Cento giorni d’Africa di prima parte

Autostop, mezzi pubblici, sistemazioni improvvisate... un viaggio fai da te nel continente più difficile e insidioso
Scritto da: farfesio
cento giorni d'africa di prima parte
Partenza il: 23/09/2010
Ritorno il: 29/12/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €

Parte 1, Buongiorno Africa

Erano anni che volevo fare un viaggio nel continente nero e finalmente e’ arrivato il momento giusto, un click sul tasto sinistro del mouse ed il biglietto aereo e’ acquistato: saranno 100 giorni giusti giusti e pieni pieni d’Africa, quella vera; e con me ci sara’ anche Alba che ha avuto la pazza idea di seguirmi per l’intero viaggio (ammesso e concesso cheresistera’).

Fatti un po’ di vaccini prima della partenza e messo nello zaino tutto cio’ che c’e’ di piu’ vecchio nel mio guardaroba, non ho neanche il tempo di rendermene conto che, dopo uno scalo a El Cairo, atterriamo a Johannesburg. Non appena l’aereo tocca il suolo un passeggero di ritorno a casa, seduto sul sedile accanto, mi dira’: benvenuto in Sud Africa, qui i leoni mangiano gli umani. Spettacolo! Gia’ mi sento l’adrenalina addosso.

C’è subito un problema d’affrontare, il visto: con il passaporto italiano ci danno 3 mesi, ma noi ripartiremo con qualche giorno in piu’ sulle spalle; l’ambasciata a Roma mi aveva consigliato di chiamare l’ufficio degli Affari Interni non appena sarei atterrato e richiedere un prolungamento del visto al costo di un centinaio di dollari; al nostro arrivo anche il poliziotto in dogana mi ha subito consigliato la stessa cosa. Ma io non sono proprio convinto e decido di aspettare: abbiamo intenzione di uscire dal Sudafrica tra pochi giorni e non rientrare prima di Dicembre, mi pare un po’ superfluo regalare sti soldi al governo sudafricano già da subito, mi prendero’ qualche giorno in piu’ per informarmi meglio su come funzioni veramente la faccenda.

Prima ancora di atterrare si ponevano già i primi dubbi: inizieremo il viaggio verso est oppure verso ovest? L’idea di base e’ quella di fare un cerchio nella parte meridionale dell’Africa e alla fine si deciderà di cominciare verso oriente: mi sembra la decisione piu’ saggia visto che tra un mesottole piogge arriveranno prima e più forti ad est (e con esse anche il caldo umido e la malaria), quindi proveremo ad anticiparle e man mano che proseguiremoverso ovest tenere le nuvole alle spalle il piu’ possibile.

Il secondo dubbio e’ stato: Kruger si o Kruger no? Troppo commerciale o e’ comunque un bel parco? La risposta e’ stata Kruger si: se il parco e’cosi’ famoso ci sara’ pure un motivo, lo prenderemo come un buon antipasto per i safari che faremo piu’ avanti quando ci addentreremo nell’Africa più profonda.

La prima sfiga non si fara’ attendere molto: al carrello dei bagagli manca lo zaino di Alba, la quale va subito in tilt; ci tocchera’ fare la denuncia di smarrimento ed attendere. Preleviamo un po’ di contanti al bancomat, ci sediamo a fare colazione e proviamo a respirare un po’ prima di lasciare l’aeroporto.

Il taxi pare sia l’unico mezzo per raggiungere la città di Johannesburg (o almeno cosi’ ci fanno credere) e non e’ proprio a buon mercato; optiamo quindi per l’affittodi un’auto economica che possiamo lasciare dopo qualche giorno direttamente a Nelspruit, città non troppo lontana dal Kruger Park; perciò decidiamo di partire direttamente in quella direzione, semmai avremo del tempo, Johannesburg la visiteremo alla fine del viaggio, prima del volo di ritorno, tanto non e’ proprio in cima alla lista dei luoghi che intendiamo vedere in Africa.

Pronti, partenza, via! Si parte. Volante sulla mano destra e cambio sulla sinistra, era da qualche anno che non guidavo al contrario, proprio come in Inghilterra, ma ci mettero’ poco a riabituarmi. Abbiamo un po’ di paranoia iniziale per quanto riguarda la sicurezza, visto che Jo’burg pare essere una citta’ veramente pericolosa. Finestrini alzati e sicure abbassate, specie ai semafori, in pochi minuti siamo già sull’autostrada e fa molto caldo (ed io che pensavo che da queste parti a Settembre facesse freddino!!!). A parte il paesaggio arido e poco abitato, il tutto sembra organizzato come in Occidente: strade perfette, poliziotti che rilevano la velocita’ con l’autovelox e zone di sosta tipo Stati Uniti, con ristorante, supermercato e bagni pulitissimi. Percorriamo circa 350 chilometri ed intravediamo uno stadio utilizzato nei mondiali di calcio appena terminati; e’ proprio quello dove ha giocato l’Italia!!! Siamo a Nelspruit, chiediamo qualche informazione per orientarci, poi parcheggio un attimo per vedere meglio la cartina ed ecco arrivare la seconda sfiga del primo giorno di viaggio: crash, urto la macchina parcheggiata davanti alla mia con tanto di famiglia sudafricana all’interno dell’auto. La stanchezza si comincia ad avvertire, non abbiamo riposato tanto durante il volo, ma il danno non sembra un granche’, solo un piccolo graffio.Scambio veloce di nominativo, prendiamo i dati per l’assicurazione e via, dritti verso l’ufficio del turismo che sta per chiudere: prendiamo un po’ di depliants, chiediamo dove possiamo dormire per la notte ed il modo migliore per visitare il Kruger Park, ma le informazioni che ci danno sembrano molto devianti, “gli alberghi sono quasi tutti pieni, ma ce n’e’ uno vuoto che vi consigliamo, al parco e’ meglio prenotare subito pagando qualcosina extra in quanto e’ pieno” eccetera eccetera. Non mi fido: ci dirigiamo verso un ostello consigliato sulla mia guida che la signorina mi aveva dato per tutto esaurito ed ecco trovare un dormitorio da 10 letti tutto per noi (in nottata si aggiungera’soloun’altra coppia) ed altre stanze completamente vuote. Abbiamo capito che non bisogna fidarsi dell’ufficio informazioni turistiche. Ci sistemiamo, il posto sembra ben tenuto e pulito, incontriamo i primi viaggiatori ed intanto la manager dell’ostello, dopo aver provato a vendermi un safari nel Kruger Park, mi rassicura un po’ per quanto riguarda il nostro visto di soli 3 mesi sul passaporto; pare ci sia molta gente che esce e rientra in Sudafrica dopo qualche giorno con il semplice scopo di rinnovare il visto turistico, quindi mi consiglia di non chiamare nessun ufficio o ministero e risparmiare i nostri dollari in quanto lei pensa che uscendo dal paese non avremo alcun problema di scadenza. La prendo per buona, archivio la pratica e non ci penso piu’.

In serata ci rechiamo in citta’ per cercare qualcosa da mangiare e finiamo in un festival musicale abbastanza grande e strapieno di gente: sono tutti bianchi, palchi per concerti grandi e ben organizzati, la musica sembra tedesca e si mangiano salsiccie a volonta’; ed io mi chiedo come sia possibile non vedere una persona di colore in mezzo a questa confusione. Saremo mica in Nord Europa? Dopo qualche giorno iniziero’ a capire come, nonostante l’apartheid sia finita piu’ di 15 anni fa, da queste parti i bianchi se ne stanno con i bianchi ed i neri con i neri, l’integrazione tra le diverse razze in Sudafrica e’ ancora un obiettivo lontanissimo da raggiungere; il festival era una festa afrikaans e percio’ bianchi e salsicce a volonta’. Andiamo a nanna stanchi, per essere solo il primo giorno in Africa mi sembra che abbiamo dato abbastanza.

Ogni viaggio e’ diverso dall’altro, ma questo si presenta già come un’avventura a parte, piu’ estrema e piu’ complicata (oltre che piu’ cara! Eh gia’… la beffa e’ che proprio l’Africa pare non sia il posto piu’ economico al mondo in cui viaggiare). Non c’e’ stato molto tempo per documentarmi, ma mi sono affidato ad un po’ di esperienza, oltre che ad una guida (eh si… per il secondo anno di seguito viaggio con una guida nello zaino, stiamo proprio diventando vecchi), questa volta ho scelto la onnipresente Lonely Planet.

Mattina seguente,sveglia, colazione e si riparte: Nelspruit sembra quasi una cittadina americana, ben organizzata e strade sicuramente migliori di quelle delle citta’ italiane. Sosta al centro commerciale per qualche acquisto utile, visto che dello zaino di Alba difficilmente si avra’ notizia prima di qualche giorno, e si va in direzione Kruger. Arrivati ad un cancello di entrata ci fanno aspettare almeno un’ora, il parco e’ troppo pieno, siamo nel bel mezzo delle vacanze scolastiche sudafricane, che qui e’ come il mese di Agosto da noi; forse l’ufficio informazioni del giorno prima aveva detto qualche verita’ e probabilmente saremo costretti a lasciare il parco in giornata in quanto non ci sono posti disponibili per dormire.

Ma eccoci tra le strade del parco, vediamo i primi animali, cerchiamo le pozze d’acqua per avere piu’possibilita’ di avvistamento, viste panoramiche, paesaggi aridi ed arriva subito il primo pomeriggio: dopo vari tentativi in un paio di reception dei vari camp pare proprio che non ci siano cancellazioni e quindi niente posto per restare la notte a dormire; dobbiamo lasciare il parco in giornata stessa. Gioco l’ultima carta: telefono ad una guida di un safari organizzato dall’ostello di Nelspruit e alla fine riusciamo ad infilarci in una delle loro tende organizzate con 2 bei letti comodi e per 10 Euro a testa. Sarà la nostra prima notte all’interno di un parco, servizi ben puliti ed organizzati, cena a buffet al ristorante del campo e si dorme con il rumore degli animali che si sentono non troppo lontani dalla recinzione.

Parte 2, Kruger Park e Maputo

Sveglia presto e siamo di nuovo in giro con la macchina affittata a fare un safari in completa autonomia: avvisteremo le prime giraffe, facoceri, impala, uccelli, gli elefanti e i babbuini che ci attraversano la strada, la macchina fotografica inizia a lavorare duro. Unica pecca, il Kruger è un po’ troppo affollato ed ecco in agguato la terza sfiga del viaggio: una fila di macchine nei pressi di un fiume, pare ci sia un felino, forse lo vedo anche, ci sporgiamo fuori dal finestrino per cercare di avvistarlo ed ecco arrivare il ranger che ci consegna una multa di circa 150 Euro. Bisogna stare all’interno dell’auto, e’ la regola, una questione di sicurezza. Tutto mi aspettavo, tranne che prendere una multa per cercare di avvistare un leone, mi rode un po’, il ranger mi consiglia di andare subito in reception a pagare, io gli dico che sarei andato il giorno dopo e mi chiedo cosa mai possa succedermi se non pago una multa in Sudafrica per essermi seduto fuori dal finestrino con la macchina in sosta? In serata dormiremo nella stessa tenda della notte precedente ed un avvocato incontrato per caso nel minimarket del campo mi chiarira’ le idee sulla multa che mi hanno dato qualche ora prima; si mettera’ anche a ridere ed io mi convinco che questa multa non s’a da paga’… ed eccoci entrare nel pieno dell’illegalita’: visto sul passaporto in scadenza dopo 3 mesi ed io che non pagando la multa verro’ in automatico convocato in un tribunale sudafricano alla fine di Novembre.

Per la mattina seguente acquistiamo un’escursione all’alba: camminata a piedi nel parco. Levataccia alle 5, ma sara’ interessante camminare con 2 guide armate sullo stesso terreno che calpestano i grandi animali della savana, ne avvisteremo qualcuno, ma la natura e’ completamente bruciata: la scorsa notte c’e’ stato un mega incendio che ha colpito alcune zone del parco, quindi molti animali sono scappati; pare che il Kruger sia battuto ogni tanto dai piromani e noi eravamo li’ proprio il giorno meno adatto. Continueremo la giornata in giro con la nostra auto, avvisteremo ancora animali, zebre, tartarughe eccetera, ma ancora tanti terreni bruciati e la temperatura è molto calda, quindi decidiamo di lasciare il parco. Mostreremo ad un cancello il permesso di uscita che mi ha dato la guida del camp e alla fine per qualche strana magia finiremo per aver pagato solo un giorno di permesso; abbiamo capito che da queste parti i controlli vengono fatti un po’ alla buona, noi impariamo subito.

La visita al Kruger Park e’ stato un ottimo inizio, ma era un po’ troppo affollato, sembrava quasi di essere allo zoo; strade asfaltate, vegetazione alta (quindi poca visibilita’), tutto ben segnalato da indicazioni e cartelli stradali, addirittura il primo giorno poco dopo l’ingresso avevamo visto uomini in divisa che in strada rilevavano la velocità delle auto; ne abbiamo visitato solo una piccola parte, a sud (la superficie del parco Kruger e’ grande quanto l’intero Galles), ma non mi sento ancora nella vera Africa, c’e’ voglia di cercare terre piu’ vere. Ritorniamo a Nelspruit, stesso ostello, stessa manager: le chiedo qualche consiglio rinfrescante sulla multa presa all’interno del parco e, come aveva fatto qualche giorno fa per il nostro visto in scadenza prima del necessario, lei mi tranquillizza e mi dice di non preoccuparmi, nessuno mi aspettera’ in frontiera al mio ritorno in Sudafrica a Dicembre, quella multa segue una legislazione interna del Kruger Park e non aveva niente a che vedere con il governo del Sudafrica. Naturalmente prendo per buona anche questa indicazione e ci prepariamo a lasciare il paese all’indomani. Alba stavolta si occupera’ di preparare la cena ed ecco che arriva anche il suo zaino smarrito qualche giorno prima; forse la sfiga si sta allontanando.

Zaini in spalla!

Ci siamo, e’ arrivato il momento di metterci gli zaini in spalla, la mattina seguente lascio la macchina all’aeroporto di Nelspruite montiamo su un bus diretto a Maputo, capitale del Mozambico. E’ arrivato il momento di vivere la vera Africa. Appena arrivati in frontiera siamo subito assaliti dagli scambisti che cambiano i soldi in nero. Ne avvicino uno, contratto un po’ il tasso di cambio e con molta attenzione decido di cambiare lo stretto necessario per pagare il visto di entrata: lui conta i suoi soldi velocemente nelle sue mani e mi chiede i dollari; all’istante siamo circondati da 5 o 6 mozambicani, fanno molta confusione; chiedo a tutti di allontanarsi e resto con lo scambista scelto, lo blocco, rallento i ritmi della transazione, prendo i suoi soldi e li riconto: ovviamente c’era qualche banconota in meno, mi faccio aggiungere i metical mancanti e solo dopo aver intascato i suoi, gli consegno i miei dollari. Ma la sfiga e’ ancora presente nel nostro viaggio: scopriamo subito che i previsti 25 dollari per entrare in Mozambico si sono triplicati, recentemente il prezzo è salito a 78 verdoni grazie al turismo di massa portato dai mondiali di calcio da poco terminati, quindi i soldi che avevamo cambiato non bastano più; si puo’ pagare in dollari al cambio che dicono loro oppure cambiare ancora al mercato nero. Io opto per la seconda e per non perdere il bus che ormai aspettava solo noi, ho la felice idea di chiedere ad Alba di cercare uno scambista mentre io proseguivo con le pratiche doganali; lei che non ha mai cambiato al mercato nerosi e’ fidata troppo, come se fosse in una normale banca. Morale della favola: la sfiga non ci ha ancora mollato ed alla fine ci hanno fregato una cinquantina di Euro. Bella lezione, saranno pure favorevoli i tassi di cambio in strada, ma non sai mai come ti viene; eppure è da una vita che cambio i soldi alle frontiere durante i miei viaggi. Ma l’Africa non è come gli altri posti.

eccoci in mozambico

Ad ogni modo ce l’abbiamo fatta, siamo entrati in Mozambico e dopo un breve tragitto eccoci a Maputo: un gran bel caos, la capitale e’ affollatissima e noi abbiamo ancora un po’ di paranoia per quanto riguarda la nostra sicurezza in Africa. Lasciamo il garage dove terminava la corsa del bus e seguendo la cartina ci avviamo a piedi verso un ostello segnalato nella guida, sempre guardandoci le spalle, a destra e a sinistra. Ma l’ostello è pieno ed alla fine troveremo una stanza in un vecchio albergo dall’arredamento antico e porte rotte al costo di 40 Euro a notte, rapporto qualità-prezzo pessimo. C’e’ un vento fortissimo fuori e la non esperienza d’Africa ci tiene un attimo sull’attenti:si sentono rumori come se fossimo in un film horror che vengono sia da fuori (causa il vento), che dall’interno dell’edificio (porte che cigolano e sbattono). Mangiamo in un ristorantino vicino e alla fine la notte passera’ tranquilla. All’Hotel-Escola Andalucia lavorano molti studenti ed a colazione abbiamo il primo incontro con cameriere pigrissime, che devono essere pregate per portarti ogni singolo piatto o pietanza. Siamo davvero al limite dell’assurdo, i messicani a confronto me li ricordo come efficientissimi, qualsiasi cosa chiediamo ci viene sempre detto che non c’è, ma alla fine con un po’ d’insistenza arrivano le portate richieste; e non stiamo parlando di grandi piatti, ma di una singola arancia oppure una fetta di pane o un tovagliolo, tra l’altro tutto incluso nel prezzo della stanza. Mi ricorda un po’ la situazione di Cuba, dove i camerieri arraffano dove possono e quindi chi lavora in cucina cerca di servire meno cibo possibile così da portarsi un po’ di mangiare a casa; è evidente che i paesi comunisti hanno anche queste cose in comune.

Facciamo il primo giro a piedi in citta’,troviamo non senza difficoltà una cassa per prelevare i contanti, spostiamo gli zaini nell’ostello che intanto si è liberato e poi di nuovo in giro tra le strade affollate di Maputo. C’e’ molto movimento, tanti venditori in strada, il 90% dei balconi hanno delle antiestetiche inferriate antifurto: il bello e’ che ce l’hanno anche gli appartamenti al decimo piano su un palazzo liscio e piatto di 20; posso immaginare che qui i ladri siano abili come l’uomo ragno.

Alla fine abbiamo trascorso 3 notti nella capitale mozambicana, passeggiando per le vie, la prima mangiata di pesce in un ristorante famoso in spiaggia a Costa do Sol, il primo viaggio in chapa (che sono gli affollatissimi minibus locali), le foto a qualche monumento, la stazione ferroviaria, i mercati, i palazzi del periodo coloniale, la visita ai musei d’arte; detto così sembra tutto molto interessante, ma se lo scopo di un viaggio da queste parti è per apprezzarne l’architettura o l’arte, non si resta molto soddisfatti: luoghi come il Museo d’Arte Nazionale si visitano in 10 minuti, il tutto si limita ad un paio di stanze con un po’ di quadri sparsi qua e là di artisti mozambicani, tra l’altro la maggior parte in vendita; e i monumenti o palazzi di spicco corrispondono ad un qualunque edificio europeo contemporaneo in quanto ad architettura. Quello che invece colpisce molto è l’arte povera e ciò che si riesce a creare con poco o niente. E per fortuna che Maputo è una delle capitali più attrattive d’Africa!!! Non oso immaginare le altre! Eppure ogni cosa ha il suo fascino: qui si è travolti dal caos più totale che regna in questa città, gente cha va e viene, clacson che suonano, i ragazzi dei chapa alla ricerca di clienti gridando in strada dal finestrino del bus, per le strade si vende di tutto. Gli edifici della città testimoniano un passato non troppo felice, pare che la guerra civile sia finita una settimana fa e non a metà degli anni ’90 come c’è scritto nei libri di storia.

Parte 3, In spiaggia a Tofo e l’illusione di fare beneficienza

Le serate a Maputo siamo usciti giusto per cenare nei ristorantini sulla via principale vicino al nostro alloggio e poi a nanna; non siamo molto attratti ad andarcene in giro di notte ed abbiamo ancora quel poco di fobia che però pian piano stiamo allontanando. E poi, meglio non perdere il ritmo, visto che la partenza verso la spiaggia di Tofo è prevista per le 5 del mattino.

E’ ancora buio ed una specie di furgoncino tutto scassato ci viene a prendere dall’ostello per accompagnarci alla stazione dei bus. Arrivati qui ci trasferiamo su un minibus che pian piano si inizia a riempire di persone e merci. Quando il mezzo è strapieno all’inverosimile finalmente si parte in direzione nord-est. Durante il viaggio scambieremo due chiacchere con uno studente universitario simpatico che stranamente conosce l’inglese: si parla un po’ della povertà e della situazione in generale del suo paese. Pare che l’aspirazione più grande di un giovane mozambicano sia quella di trovare lavoro presso un’Organizzazione Non Governativa, gestita da stranieri e che quindi offre paghe più alte rispetto ad una qualsiasi azienda nazionale. Lui mi mostra il suo telefonino: fin dal primo giorno a Maputo ero rimasto sorpreso dalla diffusione dei cellulari; la povertà è dilagante, ma i telefonini sono diffusissimi e i giovani vendono ricariche ad ogni angolo della strada, segno che la globalizzazione è arrivata anche qui.

Dopo un viaggio stancante ed un po’ pericoloso (vista la velocità e pazzia con cui guidano gli autisti dei chapa) eccoci arrivare a Tofo: troveremo alloggio in una semplice capanna con letto matrimoniale molto carina e rumore delle onde che ci fa compagnia mentre dormiamo. Tofo è un posticino tranquillo, poche costruzioni, qualche alloggio per turisti, alcuni venditori di beni di prima necessità sulla via principale ed uno spiaggione lungo chilometri praticamente deserto; mi ricorda un po’ le spiagge del nord-est brasiliano. Però qui siamo sull’oceano Indiano, è un po’ agitato, ma comunque piacevole per fare il bagno; resteremo a Tofo per 3 giorni, relax e dolce far niente.

Da questo punto del viaggio in poi decido di iniziare con la pillola della malaria, Alba ha già cominciato un paio di settimane fa dall’Italia; si intravedono le prime zanzare e quindi si va a dormire coperti dalla zanzariera. C’è sempre un grosso dubbio sul fatto di fare o no la profilassi antimalarica quando si visitano queste zone, alcuni decidono di vaccinarsi, altri rischiano un po’ di più pur di non subirne gli effetti collaterali e sono pronti a curarsi nel caso di malattia.

A Tofo ci sono molti giovani sudafricani bianchi in vacanza, ne conoscerò uno di Durban, ci chiacchiero un po’, voglio capire meglio come funziona la storia del razzismo e se l’apartheid in Sudafrica sia finita davvero oppure no; lui mi spiega che le razze sono molto distanti culturalmente e che forse l’apartheid finita agli inizi degli anni ’90 non era così sbagliata: la sensazione che ho avuto sin dal primo giorno sulla mancanza d’integrazione tra le diverse razze inizia a prendere consistenza.

Tra gli altri conosceremo 2 volontari italiani che avevano appena terminato un progetto di 6 mesi presso una scuola del Mozambico e si stavano godendo qualche giorno al mare prima di rientrare in Italia: ci racconteranno storie raccapriccianti non tanto per le condizioni di miseria da loro viste e vissute, ma soprattutto ci spiegheranno di come la maggior parte delle organizzazioni di volontariato siano poco o quasi per nulla efficienti quando si tratta di mettersi all’opera negli aiuti alle popolazioni più disagiate. Loro stessi erano stati mandati in Mozambico da un’organizzazione internazionale con sede in Danimarca, la quale gli ha fatto dapprima raccogliere soldi nelle strade di Copenaghen per 3 o 4 mesi (5000 Euro,somma raccolta a scopo benefico) e successivamente, dopo aver pagato il loro volo aereo con parte di quei fondi, l’organizzazione ha spedito i nostri amici in Mozambico sostenendo che la differenza restante sarebbe servita per il loro vitto e alloggio nei 6 mesi di permanenza; in sostanza quei fondi sono spariti, visto che Marina e Danielehanno dormito in sistemazioni mooolto basiche e vissuto con la comunità delposto (mangiando cibo locale da queste parti si spende circa 1 Euro al giorno). Addirittura pare che il capo di questa grande ONG sia latitante nell’America Latina… E per una volta il furbo di turno non è Italiano, bensì un Danese… E vai!!!

Molte volte le organizzazioni umanitarie hanno dei costi notevoli per essere mantenute e quindi spesso va a finire che i soldi dati in beneficienza vengano spesi più per pagare il personale che ci lavora dentro, le strutture, gli ingegneri e gli operai impiegati nelle opere da realizzare, che non per un aiuto concreto alla popolazione stessa. Dietro la beneficienza c’è una vera e propria scienza che studia il modo migliore per far incrementare le donazioni; e anche queste ricerche vengono pagate naturalmente con i fondi delle donazioni stesse. Il principio intorno al quale ruota il tutto si basa sul fatto che il motivo principale per cui noi occidentali doniamo è quello di ripulirci la coscienza, ci sentiamo fortunati a nascere in un paese ricco a differenza dei più sfortunati nati nella miseria; e il senso di colpa viene incrementato ancor di più mostrandoci in continuazione immagini di bambini che muoiono di fame, catastrofi naturali eccetera eccetera.

Eppure questa scienza mi andrebbe ancora bene se solo i soldi finissero nel posto giusto. Ma molto spesso succedono storie del tipo che un governo decida per esempio di stanziare tot soldi per la costruzione di 50 latrine in tale villaggio dell’Africa (con i soldi dei contribuenti ovviamente); allora si fa una gara d’appalto alla quale partecipano le varie organizzazioni non governative (i preventivi e gli ingegneri vengono pagati dai fondi raccolti con la beneficienza ovviamente); la ONG di turno che vince l’appalto va in Africa a costruire le 50 latrine (con stipendi da capogiro pagati sempre dalla cassa creata grazie ai vari donatori tra cui il governo stesso,ovviamente); in molti casi le latrine non vengono terminate perché i fondi finiscono prima del tempo (ovviamente, proprio come succede per le opere pubbliche in Italia); nei pochi casi in cui le 50 latrine vengono terminate probabilmente ci si accorge che il villaggio è talmente piccolo che ne sarebbero bastate 20 di latrine (e quindi ennesimo spreco di risorse, ovviamente). Tutto funziona un po’ così, è un circolo vizioso che comunque fa girare l’economia, ma lascia poco o niente per i poveretti laggiù e prende in giro chi pensa di aver fatto un’opera buona verso il prossimo.

Fa un po’ ridere il solo pensiero che un volontario serio impegnato in una zona poverissima del mondo debba sprecare del tempo prezioso per fare la foto ai vari bambini, così da poterla spedire allo stupido di turno che comodamente seduto sul divano di casa è convinto di aver adottato un bambino a distanza. Certo che siamo proprio tonti noi occidentali! Secondo quale criterio si sceglie di adottare un bimbo anziché un altro? E quanti di quei bambini restano in una missione pochi mesi e poi per qualche motivo scappano o vengono spostati dagli stessi genitori in un altro villaggio? Immaginate il volontario di turno che cerca di ritrovare quel bambino scappato pur di continuare a fotografarlo così da tener contento il donatore il quale continuerà ad inviare l’assegno mensile necessario al fabbisogno di quella comunità o scuola che sia. Bisogna venire qui e vedere con i propri occhi per rendersene conto. I criteri ed i parametri di giudizio, cosa sia giusto o sbagliato, sono concetti molto diversi in Occidente e in Africa. E se beneficienza si vuole fare meglio prendere un aereo e trascorrere un mesetto da queste parti per dare un piccolo aiuto concreto con la propria presenza eperché no, anche disponibilità economica, piuttosto che donare Euro alla ceca che probabilmente si perderanno tra un passaggio e l’altro (e qui arriveranno pochi spiccioli). La beneficienza è una cosa seria e delicata; e i bambini è meglio adottarli per davvero, anziché a distanza, sempre che sia giusto adottarli (ma questa è un argomento a sé).

Tra un bagno e le prime abbronzature, tra una discussione e qualche spuntino di pesce, passeranno i 3 giorni a Tofo in compagnia dei nostri amici italiani e due ragazzi dall’Estonia e le Canarie pronti a dare loro il cambio come volontari nei prossimi 6 mesi, ma già notevolmente abbattuti dall’esperienze di Daniele e Marina. Quest’ultima ci racconterà tra l’altro di come il ruolo di maestra d’inglese per il quale era stata mandata in Mozambico sia stato totalmente inadeguato visto che la maggior parte dei suoi alunni aveva bisogno di imparare prima il portoghese (che è la lingua ufficiale del Mozambico). Inoltre Marina ci ha raccontato di giornate intere passate a ripulire i piedi dei bambini infetti da uno strano virus che si forma sotto pelle (in quanto camminavano sempre scalzi) e di come sia stato molto più utile investire i pochi risparmi raccolti tra i suoi familiari per comprare scarpe e fare lezioni sull’igiene anziché insegnare l’inglese.

Parte 4, Vilankulo e l’arcipelago Bazaruto

Un pomeriggio andremo con un chapa alla vicina cittadina di Inhambane, tanto per cambiare area, fare un giro al mercato e prendere informazioni per la partenza verso la nostra prossima destinazione. Niente di speciale: una chiesa, 2 moschee, una piccola stazione ferrovia, i ragazzi sul lungomare con gli stereo della macchina a tutto volume ed i telefonini in mano (come già visto a Maputo). Il supermercato in cui faremo la spesa è gestito da cinesi: sono arrivati anche qui ed insieme agli Indiani gestiscono i grossi business del Mozambico; è incredibile come i cinesi riescano a trarre profitto anche da un paese così povero.

A Tofo abbiamo trascorso un paio di serate in un bar non lontano dalla nostra capanna, il cui proprietario era stato un certo Dino, che a quanto pare è il Bob Marley del Mozambico, ma che è morto l’anno scorso credo. Saranno le nostre prime serate fuori. Al Dino’s Beach Bar ci concediamo anche una pizza e balliamo un po’ nella mischia con i sudafricani (quasi tutti bianchi) venuti per le vacanze scolastiche; si rivede anche qui la scena vista e rivista negli anni passati in altri angoli del mondo: l’uomo occidentale bianco e adulto insieme alla ragazzina nera locale e giovane, anche se finorain percentuale molto minore rispetto a ciò che ho visto in passato in altri paesi poveri (mica sono stupidi, qui le puttane saranno pure a buon mercato, ma l’AIDS non guarda in faccia a nessuno); il tutto si svolge sotto l’occhio vigile del mega poster del grande Dino.

Si riparte, sveglia al mattino presto che ormai è diventata un’abitudine, andiamo sulla via principale ad aspettare un chapa, saliamo a bordo e quando è strapieno si parte. Un piccolo tragitto fino ad Inhambane, dov’eravamo stati in visita il pomeriggio precedente. Da qui prenderemo un traghetto per la cittadina di Maxixe, con la speranza di trovare una coincidenza verso il nord. Cerchiamo qualche informazione utile, ormai abbiamo capito che non ci sono cartelli, né indicazioni precise; alcuni ragazzi si accostano a noi con la pretesa di aiutarci, io ci metto poco a liquidarli non appena diventano troppo insistenti o maleducati. Aspettiamo un po’ davanti alla stazione di benzina, ci hanno detto che qui tra non molto arriva un bus gran turismo proveniente da Maputo e diretto a nord. E in effetti dopo un po’ arriva davvero, finalmente un autobus vero, la gente si ammassa, chi prova ad entrare, chi prova a vendere snack, lattine, frutta e di tutto di più, è il solito caos più totale; alla fine niente, non riusciamo a trovare un posto libero a bordo, ci tocca andare a qualche isolato più in là dove a quanto pare stazionano i minibus che vanno a nord. Arrivati in zona parte il solito assalto verso i 2 unici bianchi (ma ormai non lo racconto neanche più, sta diventando cosa normale), troviamo il minibus che ci interessa e quando si riempie si va.

Sarà un altro bel viaggio traumatico, tutti ammassati come le sardine, è quasi impossibile muovere un singolo arto durante il tragitto, quindi è importantissimo trovare la giusta posizione nel momento in cui si prende posto, in modo da mantenerla per tutto il tempo. Questa volta a bordo abbiamo anche 2 tipi che si ubriacano bevendo tranquillamente alcool di bassa qualità durante il viaggio; e siccome il minibus balla molto a causa delle condizioni della strada nazionale non propriamente asfaltata, ecco che il vino ogni tanto salta dal bicchiere verso i passeggeri vicini, qualcuno protesta, ma la maggior parte della gente resta in silenzio, la sopportazione e l’abbattimento di questo popolo sono infiniti. Accanto ai 2 simpatici alcolizzati c’è una mamma con il suo neonato: la signora in questione aveva il piccolo aggrappato dietro la schiena e mentre prendeva posto lo ha schiacciato completamente senza preoccuparsi più di tanto; questi bambini prendono certe botte incredibili, quando il minibus si ferma e la signora cerca di scendere, ancora una volta il piccolo urta contro il tetto del mezzo la sua testolina già piena di lividi. Sembra un caos più totale, ma la scena più bella avviene quando ci fermiamo per la pausa bagno e la mamma in questione chiede ai 2 ubriachi di mantenerle il bebè: io ero rimasto sul bus e i 2 davanti a me che provavano a calmare il pianto del piccolo muovendolo su e giù e dicendo più volte la parola “mamma”; ma dico, con tutte le persone che c’erano a bordo, proprio a quei 2 doveva lasciare il bambino? La sensazione è che la vita da queste parti abbia un valore inferiore rispetto a come siamo abituati a considerarla noi occidentali, si fanno tante azioni senza pensarci troppo. E naturalmente quando prima ho parlato di pausa bagno, intendevo dire una fermata nel mezzo del niente (chiamarla campagna sarebbe un complimento), gli uomini vanno da un lato della strada, le donne dall’altro (se sono fortunate dietro un albero) e poi si riparte. L’unica cosa divertente di questi tragitti è che i minibus in questione ogni volta che passano tra i villaggi si fermano e vengono assaliti da venditori di ogni cosa che si fanno concorrenza spietata tra di loro, mettendoci i prodotti fin all’interno del veicolo attraverso il finestrino.

Tra un’avventura e l’altra eccoci arrivati a Vilankulo, cittadina costiera e punto di partenza per l’arcipelago Bazaruto. Solito giretto per cercare l’alloggio che più fa per noi e scegliamo una casetta di legno economica che si affaccia sulla spiaggia e facente parte di una struttura per viaggiatori zaino in spalla, tipo ostello. E’ domenica, la popolazione locale pare sia numerosa e in molti si riversano in spiaggia, musica che suona dalle poche macchine presenti e odore di carne arrosto che proviene dai barbecue; qualche ora prima mentre entravamo in cittàcon il minibus avevamo anche notato tanta gente al campo di calcio, è uno sport amatissimo da queste parti. Una strada di terra costeggia la spiaggiacentrale non così speciale, noi avevamo preferito quella di Tofo; la percorriamo in lungo e in largo e, come già successo a Maputo, qualcuno pare infastidito se noi lo fotografiamo. La cosa bella è l’incredibile differenza tra alta e bassa marea: quando quest’ultima è al minimo si possono fare camminate interminabili e la gente si riversa a raccogliere molluschi e quant’altro, oltre alle barche che emergono completamente dall’oceano sembrando dei veri e propri relitti (erano cose che avevo già notato in spiaggia a Maputo).

Anche a Vilankulo resteremo per 3 notti, le ultime 2 ci sposteremo in una capanna più interna per via delle zanzare; e che notti! I pochi fortunati ad avere il generatore di corrente hanno qualche lampadina accesa, per il resto di sera è tutto buio, avere la torcia èun aiuto in più per camminare in strada e anche al tavolo nel ristorantino locale è meglio tenerla accesa per avere unamigliore idea di cosa si sta mangiando.

Il terzo giorno, dopo varie trattative, acquistiamo un giro in barca verso l’arcipelago di Bazaruto e precisamente alle isole di Magaruque e Benguera. In barca con noi ci sono 2 ragazze canadesi. La barca scelta non è delle più sicure, ma d’altronde trovare il giusto operatore per organizzare l’escursione è un po’ come giocare a mosca cieca. Eravamo partiti da poco che già c’erano dei delfini accanto alla nostra barca. E alla fine le isole risulteranno molto belle, sabbia bianca ed acqua cristallina: a Magaruque farò un po’ di snorkeling e ci fermiamo per un pranzettino a base di pesce; a Benguera breve sosta pomeridiana che purtroppo non sarà sufficiente visto la grandezza dell’isola: una distesa di sabbia interminabile e isolamento completo, spettacolo! Ci avrei trascorso volentieri la notte. Piccolo aneddoto: durante lo snorkeling i 2 barcaioli che ci accompagnavano hanno avuto la felice idea di frugare nella borsa delle 2 ragazze canadesi e di rubare qualche contante; solita tecnica, ne prendono una parte e lasciano il resto così da non insospettire le vittime, a me era già successo l’anno scorso a Cuba. Ma le 2 non si fanno fregare e con qualche gioco psicologico e un tantino di ricatto riescono ad avere i loro meticals indietro con tanto di scuse da parte dei giovani barcaioli, che faranno la figura da stupidi ed ingenui, oltre a pregarle di non dire niente al loro capo. In Africa si vive e si pensa così, alla giornata, e si costruisce poco o niente; quindi meglio guadagnare tanto e rischiare di non lavorare più, anziché mantenere nel tempo un lavoro.

Al ritorno sulla terra ferma, ci dirigiamo subito verso il mercato locale, punto di partenza dei minibus, dobbiamo comprare i biglietti per la partenza del giorno dopo. Prenotiamo 2 posti, il tipo che vende i biglietti insiste sul fatto che dobbiamo pagare un piccolo extra per lo zaino, come già successo in altre circostanze, io lotto un po’ contro questa pratica che si usa solo ed esclusivamente nei confronti dei turisti bianchi, alla fine vince lui, parlo e parlo ma sembra di parlare con un muro.

Facciamo finta di credere che si paga anche la “pasta” (bagaglio), ma l’amico tenta pure di darmi meno resto, io gli faccio capire che non sono proprio deficiente e lui si giustificherà con un semplice “Distracao”: e allora crediamo anche a questa distrazione, ci facciamo una risata eprendo il mio resto, tanto ormai abbiamo capito che ci provano sempre e comunque. All’indomani sarà di nuovo un’alzataccia, alle 3 di mattina, sta diventando un incubo, ormai di sera difficilmente riusciamo a resistere in piedi oltre le 9.

Parte 5, Mozambico da sud verso nord

Chiediamo alla guardia del nostro alloggio di scortarci fino alla fermata del bus in quanto è buio e il tragitto tra le capanne e baracche non è piacevolissimo. Arriviamo al bus poco prima delle 4, fortunatamente i biglietti erano stati venduti tutti il pomeriggio precedente e quindi saremmo anche pronti per partire se non fosse per l’ennesima fregatura: sono stati venduti 4 biglietti per ogni fila del minibus, tranne che per l’ultima dove hanno deciso di ammassare gli unici 5 bianchi (inclusi noi 2) tutti insieme, tanto i turisti non hanno il coraggio di lamentarsi; non proprio corretti questi mozambicani, questa volta non me la faccio scendere e combino un casino: bloccheremo il bus per mezz’ora ed occupiamo un posto extra che ci spettava di diritto, ma alla fine non c’è stato niente da fare e si parte lo stesso, hanno vinto di nuovo loro, hanno la testa durissima e non si poteva lasciare una persona a caso a terra per darci un posto in più; e noi rifiutiamo il rimborso che ci viene offerto, anche perché il prossimo mezzo parte il giorno seguente e non abbiamo molta voglia di svegliarci di nuovo in piena notte fonda.

Sono le 4 e mezza del mattino, finalmente si parte, si prevede un altro viaggio della speranza, ogni tragitto in Mozambico sembra il peggiore di tutti: come al solito il minibus è mezzo scassato e talmente pieno di persone e cose che si fa fatica a respirare. La solita ed unica strada nazionale che copre il paese da sud a nord, in molti tratti è sterrata, quindi entra tantissima terra dai finestrini; e il bello è che quest’ultimi non si possono chiudere in quanto l’aria condizionata è ancora un’utopia da queste parti e la puzza di sudore e sporco all’interno del veicolo, uniti al caldo, sono talmente pesanti che è meglio tenere aperto e far entrare terra; e quando decidiamo di chiudere per un attimo solo il finestrino dal nostro lato, ci viene detto di riaprire perché la terra che entra da una parte deve pur uscire dall’altra, altrimenti resta all’interno del minibus. Ma che bella teoria! Insomma per l’ennesima volta ci sporcheremo, ci vorranno giorni per ripulirci, in queste condizioni una semplice doccia non basta. Durante il viaggio ci sarà la solita fermata bagno in mezzo alla strada ed il passaggio nei vari villaggi sarà sempre più colorito dai venditori ambulanti assatanati in cerca d’affari, da persone in cerca di un posto a sedere e dai passeggeri che, nonostante non ci sia posto neanche per respirare, comprano di tutto lungo il cammino; incontreremo veramente poche macchine in strada, si contano sulle dita delle mani, e intorno alle 11 di mattina arriviamo all’affollato incrocio diInchope.

L’idea è quella di prendere immediatamente un altro mezzo che va ancora più a nord, verso Quelimane, ma qualcuno in strada ci dice che è troppo tardi e bisogna riprovare il giorno seguente nelle prime ore del mattino. Attendiamo ancora un po’ dando credito a chi invece ci aveva consigliato di aspettare, ma niente da fare, non passa niente. Decidiamo quindi di attraversare la strada e cercare un mezzo che ci porti a ovest verso Chimoio, cittadina vicina dove è più facile trovare un posto per dormire, così all’indomani saremmo tornati allo stesso incrocio di mattina presto con la speranza di salire su un veicolo diretto a nord; ma un signore seduto davanti alla porta di casa ci consiglia di andare a est, verso Beira, è una città più grande, ci dice, e da lì partono i bus gran turismo, quelli veri e comodi, che non si fermano agli incroci, e vanno anche verso nord. Il tipo in questione non aveva la faccia proprio affidabile, ma la tentazione di viaggiare comodi è forte, quindi decidiamo di seguire il suo consiglio, riattraversiamo la strada in direzione opposta e cerchiamo un chapa che ci porti a Beira; e pensare che il minibus nel quale avevamo trascorso la mattinata era proprio diretto a Beira, se avessimo deciso prima ci saremmo risparmiati inutili attese sotto il sole.

Con il solito modo arrogante vengo approcciato dall’autista del chapa di turno parcheggiato, il mezzo è ancora vuoto ed io ho imparato il sistema: gli dico che viaggeremo con lui, ma che lo avrei pagato dopo e tantomeno non salgo subito a bordo, così da non aspettare ore inutili finché si riempiae garantirmi la speranza che qualche suo concorrente parta prima. Mentre aspettiamo seduti su 2 sedie in una specie di balcone mezzo demolito che qualcuno prova a chiamare ristorante, arriva un bus, di quelli grandi, lunghi, non proprio gran turismo, ma comunque qualcosa che assomiglia ad un bus vero, qualcosa paragonabile ad un vecchio autobus ancora in uso nei paesi più poveri dell’Europa dell’est, qualcosa che qui chiamano machibombo. Non credo ai miei occhi, allora esistono!!! Lo fermo, parlo con il conducentein uniforme, c’è anche un controllore, mi dicono che sono diretti a Beira ed il biglietto ha lo stesso prezzo del chapa. Sembra un sogno!!! Ma qui inizia una bella scenetta: nasce un litigio acceso tra gli uomini in divisa e i 2 ragazzi che gestivano il chapa ed ai quali avevamo detto di viaggiare con loro. Quest’ultimi sostengono che noi siamo passeggeri loro e che il bus non può caricarci lì davanti; dall’altro canto i 2 in uniforme spiegano con molta tranquillità che si tratta di un autobus pubblico e che quindi può prendere passeggeri in qualsiasi posto. La discussione si fa talmente accesa che i ragazzi si impongono con forza davanti all’entrata del bus e ci impediscono materialmente di salire a bordo. Non basta il viaggio asfissiante per arrivare fino qui, adesso ci si mettono pure questi 2 che vogliono impormi il loro abuso!!! Sono stanco e arrabbiato… prendo Alba e la spingo di prepotenza all’interno del bus; a quel punto mi giro velocemente verso i 2 con l’atteggiamento pronto di chi si aspetta una qualche reazione aggressiva e loro cosa fanno? Ridono e se ne vanno via; io salgo sul bus e finalmente si parte. Incomincio a realizzare che la nostra paura nel relazionarci con le situazioni di strada in Africa probabilmente è infondata o almeno quasi sempre è così; questo non è il primo episodio in cui ho pensato che forse molti mozambicani non hanno le palle, ho la vaga sensazione di quel tutto fumo e niente arrosto che forse è un’altra delle tante conseguenze causate da un lungo dominio straniero nel passato.

Ad ogni modo siamo in viaggio su un autobus grande e scassato, ma per carità, molto comodo rispetto agli standard a cui eravamo abituati, “solo” 5 sedili per ogni fila e tanti posti vuoti. In circa 2 ore arriviamo a Beira, ci facciamo lasciare davanti al garage della compagnia Tco che gestisce i bus gran turismo e chiediamo informazioni per raggiungere quanto prima Nampula. Ci viene detto che il prossimo bus ci sarà dopodomani, ma c’è solo un posto libero, quindi dobbiamo aspettare 5 giorni. 5 giorni!! Gioco la carta dell’attesa, aspettiamo lì seduti per una buona mezz’ora, io ogni tanto chiedo all’impiegata di trovare una soluzione alternativa ed alla fine un’altra magia si avvera: salta fuori un altro posto e compriamo 2 biglietti per la partenza più vicina!!! Il prezzo non sarà dei più economici, ma chi se ne frega: finalmente un bus comodo sul quale viaggiare. Ora non ci resta che cercare un albergo dove trascorrere le prossime 2 notti; e lo troviamo nel bel mezzo del centro città. La partenza naturalmente è prevista la mattina presto, ma almeno la prima notte possiamo dormire tranquilli. Tranquilli? Lo avremmo fatto volentieri se solo non ci fosse una pseudo discoteca che in piena notte sparava musica a tutto volume proprio sotto la nostra finestra!

Trascorreremo i 2 giorni in giro per la città senza troppe pretese ed approfitteremo dell’internet point per comunicare un attimino con il mondo esterno. Beira è la seconda città del Mozambico, sembra molto simile a Maputo, i palazzi diroccati con i balconi coperti da inferriate antifurto, una moderna stazione dei treni semivuota, il mercato strettissimo con le bancarelle che vendono di tutto, la spiaggia vicino la città. Non ci facciamo mancare il giro con un chapa locale. L’unica differenza è che si inizia a vedere maggiormente la presenza dei musulmani, che però sono moderati e si integrano perfettamente con i cristiani. E dopo una lunga ricerca troverò anche una lavanderia, sarà la prima del viaggio, la mia roba ormai è sporca a tal punto che anche la lavatrice si rifiuterebbe a lavarla. Ma la scena che inizio a notare sempre più spesso sono queste file lunghissime di persone fuori dai negozi di telefonini: pare sia da poco diventata obbligatoria la registrazione di un documento da associare alla scheda sim; e i possessori di telefonini sono davvero tanti.

Si riparte, questa volta comodi su un bel bus gran turismo, inclusi nel prezzo anche snack,acqua, pranzo a base di pollo e il bagno a bordo, la differenza si sente e come, riusciamo anche ad addormentarci diverse volte; se penso ai viaggi fatti qualche giorno prima!!! Stranamente ci sono anche dei posti vuoti, nonostante la signorina qualche giorno prima ci aveva fatto credere che era tutto pieno; chissà perché, c’è sempre una tendenza a rendereil tutto ancora più complicato di quanto già non lo sia, hanno un sistema ancora più complesso dellanostra cara burocrazia italiana.

Per la prima volta possiamo ammirare il panorama comodamente dal finestrino. Oltrepassato il fiume Zambezi sembra cambiare tutto: si ha l’impressione che ci sia ancora più povertà, ma le capanne sono più carine e la gente diversa, forse più dignitosa; anche il paesaggio sembra differente. Durante il viaggio faremo una sosta brevissima nella città di Quelimane e in serata arriviamo a Nampula.

Parte 6, Isola di Mozambico

E’ stata una giornata di viaggio intera, ma siamo contenti di aver percorso un tratto lungo tutto d’un tiro, e soprattutto con un autobus comodo. Che dire di Nampula: è semplicemente un’altra città, niente di speciale, l’hotel in cui capitiamo tanto per cambiare è orrendo, ma la scelta non è stata molto ampia e ci dobbiamo accontentare, se si vuole far esperienza della vera Africa bisognerà pure adattarsi all’acqua che non funziona o a farsi la doccia con l’aiuto dei secchi e quant’altro. In compenso troviamo nello Sporting Club un posticino niente male per mangiare; e per fortuna, visto che la scelta si limitava ai soliti 2 o 3 fast food già visti e rivisti. La sera non c’è molto da fare, quindi a nanna presto e sveglia altrettanto. Passiamo velocemente dalla stazione dei treni per avere qualche informazione riguardo la nostra partenza per il Malawi nei prossimi giorni ed eccoci nuovamente ad un capolinea deichapa per il nostro prossimo tragitto che ci porterà verso l’isola di Mozambico. Solito caos, i vari autisti in cerca di clienti ci chiamano gridando, i nostri 2 zaini non sono proprio invisibili e sembra che noi interessiamo e veniamo notati proprio da tutti; per un attimo siamo circondati da una decina di ragazzi in cerca di facili opportunità, ma ancora una volta mi basterà un semplice sguardo per far loro capire che se mi danno un solo problema io glie ne restituisco due; si calmeranno tutti all’istante e faccio pure amicizia, ormai mi sono quasi convinto che tutti fanno tanto casino, ma alla fine nessuno ha le palle per agire; è il loro modo di fare arrogante unito all’estrema povertà che ti mette in guardia, ma in fin dei conti non mi sembra ci siano pericoli peggiori di altri posti visitati in passato.

Non credevo che potesse accadere di viaggiare ancora più stretti di quanto non abbiamo fatto nei giorni scorsi, ma ripeto, ogni tragitto in Mozambico sembra il peggiore di tutti: la prima fila del chapa dove eravamo seduti ha un poco di spazio in più davanti; noi la scegliamo pensando di stare più larghi, invece hanno appoggiato un cuscino di fronte e fatto sedere altre 4 persone: ancora più ammassati del solito; per fortuna che condivideremo lo spazio limitatissimo con 2 simpatiche ragazze universitarie di ritorno a casa. Roba da non credere: in un veicolo da 12 posti si viaggiava in 19 (più neonati in braccio naturalmente, che non contano), oltre a tutta la mercanzia posizionata in ogni buco disponibile.Meno male che il tragitto durerà solo 3 ore.

L’isola di Mozambico si raggiunge tramite un vecchio ponte a senso alterno, una fila interminabile di donne e bambini si riversano verso l’Oceano per raccogliere i molluschi, approfittando della bassa marea. E’ un vero e proprio spettacolo. Il posto ci piace fin da subito e finalmente alloggeremo in una bella casa coloniale di proprietà di un architetto milanese, tra l’altro più economica di altri alberghi decadenti utilizzati in passato. Bene, finalmente si dorme tranquilli, pensiamo. Macché! In Mozambico più si va verso nord, più aumenta l’influenza araba e proprio di fronte al nostro alloggio ci è capitata una bella moschea… bella… peccato che ogni mattina alle 4 l’imam inizia a predicare con l’altoparlante a tutto volume, che si aggiunge ai bambini che canticchiano mentre lavorano prima ancora del sorgere del sole!!! Ormai resterà un sogno quello di dormire qualche ora in più, ci rassegniamo all’idea di adattarci ai loro ritmi e orari.

Ma l’isola di Mozambico è un paradiso, un piccolo gioiello nel bel mezzo del niente africano, il posto più bello che ho visto dall’inizio del viaggio: vecchia capitale della colonia portoghese conserva tutti i palazzi dell’epoca, anche se per la maggior parte abbandonati; finalmente anche l’architettura da vedere ha qualcosa d’interessante, specialmente la fortezza posta alla punta nord. L’isola è sovrappopolata, un mix di etnie e religioni e la gente del posto sembra leggermente più abituata ai turisti, anche se non ne incontreremo tanti. I bambini chiedono di essere fotografati solo per il gusto di rivedere il loro ritratto nella fotocamera; sono molto disponibili, si divertono, sono sempre sorridenti e cercano il tuo saluto, giocano nei palazzi abbandonati e si inventano di tutto riciclando materiali vecchi: in Africa è frequente vedere i maschi che fanno la corsa con un bastone infilato in un vecchio pneumatico oppure giocare con delle macchinine assurde costruite con il fil di ferro. Ma a guardarli, sembrano tutti felicissimi. Alcune donne e bambini si coprono il viso con una speciale argilla ed è’ molto piacevole il semplice osservare ocamminare per le vie coloniali, infiltrarsi nei palazzi abbandonati, vedere le vecchie insegne dei bar di una volta, la sede dell’onnipresente partito comunista Frelimo oppure quella degli oppositori un po’ meno evidenti Renamo, le donne che raccolgono i molluschi e i ragazzi che si fanno la doccia prendendo l’acqua da un vecchio pozzo situato all’interno di una ex isola-bastione, raggiungibile solo con la bassa marea.

Finalmente Alba riesce a trovare anche un ufficio postale che venda francobolli, così può imbucare le sue cartoline, finora tutte le poste ne erano state sprovviste. Peccato però che i francobolli disponibili sono solo da 5 metical e per inviare una cartolina in Europa ce ne vogliono 92. Bastano 6 francobolli per occupare l’intero retro della cartolina, il che arriviamo a soli 30 metical e non abbiamo un millimetro libero neanche per scrivere l’indirizzo. E’ incredibile, in Mozambico non c’è proprio niente. La signora dell’ufficio ci consiglia di comprare una busta grande quanto un foglio A4, inserire la cartolina all’interno e quindi riempirla con tutti i francobolli necessari. Alla fine Alba neanche questa volta riuscirà a spedire le sue cartoline.

E’ curioso notare come in un palazzo sia cresciuto un albero completamente a cavallo del muro esterno e molti edifici siano senza finestre, come il tribunale per esempio; neanche l’ospedale ancora in uso ce l’ha e sulle sue mura sono disegnati i simboli della lotta all’Aids, un problema enorme da queste parti. Sull’isola di Mozambico mangeremo anche una buona pizza, ma soprattutto ci divoreremo la migliore aragosta che io probabilmente abbia mai assaggiato in tutta la mia vita, servita con un bel contorno abbondante su un terrazzino arredato niente male. Spettacolo!

Nel nostro alloggio abbiamo conosciuto una coppia di francesi che viaggiano in Africa tutti gli anni, un po’ per vacanza e un po’ per fare business: cercano e acquistano materiale raro nei villaggi più sperduti ed importano il tutto in Europa per rivenderlo. Un giorno ci inviteranno per un giro in dhow (barca a vela tipica costruita con mezzi di fortuna) con relativi skipper locali: andremo in spiaggia a Chocas, bellissima e bagnasciuga pieno zeppo di granchi in movimento. E qui vedremo finalmente i primi baobab spogli così come si vedono nelle più classiche fotografie d’Africa.

In partenza dall’isola approfittiamo della disponibilità dei nostri amici francesi in macchina per un passaggio verso il vicino incrocio di Namialo; loro continueranno a sud verso Nampula, noi invece vogliamo andare ancora più a nord verso l’arcipelago delle Quirimbas. Non ricordo di essere mai stato così felice per il solo motivo di aver trovato un passaggio in auto: i viaggi in chapa ci hanno spezzati e immagino ancora ci spezzeranno; per ogni destinazione raggiunta abbiamo bisogno di un giorno intero solo per riposare e riprenderci dallo stress del viaggio. In strada notiamo verso l’orizzonte un’enorme cattedrale nel bel mezzo del niente, cosa più unica che rara; incuriositi ci avviciniamo, sembra davvero una cattedrale nel deserto, costruzione imponente e di fronte la scuola, qualche edificio e poi il solito niente che caratterizza l’Africa. Conosceremo un’anziana suora bergamasca che vive qui da più di 40 anni e porta avanti progetti di volontariato collegati con la Chiesa. E’ piacevole parlare con lei, ci spiegherà come era difficile vivere durante il colonialismo o ancora peggio quando c’è stata la lunga guerra civile; e invece di questi tempi in Mozambico si sta decisamente meglio, ci dice. E per fortuna, penso dentro di me; non oso immaginare come si possa vivere peggio di così.

Arriviamo a Namialo che sono le 8 e mezza del mattino, è già un po’ tardi visto il lungo tragitto che ci attende, salutiamo i nostri amici francesi e cerchiamo di capire quale sia il modo per arrivare alla città di Pemba, nostra prossima destinazione. In Africa gli incroci tra 2 strade importanti sono sempre affollati di gente, quando passa un bus o una macchina (molto raramente) i ragazzi escono correndo dalle capanne trasportando la mercanzia che a volte si limita anche ad una sola bottiglia d’acqua, qualsiasi cosa è buona per essere venduta, regnano caos ed anarchia più totali. Ci viene detto che in qualche momento dopo le 11 passerà un bus che arriva da Nampula ed è diretto a Pemba. Attendiamo sotto il sole, fa caldissimo e siamo osservati da tutti, io cerco anche qualche passaggio chiedendo alle rarissime macchine che vanno in quella direzione, ma è molto difficile. Ad ogni modo riusciremo a raggiungere Pemba quando sarà già buio ed in 3 tappe: 2 autostop, uno nel retro di una camionetta e l’altro dietro ad un pick-up, ed 1 bus vero (machibombo) che scopriremo arrivava proprio dallo stesso incrocio in cui avevamo aspettato per tutta la mattinata; insomma ci saremmo potuti risparmiare la fatica dei vari cambi. Ci sistemiamo in un alberghetto vicino al mare e ci concediamo un’altra mangiatina di pesce per cena.

Parte 7, Pemba ed arcipelago Quirimbas

Il giorno seguente ce ne stiamo un po’ in spiaggia e nel pomeriggio andiamo a trovare Manuela, volontaria di Como conosciuta via internet tramite un amico e che vive in una struttura gestita da suore italiane ormai da 2 anni. Il bello è che le suore sono tutte in borghese e le troviamo molto sveglie e realiste, anche quando faccio qualche domanda piccante sul come vengono gestiti i soldi che arrivano dalla beneficienza e sull’effettivo aiuto che molte organizzazioni umanitarie non danno. Una di loro in particolare mi spiega le varie difficoltà, di come sia complicato insegnare ai mozambicani bisognosi a crearsi un proprio futuro, di qualche progetto da queste inventato per incentivare le piccole attività private con dei prestiti; si arrabbia un po’ quando dubito del lavoro che la Chiesa fa in queste zone, lei mi sottolinea di come le missioni siano state determinanti nell’aiuto alle popolazioni povere, proprio tosta sta suora. Questa struttura in pratica è un ritrovo per bambini e noi capitiamo il giorno in cui un dottore cubano è a disposizione per le varie visite e vaccini per chiunque ne abbia bisogno all’interno della comunità. Eh già, è proprio cubano il dottore e non è difficile immaginarlo, visto che il Mozambico è un paese comunista; ricordo che mi era stato detto che anche i sommozzatori venuti a recuperare dei reperti storici in mare nei pressi dell’isola di Mozambico erano cubani, a quanto pare Fidel non si lascia sfuggire nessuna occasione per tenere stretti i rapporti con i paesi amici.

Con Manuela facciamo un giro in macchina per accompagnare il dottore in città e lei ci mostra come Pemba stia crescendo a dismisura, l’ammasso di capanne abusive nei vari quartieri è talmente denso da non lasciare alcuna uscita di emergenza o strada per permettere ai mezzi di soccorso di entrare. Come al solito è un gran caos e ci sono zone intere trasformate in discariche a cielo aperto di spazzatura che quotidianamente viene bruciata. La cultura della raccolta differenziata e del riciclo naturalmente non esiste e anche durante i tragitti percorsi inchapanei giorni passati ricordo che tutto veniva gettato fuori dal finestrino (lattine, bottiglie, carte etc.); di notte più volte ho notato i focolari qua e là che bruciavano la spazzatura dei villaggi.

La nostra amica tra le tante storie ci racconterà di come diventi ancora più complessa la situazione durante la stagione delle piogge che sta per arrivare (solitamente tra Novembre e Febbraio): i raccolti scarseggiano e nella mente del mozambicano medio non esiste la cultura di conservare il raccolto invernale anche per il fabbisogno estivo; no, qui si consuma tutto all’istante, non c’è organizzazione mentale e perciò d’estate ci sono più persone che muoiono di fame. Per non parlare della malaria e le altre malattie che subentrano. E poi c’è sempre quel senso di inferiorità dell’africano medio, il quale pensa che il bianco abbia la soluzione a tutto, nella maggior parte dei casi non ha voglia di sbattersi per i propri interessi e anche se gli si offre un lavoro interessante da fare, continuerà comunque a chiederti l’elemosina perché è la via più facile e comoda. Ricordo che Daniele, il volontario italiano conosciuto a Tofo, mi aveva raccontato di aver fatto un accordo con un ragazzo mozambicano per produrre quante più collanine possibile nell’arco di un mese da acquistare al prezzo stabilito dal giovane stesso, così da portarle in Italia e rivenderle per tirare su altri fondi da destinare ad aiuti per il Mozambico; pare che il tipo dopo 30 giorni si sia presentato con solo 6 o 7 collanine e dopo essere stato pagato per il lavoro svolto gli abbia chiesto di regalargli qualcosa.

La partenza per raggiungere l’arcipelago delle Quirimbas è prevista più o meno per le 4 del mattino dal centro città, si prevede un’altra giornata da incubo: il taxi prenotato la notte prima neanche si presenterà e fortunatamente troveremo un passaggio con una macchina che passava da quelle parti e per la prima volta non ci viene richiesta né accettata alcuna ricompensa in denaro per il servizio offertoci. Arrivati all’incrocio giusto imbarchiamo subito su un camioncino che gira e rigira più volte la città alla ricerca di clienti; in pratica avremmo potuto svegliarci un’ora dopo visto che alle 5 eravamo di nuovo al punto di partenza, quando finalmente il camion si è riempito abbastanza dapoter partire verso il porto diTandanhangue.

Il viaggio naturalmente è molto stressante e stavolta il mezzo è completamente aperto quindi arriva anche il vento abbastanza freddo (il sole deve ancora sorgere); comunque mi sto rendendo conto che le cose più interessanti da raccontare e che probabilmente mi resteranno più impresse sono proprio questi tragitti percorsi in camion, chapa o con i mezzi più disparati: qui si mette in scena uno spaccato di vita quotidiana che mai avremmo potuto vivere viaggiando comodamente in auto privata o mezzi da turismo. E proprio in questo tragitto verso le isole il passaggio attraverso i diversi villaggi sarà più colorito che mai: i venditori ambulanti salgono fin sopra il camion in corsa e scendono al volo pur di venderti un casco di banane o un qualsiasi frutto tropicale che sia; tutti comprano di tutto durante il tragitto e finalmente ne comprendiamo in pieno il motivo: il costo per trasportare le merci è molto elevato ed anche fare la spesa al mercato cittadino diventa caro, mentre così si compra la merce direttamente nei villaggi di raccolta o produzione. Ed ecco che le fermate sono spesso monotematiche: in una zona si vende solo un tipo di frutto, in un’altra l’alcool, più avanti ancora il riso; e la gente in viaggio man mano si riempie di scorte di roba. E’ talmente conveniente che Alba acquisterà 3 grandi papaye al costo di 20 centesimi di Euro. Spettacolo!

Arrivati al porto, che consiste in una piccola baia ed e un po’ di vegetazione, riusciamo appena in tempo a prendere l’ultima barca per l’isola di Ibo, la marea si sta abbassando e con qualche minuto di ritardo avremmo dovuto attendere fino a dopo il tramonto per partire; la barca è stracolma, per raggiungerla dobbiamo camminare con l’acqua oltre le ginocchia e durante il tragitto ci bagniamo continuamente con gli schizzi, sembra di dover affondare da un momento all’altro.

Ibo è l’isola principale dell’arcipelago delle Quirimbas e si presenterà ai nostri occhi un po’ come l’isola di Mozambico in versione molto più grande, meno popolata, di gran lunga meno organizzata e messa peggio in quanto a mantenimento dei vecchi edifici. Qui l’elettricità non esiste, perciò tranne che per qualche struttura che possiede il gruppo elettrogeno, la sera si cammina completamente al buio e la nostra torcia si rivelerà sempre più utile. Ma non è solo la luce a mancare: anche per mangiare bisogna organizzarsi molte ore prima e concordare la cena già dalla mattina con la signora che gestiva il nostro alloggio oppure ordinare presso l’unico albergo aperto in tutta l’isola; per fortuna la seconda opzione si rivelerà un’ottima scelta e l’aragosta e i buffet che ci hanno preparato, per la modica cifra di 6 Euro tutto incluso, difficilmente li dimenticheremo; anche perché a pranzo non avevamo molta scelta oltre ad un negozietto che proponeva il piatto del giorno e varie opzioni di chamusas (triangolini fritti ripieni di carne, pesce o verdure). C’è da dire che almeno ad Ibo non si muore di sete, ogni tanto si incontrano delle fontane che prelevano acqua dolce direttamente dal sottosuolo e spesso si vedono i bambini che si lavano in strada.

Durante la nostra permanenza non mancheremo di fare visita allo storico dell’isola, tale Senhor Joao Baptista, un simpatico anziano che a suo dire aveva avuto un ruolo istituzionale importante durante il periodo del colonialismo portoghese e che ci mostrerà diverse riviste internazionali che parlano di lui, oltre a rispolverare qualche aneddoto di vita vissuta a quei tempi.

Più viaggiamo verso nord e più ci stiamo rendendo conto di quanto il niente africano possa diventare affascinante. Un giorno faremo una bella camminata sotto il sole per il solo gusto di vedere un aereo decollare dall’aeroporto visitato 2 giorni prima (con la scusa di salutare un amico in partenza conosciuto all’isola di Mozambico): che dire, anche l’edificio aeroportuale è fatiscente, si limita ad una stanzetta senza porta né finestra, c’è il tetto per ripararsi dal forte sole, qualche panchina e la scritta “Ibo” in alto; la pista naturalmente non è asfaltata, ma di erbaccia secca ed un altro viaggiatore ci ha raccontato come qualche minuto prima una persona sia andata a correre dietro alle capre che occupavano la pista, in modo da cacciarle e permettere l’atterraggio di un velivolo; aeroplani piccoli e privati che portano turisti spesso facoltosi nei resort delle varie isole, naturalmente! Che spettacolo! Nella stessa giornata abbiamo continuato a camminare per ore sotto il sole fino a perderci nell’interno di Ibo e poi finire sul lato opposto dell’isola, assetati e con poche zone d’ombra; fa proprio tanto caldo, ormai siamo nell’Africa più profonda, non troppo lontani dalla Tanzania.

Un giorno ci siamo organizzati con un barcaiolo e altri 2 turisti per un’escursione in dhow all’isola di Matemo, bella e soprattutto deserta, e al banco di sabbia, che si forma solo in alcune ore della giornata grazie alla bassa marea, creando così una minuscola isola sperduta nel bel mezzo dell’Oceano Indiano. Con un ragazzo australiano l’ultima sera andremo a curiosare in una discoteca locale dove pare fosse ospite un famoso dj di Nampula: cosa posso aggiungere, una baracca, musica ad alto volume, alcuni venditori ambulanti e tanti giovani, nient’altro.

Parte 8, In treno verso il Malawi

Ad Iboabbiamo visto i bambini mandati in giro a distribuire bandierine e semplici gadget sponsorizzati dal partito comunista Frelimo, che praticamente impone la sua leadership, un po’ come avviene nella maggior parte dei paesi di questo continente. Ad Ibo faremo una chiacchierata con i primi veri viaggiatori cinesi che io abbia mai incontrato negli anni (li avevamo conosciuti qualche giorno prima a Nampula e poi ci siamo ritrovati sull’isola di Mozambico e quindi alle Quirimbas): una coppia che ha viaggiato dalla Cina fin qui via terra, di cui lui pare se ne starà in giro per il mondo per un totale di 3 anni, dormendo sempre in tenda; mi racconterà di aver lavorato in borsa e che in un anno e mezzo ha guadagnato tanti soldi cavalcando il boom economico cinese, quindi ha mollato tutto ed è partito; tanto di cappello!

La direzione del nostro viaggio inizia ad andare verso l’interno, ad ovest, vogliamo entrare nelle viscere di questo continente ed attraversare Malawi, Zambia e, se le notizie sulla stabilità politica non saranno troppo preoccupanti, fare anche un giretto in Zimbabwe, prima di raggiungere le cascate Vittoria. Ma non vogliamo perderci per nessun motivo un viaggio in treno, che a detta di molti è interessantissimo, quindi ci toccherà tornare indietro fino a Nampula, dove passa la ferrovia. Riprendiamo la barca stracolma ed ancora un altro viaggio estremo in camion, ci vorranno “solo” 5 ore per percorrere i 100 chilometri che separano il villaggio di Quissanga, nei pressi del porto, daPemba; questa volta il tutto sarà condito da un grande sacco di cemento posto sotto i nostri piedi che si romperà spolverando praticamente tutti i passeggeri di grigio.

Una cosa di cui non si può far finta di niente quando si viaggia in Africa è la diffusione dell’Aids: da queste parti il 20-25% della popolazione è sieropositiva e fa un po’ impressione pensare che nel camion siamo una trentina di persone e probabilmente 7-8 sono infette da questa malattia. Il ragazzo mozambicano conosciuto nel primo viaggio in chapa verso Tofo ne dava la colpa ai giovani che a suo dire non usano precauzioni… Qui se uno supera i 30 anni viene considerato vecchio e perciò sano ed intelligente per non aver contratto il virus; l’aspettativa media di vita in Mozambico si ferma ai 35-40 anni. Quest’Africa è proprio un mondo completamente diverso da quello in cui siamo abituati a vivere noi.

Alloggeremo in un albergo centrale a Pemba, così da essere vicini alla fermata del bus per il giorno seguente. Oggi è domenica e questa volta non voglio farmi sfuggire la partita di campionato della massima serie mozambicana Pemba contro Vilankulo; vincerà la seconda e noi riusciremo ad infilarci in tribuna per gli ultimi 15 minuti, iperosservati da tutti naturalmente, a volte in Africa mi sento quasi un extraterrestre. Lo stadio non è un granché, ma è abbastanza pieno e alle nostre spalle ci sono i giornalisti che commentano e conducono le interviste del dopo partita.

Alle 5 del mattino del giorno seguente siamo già in viaggio e questa volta troveremo un machibombo, bus scassato per carità, ma almeno è un bus grande che ci sembra quasi un lusso rispetto ai viaggi fatti negli ultimi giorni. A Nampula ci rilassiamo un attimo, internet, passeggiata al mercato, poi addirittura un supermarket, ma l’alloggio farà sempre schifo (nonostante ne abbiamo scelto uno differente rispetto all’ultima volta).

E finalmente siamo giunti ad un altro perno importante del nostro viaggio: il tragitto in treno che ci porterà tra i villaggi e le montagne nell’interno del Mozambico. Abbiamo molte aspettative da questa giornata e alla fine non resteremo per niente delusi; il fatto che in Africa non ci sia niente rende anche un semplice viaggio sulle rotaie qualcosa di molto particolare e interessante e qui la parola spettacolo! sarà azzeccatissima.

Dunque si parte puntuali alle 5, questa volta non ci sarà da attendere che il treno sia pieno zeppo, primo perché non funziona come i chapa, secondo perché effettivamente è comunque stracolmo. Noi abbiamo prenotato il giorno precedente 2 posti nell’unica carrozza di seconda classe, disponibile solo 3 volte a settimana insieme ad uno pseudo vagone ristorante; per il resto si viaggia in classe economica, un vero massacro. Il treno sembra degli anni ’60, l’atmosfera a cui eravamo abituati nei viaggi su 4 ruote, dove ad ogni sosta ci si ritrovava in un vero e proprio mercato ambulante, qui viene moltiplicata abbondantemente durante le fermate nelle pseudo stazioni ferroviarie. E’ incredibile: ad ogni villaggio le carrozze vengono letteralmente assalite, i passeggeri si affacciano dai finestrini oppure scendono per fare gli acquisti, i venditori salgono a bordo e poi saltano via al volo con il treno in cammino; anche noi faremo la nostra parte, in questo villaggio compriamo i cetrioli, nel prossimo le carote, dopo i pomodori e così via, spesso ci propongonoanche le galline vive. E poi sul treno stesso molti passeggeri hanno le proprie mercanzie da vendere, è tutto un commercio.

Questa volta ancora maggiormente viviamo uno spaccato di vita locale: la gente chiacchiera, discute dei problemi del paese, poi ci si scambia di posto e di compartimento, si conosce nuova gente; si ha proprio la sensazione di stare in un paese comunista, anche se con parametri lontanissimi dalla nostra immaginazione. Molti si portano il pasto da consumare che quasi sempre consiste in una porzione di xima (il piatto nazionale, una specie di mais bianco pressato che si mangia con le mani) accompagnato da verdura cotta o pollo, cibo economico e che riempie lo stomaco, in vero stile africano.

Dopo aver attraversato villaggi, stazioni e paesaggi montani giungiamo in una decina di ore alla stazione di Cuamba. Siamo un poco stanchi, ma invece di fermarci e cercare alloggio, ne approfittiamo di un chapa in partenza verso il confine malawiano, così da bruciare i tempi ed essere pronti ad attraversare la frontiera la mattina seguente. Sarà l’ultimo viaggio massacrante in Mozambico e tra le varie lamentele dei passeggeri, uno in particolare mi ha fatto sorridere, sostenendo che in queste condizioni saremmo giunti a destinazione mutilati; e non aveva tutti i torti. E’ buio ormai e durante il viaggio si vedono i focolai della spazzatura che brucia. Qualche chilometro prima di giungere a destinazione il chapa si ferma nel bel mezzo del niente e l’autista ci fa scendere tutti per raccogliere i soldi del biglietto; credo abbia avuto paura che una volta arrivati qualcuno scappassevia senza pagare.

A Mandimba prendiamo una stanza per dormire, ceniamo e facciamo un giretto per le stradine (con la torcia accesa naturalmente, la luce tornerà solo in tarda serata). All’alba del giorno seguente 3 bici-taxi ci porteranno fino in frontiera, qualche chilometro più in là; con noi c’è anche Ashley, un tipo australiano abbastanza timido e tranquillo che ormai percorre il nostro stesso itinerario da diversi giorni. Devo ammettere che questi ragazzi fanno un po’ pena a vederli pedalare, noi siamo seduti dietro con i nostri zainoni enormi e loro si affaticano notevolmente per portarci a destinazione.

Sbrigate le pratiche doganali, attraversiamo a piedi i 1500 metri di terra di nessuno e stampiamo il visto di entrata in Malawi (questa volta è gratuito). Cambiare i contanti in strada sembra convenientissimo a tal punto che ripetiamo l’operazione 2 volte in poco tempo; solo successivamente ne comprenderò il motivo: il cambio ufficiale del kwacha applicato a livello internazionale, e quindi anche dalle carte di credito, è fisso, ma non rispecchia il valore reale del biglietto verde nelle strade, che viene valutato circa il 20% in più.

Viaggiamo verso Mangochi sul retro di un camion nel quale quanto meno abbiamo lo spazio per muovere i piedi. Qui pochi giorni fa si è svolto un grande festival musicale di livello internazionale al quale purtroppo non abbiamo fatto in tempo ad assistere. Facciamo un prelievo di contante extra, in quanto siamo diretti al lago e abbiamo paura di non trovare più banche; già in Mozambico ci era capitato diverse volte di aver avuto difficoltà nel prelevare. Ci dirigiamo quindi verso MonkeyBay con il trasporto pubblico che funziona più o meno come in Mozambico, ma stavolta ognuno ha il suo posto a sedere. Addirittura!!! Nonostante percorriamo il tragitto con un minibus messo veramente male, abbiamo quasi la sensazione di viaggiare comodi e i massacri mozambicani sembrano già un lontano ricordo. Sembrano!!! Scendiamo 5 km prima di MonkeyBay, ad un incrocio è parcheggiata una camionetta pronta a partire verso Cape Maclear, nostra destinazione finale: a questo giro viaggeremo di nuovo appiccicati e sotto un sole cuocente (siamo nelle ore più calde della giornata); l’unica fortuna è che il tragitto è breve, quindi verso le 14 siamo già sul lago.

Ci ritroviamo in un gran bel posto: si sta tranquilli, l’alloggio scelto è a ridosso della spiaggia e l’atmosfera molto rilassante. Sul bagnasciuga si svolgono tutte le attività quotidiane: la gente si lava, gli uomini pescano, le donne fanno il bucato e sciacquano piatti e padelle. Naturalmente la sera si va in giro sempre con una torcia in mano, in quanto l’elettricità è un’utopia. I malawiani sembrano molto disponibili e socievoli, passeggiando in spiaggia non si smette mai di salutare i bambini che chiedono continuamente di essere fotografati.

A Cape Maclear incontreremo molti turisti, gli alloggi sono quasi tutti sulla spiaggia, addirittura molti non hanno stanze disponibili e non è difficile capirne il perché: il Malawi viene spesso definito l’Africa per principianti, in quanto è un paese relativamente tranquillo e piccolo, la gente è amichevole e viaggiare non è difficilissimo, quindi si fermano tutti qui.

Parte 9, Lago Malawi

Un pomeriggio abbiamo preso un kayak e fatto un po’ di sport pagaiando nel parco nazionale e intorno ad un’isola vicina. Incontriamo anche una coppia di San Marino, lui si è appena trasferito in Zambia per un breve periodo ed è alla ricerca di un’organizzazione non governativa per fare del volontariato; si riaprono quindi le discussioni sul sistema beneficienza e su quanto sia difficile farla funzionare come si deve. Mi ritornano in mente i discorsi affrontati in Mozambico con gli altri volontari e di come le donazioni siano gestite in maniera inefficiente e con tanti sprechi. La colpa naturalmente non è solo delle organizzazioni stesse, ma anche dei singoli donatori, che siano essi governi, aziende private,singoli individui o turisti stessi. L’avevo sempre immaginato ed in questo viaggio me ne sto rendendo conto sempre maggiormente di quanto aiutare il prossimo sia una cosa seria e mooolto difficile da realizzare:

– il turista arriva qui, si dispiace del bambino povero che chiede l’elemosina e regala pochi centesimi pur di accontentarlo – quel bambino probabilmente deciderà di chiedere l’elemosina tutta la vita, tanto sarà sempre meglio che andare a lavorare per guadagnare 50 Euro al mese (questa era la paga media in Mozambico);

– una nazione europea decide di fare una bell’azione, regalando 200000 zanzariere con l’intento di aiutare la lotta alla malaria – peccato che con questo regalo ha mandato in fallimento 3 aziende locali che producono zanzariere;

– e ancora il turista si riempe la valigia di penne e materiale scolastico (maledette penne!!!) – probabilmente ha causato la chiusura della cartolibreria locale drogando l’economia del posto, oltre al fatto che se i regali vengono donati direttamente ai bambini, probabilmente quest’ultimi se li vendono per comprarsi gomme da masticare o patatine.

Potrei continuare all’infinito: se si vuole aiutare bisogna venire qui ed insegnare a questa gente come si coltiva la terra, come si costruiscono le scuole, l’importanza dell’istruzione, le tecniche migliori per produrre. Ma è troppo faticoso. Più facile donare e basta, i bambini sono così teneri, poveri ed hanno bisogno di aiuto, nessuno si pone il problema di come gli aiuti facili distruggano ancora di più questo continente. Naturalmente ci sono delle eccezioni e sicuramente avere delle medicine in un luogo dove altrimenti non arriverebbero mai, probabilmente salva qualche vita. Ma la regola generale purtroppo non è questa e le grandi multinazionali che sfruttano le risorse ed il sottosuolo delle zone povere del mondo lo sanno benissimo: meglio addolcire le popolazioni locali con un po’ di carità qua e là, anziché sviluppare l’intelletto di un popolo che alla fine si potrebbe riappropriare della sua terra e della vera indipendenza. E’ una storia che va avanti da secoli e chi sa quanti altri secoli ci vorranno per raggiungere la vera uguaglianza, il colonialismo è finito solo ufficialmente, ma questo angolo del mondo continua ad essere sottomesso dai più potenti.

A Cape Maclear restiamo solo 2 giorni, si stava bene e saremmo rimasti volentieri qualche giorno in più; fino alla sera prima siamo stati a lungo indecisi se partire o no, ma l’unico traghetto in funzione parte solo una volta a settimana ed è un’esperienza che non vogliamo perdere; pare sia una vecchia nave tedesca smontata e ricostruita all’interno del lago.

Andiamo con una macchina al porto di MonkeyBay e, come consigliato dalla guida, compriamo i biglietti di prima classe. Saliti a bordo ci accorgiamo che questi tagliandi non ci danno altro che l’accesso al ponte più alto completamente all’aperto. Bene, allora la curiosità mi porta a vedere come sia ridotta la classe economica: si trova un piano più giù, qualche salone comune al chiuso ed il resto all’aperto; dopo qualche fermata si riempirà all’inverosimile, praticamente il traghetto è diventato come un chapa, ma di dimensioni più grandi, e durante il viaggio la classe economica si è trasformata in un mercato a cielo aperto nel quale i passeggeri comprano e vendono di tutto. Siamo quindi felici della nostra scelta di viaggiare completamente all’aperto, dormiremo su una scialuppa di salvataggio rovesciata avvolti nel nostro sacco a pelo, ma quanto meno abbiamo spazio per camminare e non ci manca l’aria da respirare;e poco importa se dai rumorosi motori volano residui di carbone che pian piano dipingono di nero le nostre facce e vestiti. Questo traghetto è proprio messo male, sembra che possa affondare da un momento all’altro. Ad ogni fermata le scialuppe vengono calate in acqua ed i passeggeri scendono e salgono a bordo in massa; faremo anche una fermata sulla costa mozambicana del lago, che è il terzo più grande d’Africa (la nave impiega quasi 3 giorni per navigarlo da sud verso nord ed è sempre in ritardo di molte ore), ed all’isola di Likoma, che vedremo solo come una grande ombra in quanto è sera e tanto per cambiare non ha elettricità.

Arriviamo a NkhataBay dopo 2 giorni di viaggioe ci sistemiamo in una specie di resort economico. Il posto è carino, anche qui incontriamo molti viaggiatori e la presenza di rasta africani è notevole.Il nostro bungalow non è male, è situato in posizione alta e con una bella vista sul lago. Facciamo una passeggiata prima in spiaggia e poi al centro abitato e si ha quasi la sensazione di essere sull’isola di Santa Lucia, ai caraibi: l’acqua da un lato, le colline dall’altro e tanto verde intorno.

Tra gli altri conoscerò un ragazzo sudafricano (bianco naturalmente) che vive in Malawi e con il quale avrò modo di chiacchierare a lungo sul suo paese di origine: ancora una volta ne viene fuori un quadro angosciante, i bianchi e i neri vivono, lavorano e si divertono in modo separato, proprio come all’epoca dell’apartheid. Addirittura mi racconterà di come ogni volta che una pattuglia lo ferma in strada, lui telefona alla centrale e comunica il numero del distintivo del poliziotto in questione prima ancora di abbassare il finestrino ed esibire i documenti; questo perché non si fida dei neri ed ha paura degli agenti corrotti. Il ragazzo in questione mi sconsiglia assolutamente di andare a visitare le township sudafricane e si raccomanda con me di stare attento quando andròin viaggio nelsuo paese. E’ molto giovane ed ha proprio la faccia da bravo ragazzo, prima mi offre un po’ di stuzzichini sudafricani, poi mi invita a giocare a carambola. Mi dirà addirittura che preferisce vivere e lavorare in Malawi, dove la gente è più buona, anziché in Sudafrica. Eppure io ancora non ci credo che possa essere così terribile.

A NkhataBay conosceremo anche un italiano nato e residente in Malawi. Pare che la sua famiglia sia emigrata qui molti decenni fa e lui ha tutta l’aria di essere benestante: fa il pilota di piccoli aereiprivati trasportando business man in giro per l’Africa e ci racconta un po’ d’avventure di volo; la più simpatica è quella cheprima di atterrare a volte è costretto a volare a bassa quota per mettere in fuga gli elefanti dalle piste di terra battuta per poi fare il giro largo e quindi toccare il suolo. Spettacolo! Ha l’aria da sfigatello sto ragazzo, ma è di buona compagnia e, quandoci offre un passaggio in macchina verso la capitale per il giorno seguente, non ce la siamo proprio sentita di rifiutare. Il punto è che gli spostamenti in Africa ci hanno massacrano talmente tanto che percorrerli seduti e comodi in macchina diventa una possibilità da sfruttare al volo. Peccato però che per non perdere la partenza settimanale del traghetto e ora questopassaggio in auto non abbiamo dedicato abbastanza giorni al relax in riva al lago.

Quindi restiamo a NkhataBay solo una notte e ripartiamo all’indomani, ma non prima d’aver fatto un bagno in acqua dolce: potrebbe essere davvero l’ultimo finché non arriviamo a Città del Capo, meglio approfittarne. Siamo in 5, con noi viaggeranno 2 ragazze svizzere ed appena arrivati alla stazione di benzina l’italiano ci chiede a tutti di dividere le spese!!!! Per carità, è una cosa giusta, ma almeno a dirlo prima, invece di fare l’amico che si offre a portarci con lui. Ma forse è proprio l’Africa che funziona così, tranne per qualche eccezione finora avevamo sempre pagato facendo l’autostop.

Spesso ho notato che in Africa gli automobilisti hanno un modo tutto loro di utilizzare gli indicatori luminosi ed è facile confondere un autista che mette la freccia a destra per dirti che puoi sorpassare con uno che usa la stessa freccia per avvisarti che deve girare a destra; la cosa migliore da fare probabilmente è ignorare qualsiasi avviso ed usare il proprio buon senso.

Ad ogni modo arriviamo a Lilongwe comodi e rapidi, con colazione in spiaggia a metà strada. La capitale del Malawi non è grandissima né tantomeno interessante e noi approfittiamo dei supermercati presenti per comprare qualche provvista e riprenderci un attimino. L’alloggio stavolta sarà all’interno di una parrocchia ed in serata il nostro amico italiano ci verrà a prendere per bere qualcosa a casa sua dove vive con i genitori: gran bella abitazione e i soliti fili elettrici sui muri perimetrali per garantirsi la sicurezza.

Ci informiamo sugli orari dei minibus in partenza il giorno seguente nei pressi del mercato e non manchiamo una visita in farmacia per controllare il nostro peso ed acquistare la giusta quantità di pillole contro la bilharziosi, malattia presente nel lago Malawi, della quale è molto facile venirne infettati anche dopo un semplice bagno, e che causa l’infezione da parte di alcuni parassiti che riproducono le proprie uova nel corpo umano, creando infezioni e dando vita ad un ciclo che si può ripetere all’infinito. A me toccheranno 5 compresse da prendere tra 6 settimane, sia che venga infettato oppure no. Meglio prevenire che curare.

Parte 10, Safari nel parco South Luangwa

Il Malawi è il paese più povero di questa parte del mondo, ma ad esser sincero il Mozambico mi è sembrato molto peggio. E’ arrivato il momento dei saluti, breve e concisa la nostra visita, non abbiamo neanche avuto il tempo di provare a pagaiare su una tipica canoa dugout senza perdere l’equilibrio e cadere in acqua, pare sia abbastanza difficile come impresa; basta con mari e laghi, è tempo di fare qualche bel safari prima che arrivino le piogge. Lasciamo Lilongwe, ma solo dopo una breve visita in una classe di bambini lasciata senza insegnante e con il solo bidello a fare da guardia. Si trova proprio accanto al nostro alloggio ed Alba vestirà quindi il ruolo di maestra intrattenendo per un poco i piccoli.

Viaggio in minibus e poi in taxi, in poche ore arriviamo al confine; questa volta dobbiamo pagare 50 dollari americani a testa per il visto d’entrata. Io avevo un mazzetto di 50 banconote tutte da un dollaro e a quanto pare le taglie piccole non venivano accettate in frontiera; ci siamo andati molto vicini a farla franca, se solo un doganiere un po’ invidioso non fosse intervenuto nel mio tentativo di addolcimento della signora ufficiale che lavorava allo sportello; in Africa anche le tasse governative più serie sonocompletamente trattabili.

Con una macchina percorriamo gli ultimi 30 km che ci separano da Chipata, siamo in Zambia, preleviamo i nuovi contanti e con un po’ di fatica troviamo un alloggio. Noto un cartellone pubblicitario che annuncia la presenza in città del presidente della Repubblica per il 26 Ottobre. E oggi che giorno è? Ma il 26 Ottobre, naturalmente, è un avvenimento che non possiamo perdere!!! Troviamo un passaggio con un paio di signori abbastanza distinti, uno di loro aveva proprio l’aria del politico importante; e non lo penso solo perché non ha voluto soldi per il passaggio che ci ha dato, ma anche perché per raggiungere la zona dove il presidente doveva tenere il suo discorso, abbiamo fatto un giro molto largo per vedere come procedevano le opere di edilizia e costruzione di strade nella città: ad ogni cantiere, ad ogni strada in costruzione, lui si girava verso di noi e diceva: “avete visto, sta migliorando, il paese sta migliorando!”. E dentro di me pensavo: si certo, sta migliorando, se ritorno in Zambia tra 10 anni probabilmente troverò ancora lo stesso cantiere e le stesse impalcature. La politica in queste zone del mondo vive di sogni e promesse, funziona ancora peggio che in Italia; quasi quasi mi ritengo fortunato.

Giungiamo nella zona della manifestazione, parlano i vari ospiti, intervallati da balletti locali, e nel tardo pomeriggio prende il microfono il presidente in persona: parla bene, fa anche un paio di battute, proprio simpatico sto presidente, si trova qui per la grande inaugurazione dei nuovi alloggi per la polizia appena costruiti (ma che grande opera!!!); gli hanno messo a disposizione un palchetto minuscolo e la gente lo ascolta da uno spiazzo di terra battuta. Peccato però che a Chipata un paio di giorni prima c’è stato un black out elettrico che nessuno ha pensato di riparare: il presidente dello Zambia ha quindi pronunciato la parte finale del discorso quasi al buio completo. Spettacolo! Questa è Africa.

Approfittiamo del comunissimo supermercato Shoprite per fare un po’ di spesa per i prossimi giorni, domani si parte verso il parco South Luangwa, che a detta di molti è uno dei migliori d’Africa. Ultimamente abbiamo meno problemi a trovare supermercati forniti (almeno nelle grandi città) e, nonostante stiamo ancora viaggiando in paesi molto poveri, gli incubi del Mozambico sembrano ormai lontani, anche come qualità dei trasporti.

A cena conosceremo una simpatica coppia di israeliani in viaggio per 8 mesi dal Sud Africa fino in Ethiopia. Avevano comprato un auto da rivendere alla fine del giro e da qualche giorno si era unito a loro anche un ragazzo belga diretto in Malawi. Ci avrebbero dato volentieri un passaggio fino al parco se solo non lo avessero offerto ad un’altra viaggiatrice qualche ora prima. Per la prima volta quest’anno non sto incontrando molti ebrei in giroche,per il loro solito viaggio di fine servizio di leva,si concentrano maggiormente su mete più facili come l’America Latina oppure l’Asia e l’India.

Di mattina presto siamo di nuovo in strada a cercare di capire come raggiungere il South Luangwa che è distante più di 100 km da Chipata, ci posizioniamo sotto una pensilina ad un incrocio strategico ed attendiamo che passi il primo mezzo diretto al villaggio di Mfuwe, vicino al parco. Dopo varie trattative di tira e molla troviamo un passaggio con una macchina, con il quale proprietario nascerà una discussioneaccesa quando mi chiederà i soldi per fare benzina prima ancora di lasciare la città; è inutile, senso dell’organizzazione zero e per noi occidentali è difficile accettare questo sistema: mi viene in mente l’amico italiano conosciuto a Tofo che un giorno mi raccontò di quando si sedeva al ristorante per ordinare un hamburger ecapitava che il mozambicano di turno gli chiedeva i soldi in anticipo per andarlo a comprare nel negozio accanto e poi cucinarlo.

Viaggiamo 4 o 5 ore su strada sterrata e con lavori in corso perenni; la macchina durante il tragitto si riempe all’inverosimile, alla fine saremo in 7 o 8 all’interno di un’auto scassata. Ci facciamo accompagnare dal conducente fino al Flatdogs Camp, un campeggio/villaggio sul fiume Luangwa ed arrivati alla reception saluto il nostro autista e gli pago la metà che non gli avevo ancora dato al distributore di benzina.

Allo svincolo per il camp un cartello recitava: “niente campeggiatori fino all’1 Novembre”. Ma che bell’assist! Gioco la carta dell’indecisione, il manager inglese ci viene incontro, io gli spiego che avevamo appena scoperto, leggendo quel cartello, di non poter montare la nostra tenda e lui ci offre una delle loro tende safari già montate con il 30% di sconto. Accettiamo. E pensare che noi l’attrezzatura da campeggionon ce l’abbiamomai avuta ed era comunque nostra intenzione dormire in una delle loro tende!!!

Sarà che i posti raggiunti con fatica sembrano ancora più belli, ma questo camp è un vero e proprio Spettacolo! Già nell’ultimo chilometro, prima di raggiungere la reception, c’erano gli elefanti a spasso completamente liberi, le tende non sono molte e la nostra è situata proprio davanti al fiume: all’interno 2 letti singoli comodi e puliti, asciugamani, comodino e luce; all’esterno bagno privato con doccia ed acqua calda, completamente all’aperto, ma racchiuso da un recinto e collegatodirettamente alla tenda stessa. Sul tetto le scimmie che corrono alla ricerca di cibo, di notte si sentono i suoni emessi dagli animali della savana e gli ippopotami che escono dal fiume e se ne stanno in giro a pochi passi da noi. Il tutto per una cinquantina di dollari per notte in due. Spettacolo!

Ormai siamo nell’Africa più profonda, alba e tramonto sono velocissimi, fa davvero molto caldo già nelle prime ore del mattino e fino a tardo pomeriggio; passiamo la giornata in piscina a rilassarci e ci facciamo accompagnare nel vicino villaggio per comprare qualche provvista, abbiamo deciso di cucinarci da soli. Passeggiando nel camp è facile incontrare giraffe, elefanti, scimmie ed in riva al fiume si vedono gli ippopotami. La sera basta fare un cenno con la propria torcia alla guardia più vicina e questa ci scorterà nei tragitti dalla tenda alla zona comune oppure alla cucinae viceversa, per via degli animali selvaggi che è facile incontrare lungo il cammino; e pensare che non siamo ancora entrati nel parco, che è a qualche chilometro da qui. Altro che Kruger Park, ora si che ci sentiamo nell’Africa vera.

Il manager del camp spinge continuamente per vendere i suoi safari ed il secondo giorno, dopo tanto dolce far niente, glie ne acquisteremo uno serale accompagnati da guide locali, che si dice siano le migliori di tutto lo Zambia. Finalmente entriamo all’interno del tanto atteso parco South Luangwa: ottima visibilità, distese immense e varie specie di animali, tra i quali una grossa mandria di bufali. Ma il bello arriva dopo il tramonto: quando è buio completo, gli occhi degli animali spiccano fosforescenti tra la natura e con un faro potente cerchiamo di avvistare il più possibile dalla nostra macchina; andiamo verso una zona nella quale la sera prima era stato visto un leopardo che mangiava la sua preda su un albero, solitamente ci impiegano un paio di giorni a finire il pasto. E infatti quando arriviamo eccolo ancora lì: che emozione, gli puntiamo il faro addosso, lui continua tranquillo a sgranocchiarsi il suo impala come se niente fosse, fa impressione, si sente anche il rumore delle ossa tra i denti, è la natura che si esprime in tutta la sua crudezza.

Al Flatdogs Camp c’erano ospiti 3 signore venete che la mattina seguente ci inviteranno per un safari all’alba con il loro pick up. Peccato però che si fanno accompagnare da una guida locale ed una volta varcati i cancelli del parco, per non stare troppo stretti, a turno ci siamo accomodati sul retro dell’auto completamente aperta ed a contatto con la natura più selvaggia. Se al Kruger Park ci avevano fatto una multa salata (e mai pagata) per esserci sporti fuori dal finestrino, qui siamo praticamente fuori dalla macchina e nessuno ci dice niente; probabilmente in Sudafrica ci avrebbero arrestato per aver fatto un safari sul retro di un pick up. Ad ogni modo le primi leonesse in Africa le avvisteremo proprio così, faccia a faccia, una di loro gira lentamente intorno alla macchina e noi siamo in 3 sul retro completamente aperto e senza alcuna difesa: devo ammettere che ci siamo cagati un po’ addosso, sarebbe bastato un piccolo salto per azzannarci. Da quel momento in poi l’adrenalina è rimasta alta per tutta la mattinata.

Parte 11, Zambia

Visitare il South Luangwa è stata una gran bella esperienza, i paesaggi all’interno del parco cambiano velocementee finalmente ora posso dire di aver visto tutti i Big 5 durante il mio viaggio in Africa. Il primo leone visto da un pick up aperto ed un leopardo che mangia la sua preda di notte sull’albero hanno dato una bella spinta emotiva per il proseguimento del nostro viaggio. Siamo stati anche graziati dal tempo, pare che alle Cascate Vittoria siano già cominciate le prime piogge e da un momento all’altro arriveranno anche qui. E poi abbiamo dormito in una signora tenda in un signor camp con pochi turisti e tanto spazio: un paio di volte al tramonto avevamo provato piacere semplicemente nel restare seduti su 2 sedie completamente isolate in mezzo alla natura e nient’altro intorno. Veramente… Spettacolare!

E’ il momento di ripartire, approfittiamo di un passaggio in macchina con le nostre amiche venete con le quali abbiamo cenato insieme l’ultima sera e ci facciamo lasciare alla stazione dei bus di Chipata: vogliamo arrivare a Lusaka in giornata stessa. Anche loro vanno verso la capitale, ma a quanto pare non vogliono viaggiare strette in macchina per un tragitto così lungo, quindi ringraziamo e salutiamo; ci lasciano il nome del campeggio dove avrebbero alloggiato per la notte, così se faremo in tempo a raggiungerle potremo usufruire il giorno seguente di un altro passaggio verso il parco Lower Zambezi, meta che interessa anche a noi.

Ma non andrà così: acquistiamo i biglietti per il bus, sono circa le 12 e ci garantiscono che saremmo partiti per le 2 di pomeriggio. Facciamo un giro al mercato, mangiamo qualcosa, torniamo sul posto ed attendiamo. Attendiamo. Ed ancora attendiamo. Sono le 3 passate quando con gli altri passeggeri veniamo convocati a bordo dell’autobus per sentirci dire che non si parte più ed avremmo dovuto aspettare fino all’indomani alle 5. Purtroppo non erano stati venduti abbastanza biglietti da coprirne la spese di benzina. Io lo avevo immaginato, in Africa non si viaggia ad orario, ma solo quando si è pieni e per essere sicuri di partire è meglio presentarsi all’alba. Mi arrabbio inutilmente con il boss di turno e mi faccio rimborsare le quote; se solo avessi ascoltato la gente del posto che mi diceva di ritornare direttamente il giorno dopo, ci saremmo risparmiati un’inutile attesa.

Ci ritroviamo a girovagare a Chipata alla ricerca di un posto dove dormire. Non vogliamo allontanarci troppo in quanto domani mattina ci toccherà presentarci al bus alle 5 per essere sicuri di partire. Troviamo una stanza in una specie di alberghetto, facciamo una passeggiata in città, Alba si inventa per cena una spaghettata con quello che era rimasto e facciamo assaggiare un po’ di cucinaitaliana ai proprietari dell’alloggio che sono stati disponibili con noi. Sono una coppia distinta ed il marito in particolare pare molto acculturato: chiacchieriamo tanto di politica,della disastrosa situazione nel vicino Zimbabwe e di come le cose funzionino male in questa parte del mondo. Lui mi spiegherà che l’Africa sta pagando ancora le conseguenze del colonialismo, i confini africani non sono reali e dividono popoli appartenenti ad una stessa discendenza; le nazioni rappresentano una semplice spartizione dei territori messa in atto dagli europei senza rispettare alcun criterio. In Zambia per esempio convivono 73 gruppi tribali diversi che molte volte tra di loro non si comprendono in quanto non parlano la stessa lingua. Inoltre alcune di queste tribù sono appunto divise dai confini degli stati, quindi succede che alcune persone abbiano dei familiari che non possono vedere aldilà della frontiera, in Mozambico per esempio, oppure in Malawi (un po’ tipo il muro di Berlino.A fine cena il tipo ci saluterà con una battuta: “quando tornate in Italia dite a Berlusconi di farsi un bel viaggio in Zambia che qui è pieno di ragazzine carine”. Non ci posso credere!!! Anche in Africa sono al corrente delle cazzate che fa!!!

E’ sabato, tarda serata, mi avventuro alla ricerca di qualche bottiglia d’acqua e finisco nel bel mezzo della vita notturna di Chipata, stradine strette e baracche adibite a locali notturni con musica ad alto volume, alcool di scarsa qualità e facce poco raccomandabili.

Giorno seguente, prima ancora che il sole sorgesse eravamo già a bordo di un autobus, alle 5 in punto si aprono i cancelli della stazione e ne partono 3 nello stesso istante, tutti diretti a Lusaka. Suonano il clacson all’impazzata e fanno a gara per chi esce prima, corrono in strada a tutta velocità perché chi sta più avanti raccoglie più passeggeri che aspettano alle varie fermate sul tragitto. In circa 6 ore percorriamo più di 600 chilometri, un vero e proprio record, mai viaggiato così veloce in Africa; i mezzi sono abbastanza scassati e sempre pieni, ma quantomeno non siamo più ai livelli assurdi del Mozambico ed i bus sono di grandi dimensioni.

Lusaka è una grande città e come tutte le capitali africane non offre granché. Per lo più è domenica e tutto sembra abbastanza morto. Vorrei assistere ad una partita di calcio per intero allo stadio, ma non riesco ad organizzarmi. Facciamo un giro al mercato, ci spingiamo un po’ troppo all’interno e ad un certo punto non ci sentiamo più al sicuro, troppo caos e troppe attenzioni nei nostri confronti (siamo gli unici bianchi naturalmente), quindi andiamo via. Finiremo per passare il tempo in un mega centro commerciale che non vedevo da più di un mese oramai; ma è proprio fatto bene, struttura modernissima, tante facce occidentali ed un’ampia scelta di ristoranti internazionali: ne approfittiamo, ordino un piatto asiatico e ne verrà fuori una cenaveramente squisita.

I pochi viaggiatori incontrati a Lusaka vengono da ovest, tutti non vedono l’ora di fermarsi in Malawi e qualcuno è diretto verso nord (Tanzania e Kenya); non sembrano molto entusiasti del loro viaggio. Per la maggior parte si lamentano delle difficoltà incontrate negli spostamenti ed i prezzi proibitivi per organizzare una qualsiasi attività, specie in Botswana. Ma si sa, l’Africa non è per tutti e se non si ha voglia di mettersi in discussione è meglio lasciar perdere.

Ripartiamo verso sud, dopo più di 3 settimane oggi ritroveremo il fiume Zambezi. Con i mezzi pubblici riusciamo a raggiungere Chirundu, la frontiera con lo Zimbabwe, da qui una macchina ci accompagna per una decina di chilometri fino al pontoon (una specie di ponte meccanico, mooolto specie, che permette di attraversare il fiume). Aspettiamo un po’, il pontoon viene azionato solo quando c’è da trasportare una macchina e a noi pedonitoccherà attendere l’arrivo di un auto. Una volta giuntal’altra sponda del fiume cerchiamo di capire come arrivare al camp scelto, che si trova ancora 10 chilometri più in là, qui i trasporti pubblici proprio non esistono. Le attese non sono mai abbastanza in Africa e ammazziamo il tempo chiacchierando con alcuni bambini del posto,il loro gioco preferito pare essere il solito pneumatico guidato da 2 bastoni messi a contrasto; sembra davvero di essere alla fine del mondo, non c’è proprio niente.

Finalmente troviamo un passaggio, è un signore bianco, molto gentile: inizia a raccontarci un po’la sua storia, i suoi antenati erano arrivati in Africa nei tempi che furono e lui è nato in Zimbabwe, un paese molto benestante fino alla metà degli anni ’90, fin quando il dittatore Mugabe, tutt’ora in carica, ha deciso che i bianchi dovevano sparire dal paese, confiscando le loro proprietà e ridistribuendole alla gente di colore, decisione che ha sprofondato completamente l’economia dello Zimbabwe. Il bello è che lui è nato qui e non ha mai viaggiato fuori dall’Africa meridionale, quindi ad un certo punto si è ritrovato, come molti altri, a dover lasciare il suo paese e trovare altrove un posto per vivere. Come avevo già constatato da altri bianchi sudafricani, anche il nostro amico è assolutamente razzista: proprio non riesce a capire la mentalità del nero e sottolinea il fatto che cisia distacco da ambedue le parti. “Voi in Europa parlate di uguaglianza perché non la vivete quotidianamente, ti basterebbe stare qui per un annetto e vedrai come cambi idea”, mi dirà. E poi ancora: “il razzismo parte da loro (riferito alle persone di colore), se un nero prende un passaggio da un nero deve pagare, se un bianco prende un passaggio da un nero deve pagare, ma se un nero prende un passaggio da un bianco, una volta giunto a destinazione scende e se ne va. E se gli chiedessi i soldi verrei additato come razzista. Dall’uomo bianco ci si aspetta le cose gratis, tutto è dovuto”. La situazione si è capovolta, non c’è niente da fare, è normale che ora noi stiamo pagando secoli di dominio e sfruttamento in terra africana da parte dei nostri cari antenati europei.Comunque una volta in Mozambico ci era capitato di non pagare per un passaggio preso da un nero ed anche a Chipata avevamo fatto lo stesso, a differenza di un bianco che si era rifiutato di farlo gratis; probabilmente dipende anche da quanto uno sia benestante.

E’ incredibile come questo tizio viva completamente isolato con il suo pezzo di terra (probabilmente enorme), la sua casa e nient’altro; mi dice che gli piace la natura e la solitudine, e non sopporta la confusione, la musica e quant’altro di rumoroso e affollato ci sia. E poco importa se una volta al mese deve attraversare il tanto caro pontoon e viaggiare ore per raggiungere Lusaka, dove sua moglie effettua dei controlli periodici presso un’ospedale privato e i 2 approfittano di fare qualche provvista. Mi dice di non aver paura di vivere qui isolati e che i neri fanno tanto fumo, ma poi non sono così pericolosi; a dir la verità questa è una cosa che ho notato anch’io. E conclude: “loro nonsi permettono a dare troppo fastidio, sanno che io ho le armi”.

Parte 12, Il fiume Zambezi

Arriviamo al camp, non paghiamo per il passaggio (da bianchi a bianco), anzi il nostro amico ci offre pure da bere e ci comunica che sarebbe ripassato dal nostro alloggio dopo 2 giorni, la mattina presto, diretto verso Lusaka, così se ne avessimo avuto bisogno avremmo potuto approfittare di un altro passaggio fino alla frontiera; proprio gentile. Ci sistemiamo in una tenda, siamo gli unici ospiti, ormai sta iniziando la bassa stagione; poco più tardi arriverà una famiglia americana e nient’altro, siamo isolati in questo angolo d’Africa, di fronte a noi c’è il grande fiume Zambezi che poco più in là incrocia il Kafue.

I 2 giorni di soggiorno passeranno in relax: piscina, insegno ad Alba a giocare a scacchi, passeggiata ad un lussuoso resort accanto per andare a conoscere il manager italiano; arriva un altro temporale (anche a Lusaka avevamo incontrato pioggia), oramai è la stagione, i lampi sono così marcati nel cielo che fanno un po’ impressione.

La seconda sera c’erano degli ospiti locali al ristorante, ben vestiti e molto curati, una di loro pare sia il capo del villaggio vicino. Tra gli altri c’è il prete cattolico della comunità con cui facciamo amicizia: è zambiano, ma parla molto bene l’italiano, ci dice d’aver studiato in Vaticano per qualche anno. E allora io ne approfitto per punzecchiarlo un po’ sulla struttura stessa della Chiesa e ritorno sul mio argomento preferito: i soldi dati in beneficienza che non arrivano mai a destinazione. Il prete è molto sveglio e si difende benissimo dalle mie critiche, conferma molte delle mie perplessità, ma allo stesso tempo mi dirà che negli anni la Chiesa ha comunque fatto veramente tanto per l’Africa; ed io quasi quasi me ne sto convincendo. Quando gli diciamo di essere pugliesi subito ci suggerisce di andare a trovare a Lusaka l’ambasciatore del Vaticano in Zambia, pare sia di Ruvo. E pensare che anche i genitori del ragazzo italiano conosciuto in Malawi ci avevano detto la stessa cosa, forse la classe medio-alta in questi paesi è talmente ridotta a poche persone, che alla fine si conoscono un po’ tutti, anche tra nazioni diverse. Ad ogni modo noi a Lusaka non ci torneremo, quindi non conosceremomai il nostro conterraneo in Zambia. Chiudo la chiaccheratacon una frecciatina: “ma tu quando diventi vescovo? E quando papa?” E lui: “per fare carriera bisogna seguire alla regola tutto ciò che ti viene imposto, alcuni preti lo fanno, altri sono un po’ più dinamici, fanno di testa loro e non seguono la via proprio in modo retto, quindi io non diventerò mai vescovo”. Molto schietto sto prete, ho l’impressione che i cattolici in Africa sono molto diversi dai cattolici europei, badano molto al pratico e meno alla teoria.

Il parco Lower Zambezi si trova ad una cinquantina di chilometri di strada sterrata da qui, noi non ci arriveremo mai, senza macchina in Africa è veramente difficile. Ma in compenso facciamo una bella escursione in canoa nel grande fiume: siamo solo io, Alba e la guida locale. Prima di iniziare ci fanno firmare una bella liberatoria per lo scarico delle responsabilità in caso di morte: e infatti sarebbe stata una normale uscita in canoa se vicino a noi non ci fossero stati coccodrilli, ippopotami, elefanti e diverse specie di uccelli completamente liberi. Ma la guida ci tranquillizza: “l’importante è lasciare agli animali una via di fuga, loro non ti attaccano se non si sentono attaccati”. Sarà, ma pagaiare in quelle acque piene di animali selvaggi ha fatto alzare di un bel po’ il nostro livello di adrenalina.

Ripartiamo, direzione frontiera: in attesa al pontoon per riattraversare il fiume incontriamo il signore che ci aveva accompagnati 2 giorni prima e che stava portando sua moglie in ospedale a Lusaka; gli avevamo fatto sapere la sera prima che non avremmo avuto bisogno del suo passaggio per il ritorno in quanto ci stava accompagnando il manager del camp, anche lui in viaggio verso la capitale. Veniamo lasciati all’incrocio, ringraziamo e salutiamo; ma il manager del camp tentenna un po’ prima di ripartire con la sua auto: forse avremmo dovuto pagare per il passaggio offertoci? Oppure no? E’ che non sai mai come comportarti, essendo lui un tipo distinto e benestante ho dato per scontato che si era offerto per accompagnarci e basta, senza un secondo fine economico. O forse aveva ragione il nostro amico bianco dello Zimbabwe: “da bianco a nero si paga”. Io non ci capisco più niente!

Apro una parentesi per quanto riguarda il viaggio in autostop in Africa: qui i passaggi hanno un costo, circa lo stesso prezzo dei bus, lo sanno tutti. Nelle strade le persone aspettano i mezzi pubblici, ma se questi non passano si sale a bordo della prima macchina che si ferma e si paga al conducente la stessa quota che si avrebbe comunque pagato per quel tragitto. Avevamo fatto così anche in Mozambico e lo stesso sta accadendo in Zambia, inizialmente pensavamo che stessero approfittando di noi, ma successivamente abbiamo realizzato che funziona proprio così: in Africa autostop e trasporto pubblico si equivalgono e quindi sono diffusi alla stessa maniera. E’ molto comune vedere la gente ferma ai lati delle strade, non ci sono fermate stabilite, ci si ferma dappertutto. Però ci era già accaduto qualche volta che il conducente di turno non avesse accettato ricompense, ed è sempre successo con persone dall’aspetto benestante. Mi ricorda un po’ la Bolivia, quando una volta viaggiai nel bagagliaio di un auto pagando la stessa tariffa addebitata agli altri passeggeri seduti in macchina, simile al costo del bus che non passava mai.

Siamo a poche centinaia di metri dalla frontiera con lo Zimbabwe, è mattina presto e l’ufficio per il cambio valute è ancora chiuso; quindi mi rivolgo, tanto per cambiare, agli scambisti fermi in strada. Riesco ad ottenere un ottimo tasso, lo scambista prende la calcolatrice, moltiplica per i kwacha che voglio cambiare, ma il risultato non mi convince. Allora tiro fuori il mio telefonino, faccio la stessa moltiplicazione e il risultato è diverso. Beccato in pieno, lo scambista resta di stucco, la sua calcolatrice truccatacon me non ha funzionato. Ennesima truffa sventata!!! Roba da Striscia la Notizia!!! Alla fine acquistiamo i dollari necessari all’ufficio cambi in frontiera stessa.

Ed eccoci, attraversiamoil grande fiume Zambezi a piedi su un ponte modernissimo; che emozione! Sbrighiamo le pratiche doganali, dobbiamo pagare 30 dollari a testa per entrare in Zimbabwe e il funzionario di turno si farà attendere una buona mezz’ora prima di portarci il resto (ci provano sempre, è inutile).

Lo Zimbabwe meriterebbe un capitolo a parte in questo racconto: un paese che fino ad una ventina di anni fa poteva essere definito lo Stato più ricco d’Africa, ora viene classificato come la seconda nazione più fallimentare al mondo dopo la Somalia. Mugabe, il dittatore al comando, tiene il paese sotto scacco ed ha mandato l’economia in malora da quando ha preso la popolare decisione di cacciare via i bianchi (uno lo avevamo appena conosciuto), confiscargli le terre e ridistribuirle ai neri; i contadini non riescono a gestirle, la produzione scarseggia e paradossalmente si rimpiangono i tempi in cui c’erano i bianchi. L’inflazione ha raggiunto livelli da record e la moneta più grossa dello Zimbabwe avrebbe potuto avere 25 zeri nel 2008, anno in cui l’economia è collassata e la nazione è divenuta multi valuta (cioè vengono accettate 4 monete diverse, sterline, pula, rand e dollari americani, quest’ultimi fino ad allora era un crimine utilizzarli). Le signore venete conosciute al parco South Luangwa c’erano state qualche anno fa e ci hanno raccontato di pompe di benzina senza carburante, supermercati vuoti e situazione molto instabile. Qualcun’altro ci aveva anche detto che ad un certo punto il tasso d’inflazione si era moltiplicato giorno per giorno, tanto che per comprare anche una sola bottiglia d’acqua servivano mazzette di banconote.

Le guide definiscono lo Zimbabwe come un paese instabile e mettono in guardia i viaggiatori: durante le elezioni sistematicamente avvengono atti intimidatori da parte del governo e molte persone vengono uccise nei villaggi; inoltre il recente colera di 2 anni fa che ha portato alla morte 4000 persone è solo l’ultimo tassello di un paese in ginocchio. Paradossalmente l’inflazione esagerata e la dollarizzazione del paese hanno fatto si che non sia più una nazione conveniente per viaggiare ed i prezzi sono paragonabili a quelli occidentali. Un vero peccato per un posto che ha tante bellezze naturali ed un clima quasi perfetto tutto l’anno.

Fin dall’inizio siamo stati molto restii nell’includere lo Zimbabwe nel nostro itinerario, l’idea era quella di andare da Lusaka direttamente alle cascate Vittoria e poi continuare verso ovest. Tante persone conosciute in Africa ce lo hanno sconsigliato, ci mettevano in guardia sul fatto che possa essere pericoloso, i bancomat che non funzionano, i trasporti inaffidabili eccetera. Nell’ultimo mese avevo sempre cercato di reperire informazioni aggiornate sulla situazione all’interno del paese e man mano durante il nostro viaggio abbiamo conosciuto qualcuno più coraggioso diretto da quelle parti e qualcun’altro che ci era stato recentemente; le varie esperienze parlavano tutte la stessa lingua: ci sono tanti disservizi, ma la gente è buona ed il paese è bello da vedere; inoltre, tranne che per la zona delle cascate Vittoria, pare si faccia veramente fatica ad incontrare altri viaggiatori, turisti assolutamente zero. Insomma mi sono proprio convinto: lo Zimbabwe è il posto che fa per noi.

Parte 13, Harare e la dittatura di Mugabe

Usciamo dal moderno ufficio di frontiera che sono ancora le 9 del mattino, ci incamminiamo lungo l’unica strada, c’è molta sporcizia e i babbuini gironzolano liberi svuotando le rimanenze dai cartoni di latte e dalle lattine di bibite buttate per strada; sono curiose e mi ricordano la scimmia di un film di Celentano. Alba si siede all’ombra, vicino ad un distributore di benzina e tiene a bada gli zaini, io faccio un giro per capire se qualcuno conosce l’orario in cui passa il bus diretto ad Harare e proveniente da Lusaka. Come al solito mi vengono date informazioni tra le più fantasiose, ma comunque la maggior parte della gente mi fa capire che passerà qualcosa nel primo pomeriggio;penso chesia troppo tempo per aspettare in mezzo al nulla.

Mi indicano un grande albero come il posto dove sia il bus che le macchine private e i tir si fermano per dare passaggi. Ci sono un bel po’ di persone in attesa, io mi avvicino, ma in quanto bianco vengo subito assalito da un gruppo di ragazzi che pretendono di aiutarmi a trovare una macchina; nonostante il mio rifiuto loro insistono, quindi mi allontano e provo a fare l’autostop un po’ più in là, da solo e sotto il sole cuocente. Dopo vari tentativi finalmente si ferma un’auto, ci sono 3 ragazzi ben vestiti a bordo e 2 posti sono liberi. Il conducente mi conferma di essere diretto verso la capitale, io gli chiedo quanto vuole per un passaggio, lui mi risponde 10 dollari a persona. Perfetto, è il prezzo giusto, tanto quanto il bus. Il tizio però aggiunge: “ti avviso che non sto andando direttamente verso la capitale, a metà strada devo fermarmi in un villaggio a fare visita a mia zia”. “E va bene – gli rispondo – vorrà dire che andremo a trovarla pure noi la zia”. Salgo in macchina e andiamo al benzinaio a prendere Alba.

All’inizio stiamo un po’ sull’attenti, paese nuovo e instabile, informazioni aggiornate poche e 3 sconosciuti in macchina con noi; quando Alba chiede di fermarsi un attimo per andare in bagno (dietro un albero naturalmente), io resto nell’auto per essere sicuro che questi non scappino via; il conducente intanto le consiglia di non allontanarsi troppo, in quanto siamo ancora vicini al grande fiumeZambezi e non è da escludere che anche nei pressi della strada principale possa spuntare qualche animale pericoloso.

La diffidenza pian piano passa e ci rilassiamo, abbiamo quasi 350 chilometri da percorrere; ci rendiamo conto che siamo stati proprio fortunati, viaggiamo in una macchina comoda, perfettamente funzionante, ma soprattutto siamo solo 5 persone per 5 posti. Arriviamo al villaggio della zia, ci sono i bambini, un marito e tante mogli; ci offrono qualcosa e visitiamo le capanne all’interno. Il capo villaggio mi spiega che l’area è circondata da un recinto di ferro spinato in quanto in passato è successo di ricevere la visita di un leone. Spettacolo! Le cose più interessanti di un viaggio capitano sempre quando meno te l’aspetti e io decido che forse è arrivato il momento di regalare la mia borsa di materiale scolastico che ormai mi porto dietro da più di un mese. La consegno al capo, lui ringrazia, io mi raccomando che il tutto venga utilizzato e distribuito equamente nella vicina scuola; chissà se andràdavvero a buon fine oppure finirà in vendita al mercato, ma d’altronde è molto difficile scegliere il destinatario del mio piccolo regalo.

Si riparte, intanto facciamo amicizia con il conducente, si chiama Angelbert, è giovane, simpatico e a quanto pare anche lui non conosce gli altri 2 tipi in macchina: loro sono molto silenziosi ed hanno preso il passaggio un po’ prima di noi. Ride alla nostra reazione interessata riguardo al villaggio appena visitato, ci racconta che la zia in questione fa parte di una setta religiosa che permette ad un uomodi avere diverse mogli e dove vengono rifiutate tutti i tipi di cure mediche anche in caso di malattie gravi; questo ha portato alla morte di molti dei suoi parenti, ma suo padre era l’unico della famiglia ad essersi dissociato da questa credenza e quindi il nostro amico è stato educato a scuola e la pensa diversamente. Sta venendo da Lusaka, dove si reca ogni settimana per vendere cd masterizzati. Il suo lavoro di agente immobiliare non sta avendo molto successo in questo periodo, lo Zimbabwe è un paese con forti crisi e tensioni, quindi bisogna inventarsi qualcos’altro per campare.

Arriviamo ad Harare ed attraversiamo la città per accompagnare i 2 tipi in macchina: non sembra così povera, a prima impressione pare di essere una città moderna e organizzata, grattacieli alti e case niente male. Angelbert ci accompagna fin sotto la porta di un alloggio da noi scelto tramite la Lonely Planet e si offre di portarci in giro all’indomani; noi ci siamo divertiti molto a visitare il villaggio della zia e quindi ci vuole portare con lui a trovare parenti e amici in cambio di un contributo per la benzina. Ha proprio l’aria del bravo ragazzo e mi sembra la soluzione perfetta per l’inizio del nostro piccolo tour in Zimbabwe.

Dormiamo in una specie di Bed & Breakfast, ma senza breakfast, una casa con piscina, pulita e curata, peccato che la sera si va avanti con un solo generatore di corrente, quindi doccia fredda e si cucina a gas. Nelle vicinanze un piccolo centro commerciale con qualche supermercato: i bancomat funzionano benissimo e danno dollari freschissimi, si trovano generi alimentari di tutti i tipi. A quanto pare il paese è in ripresa e gli scaffali vuoti e le banche senza contanti sono storie di qualche tempo fa; peccato però che le strade siano completamente al buio perché non funziona l’energia elettrica e mancano le monete: quando si fa la spesa nei supermercati bisogna calcolare bene che il totale sia senza centesimi, altrimenti ti riempiono di caramelle oppure ti danno un foglietto con scritto il resto di cui si ha il credito; e poi c’è la multi valuta, quindi si paga in dollari e si ricevono pula, si paga in pula e si ricevono metà rand e metà dollari e così via: è un gran casino.

Passeremo una giornata intera con Angelbert: il nostro amico ci porterà al mercato dove faremo qualche acquisto, una breve visita alle sue figlie a scuola, pausa in un ristorantino locale insieme ad una sua amica (pagheremo solo 1 dollaro a testa per il pranzo tipico che è lo stesso di tutti i paesi dell’Africa meridionale e consiste nel solito granoturco fatto a pappina, tipo purè di patate bianco, che qui si chiama sadza, accompagnato con carne e verdura), andremo a trovare parenti e amici nei villaggi di capanne pieni di bambini entusiasti di incontrarci (i bambini in Africa sembrano sempre i più felici al mondo), ma soprattutto parleremo di politica e della disastrosa situazione del suo paese. Verranno fuori un sacco di storie raccapriccianti, di come il regime di Mugabe stia distruggendo lo Zimbabwe, del controllo dei voti durante le elezioni e le intimidazioni ed esecuzioni che si verificano, della criminalità che aumenta e la forte emigrazione verso il vicino Sudafrica. La riforma della terra ha fatto si che i bianchi venissero cacciati via dal paese (per la maggior parte erano di origine inglese), quindi lo Zimbabwe ha completamente troncato i rapporti con il Regno Unito, il quale concede asilo politico ai disertori. Anche i fratelli di Angelbert vivono in Inghilterra in regime di asilo e lui ci racconteràcome in passato il paese sia stato molto benestante e di come si potesse facilmente viaggiare in tutto il mondo. Ci spiegherà che siamo tutti controllati e che le persecuzioni avvengono per la maggior parte nei confronti della popolazione ignorante e non su persone educate come lui. Gli inglesi sono odiati dal governo, se noi fossimo stati britannici probabilmente ci avrebbero già fermato diverse volte. Qui è proibito parlare male di Mugabe, ma pian piano il nostro amico si aprirà e scopriremo che è il figlio di un parlamentare all’opposizione: incredibile!!! Io non ci crederò molto e successivamente andrò a controllare via internet se c’è qualche parlamentare con lo stesso cognome che Angelbert ha registrato sul suo account in Facebook. Ebbene si, c’è. Sarà vero? Non saprei, comunque il nostro amico ha l’aria di uno non proprio poveraccio ed è molto intelligente ed acculturato. E allora ci racconterà di come nel parlamento ci siano troppi ministri, in quanto Mugabe deve accontentare un po’ tutti, e di come solo un paio di anni fa l’inflazione saliva talmente velocemente che lo stipendio bastava solo per pagare la benzina del viaggio di andata a ritorno per andare a ritirarlo in città.

Nel tardo pomeriggio lasceremo Angelbert e la sua disponibilità, lo avevamo conosciuto per caso e si è rivelato l’incontro più vero che abbiamo fatto finora con una persona del posto; il suo Zimbabwe è un paese quasi in fase di transizione (tutti aspettano la morte di Mugabe) e i cambiamenti sono così veloci che una cosa detta oggi potrebbe non avere nessun valore domani.

Ad Harare siamo rimasti ancora un giorno a girovagare per il centro: la città è molto grande e bella, sembra la più ricca ed organizzata mai vista in questo viaggio, qualche museo, il parco, i centri commerciali, le persone ben vestite e per niente invadenti. Sembrerebbe quasi una città nordamericana se solo la sera non fossimo costretti a camminare al buio completo e con le torce accese. E’ difficile da immaginarlo: grattacieli alti e moderni, strade larghe e ben asfaltate, banche dappertutto, ma niente luce. Si vede proprio che qualche anno fa doveva essere un paese benestante questo Zimbabwe. Una sera in un mini teatro tenda assisteremo ad uno spettacolino interamente basato sull’attuale situazione politica del paese: con le dovute maniere e la dovuta censura naturalmente, ma che dimostra un buon movimento culturale presente nel sottosuolo di questo paese.

Parte 14, Zimbabwe, viaggio verso le cascate Vittoria

In Africa ho notato diverse volte che non sono molto bravi in matematica: se qualche volta hanno provato a fregarci nel momento di pagare il conto, devo ammettere che in 2 o 3 occasioni si sono sbagliati a nostro favore; ed è successo anche quando abbiamo fatto il check out dall’alloggio di Harare. E’ che proprio funziona tutto un po’ così, senso dell’organizzazione zero.

E’ mattina presto, prendiamo un taxi che ci porta ad un grande albergo della città: oggi viaggeremo con un bus gran turismo coi fiocchi che collega i 2 hotel di Harare e Bulawayo. Finalmente uno spostamento comodissimo, ne avevamo proprio bisogno, in 6 ore raggiungiamola seconda città dello Zimbabwe, dopo diverse soste ai numerosi posti di blocco che popolano il paese (è proprio una nazione sotto controllo questa).

A Bulawayo restiamo solo una notte, troviamo una stanza situata vicino ad un campo di cricket; vorremmo andare al Parco Nazionale Matobo per vedere le pietre in bilico, ma davvero non sappiamo come arrivarci, si trova ad una trentina di chilometri da qui ed è abbastanza grande da richiedere una macchina per girarlo.

La città è grande, ma molto più rilassata rispetto ad Harare, non vediamo turisti e nelle strade sono in corso i festeggiamenti per una partita di calcio; io intanto chiacchiero con un tizio, gli dico che sto cercando una macchina per il giorno seguente e lui si offre per accompagnarci al parco con la sua auto in cambio di un contributo benzina di 20 dollari: che dire, abbiamo fatto così con il nostro amico Angelbert e ci siamo trovati benissimo, quindi perché non riprovare? Si sta rivelando più facile del previstoviaggiare in Zimbabwe. Tra l’altro Masvinu (questo è il suo cognome) ci verrà a prendere anche in serata per uscire a bere qualcosa: finiremo in un piccolo bar pieno di gente e con qualche schermo tv, niente di speciale, ma mooolto locale; resterà comunque una delle pochissime serate in cui siamo usciti in Africa.

In mattinata lasciamo la stanza, ma anche gli zaini che verremo a riprendere più tardi, ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria e, dopo una fila durata quasi un paio d’ore, riusciamo ad acquistare 2 biglietti per il treno notturno diretto alle cascate Vittoria; come già accaduto per il viaggio sul treno mozambicano i tagliandi non si possono acquistare con troppo anticipo, perciò si trascorre il tempo a fare le file.

Masvinu viene a prenderci con un regolare ritardo di una mezzoretta buona e ci dirigiamo subito aiMatopos. Porterà anche i suoi figli e, appena giunti all’entrata del parco, scopriamo che non può o non vuole pagare il biglietto, che è anche abbastanza caro: ha fatto il furbo l’amico, ha incontrato noi bianchi e si è portato con sé la famiglia per approfittarne un po’; in qualche modo ci metteremo d’accordo con la biglietteria per uno sconto e noi pagheremo la differenza. Stiamo in giro per il parco qualche ora, è grande, intorno a noi le famose rocce in equilibrio, scenari di granito e in alcune grotte le pitture del popolo San antiche più di 20000 anni. Il parco Matobo è considerato la casa spirituale dello Zimbabwe, ma noi non avremo il tempo necessario di apprezzarlo appieno: Masvinu non vuole perdere per nessun motivo la partita di calcio domenicale, quindi andiamo via.

Ritorniamo a Bulawayo, lasciamo Alba a passeggio in centro ed io e Masvinu andiamo prima a casa sua a mangiare il solito piatto tipico africano (la sadza) e prendere le bandiere da sventolare, poi dritti verso lo stadio di calcio; anch’io non voglio perdermi la partita!!! Lungo il tragitto diamo passaggi a molte persone, naturalmente Masvinu si fa pagare da tutti, ed arriviamo davanti allo stadio che mancano pochi minuti all’inizio del match: una grande confusione davanti al cancello, pare che l’impianto sia troppo pieno e non fanno entrare più nessuno; i sostenitori sono arrabbiati, spingono contro le forze dell’ordine e ad un certo punto sfondano il cancello di entrata. Io mi ritrovo nella mischia, sto con la bandiera della squadra ospite in mano, provo ad inserirmi nel gruppone ed entrare, ma appena la polizia con i cani inizia a caricare, non me la sento di continuare e quindi torno indietro; sono l’unico bianco, perciò facilmente individuabile, probabilmente sarei stato un arresto eccellente per loro. Ne saranno entrati due o trecento, incluso il mio amico Masvinu che ho perso di vista, è sorprendente come in una nazione così severa e sotto stretto controllo delle forze dell’ordine, la gente sfondi i cancelli di uno stadio con una certa facilità ed anche senza tanta cattiveria, tutti sorridono e sembra un gran bel divertimento: mi dà l’impressione di tanta spensieratezza e poco attaccamento alla vita, se va bene si entra, altrimenti t’arrestano, nessuno si pone veramente il problema,si vive alla giornata, questa è Africa.

Ad ogni modo approfitto del passaggio di un’auto dall’aria importante che sta per entrare nello stadio, chiedo ed ottengo di occupare l’unico posto vuoto sul sedile posteriore, ed eccomi passare regolarmente con tanto di biglietto da 3 dollari dagli stessi cancelli ripristinati e stavolta aperti solo per noi nella macchina (le altre persone resteranno fuori). Subito c’è il fischio d’inizio, lo stadio è pieno, ci saranno state 4-5000 persone, io cerco di starmene in un angolo tranquillo, ma presto ritrovoMasvinu, che mi porta in curva con lui e i suoi amici. Bella la partita, alla fine del primo tempo molti si voltano e fanno pipì all’aperto, noi facciamo il giro dello stadio per raggiungere l’altra curva e prendere posto dal lato in cui la squadra da noi supportata attaccherà nella ripresa: non ho visto un altro bianco per tutta la durata del match, ma non mi sono sentito per niente in pericolo, alcuni facevano battute, altri erano curiosi della mia macchina fotografica o del fatto che anch’io sventolassi la bandiera della Dinamo; direi che non potevo passare inosservato, tante attenzioni, ma niente pericoli. Spettacolo! Mi ha sorpreso un po’ l’assenza delle vuvuzela, le famose trombette che risuonano continuamente negli stadi africani, qualcuno mi ha spiegato che non vanno di moda in tutte le nazioni e sono molto più frequenti in Sudafrica. Alla fine il match lo abbiamo vinto noi, che insieme a quasi tutto lo stadio sostenevamo stranamente la squadra ospite seconda in classifica e proveniente dalla capitale Harare. Dopo la partita Masvinu mi riporta all’alloggio dove Alba mi sta aspettando, prendiamo gli zaini e ci accompagna in stazione per il saluto finale.

Attendiamo un bel po’, prepariamo qualche panino per cena e io chiedo ad un funzionario di passaggio a che ora il nostro treno sarebbe giunto alle cascate Vittoria; e la sua risposta qual è? “Non si può dire di preciso, dipende da quanti elefanti troveremo sui binari durante il tragitto”. Spettacolo! E’ sempre interessante fare un viaggio in treno, ma questa volta sarà in notturna ed in un paese non proprio dei più tranquilli in questo momento; in molti ce lo avevano sconsigliato. Che dire: avevamo prenotato il nostro scompartimento privato con 2 cuccette, il treno è partito puntuale, la notte ci siamo chiusi a chiave dentro, eravamo ancora una volta gli unici bianchi in tutto il convoglio, treno vecchio e abbastanza zozzo, non ci sarà luce per tutta la notte (addirittura dovrò prestare la mia torcia al controllore che altrimenti non sa come muoversi su e giù per i vagoni), ma nessun pericolo, tutto tranquillo.

Alla fine lo Zimbabwe che sembrava il posto più spaventoso da visitare si è rivelato il meno problematico, gente brava, molto disponibile e pochissimi altri viaggiatori incontrati.

Alle 9 di mattina giungiamo alla stazione di Victoria Falls, intorno a noi strade pulite, hotel di un certo livello, negozi di souvenir etante scocciature da parte degli zimbabwani per strada che cercano di venderti l’impossibile. Siamo di nuovo vicino al fiume Zambezi, i facoceri camminano liberi per le strade, ma questoè il posto più turistico d’Africa e ci sono decine e decine di attività e tour organizzati in offerta, un bombardamento continuo. Siamo in Zimbabwe, ma non sembra lo Zimbabwe, le cascate Vittoria sono una realtà a se stante, una cosa a parte, addirittura troviamo anche un ufficio postale funzionante. Si nota comunque la crisi profonda del paese, è pieno di strutture ricettive, ma non c’è quel movimento che uno si aspetterebbe da un posto così; la maggior parte dei turisti ha paura di venire in Zimbabwe e perciò visita le cascate dall’altro lato del fiume, in Zambia.

Alloggiamo per 4 notti in un campeggio pulito e con piscina, all’interno di una tenda equipaggiata conlenzuola e materassi, finalmente niente sveglia la mattina presto, cazzeggiamo tanto, internet, assaggio la carne di coccodrillo, ma soprattutto entriamo nel parco a visitare le maestose cascate Vittoria il giorno del compleanno di Alba: Spettacolo! Camminiamo tra le varie stradine, una statua del grande Livingstone fa da guardia e le apprezziamo da diversi punti, talvolta bagnandoci con gli schizzi; nel pomeriggio si presenta anche un mini arcobaleno. La portata è al minimo e infatti per una buona metà dello strapiombo non c’è acqua, la stagione delle piogge è appena cominciata e ci vorranno 2 o 3 mesi affinché il fiume Zambezi inizi a riempirsi così tanto da bagnare completamente chi visita le cascate. Lo scenario è comunque impressionante.

Durante il nostro soggiorno andremo a visitare il famoso hotel Victoria Falls, mangeremo un hamburger ad un bar nei pressi delponte che attraversa il fiume (osservando chi fa bungyjump, io stavolta non mi butterò), osserveremo chi fa lo swing da un lato all’altro di una gola dello Zambezi appeso ad una corda, qualche fast food di troppo e finalmente troveremo un po’ più in là un mercato non turistico, tanto per sentirci di nuovo in Africa.



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