Vino al piombo e interiora di pesce: ecco com’era la cucina romana di 2000 anni fa (e perché i suoi sapori oggi ci sembrano disgustosi)
Apicio, Columella e Plinio il Vecchio formano la Trinità, o, meglio, senza andare a scomodare il Padreterno – e restando in tema –, il triumvirato della cucina romana, coloro grazie ai cui scritti e ai cui trattati possiamo, ad oggi, conoscere le preparazioni, le abitudini, gli orari, così come i cibi e le bevande più in voga nelle tavole dell’antica Roma.
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Plinio nella sua Naturalis Historia, una sorta di enciclopedia dell’antichità; Columella con il suo monumentale De re rustica, un trattato sull’agricoltura; Apicio, il gastronomo e cuoco più celebre dell’antica Roma, le cui ricette furono riassunte secoli dopo nel De re coquinaria.
Scorrendo le righe dei loro componimenti, gli odori, i sapori, i fumi, gli sfrigolii – che, ad oggi, in virtù dei nostri sensi più raffinati potremmo difficilmente apprezzare –si animano, raccontando di salse, impasti, preparati d’uva e miele, formaggi erborinati, e ancora, tecniche di coltivazione, dalla vite ai cereali, fino a giungere ai metodi attraverso cui era possibile garantire il rifornimento alimentare per la Città Eterna.
Ai ricchi il panis candidus, quello bianco, oggi tanto bistrattato, e ai più poveri il pane nero, solitamente di farro; ai legionari, come ci ricorda Marziale, frutta, verdura, formaggio e un po’ di carne fredda; tre pasti giornalieri per i signori, uno, massimo due, per i soldati e i lavoratori, anche se, c’è da dire, a nessuno andava più di tanto a genio mangiare durante la prima parte della giornata; garum e posca per tutti, qualcosa che possiamo riassumere con “interiora di pesce” e “acqua e aceto”.
Certo, detta così non è che sia granché attraente. E, allora, andiamo a dire qualcosa in più, soffermandoci, però, non tanto sui piatti, ma, piuttosto, sulle bevande. Già, a parte vino e acqua, cosa si beveva nelle ville dell’antica Roma, fra i tavoli e l’umido delle taverne, sui triclini delle grandi case?
Da una parte il miele, dall’altro l’aceto
La Ciociaria, nel Basso Lazio, è una delle zone da cui proveniva il merum, il costoso vino dell’aristocrazia romana
Il vino della Roma antica non era solo quello allungato con l’acqua, o, come spesso avveniva in osterie e taverne, addolcito e conservato con il piombo. Per alcuni romani, anzi, questa bevanda era un affare serio; d’altronde, ex vite vita, e cioè, dal vino la vita!
Ed è proprio il nostro gastronomo e cuoco di fiducia, Apicio, a rompere il ghiaccio parlando del merum, il vino più buono e costoso, il fior fiore della viticoltura della Penisola, che aveva sempre un posto d’onore fra le tavole e nei banchetti dei senatori o cittadini più abbienti. Le etichette più in voga? Non poche, e, parecchie, ubicate fra Campania e Lazio. Il Falerno del Massico, coltivato nell’attuale provincia di Caserta, e il Cecubo, nell’odierna Ciociaria, costituiscono due validi esempi.
Unendo l’utile al dilettevole – un binomio con cui gli antichi sembra avessero più confidenza di noi moderni –, la cultura dell’antica Roma non ha mai smesso, da ogni punto di vista, di sorprendere con il suo ingegno, la sua tenacia e la sua inventiva. Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci ribadiva il poeta Orazio già nel I secolo avanti Cristo; in breve, “sta bene chi ha mescolato l’utile al dolce”, o, come diremmo noi, “al dilettevole”. Ecco, questa è la frase con cui potremmo riassumere la bontà e la genialità del mulsum, una miscela magica, da leccarsi i baffi – che i romani non portavano –, ottenuta dall’unione del miele al vino, o, nei casi migliori, direttamente al mosto.
Dopo un riposo di alcuni mesi in vasi di terracotta, la bevanda era pronta per essere servita.
Se andava bene, il mulsum si poteva gustare a inizio pasto, o fra una portata e l’altra; questo, insomma, corrisponderebbe al “dilettevole”. Se andava male, il mulsum fungeva da ottimo medicinale, agendo, in particolare, contro i dolori di stomaco; questo, va da sé, l’“utile”.
Insomma, un nettare, una melodia per il palato e per lo stomaco, il matrimonio perfetto del vino col miele: dolce, caldo, avvolgente, vellutato. Bene, ora, dimenticate tutti questi aggettivi.
La posca era la bevanda più popolare e democratica nella cucina romana di un tempo, sebbene Roma non sia mai stata una democrazia. I poveri; gli assidui frequentatori di ospizi e taverne; i lavoratori affaticati dal caldo dell’estate; i legionari sfiniti dalle armature e dai lunghi tragitti. Tutti, per rinfrescarsi, potevano contare sulla posca, niente di più e niente di meno che una miscela di acqua e aceto, alla quale, di rado, si aggiungevano alcune spezie.
Grazie al bassissimo costo, alla sua piacevole acidità, e, diciamolo, anche alle proprietà antibatteriche dell’aceto, questa fu indubbiamente una fra le bevande più in voga dell’antichità. Si pensa, inoltre, che il preparato offerto dai soldati romani a Cristo sofferente in croce fosse proprio la posca, un dato confermato anche dal Vangelo, in cui, non a caso, si parla di acqua e aceto.
Dalle interiora di pesce alla salsa più apprezzata dell’antica Roma
Il garum è la salsa onnipresente nella cucina dell’antica Roma, simile per certi versi alla ‘contemporanea’ colatura di alici
A metà fra una salsa e una bevanda poco liquida, il garum costituiva l’elemento principe delle tavolate e della cucina romana. Quasi tutte le preparazioni, eccetto alcune, erano annaffiate con questo particolare prodotto; va da sé che i romani non tenevano tanto conto dell’abbinamento, e che, ad oggi, i nostri palati mal sopporterebbero un sapore del genere.
Il preparato – tramandato da Apicio, Marziale, Columella e Plinio –, era a base di interiora di pesce, principalmente di acciughe e triglie, poste all’interno di un recipiente, salate, e lasciate fermentare al sole.
In quanto prodotto identitario della civiltà romana, in zona Circo Massimo sorge, ad oggi, Garum, Biblioteca e Museo della Cucina, una struttura in cui, oltre all’alimentazione generale della Roma antica, si fa parecchio il punto, attraverso libri e ricettari, su questo singolare prodotto.
Un degno erede del garum, nonché manufatto d’eccellenza della cucina italiana, è la colatura di alici di Cetara, l’oro della Costiera amalfitana.
In questo caso, le protagoniste indiscusse sono le alici, dalla cui immersione in acqua e sale si ricava un’essenza unica, che, con le dovute cautele, potremmo equiparare – per fascino, costo ed esclusività –, a un moderno e ricercato profumo.