Vermont in fiamme
Stamane, sull’autostrada, all’orizzonte è apparso il profilo di una città. Di passaggio in passaggio, le istruzioni del navigatore si facevano più frequenti, più complicate. Tornavo nel campo di battaglia. Sottopassaggi, rotonde, uscite, e poi la destra, la sinistra in un sistema che ha perduto la strada. La strada si faceva invece sempre più chiara montagna dopo montagna, camminata dopo camminata. Per il contatto iniziale coi panorami del New England abbiamo scelto il Notch Train che da North Conway arriva alla Fabyan Station attraversando macchie, torrenti e un antico trespolo di legno che sovrasta uno strapiombo. Una carrozza aperta, che viene aggiunta al convoglio nei giorni di bel tempo, permette di fotografare liberamente, ma occorre coprirsi bene. La ferrovia, un lascito del passato, uno dei tanti che rende questa regione degli Stati Uniti così deliziosamente rétro, serviva una miniera e torna in funzione per il turismo ogni anno, tra giugno e ottobre. Un paio d’ore di macchina traversando foreste e villaggi di rigattieri – notevole sopra tutti Bethlehem – ed ecco il Vermont. La fauna che mi accoglie al Fairbanks Museum spazia dal dinosauro all’armadillo, ma è soprattutto la ricchissima collezione di uccelli impagliati a farne un luogo imperdibile. Non avevo mai visto un colibrì immobile, né quadri composti con insetti o con ali di farfalla. Lungo le vetrine della balconata del primo piano dell’enorme locale, tutto in legno massello, si affollano tante altre raccolte e curiosità, da bambole d’epoca all’armatura d’un samurai. Chi ha portato il mondo a St. Johnsbury è tal Franklin Fairbanks, e alla famiglia Fairbanks, che qui fece la propria fortuna, questa città di provincia deve tutto: Horace Fairbanks fece costruire una stupenda biblioteca con annessa una piccola pinacoteca per la quale, oltre a tele americane, commissionò, a beneficio della cittadinanza che non avrebbe mai visto gli originali, copie dei quadri che aveva ammirato all’estero. E’ una stupenda realizzazione di architettura vittoriana con interni in quercia, noce e frassino, un capolavoro di falegnameria ora gelosamente custodito come monumento alla fede ottocentesca nella cultura e, assieme alle chiese di varie denominazioni allineate lungo il corso, dà un’aria nobile e impettita al centro della città. Ce lo dicono in tanti, che l’azione di una singola persona può fare la differenza, ma in questa società che si accanisce a toglierci il discernimento e la libertà è un’impresa improba andare controcorrente. Eppure, meravigliandosi ai risultati di chi ci riesce, ci si rende conto che non è impossibile una presa di posizione più decisa e coraggiosa, per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. La geografia dell’America è punteggiata dai nomi di questi grandi di provincia, e le loro storie son motivo di vanto. Come quella di Alexander Twilight, un nero così attratto dalla cultura, alla quale si era dedicato all’inizio da autodidatta, che finì coll’acquisire una rilevante posizione sociale e creò, a dispetto dell’indifferenza dei suoi concittadini e delle istituzioni, un convitto per i giovani di Brownington e circondario, dove oggi sono in mostra gli oggetti e la storia dei centri della zona.
L’Old Stone House Museum testimonia la forza di un’idea, anzi, di un ideale, un’eredità amorevolmente curata dai volontari che illustrano ai visitatori gli edifici del comprensorio, a cui hanno recentemente aggiunto una fedele ricostruzione del fienile. Questa forte passione per il sociale scoppia in uno stupefacente fuoco d’artificio a Glover, poco a sud. A dispetto del fatto che si proclamino il paese degli uomini liberi, gli Stati Uniti – ingenui e bacchettoni – hanno ancora una mandria di vacche sacre: tra queste, la politica. La comune di Peter Schumann, fondata nel 1963 col nome di Bread and Puppet Theatre, inscena manifestazioni, cortei e spettacoli di critica e di denuncia. I corridoi di un enorme pagliaio come ce ne sono parecchi, nel Vermont, ospitano a piano terra disegni, maschere, sculture, teatrini e costumi in una fantasmagoria visionaria. Al primo piano la monumentale navata mi assale con la medesima potenza della Cappella Sistina – moltiplicata per dieci. Le nicchie sono popolate da mostruosi personaggi, messinscena grotteschi, gruppi allegorici e pitture aggressive che coprono ogni superficie in un horror vacui totalizzante. Il sovraccarico sensoriale mi toglie il fiato e vengo travolto dalla violenza di quell’esplosione di colori, da quello stile brutalista e da quella sintesi genialissima di tutto quel che chiamiamo arte: quadri, figure plastiche, fumetti, folklore, costumi, scenografie. Vederli in azione dev’essere una rivelazione.
Sculture con le bombole di gas? Lezioni – per settenni e per settuagenari – per imparare ad arrampicarsi con le corde sugli alberi? Caseifici che invecchiano in grotte naturali i formaggi, inventandone varietà una più gustosa dell’altra? C’è veramente di tutto, in questo angolo del Vermont, che per la sua bellezza ha meritato il soprannome di Regno del Nord-Est. Andiamo allora a vedere di persona questi panorami. Un ragazzo ci chiede se siamo alla Burke Mountain col gruppo dei ciclisti che si sta preparando. No, è troppo antropizzata per meritare una scarpinata: c’è lo skilift, c’è la strada carrozzabile: paghiamo i cinque dollari del pedaggio e lasciamo le biciclette ad arrancare e i campeggiatori a far fumo ai fornelli. In cima, il breve sentiero per la torre di trasmissione è morbido di muschio verdissimo, il vento quasi ci travolge dalla piattaforma del traliccio e il panorama a 360° segnala già l’arrivo dell’autunno: l’implacabile siccità e le temperature estreme dell’estate appena finita faranno cambiare il colore alle foglie in anticipo, quest’anno. Dallo sperone di Owl’s Head fotografo macchie di giallo e di rosso nella distesa verde del Groton State Park, dove s’allunga lo specchio di Kettle Pond. Il sentiero che si addentra nella boscaglia quasi avviluppa, salta su neri massi scivolosi, si perde su pendii innervati dalle radici degli abeti, affacciandosi di rado sul lago, che riflette i colori e il silenzio onirico di alberi surreali. I pochi campeggiatori giocano a carte e stasera cuoceranno le loro salsicce sulla griglia del barbecue che, immancabile, affianca gli occasionali ripari in legno, una benedizione in caso di cattivo tempo – e il tempo in Vermont, come abbiamo potuto constatare, è notoriamente instabile. Cinque chilometri e dislivello zero per un paio d’ore con rododendri, bacche d’ogni tipo, acquitrini – naturali o creati dai castori – senza alcun testimone di questo primo approccio, di questa segreta camminata tra betulle e funghi. La sera, la ricca insalata profuma del formaggio di cui abbiamo visto le fasi di produzione solo ore prima a Cabot: ecco servito quel cheddar che è stato votato il migliore del mondo.
Il Vermont non ha parchi nazionali propriamente detti, e sono rari i casi in cui viene chiesta una quota per l’accesso ai numerosi parchi statali. Altrettanto rare, quindi, le brochures, ma le informazioni si possono trovare in pubblicazioni specializzate. Leggendo l’imbrogliata descrizione del punto d’accesso per la salita a Camel’s Hump, uno dei profili iconici del Vermont, m’ero preoccupato, ma il navigatore satellitare conosceva la strada. Nel parcheggio le vetture dei mattinieri, madide della pioggia che s’era accanita tutta la notte, s’erano rassegnate ad una noiosa attesa, mentre altri escursionisti, superaccessoriati e in tute tecniche, si approntavano a quella che, in retrospettiva, è risultata essere la più difficile e la più gratificante ascesa del viaggio. Il promettente Monroe Trail inizia sotto un’ariosa volta di alberi ad alto fusto mentre macchie di sole baciano un felice tappeto di felci, ma è quando si raggiunge il Dean Trail che inizia il divertimento: stagni imbambolati abbandonati dai castori, passerelle provvidenziali dopo la pioggia torrenziale e, superato Wind Gap e imboccato il Long Trail in direzione nord, arrischiate arrampicate sui crinali, sulle ossa nude della terra, tra betulle, faggi e improvvisi squarci di panorama. Aggiro cautamente la pietraia che nasconde la Hump, la gobba del cammello, mentre una lama di vento gelido m’asciuga il sudore e improvvisamente, con quattro salti, mi ritrovo sulla cresta. E’ qui la festa? Una trentina, tra cani e padroni, si stanno beando sulla conquistata vetta: ci uniamo alla baldoria per un picnic in capo al mondo, là, in un punto visibile da lontanissimo, dove stranamente non spira un alito, da dove possiamo vedere tutto il Vermont fino al Canada e dove nessuno ci può vedere. Potremmo rimanere qui per ore. Ci immergiamo poi sotto la volta ombrosa dell’altro capo del Monroe Trail, piacevolmente graduato, per scendere gli 800 metri di dislivello fino alla base. Alle quattro del pomeriggio ancora incrociamo speranzosi – o incoscienti? – che vanno su. Non sanno che alle sei e mezzo fa buio e che non si può campeggiare? L’atmosfera languida del tramonto è ideale per visitare un cimitero: quello, originalissimo, di Barre, dove troviamo tantissimi italiani – invitati a fine Ottocento per lavorare nella vicina cava di granito – e fantasiosi monumenti: un biplano, un’automobile da corsa, un arco formato da una catena, un pallone da calcio, lapidi incise cogli occupanti ritratti al lavoro – lucidatore, scalpellino, camionista –, una tenerissima coppia a letto e alcuni ritratti pensierosi condividono un grande prato con le più convenzionali colonne, coi tempietti e addirittura con una copia della Pietà di Michelangelo. E’ stato l’arrivo della ferrovia a rendere fruibile l’enorme giacimento di granito, una pietra troppo pesante per essere trasportata sui carretti. Mentre la fossa a cielo aperto di “Rock of Ages” continua ad approfondirsi blocco estratto dopo blocco, il minuscolo museo della Vermont Historical Society ci propone lo stendardo delle “Donne del Ku Klux Klan – Regno del Vermont” e manifesti – staccati con gran cura dalle case – di ricostruzioni delle storiche battaglie che i circhi itineranti inscenavano nell’Ottocento: l’equivalente antico di un film di guerra.
Al Campidoglio di Montpelier, capitale dello stato grazie alla sua posizione centrale, il signor Mario Lorenzetti, anziano volontario che certo non sa una parola d’italiano, ci mostra la sala della Camera, quella del Senato e i ritratti dei governatori. Fuori, una statua di Ethan Allen, una sorta di padre della patria, e due cannoni spagnoli di fattura tedesca fanno buona guardia. Troviamo altro colore locale alla Morse, la prima di una serie di fattorie che visiteremo dove si produce lo sciroppo d’acero. Per avere un’idea dei suoi molteplici usi, basti dire che arrivano a farci sottaceti e salse. Audaci sperimentazioni vengono condotte anche presso Ben & Jerry, produttori di gelati famosissimi in tutti gli States, ma nella collina accanto allo stabilimento – attrazione turistica n. 1 del Vermont – rispettosamente riposano, sotto una poesiola commemorativa, i gusti che negli anni sono stati dismessi.
A Stowe una funivia, che curiosamente in inglese chiamano “gondola”, porta alla punta più alta del Vermont, il Monte Mansfield, la cui sagoma ha ricordato a chi l’ha battezzato il volto d’un uomo sdraiato. Una malaugurata vescica ha impedito l’ascesa per l’arduo Hell Brook Trail, la sfida maggiore che ci eravamo prefissi, ma segnaliamo con piacere che i cerotti Compeed funzionano davvero come una seconda pelle e hanno permesso mobilità all’infortunato. Saliamo dunque quasi fino al vertice, il Nose (Naso), con la macchina. Sulle rocce sopravvive dall’era glaciale solo la tundra, paonazza per il freddo ed il vento, ma appena più giù la foresta di bassi abeti è fitta e, dopo il Chin (il Mento), per spingersi fino alla Adam’s Apple (il Pomo d’Adamo), si perde e si guadagna quota repentinamente, con passaggi pericolosi. E ritroviamo il Long Trail che, attraversando tutto lo stato, segue il profilo delle Green Mountains dal confine col Massachusetts a quello col Canada: vernice e pennello in mano, una ragazza ne sta rinfrescando i segnavia bianchi sulle rocce.
A malincuore lasciamo la sensazione di euforia che queste altezze, per quanto modeste (1.340 m), contagiano, e scendiamo per visitare le vicine Bingham Falls, nello Smugglers Notch State Park. Il nome rivela che questo valico era frequentato dai contrabbandieri, che facevano la spola tra Vermont e Canada. Grazie alle informazioni trovate su internet, localizziamo l’anonimo accesso, attraversiamo il torrente e scendiamo un po’ a valle fino al punto panoramico. Altri turisti arrivano ai modesti salti che l’acqua fa nel piccolo canyon alla fine del viottolo, pensando sia tutto lì. Tutt’intorno, sopra le nostre teste e sotto i nostri piedi, una distesa di foglie, compatta e amorevole, fodera il sentiero. Un’altra breve corsa costeggiando i campi coltivati, i ristoranti e i motel che fanno di Stowe una gradevolissima trappola per turisti, e troviamo l’inizio del sentiero per le Moss Glen Falls. In una cascata, il mutevole e l’inamovibile, l’acqua e la roccia, l’istante e l’eterno – elementi che risuonano in noi in una stereofonia armonica – si integrano, affascinando. Lo Sterling Pond Trail, un classico per coppie con prole e cane al seguito, sale con grazia sotto il giallo delle alte chiome risplendenti al sole d’una mattina fresca, mentre il circuito attorno al laghetto si inerpica confuso tra gli abeti verdi, ora avvicinandosi ora allontanandosi dall’acqua, scavalcando un rifugio nel cui diario leggiamo un’annotazione del giorno prima: in due vi avevano trovato riparo dalla pioggia che per tutta la notte aveva battuto il tetto di lamiera con un fracasso come se là sopra stessero ballando tutti i personaggi d’una commedia musicale. Queste montagne ci stavano ormai diventando familiari. Avremmo scalato Mount Mansfield alcuni giorni più tardi, non volendo rinunciare a questa personale prodezza nonostante il maltempo persistente.
Una mattina, in una pausa concessa dall’enorme distesa nuvolosa che stazionava sul New England, ci siamo imbucati nell’esigente Laura Cowles Trail per conquistare la montagna dal lato occidentale. Dalla cabina della guardia forestale dell’Underhill Park la strada bianca costruita dai CCC (Civilian Conservation Corps) dà accesso al percorso, che segue per un lungo tratto le rocce scivolose d’un modestissimo ruscello. Pur essendo il più cocciuto e impegnativo tra quelli che portano alla cima, questo sentiero tuttavia offre appigli e bastano buone gambe, buone braccia e tanto fiato: per questo lo abbiamo scelto per la salita, riservandoci il classico Sunset Ridge Trail, generalmente più facile ma che a tratti lascia veramente interdetti, per la discesa. Più che nella nebbia, sembrava di addentrarsi in una favola. Nessun altro – a differenza delle altre volte – ha effettuato la nostra scelta: l’ascesa è stata solitaria, e portata a termine quasi per puntiglio. Non mancava molto all’arrivo che la pioggia ci ha tolto il piacere di una sosta in vetta. Il Sunset Ridge Trail, scoperto per buon tratto su questo severo fianco, è teoricamente panoramico, ma non abbiamo visto che il biancore della nuvola che ci avvolgeva, intenti com’eravamo a zigzagare per evitare di scivolare sui frequenti passaggi di nuda roccia, lucida d’acqua.
Le condizioni meteo stravolgono ancora il nostro programma: finiamo per confonderci tra i pensionati che, a corrierate, assalgono il Cold Hollow Cider Mill, dove un’ampia vetrata interna dà sul laboratorio di produzione del sidro. La pasta di mele sminuzzate viene pompata su un grande lenzuolo, disteso su un foglio di plastica ondulata che assomiglia a una lasagna gigante. Uno, due… quattordici strati uno sull’altro e si preme la pressa. Il succo che ne cola diventa sidro e il residuo solido viene dato ai maiali. Si assaggia, e non solo il sidro: anche qui tutte le specialità allo sciroppo d’acero sono in bella mostra. Una visita ad un robivecchi ci svela che nelle case non ci sono solo i gingilli che affollano i negozi per turisti, e una visita al Fleming Museum dell’Università di Burlington ci convince che qui non ci sono solo colline e contadini. Il corso della città, la più grande dello stato, è zona pedonale ed è punteggiato da orsacchiotti multicolori e ingombro dei tavolini dei ristoranti. L’atmosfera è disimpegnata, e anche la maggiore attrazione della città, l’acquario – in bella posizione sulla sponda del Lago Champlain – punta giusto a offrire una mezza giornata di svago e di curiosità ai bambini. La “Spirit of Ethan Allen”, che di solito carica i turisti per un giro sul lago, sta agli ormeggi, imbronciata. Il campus si trova oltre i bei viali alberati della zona residenziale e il museo offre un’ottima collezione di etnologia e di arte: tutte le età e gli stili sono rappresentati, magari anche solo da un paio d’opere, e al tempo della nostra visita era allestita una mostra temporanea di oggetti precolombiani e di manufatti dell’Oceania. In musei modesti come questo le opere trovano veramente il modo di comunicare col visitatore che, non sentendosi sopraffatto dalla quantità o intimidito dalla qualità, pressato da guardie o distratto da allarmi, intuisce l’ispirazione dell’artista, sentendosi singolarmente partecipe alla realizzazione dell’opera. Giusto fuori città troviamo addirittura la casa dell’onnipresente Ethan Allen, recuperata fortunosamente da altri edifici che le si erano accorpati. Fa ridere la mania conservazionista contemporanea grazie alla quale, con notevole applicazione d’ingegno, s’è identificata la casa di un discusso personaggio di provincia, quando appena duecento anni fa nessuno sforzo fu fatto per dare a Mozart, che fu Mozart anche in vita, una sepoltura che lo ricordasse ai posteri: in quanto povero, fu interrato in una fossa comune. Gli oggetti e l’arredamento che troviamo nel modesto edificio del grande uomo, assieme alla visita al robivecchi, ci hanno messo in curiosità sul mondo dell’antiquariato e, alla ricerca di cose desuete, scoviamo un enorme fienile: tre piani in cui oggetti d’ogni tipo hanno trovato scampo dal tempo che tutto distrugge. Non c’è sorveglianza, giusto un cartello che ricorda: “Dio ti vede…”, evidentemente un deterrente sufficiente per un americano. Rovistando negli empori antiquari di Quechee non si può non trovare qualcosa da comprare, ma il peso consentito del bagaglio in aereo ci dissuade. A questo limite si aggiunge, nella fabbrica di caldi capi d’abbigliamento di Johnson – indumenti che farebbero la felicità di tutti i boscaioli di cui, sorvolando lo stato, ci si immaginerebbe che il Vermont fosse pieno – la sorpresa dei prezzi, tutt’altro che modesti. Al di là del rio, nel grande edificio color ruggine del Vermont Studio Center, dove artisti accorrono da tutto il mondo per essere ispirati da questa terra così genuina e diretta, non c’è nulla in esposizione al momento. Le belle vedute le cerchiamo allora sulle rive del Lago Champlain, a Kill Kare, un parco pubblico deserto e magico al tramonto. Per questo viaggio avevamo scelto cinque parchi per le vedute eccellenti e altri cinque per le escursioni impegnative. Kill Kare meraviglia per la cura con cui è tenuto e la serenità che il lago infonde, ma è da Mount Philo che lo sguardo spazia libero oltre la lunga striscia del lago, accarezzando i rilievi degli Adirondack del contiguo stato di New York. Arrivati sulla sommità, troviamo una sposa e il nugolo di bambini degli invitati: un’altra preziosa oasi di pace nel conflitto tra umani e natura. Più a sud, il Kingsland Bay Park offre un accesso panoramico al lago, a cui il Button Bay Park aggiunge l’attrazione di aquile, aironi e altri volatili lacustri. Ci fermiamo volentieri a chiacchierare con le guide del Lake Champlain Maritime Museum, che in una dozzina di edifici mostra la vita sopra e sotto il pelo dell’acqua, dai battelli azionati da cavalli ai catamarani costruiti per scivolare sul lago gelato, dai reperti recuperati dai più di duecento relitti, che potrebbero costituire un futuro parco sommerso, all’officina dove i giovani apprendono a costruire un’imbarcazione nella quale traverseranno la lunghezza del lago e che rimarrà loro, prova e promessa di un rapporto personale con la nautica.
Guidando sulla Statale 7 si può venir sorpresi da un battello a vapore che occhieggia da un mare d’erba. La storia di come siano riusciti, nell’inverno del 1955, a fargli percorrere i tre chilometri che lo separano dalle acque del Champlain è un’avventura avvincente, ma il “Ticonderoga” è solo una delle attrazioni del luogo più interessante e incredibile del Vermont: lo Shelburne Museum. Venti dollari danno accesso per due giorni a una serie di costruzioni ricollocate nel grande appezzamento che fu della famiglia Havemeyer Webb e a collezioni preziose, estese e curiose. C’è una stazione del 1890 completa di locomotiva e carrozza di lusso, un negozio di speziale completo dei ritrovati dell’epoca e di vasi da farmacia, lo studio di un pittore completo di una raccolta di sublimi acquarelli, una segheria completa di ingranaggio a vapore, un fienile completo di orto colle verdure coltivate dai coloni, un faro completo delle foto di quando si trovava in mezzo al lago, gli animali scolpiti d’una giostra completi dei manifesti d’epoca del circo e di una processione di modellini così lunga che a grandezza naturale sarebbe lunga tre chilometri, un grande fienile cilindrico completo d’ogni genere di mezzo motorizzato per spostarsi sulla neve, un emporio generale completo di ufficio postale e d’ogni genere di mercanzia, una villa signorile completa d’un paio di autentici, deliziosi Dégas in camera da letto, una stupenda collezione di bambole e giocattoli antichi e il “Ticonderoga”, così com’era quando salpava per le crociere sul lago nel 1923 – e questa è solo una lista parziale. Parlando di giocattoli, non manchiamo di acquistare un orsacchiotto alla Vermot Teddy Bear Factory, dopo una frizzante visita guidata. Gli orsi sono bellissimi e garantiti a vita!
A Brandon, per un felice errore, alloggiamo in una storica locanda e, per una notte, facciamo finta di appartenere all’alta società. Lì, visitando la casa-museo di Henry Sheldon, lui sì un vero upper crust, veniamo a sapere delle tradizionali fiere locali e della vocazione agricola e zootecnica del Vermont. Il vicino Branbury Park ci invita ad un intenso pomeriggio di trekking: foto alle Falls of Lana, quattordici tappe attorno al Silver Lake, l’ascesa col fiatone al Rattlesnake Point per l’Aunt Jenny Trail e la discesa di corsa, incalzati dal buio incombente, per il Rattlesnake Trail, più lungo e meno arduo – conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che conviene salire dalla parte difficile e scendere dalla parte facile. Da lassù il Vermont appariva finalmente in fiamme: il rosso vivo degli aceri accendeva la distesa, chiazzata di giallo, dei sempreverdi.
Altro bel sentiero è il Deer Leap Trail, che abbiamo trovato pieno di funghi dopo le recenti piogge, che incrocia e si sovrappone brevemente all’Appalachian Trail, un percorso di sei-sette mesi, dalla Georgia al Maine, del cui completamento ogni appassionato ambisce fregiarsi. Il vicino Kent Pond e il Thundering Falls Trail offrono ottime inquadrature fotografiche, mentre ci ha lasciato freddini il Gifford Woods Park, a detta di alcuni il più panoramico dello stato. Giusto di fronte, Plymouth, il minuscolo villaggio natale di Calvin Coolidge, presidente dal 1923 al 1929, è diventato parco storico e presenta la severa forma mentis protestante e il passato contadino del Vermont, caratterizzato dalle imprese a conduzione familiare. Ancora adesso poca strada ne separa una dall’altra. L’ultima che visitiamo, produttrice di quattordici tipi di cheddar e, naturalmente, di sciroppo d’acero, è la Sugarbush Farm, a monte della pittoresca Woodstock, dove ripassiamo la lezione rurale appresa alla Shelburne Farm tra le pecore, le mucche e le zucche, già pronte per Halloween sebbene manchi ancora un mese, della Billings Farm. Alla sfarzosa mansione Marsh-Billings-Rockefeller (mobili in legno massello? Spunta! Vetri di Tiffany? Spunta! Quadri d’autore? Spunta!) apprendiamo l’affascinante storia del pensiero ecologista: Marsh scrisse “Man and Nature”, uno dei due libri di moda a metà Ottocento assieme all’”Origin of Species” di Darwin. Billings acquistò la casa di Marsh e, affascinato dalla sua filosofia ambientalista, volle concretizzare le sue linee-guida creando una fattoria modello. Laurance Rockefeller sposò la figlia di Billings e venne coinvolto in questo circolo virtuoso fino a meritare una medaglia d’oro – il primo a ricevere tale onoreficenza per questioni ambientali.
Una rapida visita alla Long Trail Brewing Company, la cui birra ci ha dissetato per l’intero viaggio, una capatina per sbirciare i rapaci al Vermont Institute of Natural Science, dove i volatili incidentati vengono curati, e siamo ad Ascutney, una montagna scelta per i panorami, ma – al solito – troviamo la sommità avvolta nella caligine e il nostro picnic è accompagnato non dalle vedute ma da una pioggerellina che, confermando al minuto le previsioni del tempo ora per ora, cade dall’1 alle 3 del pomeriggio. Invece del panorama, è la salita dal meridionale Weathersfield Trail a soddisfarci per la sua bella varietà: un ruscello che si getta da una rupe per una ventina di metri, saliscendi per l’attraversamento di tre rigagnoli, una foresta verde fitta fitta che lascia poi spazio ai latifoglie gialli, e infine i nervi affioranti della terra sotto i pini del cocuzzolo, dove troviamo due torri radio e il trampolino di lancio per i voli in deltaplano. Dopo sei ore non eravamo ancora sazi: abbiamo quindi fatto il giro del monte e lo abbiamo attaccato da nord, percorrendo il Windsor Trail, un’autostrada dei sentieri, che, largo e leggero all’inizio, s’impenna dopo venti minuti e mantiene caparbio la ripida inclinazione senza concedere tregua. Al punto panoramico di Blood Rock vediamo i colori del foliage proprio come nelle cartoline. La luce calerà tra poco e scendiamo correndo, appagati. E’ per scene come questa che eravamo venuti in Vermont.
Un paio d’ore tra foreste, villaggi di casette di legno e strade che si fanno sempre più larghe e anonime, e il navigatore ci immette in un flusso che si infittisce, fino a che all’orizzonte appare il profilo di una città. Da incrocio a rotonda, da destra a sinistra, gli ordini del navigatore si fanno più frequenti, più complicati, e sento la rete che mi si stringe attorno. M’ero espanso fino a sentirmi parte dell’ambiente: ho percepito la gentilezza di Monte Tom, la cocciutaggine del Mansfield, la chiarezza di Sterling Pond, l’intimità di Deer Leap, la segretezza del Moosalamoo, la giocosità dell’Ascutney. E avevo riscoperto la determinazione, la resistenza, il sudore e il piacere per un obiettivo raggiunto. Ogni attimo contava, e in ogni attimo contavano le scelte, l’autonomia, il rapporto dinamico tra gambe e braccia e massi, acqua, foglie, fatica e risultato. A contatto cogli altri la tunica dell’anima si macchia ogni giorno di minuscole scortesie e di piccoli ricatti, se non di bassi compromessi: qui m’ero ripulito. Facevo trekking nel Vermont ma in realtà evadevo dagli schemi di addomesticamento, e l’animale genuino, fiero e insaziabile che mi smania dentro prendeva una salutare boccata d’aria, senza guinzaglio in giro per il Vermont nella stagione dei colori: giallo come un raggio, verde come un drago, rosso come una fiamma.