acqua salina è micidiale e ci vuol niente a rovinarli. A me è purtroppo è successo col telefonino. Un pò di umidiccio salato ed è muerto. A Cayo De Agua ci si arriva in un’oretta di navigazione ma prima facciamo una fermata sull’isola di Dos Mosquises dove ci sono delle stazioni scientifiche. C’è una organizzazione non governativa che lavora per la tutela e salvaguardia delle tartarughe marine. Ne vediamo tante di piccoline, tenute a crescere nei vivai prima di ritornarle al mare e al loro destino. Ripartiamo e dopo un pò arriviamo all’isola di destinazione. Ci sono solo altre 4-5 lance e quindi su una lunga spiaggia di sabbia corallina bianca saremo si e no 50 persone. Ideale, da questo punto di vista. Giù ombrelloni, seggioline e cava, vicino ad una coppia brasiliana che alloggia anch’essa alla stessa posada. Poi ripeto la frase di ieri: l’acqua è blu, azzurra e turchese e la spiaggia bianca. Puro Caribe, da cartolina. Crema ultraprotettiva perchè altrimenti faccio la fine di una sigaretta accesa. Faccio un giro per l’isola per delle foto poi continui bagni in mare, che si sta sicuramente meglio in acqua anche se salatissima. Sono ormai zuppo, con dita e labbra rattrappite, salato come una sardina, con sabbiolina fine dappertutto. Proprio quello che piace a me (ironicamente parlando se non si capisce). Manu invece è nel suo habitat ideale. Tento di andare alla sorgente di acqua dolce ma devo rinunciare perchè ci sono degli arbusti che rilasciano dei piccoli ciuffetti pungenti che riescono a piantarsi dappertutto, anche sulla gomma delle ciabatte. Bisognerebbe andare in pantaloni lunghi e scarpe da trekking. Finalmente (per me chiaramente) volge l’ora del ritorno e si parte. Il vento si è alzato abbastanza e la barca si impenna continuamente sulle onde ricadendo con dei botti terribili che si trasmettono sul fondoschiena. A circa metà strada ci fermiamo a fare una tappa sull’isola di Espenqui, per altri bagni di sole e di acqua. Niente foto perchè bla bla bla l’acqua è blu, azzurra e turchese, la spiaggia bianca, puro Caribe, da cartolina. Non sò, ma secondo me vista una viste tutte, e qui molti grideranno all’eresia ancora una volta. Dopocena ci mettiamo daccordo con il lanchero di oggi per andare domani all’isola Crasqui (o Crasky), indicata come molto bella e dove c’è anche un ristorantino.

Domenica 9 gennaio – los roques

Siamo anche oggi in compagnia di una coppia brasiliana (Patricia e Hosè Carlos) e di una venezuelana (Vanessa e Antonio), riempiamo una cava comune con cerveza, refrescos, agua e hielo e via all’isola di Crasqui. La giornata è abbastanza coperta ma non importa. In circa 20 minuti di barca si arriva sul lato dell’isola dove c’è una spiaggia biancha da 1 chilometro e ci sono solo quattro gatti. Piantiamo ombrelloni e seggiolini e via con il primo bagno, poi un giretto di qua e uno di là e un pò di snorkeling su un lato dell’isola dove c’è un pò di barriera corallina. Stavolta ho bardato la reflex con il sacchetto di nylon (la sabbia è finissima e penetra dappertutto) e quindi giù foto, anche alle belle ragazze. Che dire. Mi ripeto. Bla bla bla, l’acqua è blu, azzurra e turchese, la spiaggia bianca, puro Caribe, da cartolina. Andiamo poi a mangiare e, nonostante quanto visto sulla prima isola (sì, va beh, sono forse un pò cinico, ma l’aspetto dei piatti è molto invitante), ci facciamo un’aragosta. Veramente una buona mangiata. Il ristorantino merita, il servizio è buono e vale sicuramente di più di quello che c’è a Francisquì, oltre ad essere ben più economico poichè con una aragosta da 1,2 kg, bibite e contorni paghiamo 236 Bfs (come il piatto di pescado a Francisquì). Ancora un pò in spiaggia, bello arrostito e con tutte le asciugamani addosso, oggi, al terzo giorno di mare, sale e sabbia, merito la medaglia al valore. Con i nostri amici abbiamo scambiato una bella chiacchierata sul Brasile, che praticamente non ha visto la crisi, e sul Venezuela. Di questo non ho trovato nessuno che ne parlasse positivamente, nemmeno le guide indio di Canaima, e tutti confidano nelle prossime elezioni del 2012. Mah!. Il Brasile invece và che brucia, con economia in fortissima crescita, i prossimi mondiali di calcio e le prossime olimpiadi. Più tardi arriva la lancia che ci riporta alla posada dove immediatamente faccio una bella doccia ristoratrice per togliere sale e sabbia.

Lunedì 10 gennaio – los roques

Giornata molto tranquilla. Assieme alle due coppie di amici di vacanza ritorniamo all’isola Francisquì. La giornata non è limpida e andiamo lì perchè è vicina e perchè c’è il ristorante. I nostri amici hanno comunque la cava piena di hielo e cervezas e… Cavolo se bevono. Ci danno dentro bene e in una giornata si fanno fuori anche 15 lattine di birra a testa. Oggi quindi semplicemente un pò di spiaggia, dei bagni e un’aragosta a pranzo (conto molto caro in confronto al ristorante di Crasqui dato che con molta meno roba paghiamo ben 375 Bfs, ma è perchè l’isola è molto vicina e vengono qui in molti a mangiare, quindi per la legge della domanda e dell’offerta i prezzi salgono). A momenti alterni fa sole o “lluvia”, però è bello stare in un mare caldo sotto la pioggia battente. Torniamo presto in posada e stiamo per tutto il pomeriggio a parlare con i nostri amici di Brasile, Venezuela e Italia, di noi, di usi e costumi, di politica ognuno del proprio paese, di vacanze, ecc. Un pomeriggio bello e istruttivo, e loro bevono e bevono, e finite le cervezas si passa ai cuba libre! Ceniamo (la signora della posata ci fa una cenetta coi fiocchi) e ci diamo appuntamento a domani con un “asta magnana” per i saluti, che alle 11 abbiamo l’avion.

Martedì 11 gennaio – Da los roques a casa

Con calma salutiamo i nostri amici e ci scambiamo gli indirizzi, che se andremo in Brasile abbiamo un’offerta “my casa es tu casa”. All’aeroporto di Los Roques c’è il “terminal on the beach” con il check-in più folk mai visto finora. Il nostro aereo Chapi Air è pronto, salutiamo l’assistente della posada, Margarita, e la nostra padrona di casa Maràli che ci ha portato i bagagli fin sotto all’aereo con il suo “carrito”. Baci e saluti e via verso Caracas, con le ultime foto aeree delle isole e delle barriere coralline illuminate dal sole mattutino. Alle 12 siamo a Caracas e dobbiamo attendere ben 11 ore per il nostro TAP Portugal. Almeno c’è l’aria condizionata (a manetta) e non si suda! Cambiamo ancora un paio di volte qualche dollaro, sempre da gente in divisa, prima a 7,5 poi persino a 8. Averlo saputo prima! Capisco che è perchè sanno che stiamo partendo e prendono il prendibile, quindi se venite in Venezuela, appena sbarcate a Caracas fate un salto al piano di sotto alle partenze e spacciatevi da turisti in partenza, che il cambio è migliore. Comperiamo un pò di cioccolato venezuelano Savoy e aspettiamo. Manu come sempre non ha problemi a passare il tempo con un libro in mano. Arriva ora di check-in che dura ben 3 ore, con la polizia che ad ognuno fa prima un sacco di domande (se hai parenti in Venezuela, se è la prima volta che vieni, quanto e dove sei stato, ecc. Ecc) e in molti casi fa un controllo dei bagagli, anche se incellofanati. Finalmente siamo seduti al gate, con un bel Burger King e coca e aspettiamo. Pensavo di rimanere ad abbioccarmi sulle poltroncine ed invece un’ora prima dell’imbarco sento all’altoparlante il mio nome, assieme ad altri, e ci viene chiesto di contattare il personale di sicurezza del gate. Nuova esperienza. Controllo passaporto un’altra volte e poi devo seguire un addetto fino agli interrati, nell’area dove controllano i bagagli imbarcati, per un controllo manuale delle valige. Si tratta di un controllo antidroga. Su un bancone, con poliziotti e cani dappertutto, apriamo la valigia e si controlla tutto. Ci spiegano che tubi e tubetti di cosmetici e creme possono sembrare droga al controllo ai raggi x e quindi viene richiesto un controllo con la supervisione del proprietario del bagaglio. Andato tutto bene (ci mancherebbe!) e messo quindi in archivio anche questa nuova esperienza. Chissà che si parta e che sia finita! Sono sulla passerella per montare in aereo e invece non è ancora finita. Troviamo un altro gruppo di polizia della sicurezza che mi percquisisce gambe e braccia aperte e poi controlla sia lo zaino dei souvenir che quello delle reflex. Ma non eravamo già passati sotto ai metal detector noi e ai raggi x il bagaglio a mano? Ma dove cavolo potevo prendere qualcosa di strano, che sono in zona franca da ore? Al duty free? Ma insomma! Alla fine siedo al mio posto e riesco a schiacciare un pisolino finchè finalmente si parte. Più tardi si cena, e confermo che TAP è tutto sommato una buona compagnia aerea per essere economy, poi un film e a nanna (per modo di dire).

Conclusioni

(1) Il Venezuela nei luoghi turistici è sufficientemente sicuro – (2) L’agenzia Energy Tours di Ciudad Bolivar è da consigliare, e fatevi dare Jonas che è bravo e simpatico – (3) In ordine di preferenza voto gli Indios Warao all’Orinoco, l’escursione al Salto Angel, la laguna di Canaima, La fauna de Los Llanos, il territorio della Gran Sabana e l’Arcipelago di Los Roques, ma è un giudizio estremamente soggettivo conseguente anche alla mia poca passione per sole e sale (e mosquitos). (4) Tenete conto della religiosità dei Venezuelani. Durante alcune feste molti servizi rischiano di saltare, come a noi alcuni voli a Natale ed Epifania. Buon viaggio a tutti! E se volete maggiori dettagli, scriveteci!

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Salto Aponwao

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La Gran Sabana

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Delta dell'Orinoco

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Los Llanos

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Los Llanos

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Canaima Lagoon

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Salto Angel

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Los Roques



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