A Palermo in bassa stagione

Alla scoperta della città (e non solo)
Scritto da: cappellaccio
a palermo in bassa stagione
Partenza il: 27/12/2011
Ritorno il: 02/01/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
Devo dire che mi è sorto un grande interesse per Palermo dopo aver letto i due romanzi di Santo Piazzese, I delitti di via Medina-Sidonia e La doppia vita di M. Laurent, il cui protagonista, Lorenzo La Marca, si muove per i quartieri di Palermo durante le sue “improvvisate” indagini. Io non riuscivo a ricreare, nell’immaginazione, gli spazi che descriveva, perché non c’ero mai stata. I due romanzi polizieschi editi, tra l’altro, proprio dalla Sellerio di Palermo sono veramente spassosi per via delle battute che fa costantemente il personaggio principale. Prima di partire per la Sicilia sognavo ad occhi aperti di poter uscire a cena con Piazzese, già che ero dalle sue parti…

Ho scelto il periodo natalizio per evitare le fiumane di turisti che si riversano a Palermo per Pasqua o nel periodo estivo. Difatti il vantaggio è stato che non ho dovuto mettermi in coda per visitare alcun monumento, inoltre le giornate non erano per nulla roventi, come in luglio o agosto, ma comunque il clima era mite.

L’arrivo in città

Il 27 dicembre, al mio arrivo, la pioggia cadeva a sprazzi; sottile mentre sbarcavo dal velivolo di Ryanair all’aereoporto di Punta Raisi alle otto del mattino, lievemente più intensa eppure sempre incostante quando gironzolavo fra le bancherelle del mercato del Capo o ammiravo quel seducente ricamo, finemente scolpito, che è la facciata della cattedrale di Palermo. Dopo la visita alla cappella Palatina, all’interno del Palazzo dei Normanni, mi sono diretta in autobus al Palazzo della Zisa e a partire da quel momento non è scesa più nemmeno una goccia, il che mi ha permesso di passeggiare lungo i viali odorosi dell’Orto Botanico, sedermi su una panchina del parco di Villa Giulia, camminare sul lungomare di Palermo (dove onde enormi e rabbiose s’infrangevano sugli scogli) accanto a quella rumorosa arteria cittadina che è il Foro Italico; aggirarmi nei dintorni di Piazza Marina e scattare istantanee delle statue nude della fontana Pretoria, degli interni spogli della chiesa di San Cataldo e dei palazzi che si trovano all’incrocio detto i “Quattro Canti”. La Martorana non sono riuscita a vederla perché era in restauro, però sono entrata nel tempio barocco di Santa Caterina, quindi ho fatto rotta verso il B&B “A casa di amici” nei pressi del Teatro Massimo, in via Volturno, dove al mattino avevo subito pagato il conto di circa duecento euro (per sei giorni) e depositato la valigia prima di iniziare a scarpinare.

28 dicembre

Nonostante le previsioni catastrofiche, già in mattinata il cielo era riuscito a liberarsi quasi completamente dalle nuvole, così sono andata in treno a Bagheria e ho affrontato lo squallore del paese per raggiungere il centro a piedi e lì, finalmente, ho potuto godermi la bellezza decadente della settecentesca villa Palagonìa. Dapprima mi sono affacciata alle sbarre del cancello: oltre intravedevo un giardino e in fondo a un vialetto di ghiaia un edificio a pianta ellittica scandito da grandi finestroni ad arco a tutto sesto. Una volta pagato il biglietto, ancora all’esterno della villa, ho osservato le famose statue grottesche, la cui mostruosità scaturiva dal loro essere sporche e striate di nero più che dalla caratteristica di rappresentare figure bizzarre. Poi mi sono avventurata su per la scalinata a tenaglia che si trova sul retro rispetto alla biglietteria e ho adagiato il fondoschiena sul pavimento della sala degli specchi per contemplarne lo stupefacente soffitto. Più tardi, ancora grazie alle Fs mi sono spostata a Cefalù, dove non ho potuto far altro che constatare quanto è stata deturpata la costa dalla furia cementifera negli ultimi anni. Anche a Cefalù, nonostante la sua nomea di centro balneare secondo solo a Taormina, le vie del centro erano discretamente squallide. Certo il duomo era splendido sia all’esterno che all’interno e sono rimasta piacevolmente impressionata anche dai lavatoi medievali tinti di un rosa pallido, un mondo fatto di acqua gorgogliante al quale si scendeva tramite una scala. Il ritratto di ignoto di Antonello da Messina mi ha sorriso dal suo quadro in una delle sale del museo Mandralisca, le cui collezioni non mi hanno strabiliato (però valeva la pena di fermarsi davanti al suddetto ritratto). L’unico momento di prolungato godimento estetico me lo sono regalata contemplando il paesaggio dopo aver percorso il sentiero che conduce in cima al dirupo che sovrasta Cefalù. mi sono seduta sui ruderi della rocca e ho spalancato gli occhi sul panorama spettacolare che si apriva sul lato opposto rispetto a Cefalù, dove antiche pietre e colline non troppo aggredite dalle costruzioni moderne, facevano da cornice a un bel mare azzurro, si udivano voci di uccelli in volo e un profumo denso di resina di pino. Il tutto mi mandava in brodo di giuggiole, perciò mi sono trattenuta un’oretta, durante la quale ho anche attaccato bottone a tre tedeschi, dai quali ho capito che avevano acquistato una casa a Capo d’Orlando. Poco prima di avviarmi verso la stazione dei treni ho telefonato all’hammam di Palermo per prenotare il mio ingresso al bagno turco per quella sera stessa, dato che sapevo che era il giorno riservato alle donne. Al calar della sera mi sono infilata nell’hammam di via Torrearsa e ho vissuto un’esperienza indimenticabile. Prima di tutto ho sganciato 50 euro (40 per entrare e 10 per il “kit” composto da ciabatte antiscivolo e guanto marocchino per la “tortura” del gommage). Il personale in assistenza alle clienti era costituito da due ragazze di colore che si esprimevano in modo a me non del tutto comprensibile. Dopo vari tentativi una delle due tipe è riuscita a farmi capire che con l’ausilio di un mestolo – col quale avrebbe sicuramente voluto darmi una mestolata in testa, poiché sembravo dura di comprendonio- dovevo versarmi addosso dell’acqua calda che si trovava in alcuni secchi disposti in fila di fianco a me; questo allo scopo di acclimatare il corpo ai 45 gradi del calidarium. Quando ormai nei recipienti non rimaneva che una sorsata d’acqua mi hanno fornito una ciotolina con del sapone all’olio d’oliva, che mi sono spalmata su tutto il corpo… dopo che l’operatrice con i nervi triturati ha ripetuto per l’ennesima volta la consegna. Poi ho ricevuto una rapida massaggiatina e infine mi hanno rovesciato addosso un’altra copiosa mestolata d’acqua calda. A questo punto sono penetrata nella nebbia che pervadeva la stanzetta rotonda e bollente del bagno turco, sovrastata da una cupola illuminata da faretti. Mi sono crogiolata per una mezz’ora nel vapore, sono uscita in punto di svenimento per bere dell’acqua fresca, quindi mi sono avviata verso l’ultima tappa del rituale. Si trattava di sdraiarsi su un piano di ceramica e farsi pelare col guanto esfoliante, come il maiale sulla “pladura” diremmo noi in dialetto ferrarese… Altre due mestolate per sciacquare via le cellule morte e si ultimava il processo in una piccola vasca a idromassaggio. Al termine del servizio, avvolta ancora nell’asciugamano, mi sono gustata una tisana e dei biscotti nella saletta del relax con musica orientale come sottofondo. Almeno, tornata al B&B, ho sentito meno il freddo che regnava “A casa di amici”, dove né gli ambienti comuni, né il bagno erano riscaldati e solo in stanza potevi accenderti il termoconvettore, che però faceva fatica a scaldare una camera dal soffitto altissimo.

29 dicembre

In mezz’ora sono andata a piedi alla stazione Fs di Palermo Norbartolo e di lì ho preso l’unico treno giornaliero che fermava a Segesta Tempio, quello delle 9.44. Attorno a mezzogiorno emergevo dalla stazioncina Fs assolutamente deserta e nei paraggi, ovviamente, non si vedeva alcuna indicazione su come raggiungere l’area archeologica. Ho fatto un tentativo di rientrare in stazione perché con la coda dell’occhio ho scorto un movimento: c’era qualcuno. Un uomo in età da pensionamento era in procinto di uscire e gli ho subito chiesto quello che volevo sapere, cioè dove piffero si trovava la zona degli scavi. Il tipo aveva un accento inglese e non sembrava cogliere il significato della domanda. Gli ho chiesto se era straniero. Lui ha confermato, ma alla fine effettivamente ha capito cosa volevo e si è offerto addirittura di accompagnarmi in auto all’ingresso. Così abbiamo chiacchierato per pochi minuti in inglese, mentre lui, guidando, ha dovuto scansare un gregge di pecore che brucavano l’erba a ridosso della strada. All’entrata ho scoperto che la cosa migliore da fare era iniziare con la visita del’enorme tempio del V sec. a.C. e poi con una navetta, al prezzo di un euro e cinquanta, raggiungere l’area dove si trovava il teatro. Ho quindi seguito il consiglio offertomi dalla persona che stava alla biglietteria e mi sono arrampicata prima di tutto fino al maestoso tempio che si erge in un’area isolata e rocciosa; mi ci sono seduta di fronte, affascinata dalla sua incompleta perfezione e ho letto da cima a fondo la pagina della mia guida della Sicilia riguardante Segesta. Stanca di poggiare il deretano sulla panchina mi sono messa a passeggiare con flemma ostentata attorno all’edificio sacro, che mi ha dato l’impressione di qualcosa di solido e inamovibile. Sono scesa di nuovo alla biglietteria e dopo aver consumato rapidamente una pizzetta al bar sono montata sull’autobus per andare a vedere il teatro. Quando ero lì il cielo ha cominciato a scurirsi e dopo un po’ scendeva una pioggerella leggera. L’umidità non mi ha fatto desistere dall’installarmi su un sedile di pietra nella parte alta della gradinata e stare a contemplare i dolci declivi circostanti e una piccola porzione del Golfo di Castellammare che si scorgeva in lontananza. Mi sono incamminata verso la fermata della navetta e mentre leggevo su un pannello esplicativo degli scavi dell’Agorà condotti dalla scuola normale superiore di Pisa si sono materializzate due giovani coppie che parlavano ora in francese, ora in spagnolo, ora in inglese. Ho commentato -in francese- che mi sembravano ragazzi molto internazionali e mi hanno spiegato che i maschi erano francesi, mentre le ragazze erano spagnole. Insomma alla fine ho avuto la faccia tosta di chiedere loro dove andassero dopo Segesta e mi hanno risposto ciò che volevo sentirmi dire, cioè che andavano a Erice e che dal borgo medievale si sarebbero spostati per il pernottamento a Trapani, da dove sapevo che partivano vari pullman per rientrare a Palermo. Subito si sono detti disposti a integrarmi temporaneamente nella loro combriccola per la visita di Erice (si vede che non avevo poi un piglio così poco raccomandabile come pensavo). In macchina, Elena guidava e Maria le faceva da copilota. Dato che mi hanno chiesto cosa sapevo della Sicilia ho cercato di tener desta la conversazione, narrando in francese, a grandi linee, la trama de’ La giara, di Pirandello e dei Malavoglia di Verga. Insomma, ho tediato un po’ Guillaume, che sedeva alla mia sinistra. Dopo aver parcheggiato l’auto lungo le mura di Erice siamo saliti in direzione del castello normanno che ci ha regalato un suggestivo tuffo nel medioevo. Più procedevamo e più il sorriso mi si allargava in volto. Aveva cessato di piovere e il panorama dall’alto del Monte San Giuliano era impareggiabile. Anche se c’era ancora una forte umidità nell’aria, cioè l’atmosfera non era tersa, si spaziava dalle isole Egadi alle saline di Trapani, mentre una nuvola bianchissima galleggiava a mezza costa nascondendo parte della città di Trapani. All’interno del castello, dietro le finestre, si vedeva brillare una lucina arancione da presepe, ma l’antica fortezza era chiusa. In seguito abbiamo sfiorato la torretta Pepoli e siamo andati a zonzo per gli stretti vicoli lastricati, che hanno cominciato a intricarsi e a diventare un labirinto nella zona della chiesa di San Michele, sul sagrato della quale un drappello di arditi spadaccini della compagnia di Avalon di Jesi (nelle Marche) si stava esibendo in costume d’epoca in combattimenti simulati di scherma medievale. Mentre Elena, Maria, Jean-Benoît e Guillaume assistevano allo spettacolo io mi sono intrufolata in una pasticceria per omaggiare i miei quattro benefattori con un vassoio di dolcetti tipici di Erice. Allo stesso tempo mi sono informata sull’ubicazione della stazione degli autobus di Trapani: a quanto pareva si trovava di fianco a quella dei treni. Al crepuscolo, abbiamo proseguito la nostra passeggiata attraverso vicoli storti e poco illuminati per poi ritrovarci, inaspettatamente, nei pressi di porta Trapani, di fronte alla Chiesa Matrice, col suo grande portico gotico, il rosone traforato e il suo bel campanile merlato. In silenzio, per via della stanchezza, abbiamo percorso in discesa i tornanti che ci hanno condotto a Trapani. Per strada abbiamo notato le cabine della funicolare che porta dalla periferia di Trapani a Erice. Malgrado l’ingorgo del traffico tipico dell’ora di punta ce l’ho fatta a chiedere indicazioni ai passanti, così siamo riusciti miracolosamente a trovare la fermata della Segesta, dove ho preso congedo dai miei nuovi amici e ho atteso una mezz’ora abbondante l’arrivo della corriera per Palermo, che impiega circa due ore per raggiungere il capoluogo siciliano. Alle nove di sera sono sbarcata nei pressi del Teatro Politeama e alle 21.30 sono stramazzata sul materasso, che mi ha lasciato sulla schiena l’impronta delle molle.

30 dicembre

Oggi ero più sicura di come sarebbero andate le cose perché sapevo che, come concordato con Tourist business service, alle sette e trenta sarebbe arrivato un autista per accompagnarmi alla Riserva dello Zingaro. All’altezza di Sferracavallo però la pioggia crepitava già sul tetto della macchina e l’andirivieni del tergicristalli era di pessimo auspicio per una mattinata di trekking… Invece, giunti all’ingresso di San Vito, il cielo era solo parzialmente coperto da nuvole che correvano veloci e cambiavano forma rapidamente ma aveva smesso di piovere. Naturalmente il sentiero sterrato della riserva era pieno di pozzanghere da schivare. Dopo aver pagato tre euro al botteghino un’anziana custode dotata di stivali di gomma mi ha scortata fino al museo delle attività marinare, dove mi ha compitato più o meno a memoria quanto aveva imparato sulle tecniche di pesca dei tonni quando ancora veniva praticata la mattanza. In particolare mi ha parlato delle “scialome”, i canti che scandivano le tappe della mattanza e dei labirinti di reti in cui i tonni restavano intrappolati per poi essere scannati nella “camera della morte”. Uscita dal museo ho continuato a camminare in discesa fino alla cala dell’Uzzo. Lì l’acqua trasparente sciabordava attorno a uno scoglio e l’unico altro rumore che si sentiva era quello dello scricchiolio dei ciottoli sotto alle mie scarpe inzaccherate di fango. Seguendo l’indicazione “ingresso sud” mi sono spinta alla grotta dell’Uzzo, una gigantesca cavità che ci si può tranquillamente immaginare frequentata da uomini preistorici intenti a scheggiare selci. Poi mi sono mossa adagio, sempre in salita, fino a Punta Leone; lungo il percorso si vedevano rocciose lingue di terra che cedevano il passo a insenature dai colori cangianti. Regnava sovrano un silenzio incantato solo interrotto dallo sporadico strillare dei gabbiani e passeggiando al lato di bassi cespugli – alcuni dei quali illuminavano le rocce di giallo – uno si sentiva completamente disarcionato dalla routine quotidiana. Ero quasi stordita da quell’insolita pace. Quando, dopo un paio d’ore abbondanti sono giunta all’uscita di Scopello, ho sottopassato una galleria scavata nella roccia e ho scorto immediatamente l’auto bianca di Tourist business service che mi attendeva da un pezzo. La pioggia ha ripreso a cadere proprio mentre aprivo la portiera. Bisognava ammetterlo, avevo avuto una fortuna sfacciata col tempo! Al ritorno il conducente mi ha depositata a pochi passi dal complesso monumentale di S. Giovanni degli Eremiti, mirabile esempio di architettura arabo-normanna, dove sono rimasta abbagliata dalle cupolette rosse del campanile e della chiesa e dal chiostro con archi ogivali e colonne binate. Più tardi ho dato una rapida occhiata all’interno della cattedrale e ho potuto riconoscere facilmente l’altare dedicato a Santa Rosalia, una delle patrone del capoluogo siciliano: un devoto baciava le sbarre del cancello quindi ho dedotto che l’urna con le spoglie della “santuzza” si trovasse lì. Adesso, però, mi restava da visitare uno dei luoghi più impressionanti di Palermo: la cripta dei cappuccini, ossia cinque tunnel sotterranei in cui si trovano le mummie di circa 8.000 ricchi siciliani. Quando si sono aperte le porte delle catacombe, alle tre in punto, assieme a un nutrito gruppo di turisti, mi sono avviata decisa giù per le scale e ho guardato a destra e a manca gli scheletri appesi per il collo che formavano una macabra sfilata nelle nicchie della cripta imbiancata a calce. Chiaramente ho cercato, fra altri corpi distesi, vestiti con un abbigliamento di foggia antica, la mummia di Rosalia Lombardo. Infine l’ho identificata: era dentro a una piccola bara con il coperchio di vetro e mi sono commossa davanti al faccino da bambola della bimba morta a due anni, nel 1920.

Tra i mercatini di palermo

Una volta fuori dal quel luogo di riposo eterno ho raggiunto a piedi una fermata dell’Amat sul corso Calatafimi, occupata, giustamente da un camion frigorifero che scaricava pezzi di mucca da consegnare alla adiacente macelleria. L’autobus, che ha dovuto inchiodare in mezzo alla strada per prendermi su, era piuttosto affollato: siccome piovviginava da diverse ore e il cielo non dava speranza, a molti era venuta l’idea di rinchiudersi nel duomo di Monreale per ammirarne i mosaici. Era anche il mio piano. Una volta entrata ho levato lo sguardo verso l’immenso Cristo Pantocratore, che mi ha benedetto dal catino absidale. Indispettita ho notato nella sequenza: a) che bisognava pagare per accedere al transetto sinistro; b) che le navate erano completamente prive di illuminazione artificiale, cosicché i mosaici erano avvolti nella penombra e non sparluccicavano minimamente. Mi sono quindi trascinata fino alle cosiddette terrazze del duomo. Anche per far ciò, comunque, ho dovuto scucire due euro. Tramite una scala a chiocciola sono sbucata su un ballatoio che sovrasta il famoso chiostro quadrato impreziosito da un elegante colonnato; poi intrufolandomi in un cunicolo e salendo in cima a un’ulteriore rampa di scale ho raggiunto la torretta posta sulla sommità dell’abside del duomo, da dove si godeva una vista notevole sulla Conca d’Oro. Quando ormai il buio era completo ho riguadagnato il centro di Palermo, ma prima di tornare al B&B, con l’impermeabile rosso incollato addosso come un sudario, mi sono tuffata nella confusione, gli odori, le voci del mercato di Ballarò. Dato che avvertivo nello stomaco una specie di formicolio ho pensato che era ora di assaggiare delle panelle fritte… devo dire che anche la minuscola porzione ingerita ha richiesto tempi digestivi piuttosto lunghi. Mi sono accorta che ero nei dintorni di Casa Professa, ossia la chiesa barocca del Gesù e inaspettatamente il tempio era aperto! Sono entrata e c’era un’atmosfera bellissima: un gruppo di giovani professionisti stava suonando musiche di Mozart (erano delle prove) e ho sentito i brividi nell’ascoltarli.

31 dicembre

All’alba, come al solito – cioè in questo periodo dell’anno alle 7.30 – mi sono scaldata un tè nel microonde e ho rovistato negli armadietti per trovare qualcosa di commestibile (in realtà la colazione era dalle 8.30 alle 10.00, ma io mi arrangiavo e me la preparavo sempre prima, tanto non c’era mai nulla di più di pane, fette biscottate e marmellata). Dopo una prima puntatina al mercato della Vucciria (deludente) da piazza Sturzo ho preso al volo il n. 812 per Monte Pellegrino. C’era un unico altro passeggero, che pareva un barbone e voleva vendermi un santino, ma non ero in target. L’autista dell’autobus mi ha avvisato che poi per scendere avevo due possibilità: o restavo solo venti minuti e optavo per la corsa delle nove e venti, oppure la successiva era alle undici e dieci. Monte Pellegrino era sferzato da un vento teso ma non volevo rinunciare a fare una capatina al piazzale panoramico dove si trova la statua di Santa Rosalia che sta a circa un chilometro dal santuario. Venti minuti erano un po’ pochini! Dunque, ho scandagliato i ricordi: ieri l’accompagnatore aveva accennato alla storia della Santa, di cui stavo vedendo il santuario, la cui facciata era addossata alla roccia. Aveva detto che i palermitani facevano un pellegrinaggio al monte per celebrare Santa Rosalia il 4 settembre di ogni anno, perché l’interno della grotta dove erano state trovate le spoglie il 15 luglio del 1624 era diventato un luogo sacro – dato che la santuzza vi aveva trascorso l’ultima parte della sua esistenza in eremitaggio e soprattutto, nell’anno del ritrovamento, aveva salvato Palermo dalla peste. Ciò che ha catalizzato il mio interesse nell’entrare è che mancava il tetto, cioè si vedeva il cielo attraverso una rete “di sicurezza” che serviva ad evitare che dei sassi potessero franare in testa ai fedeli. Varcata una cancellata, invece, il soffitto c’era, ma era quello dell’antro dove erano state rinvenute le ossa di Rosalia ed era trapuntato di grondaie contorte di piombo, che terminavano a punta di freccia per convogliare all’esterno le gocce d’acqua che altrimenti sarebbero cadute invariabilmente sul cranio dei devoti. Vari faretti illuminavano ad hoc le “attrazioni” più importanti dell’ambiente: in una sorta di nicchia nella roccia, in alto a sinistra, il busto di Santa Rosalia (posto nel punto in cui la Santa sarebbe apparsa a un cacciatore), poco più avanti l’altare coperto da un baldacchino con la statua d’argento della Santa, infine, al centro, l’altare maggiore con la statua dell’Immacolata, circonfusa di luce azzurrognola. Una volta esaurita la visita della cavità sacra sono uscita e sono stata colpita in pieno da una folata di vento, il che non ha scalfito minimamente la mia intenzione di salire al piazzale panoramico. Mi sono chiusa il piumino addosso e ho proseguito imperterrita. Quando ero ormai giunta in cima al promontorio mi sono vista venire incontro un uomo di mezz’età che faceva jogging. L’ho intercettato per chiedergli se conosceva dei sentieri a picco sul mare che si snodassero nella riserva di Monte Pellegrino o altrove. – No, qui non ce ne sono. Invece a Mondello potresti fare i due chilometri della riserva di Capo Gallo. Mi ha spiegato cortesemente. Dopodiché mi ha scortata fino al punto panoramico. Essendo l’aria limpida e cristallina sulla sinistra una porzione della baia di Mondello e il brullo massiccio di Monte Gallo si mostravano in tutti i particolari. Antonio, che così si chiamava il gentilcorridore che regolarmente sfaticava a piedi da Mondello alla sommità del Monte Pellegrino, si è offerto di farmi da guida per l’impervio sentiero della Rufuliata, che scendeva al parco della Favorita addendrandosi in un vallone creato dalle piogge che scolano verso la pianura. Lungo il tragitto abbiamo scorto il rudere di una casetta, al cui interno qualcuno aveva addobbato un specie di albero di Natale. In mezz’ora circa siamo arrivati giù davanti al torrione neogotico del parco della Favorita. Ci siamo guardati con aria di intesa: adesso si va a Mondello, chiaro. Con i piedi spellati siamo giunti dove Antonio aveva lasciato l’auto, con la quale mi ha accompagnato al centro di Mondello e indicato da dove partiva la strada privata della riserva di Capo Gallo. Con aria soddisfatta ho addentato una pizzetta appena acquistata in un panificio, ho versato un pedaggio di cinquanta centesimi a un anziano infagottato nel suo cappotto seduto oltre un cancello e ho cominciato a percorrere la carreggiata deformata di una carrabile. Venti minuti più tardi ho raggiunto l’isolata zona del faro in disuso. Oltre il faro, in lontananza ho scorto l’isola delle Femmine e poco prima che il sentiero finisse, sugli scogli ho visto la scritta “zona nudista”. Deserta ovviamente. Il rientro a Palermo non è stato privo di contrattempi in quanto un imbecille ha smollato la macchina dove gli è capitato, senza badare che ostacolava il passaggio dell’806. L’autista temeva di sbatterci contro, allora ha dato un colpo di telefono ai vigili urbani, ma nel frattempo quattro baldi giovani sono smontati e assieme hanno spostato l’auto di un pelo, permettendo così all’autobus di superare la strettoia. Intanto io tornavo in città macchinando fra me nuovi pensieri, nuove preoccupazioni: domani, giorno di Capodanno, cosa faccio? Ho risolto la questione facendo una manciata di telefonate, grazie alle quali mi sono impossessata delle informazioni necessarie. Dalle nove alle tredici potevo visitare il parco archeologico di Solunto, a 14 km da Palermo, raggiungibile in treno, la galleria nazionale della Sicilia nel palazzo Abbatellis e il palazzo Mirto. La sera del 31 mi sono affrettata prima che chiudesse verso il museo della Cuba, in via Calatafimi e ho visto quel poco che c’era da vedere (sono rimasti in piedi solo quattro muri in una zona molto degradata della città). Più tardi mi sono sorbettata i “botti” dal letto tutta la notte, ingaggiando una lotta libera con le tre trapunte di cui mi avevano dotata per sopportare la temperatura rigida che c’era “A casa di amici”.

1 gennaio

Il giorno di capodanno tutto è andato come da copione (sole splendente, Solunto, Abbatellis, Mirto) e quando è scoccata l’ora di pranzo mi sono diretta verso l’“Antica Focacceria S. Francesco”, che mi ha accolto con un odore confortante di sarde a beccafico, milza stufata, polipi bolliti, panelle, arancine e sfincioni. Ho divorato alcune specialità seduta a uno dei tavoli del déhors, riparata da una tettoia. Per finire la giornata mi sono trattenuta un’oretta nel giardino Garibaldi di Piazza Marina, ho passeggiato svagatamente sulle mura delle Cattive e poi mi sono spinta fino ai ruderi del Castello a Mare. Palazzo Steri non l’ho visto perché era chiuso, come il museo archeologico. Non voglio calcare la mano sul fatto che c’era dell’immondizia sparsa dovunque per le strade di Palermo tanto che la sporcizia che ho visto in giro riuscirebbe a indurre al suicidio qualsiasi addetto alle pulizie… Lo sanno tutti che nelle grandi città del sud le cose purtroppo stanno così! Alla fine, comunque, ho avuto quello che volevo e mi ripropongo di vedere la zona di Taormina, Gole dell’Alcantara, Tindari, Etna, Noto, Ragusa e magari Villa Armerina in una prossima vacanza, forse estiva per apprezzare le differenze.

Il rientro

Il 2 gennaio ho preso la navetta di Prestia e Commandé dal teatro Politeama e in 40 minuti ero già al Falcone e Borsellino. Il check-in non era ancora aperto, quindi mi sono attardata in un negozio di souvenir, dove ho comprato qualche ricordino da portare a casa (dolcetti alla pasta di mandorle e una penna con la scritta “Sicilia”). Leo mi è venuto a prendere alle dieci all’aereoporto di Bologna e ha sterzato in direzione Tamara. La vacanza era irrimediabilmente terminata, ma almeno mi restava una settimana di ferie da trascorrere in famiglia.

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Interno di villa Palagonia a Bagheria (Sala degli Specchi)

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Riserva di Capo Gallo (Mondello)

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Mondello

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Vista dal piazzale panoramico dove c’è la Statua di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino

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Facciata del Santuario di Santa Rosalia – Monte Pellegrino (Palermo)

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Mercato di Ballarò

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Chiostro di San Giovanni degli Eremiti – Palermo

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Riserva dello Zingaro

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Riserva dello Zingaro

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Porta Nuova (Palermo)

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Riserva di Capo Gallo (Mondello)

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Erice

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Tempio di Segesta

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Abside della Cattedrale di Palermo

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Fontana Pretoria Palermo

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Vista dall’alto dei ruderi della rocca di Cefalù

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Duomo di Cefalù

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interno della cappella Palatina (Palazzo dei Normanni)

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lungomare a Palermo

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Decorazione musiva castello della Zisa

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Giardino Garibaldi (P.zza Marina, Palermo)

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Porta San Felice (Palermo)

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Area archeologica di Solunto

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Area archeologica di Solunto (panorama)

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Castello a Mare (Palermo)



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