Un vicino da scoprire

Viaggio in Albania fuori dai luoghi comuni
Scritto da: mapko64
un vicino da scoprire
Partenza il: 29/06/2010
Ritorno il: 12/07/2010
Viaggiatori: Uno
Spesa: 1000 €
L’Albania, pur così vicina all’Italia, è conosciuta dal grande pubblico solo attraverso luoghi comuni: per decenni è stata una delle nazioni più inaccessibili al mondo, per poi crearsi un’immagine di scafisti e criminali. Oggi i tempi sono cambiati e un viaggio in Albania rappresenta una vera scoperta.

La capitale, Tirana, pur priva di grandi monumenti, è piacevole. Non mancano marciapiedi pieni di buche ma in centro le strade sono pulite, allietate da spazi verdi; quando saranno terminati i lavori in corso, il suo aspetto migliorerà ancora, anche se nuovi grattacieli incomberanno sulle basse costruzioni. Solo venti anni fa in città c’era ancora la statua di Stalin; oggi insieme a Lenin è confinato dietro la galleria d’arte. I “relitti del comunismo” sono uno degli spunti più curiosi di un viaggio in Albania: a Tirana la Piramide in vetro e cemento di Enver Hoxa, dittatore e padrone del paese per quaranta anni, cade a pezzi; migliaia di bunker in cemento armato sono sparsi ovunque, troppo costosi da rimuovere.

Berat e Gjirokastra sono considerati nel novero dei paesi più belli al mondo. A Gjirokastra le case hanno l’aspetto duro di fortezze in pietra mentre a Berat, allietate da innumerevoli finestre, indulgono nelle linee aggraziate. Il sito archeologico di Butrint unisce l’interesse monumentale a una collocazione incantevole. La natura, infine, rappresenta un’altra attrattiva dell’Albania: le montagne e la meravigliosa costa ionica mantengono un carattere selvaggio, al contrario della costa adriatica devastata dall’opera dell’uomo.

Viaggiare in modo indipendente in Albania è semplice e divertente. La rete di bus è capillare, consentendo di raggiungere ogni paese, mentre per le gite ci si può affidare ai taxi. La popolazione è molto ospitale; degni eredi degli antichi greci, gli albanesi considerano gli ospiti sacri tanto che nelle case tradizionali la camera loro destinata era la più lussuosa. Solo nella Riviera l’avvento del turismo ha spinto taluni a mettere in primo piano il business, cercando di spennare i ricchi occidentali. Nel mio giro di una dozzina di giorni attraverso il paese sono stato al centro e al sud, tralasciando le selvagge regioni settentrionali, dove i montanari seguono ancora la legge tradizionale codificata nel Canun. Non mi resta quindi che riprendere l’esplorazione in un prossimo viaggio alla scoperta dei “misteriosi” Balcani.

Ed ora il diario di viaggio.

Martedì 29 giugno: Roma – Tirana

In serata un volo di poco più di un’ora mi porta da Roma a Tirana. Ad attendermi c’è il tassista inviato dalla pensione, un signore che guida con grande prudenza. Si chiama Socrates, come il calciatore brasiliano – dico io – come il filosofo greco – ribatte lui! La “Pension Andrea”, priva d’insegna, è l’abitazione della signora Gina che affitta le due camere al primo piano.

Mercoledì 30 giugno: Tirana

Faccio colazione con la simpatica padrona di casa; parla discretamente inglese perché tutta la sua famiglia da molti anni è emigrata negli Stati Uniti. Giornata dedicata alla visita di Tirana. A due passi dalla pensione, un grazioso ponticello ottomano in pietra privato del fiume, il ponte dei conciatori, ormai è accerchiato dalla città moderna. Viale George Bush testimonia il desiderio dei piccoli di gratificare la superpotenza del XXI secolo. Dietro i piacevoli giardini sorge l’edificio del Parlamento; davanti sventola la bandiera albanese, rossa con un’aquila nera a due teste. Il busto di Fan Noli, patriarca ortodosso e primo ministro albanese negli anni venti del novecento, è accerchiato dai lavori in corso. Proseguendo nella passeggiata raggiungo il ristorante Sarajet, uno dei migliori esempi di architettura ottomana a Tirana. Ne approfitto per una consumazione ai tavolini nel giardino. L’edificio risale al settecento; la sala al primo piano ha un bel soffitto di legno intagliato.

Piazza Skandeberg è il cuore della città. Al centro sorge la statua equestre dell’eroe albanese, a me familiare perché vi ritrovo le forme dell’analogo monumento in piazza Albania a Roma. Da bambino mi chiedevo sempre chi fosse quel misterioso personaggio dal nome difficile. La vasta piazza è un cantiere per i lavori in corso; gli edifici che la circondano testimoniano la “breve” storia di Tirana, diventata capitale solo nel novecento. La moschea di Ethem Bey riporta ai tempi della dominazione ottomana, i ministeri risalgono all’occupazione italiana mentre il teatro dell’Opera e il museo di Storia Nazionale sono stati costruiti durante il regime comunista. La moschea di Ethem Bey è l’unico edificio con un reale valore artistico. Si tratta di una piccola costruzione circondata da un loggiato affrescato. Le insolite raffigurazioni di monumenti si ripetono anche all’interno, nella sala della preghiera. L’ambiente, chiuso dalla cupola, è tutto coperto di affreschi su sfondo bianco, tra i quali spicca una moschea con quattro minareti e sette cupole a cipolla. Un lato è occupato dalla galleria di legno, destinata alle donne; il minbar di legno lucido ha l’aspetto antico. Di fianco alla moschea, la Torre dell’Orologio fa da contraltare al minareto. Nella piazza, l’edificio che ospita il Teatro dell’Opera ricorda l’architettura fascista dell’EUR a Roma; diverse targhe di società italiane, insieme alla sede di “Forza Italia”, testimoniano che i tempi non sono poi così cambiati e l’influenza dell’affarismo italiano è di nuovo pesante. Le impalcature davanti alla facciata del Museo di Storia Naturale nascondono il grande mosaico, “fulgido esempio della retorica comunista”. Nella piazza sorgeva una grande statua di Enver Hoxa, ma è stata abbattuta dai manifestanti nel 1991, senza l’aiuto di potenze straniere come in altre nazioni. Oggi rimane il grande podio, sul quale è stato collocato un cartello con i numeri delle vittime del comunismo. Lo spiazzo è sfruttato dai ragazzini per sfrecciare su piccoli kart.

Tornando verso Viale George Bush, raggiungo una piazza, dove sorgono la statua del partigiano ignoto, altro esempio di realismo socialista, e la Tyrbe di Kapllan Pasha. La tomba del santo è un padiglione ad archi costruito nell’ottocento, ma presto vi sorgerà sopra un moderno grattacielo! Da piazza Skandeberg parte Viale dei Martiri della Nazione, il corso cittadino sul quale si allineano gli edifici governativi. L’Hotel Dajti ai tempi del regime comunista era destinato a ospitare i pochi stranieri autorizzati a entrare nel paese; oggi l’edificio abbandonato cade a pezzi. Sull’altro lato della strada, il Parku Rinia costituisce un piacevole spazio verde apprezzato da gente di tutte le età e allietato da una grande fontana. Al centro sorge il Taiwan, un edificio dall’aspetto di un ragno che ospita un ristorante e un bar.

Il fiume di Tirana, il Lana, sembra un piccolo canale confinato tra gli argini. Subito dopo raggiungo uno dei “relitti più ingombranti” dell’era comunista, la Piramide in vetro e cemento che Hoxa, novello faraone, si fece costruire dal genero. Oggi è chiusa e cade a pezzi; due ragazzi si divertono a scalarla. Poco oltre si erge l’impressionante mole del palazzo che ospitava il comitato centrale del partito. Una deviazione mi porta alla casa di Enver Hoxa, nel quartiere Blloku. Oggi davanti sventola la bandiera americana della scuola di lingua mentre, tutto intorno, i tavolini dei caffè sono affollati di giovani. Il dittatore si rivolterà nella tomba ma è la giusta nemesi per un quartiere un tempo inaccessibile al pubblico e destinato solo all’elite comunista.

Viale dei Martiri termina nel grande spazio vuoto di piazza Madre Teresa. A fianco dell’Università una piccola statua di Madre Teresa di Calcutta ricorda l’albanese più famosa al mondo, nata in realtà in Macedonia. Su un lato sorge il museo archeologico; la sua visita può tranquillamente essere omessa poiché i reperti più interessanti si trovano al museo nazionale.

Una lunga passeggiata mi porta in periferia, in cima alla collina che ospita il cimitero dei martiri, vegliato dalla gigantesca statua della Madre Albania. All’una il sole picchia spietato e l’ultima scalinata, incocciata al sole, mi ricorda quella della “Corazzata Potëmkin”. La madre Albania in pietra bianca volge lo sguardo su Tirana alzando un braccio con il quale solleva una stella mentre le vesti sono spinte indietro dal vento. Queste icone sembravano un’esigenza irrinunciabile per i regimi comunisti e si ritrovano in molti paesi: Armenia, Georgia, Lettonia. Un tempo ai piedi della statua era sepolto Enver Hoxa ma la sua tomba è stata rimossa e sostituita da un memoriale delle vittime del comunismo. Rimangono invece le tombe dei partigiani, ma solo quelli di “fede comunista”, caduti combattendo contro fascisti e nazisti durante la seconda guerra mondiale. Dal piazzale si domina tutta la città, con la cornice dei monti Dajti velati dalla foschia. Tirana appare anonima ma rallegrata dai colori vivaci di molti suoi edifici.

Per tornare in centro prendo un bus. Raggiungo piazza Skandeberg per visitare il museo di storia nazionale; dovrebbe coprire tutte le vicende dell’Albania, fino ai nostri giorni, ma la sezione dedicata al regime comunista è chiusa (in vista di una sua riorganizzazione?). L’esposizione è molto interessante con alcuni splendidi pezzi, come la Dea di Butrint (una delicatissima testa di Apollo) e la Bella Donna di Durazzo, il più antico mosaico rinvenuto in Albania. La visita mi consente di scoprire le radici antiche del popolo albanese, discendenti degli illiri. Con l’arrivo degli slavi nella penisola balcanica, gli albanesi rimasero i loro unici eredi (almeno così sostengono!). La sezione dedicata al Rinascimento Albanese, il movimento che si sviluppò tra ottocento e novecento per l’indipendenza, illustra la complessa storia del periodo. Oltre al giogo turco gli albanesi dovettero fronteggiare il tentativo di spartizione tra serbi e greci. Nessuno li gradiva poiché sono un’anomalia, una popolazione musulmana nei Balcani (come in Bosnia). Nel 1912 l’indipendenza fu proclamata da Ismail Qemali. Gli altri paesi balcanici si opposero e volevano che gli albanesi di fede islamica o cattolica si convertissero all’ortodossia. Dopo la prima guerra mondiale emerse la figura di Zogu che si proclamò re. Seguirono l’occupazione italiana e le vicende della lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale.

Lungo Via dei Martiri raggiungo la Galleria d’Arte Nazionale. Per la nostra sensibilità occidentale, le opere più interessanti sono quelle del realismo socialista. I quadri ritraggono lavoratori e lavoratrici, soldati, aviatori, atleti. Un operaio in piedi sopra un’impalcatura sventola una bandiera rossa; la scritta “dittatura del proletariato” campeggia dietro l’altoforno di un’acciaieria. I colori sono accesi, le opere piacevoli, una sorta di fumettoni. Oggi fanno sorridere ma le vicende di un quadro ricordano la cruda realtà di un tempo. Un gruppo di partigiani è ritratto di notte con una donna che tiene in mano un fiore mentre un vecchio suona. Inspiegabilmente l’opera fu ritenuta pessimista e l’autore arrestato nel 1974. Solo venti anni fa a Tirana c’era ancora la statua di Stalin. Oggi insieme a Lenin e, altre figure della retorica comunista, è confinato dietro la galleria.

Giovedì 1 luglio: Tirana – Pogradec – Ohrid

Davanti allo stadio alle cinque e mezzo del mattino non c’è anima viva ma subito sono individuato da un furgon fermo nei paraggi, diretto a Pogradec e Korca. Per una ventina di minuti facciamo una serie di giri dell’isolato ma poi, raccolta un’altra manciata di passeggeri, siamo pronti per partire. Il minibus, un Ford Transit dotato di aria condizionata, ha otto posti tutti forniti di cintura di sicurezza; è in buone condizioni come anche la strada. Prima percorriamo una verde vallata densamente popolata, poi iniziamo a salire tra montagne boscose. Arrivati in cima, si prosegue alti con un bel panorama su una vallata da un lato e interminabili file di monti in controluce dall’altro. La discesa verso una piana impestata dai fumi delle ciminiere è piena di tornanti. Alle sette, superata Elbasan, proseguiamo lungo il corso di un fiume; il paesaggio è deturpato dall’opera dell’uomo. Facciamo una breve sosta per la colazione. Alle otto, dopo una salita, appare la vasta distesa azzurra del lago di Ohrid. La strada prosegue costeggiando la riva; la densità dei mini bunker è aumentata, forse per l’avvicinarsi del confine macedone. Finalmente giungiamo a destinazione a Progadec, nell’angolo sud-ovest del lago.

Per raggiungere il confine macedone prendo un taxi che in realtà è un furgon. La dogana albanese è fatiscente mentre quella macedone appare in condizioni migliori. E’ sempre emozionante attraversare un confine a piedi, allietato questa volta dalla bella vista sul lago. Dal confine un bus porta fino a Ohrid ma un “tassista non ufficiale” mi offre una corsa alla stessa tariffa. Percorriamo la sponda macedone del lago, tra bei paesaggi boscosi e piacevoli paesini rivieraschi.

L’albergo “Vila Sofija” si trova a due passi da Santa Sofia; preso possesso della stanza inizio la visita di Ohrid proprio da questa chiesa. L’interno a tre navate con volte a botte e absidi presenta magnifici affreschi, ben conservati grazie al fatto che i turchi li coprirono d’intonaco! I più antichi risalgono all’XI secolo. La facciata ha un aspetto insolito, con due ordini di arcate separate da finestrelle cieche e torrette laterali; l’effetto decorativo è ottenuto disponendo i mattoni in vari modi, intervallati da pietre.

Addentrandomi tra le stradine di Ohrid, raggiungo la chiesetta di Sv. Bogorodica Bolnicka; nel secondo ambiente spicca la bella iconostasi di legno intarsiato mentre al posto della cupola si trova un’isolita volta a botte trasversale. Dal molo posso godere una panoramica della cittadina: le case dai tetti di tegole risalgono le pendici della collina, sorvegliata dalla fortezza sulla quale sventola la bandiera macedone (sole e raggi gialli su sfondo rosso). Nei giardini davanti al porticciolo si erge la statua di San Clemente di Ohrid, che regge in mano un modellino della città, con tanto di fortezza e casette dai tetti spioventi. La strada pedonale dedicata allo shopping è affollata di turisti. Al termine mi siedo all’ombra di un platano centenario insieme agli uomini che chiacchierano al fresco. Sull’altro lato della piazza un minareto ricorda la passata dominazione turca e la vicina Albania. Tra le tante chiese di Ohrid è la testimonianza di una convivenza pacifica. Mentre pranzo in un ristorante ascolto la gente salutarsi con “dobre dan”; è bastato cambiare sponda del lago per immergersi nel mondo slavo!

Ripresa la passeggiata, visito un laboratorio per la produzione della carta. Il proprietario mi spiega che utilizza un’antica tecnica cinese. Una vasca è riempita con un liquido biancastro nel quale sono sciolti vari tipi di legno e grano; con un colino rettangolare si passa l’acqua preparando il foglio che poi deve asciugare una quindicina di minuti e trascorrere svariate ore sotto una pressa. Il laboratorio ha anche una pressa per stampare con la tecnica di Gutenberg: si dispongono le lettere metalliche formando il testo della pagina, poi si passa l’inchiostro e quindi si posa il foglio che viene impresso. Per una pagina ci vuole più di un’ora di lavoro. Le case di Ohrid mi ricordano quelle di Plovdiv in Bulgaria: il piano terra è in pietra mentre quelli superiori aggettanti sono intonacati a calce. Una delle più imponenti ospita il museo nazionale con alcuni ambienti arredati tradizionalmente. La stanza all’ultimo piano ha un bel soffitto di legno e consente di ammirare il panorama sul lago.

La chiesa più pittoresca di Ohrid è senza dubbio San Giovanni Theologian, appollaiata su uno sperone roccioso a picco sul lago. Per raggiungerla si percorrono passerelle sull’acqua, superando una spiaggia con ristorante. Alcuni ragazzi mostrano il loro coraggio tuffandosi dall’alto della roccia. La costruzione in mattoni costituisce con lo sfondo delle acque un’immagine classica della Macedonia. All’interno sono sopravissuti solo gli affreschi della cupola e dell’abside. Salendo sulla collina le sorprese non sono finite. In quest’area, denominata Palosnik, si sviluppò uno dei più antichi insediamenti cristiani presso un popolo slavo. La chiesa di Sveti Kliment I Pantaleion risaliva al V secolo ma è andata distrutta; da qualche anno è stata ricostruita secondo le forme dell’edificio originale. Nell’area sono in corso estesi scavi archeologici. Sono stati ritrovati tra gli altri i pavimenti musivi di una grande chiesa del IV secolo; oggi sono coperti da una curiosa struttura che ripete i tetti di tegole originali, ma le passerelle predisposte per ammirarli non sono ancora aperte al pubblico. Proseguendo la passeggiata, raggiungo la fortezza dello zar Michele, costruita nel X secolo. Dai bastioni si gode il panorama su Ohrid e il lago. Disceso di nuovo in città, visito l’antico teatro addossato alla collina, ancora oggi utilizzato per gli spettacoli. La chiesa Sveta Bogorodica Perivlepta, come a Cipro, è racchiusa da mura per proteggere gli affreschi. Le pareti sono tutte affrescate e l’effetto è magnifico. Siamo nel periodo del cosiddetto Rinascimento Paleologo, l’ultima grande fioritura dell’arte bizantina. La sera, ceno in riva al lago nel ristorante a fianco della spiaggia di Kaneo, ammirando la chiesa sulla roccia e le acque del lago che si tingono di rosa al tramonto.

Venerdì 2 luglio: Ohrid – Pogradec – Korca

Nel boschetto intorno al monastero di Sveti Naum, la sorgente del Crn Drim forma un laghetto che il mattino, avvolto dalla bruma, sembra fatato. Per raggiungere il monastero volevo prendere un bus da Ohrid ma gli orari riportati su Internet erano sbagliati e così sono arrivato tardi. Ho ripiegato quindi su un taxi; la tariffa ufficiale sarebbe di 15 euro ma senza tassametro sono riuscito a spuntare 8 euro (all’andata il taxi non era ufficiale!). Il monastero sorge sul lago ed è meta di pellegrinaggi, anche se oggi sulla chiesetta incombe l’albergo moderno. Tutto intorno, i pavoni zampettano tranquilli. La chiesa di pietra e mattoni è dominata dai due tamburi ottagonali delle cupole. Mentre siedo affacciato sul lago, due donne, accompagnate da un uomo che suona un tamburo, compiono vari giri attorno alla chiesa tenendo un agnello per le zampe.

Il monastero sorge a due passi dal confine che raggiungo subito dall’uscita posteriore. Una corsa in taxi fino a Pogradec, un’ora in furgon e sono a Korca, non lontana dalla Grecia e circondata da montagne. La cattedrale ortodossa di San Giorgio è la chiesa più grande dell’Albania. E’ stata ricostruita dopo che l’edificio originale fu abbattuto durante il comunismo. Alle spalle della chiesa sorge un quartiere di case antiche che ospita anche un paio di musei, entrambi chiusi. Più in là si trova il museo medievale, sul sito della chiesa metropolitana fatta saltare in aria con la dinamite dai comunisti. Per visitare l’interessante collezione d’icone devo suonare il campanello e farmi aprire. S’inizia con il periodo bizantino, proseguendo con la scuola di Berat (XVI/XVII secolo) che ha in Onufri il rappresentante più apprezzato per finire con i fratelli Zografi della scuola di Korca (seconda metà del settecento) che assimilarono molti elementi della pittura occidentale. Ripresa la passeggiata, raggiungo il museo Bratho; ospita una collezione eterogenea raccolta da un albanese che fece fortuna in America, durante i suoi viaggi per il mondo come fotografo dell’esercito. Durante la visita si scatena un violento temporale.

Il pomeriggio lo dedico alla visita della chiesa dell’Ascensione, in un villaggio nei pressi di Korca. Una passeggiata in salita di mezzora mi porta a Mborja. Lungo la strada, supero lo stabilimento della birra Korca, popolarissima in Albania, e ho modo di vedere, questa volta da vicino, alcuni bunker diroccati. Alle pendici delle montagne, nel villaggio di Mborja, sorge Santa Maria, una chiesetta rustica che risale al XIV secolo. L’esterno tradisce l’edilizia popolare di pietra e travi di legno mentre il tetto è di ardesia. L’interno è una sorpresa meravigliosa per gli affreschi antichi. Nel piccolo nartece, la parete verso la chiesa contiene una curiosa rappresentazione del Giudizio Finale mentre nella chiesa vera e propria le pareti sono annerite e gli affreschi di difficile lettura. Alcuni sono racchiusi da tratteggi di gesso, in vista forse di un prossimo restauro, anche se tutto appare un po’ trascurato con le ragnatele tra le travi di legno. Alcune bambine mi fanno compagnia nella visita e sono tutte contente di essere fotografate. Questo gioiello nascosto può essere preso ad esempio delle potenzialità turistiche dell’Albania ma per ora siamo in pochi ad apprezzarlo!

Tornato a Korca, raggiungo il bazar. A quest’ora è deserto, trasformato in un pantano dalla pioggia. Come tutti i mercati che si rispettano, aveva il suo han, Han Elabasan, che oggi ospita un albergo. Nella corte, si aprivano le stalle al pianterreno e le camere nella galleria al primo piano. In mezzo, oltre al pozzo, c’è una grande quantità di sedie e tavoli ammucchiati. L’effetto è molto pittoresco ma certo poco invitante per un soggiorno nell’albergo. Poco lontano, la moschea Mirahor è una delle più antiche in Albania. Korca ebbe un ruolo fondamentale nel Rinascimento alla fine dell’ottocento. In città fu aperta la prima scuola in lingua albanese; oggi ospita un museo che purtroppo non riesco a visitare perché è sempre chiuso, nonostante il cartello con gli orari affisso alla porta. Nel cortile un monumento, con le lettere ABC e una grossa penna d’oca, ricorda che la scelta di un alfabeto per la lingua albanese, quello latino, fu un importante conquista d’inizio novecento.

Sabato 3 luglio: Korca – Voskopoje – Korca – Permeti

La mattina nel piazzale di fronte al bazar m’informo sul bus che dovrei prendere domani per raggiungere Gjirokastra, un “passaggio critico” dell’itinerario progettato. Mi spiegano che parte alle sei del mattino, come sapevo, ma, poiché è domenica, la corsa non è prevista! Chiedo in giro; un tizio mi dice che oggi alle 14:30 ci dovrebbe essere un furgon per Gjirokastra ma altri sostengono che i furgon sono solo per Tirana, Valona e Durazzo. Tornato in albergo, consulto le stampe fatte da Internet e scopro che alle 13:00 dovrebbe esserci un bus per Permeti, cittadina lungo la strada per Gjirokastra a tre quarti del percorso; sarebbe un’ottima soluzione. Ormai è chiaro che il pomeriggio mi conviene lasciare Korca, ma la decisione è rimandata a dopo la visita di Voskopoje. Il villaggio si trova a una trentina di chilometri da Korca, collegato con un furgon. Mi faccio indicare dove dovrebbe partire ma arrivato in zona non ce n’è traccia. Chiedo lumi in un bar e subito un tizio si offre di accompagnarmi. Ne approfitto, visto che devo sbrigarmi se voglio prendere un bus all’ora di pranzo, accordandomi per 1500 leke. L’autista si chiama Robert ed ha una gran voglia di chiacchierare, anche se conosce solo due parole in italiano e inglese. Questa regione dell’Albania al confine della Grecia è una delle poche in cui l’italiano non è così diffuso. Con la sua Mercedes saliamo tra le montagne che circondano Korca, arrivando a destinazione in mezzora. Voskopoje in passato è stata addirittura la città più popolosa dei Balcani con oltre venti chiese, ma ormai da secoli il momento di gloria è finito. Rimangono a ricordarlo alcune chiese sparse tra le case del paese moderno e nella campagna circostante. Utili cartelli segnaletici indicano come raggiungerle, ben più difficile è riuscire a farsele aprire. Per prima raggiungo San Nicola. La porta è chiusa con un lucchetto; m’indicano la casa accanto ma c’è solo una vecchietta che mi fa capire che qualcuno è andato a Korca. Non mi resta che ammirare dall’esterno l’esonartece (la galleria porticata) decorato da affreschi, il campanile e l’abside. Proseguo fino a San Michele, ormai in campagna. La grande costruzione in pietra rosata ha un tetto di ardesia mentre l’abside è decorata da colonnine. Un sentiero pieno di sassi e fango mi porta a un’altra chiesa, ridotta ormai a una rovina. Tornato a San Nicola, riprovo dalla vecchietta. Sembra convincersi: mi consegna un mazzo di chiavi e mi segue con grande lentezza. La chiesa è una basilica a tre navate, tutte affrescate; la centrale ha tre cupole, mentre le laterali sono coperte da volte a vela. Gli affreschi sono anneriti da un passato incendio, lasciando l’impressione che un restauro trasformerebbe la chiesa in una vera meraviglia.

Un secondo itinerario segnala varie chiese ma io mi fermo alla prima, Sant’Elia, un’altra basilica a tre navate con il tetto di ardesia. La chiesa è aperta ma l’interno tutto rovinato è spoglio con la “pietra viva” a vista. Tornato in paese, seguo le indicazioni per Sant’Anastasio. Prima però incrocio Santa Maria, una grande chiesa dal tetto di ardesia chiusa da un recinto con torre a loggette. La facciata, molto rovinata, ha due bifore. Proseguendo la passeggiata, su una collinetta ai margini del paese raggiungo Sant’Anastasio, circondata da un cimitero. La basilica è apprezzata per le pitture dei fratelli Zografi ma è chiusa e devo accontentarmi del ciclo dedicato all’Apocalisse nell’esonartece. Mi colpisce la rappresentazione di una città che crolla seppellendo le persone. Robert con la scusa dell’attesa vuole essere pagato di più: pretende 2500 leke ma ci accordiamo per 2000. Risolto l’aspetto economico, riprende a cazzeggiare, invitandomi anche a vedere la partita con lui questo pomeriggio. A Korca, un bus espone la destinazione Permeti. Un albanese che ha lavorato due anni in Italia mi conferma che parte alle 13:00, come avevo trovato su Internet; domani da Permeti potrò raggiungere facilmente Gjirokastra. Tornato in albergo, comunico la mia intenzione di anticipare la partenza senza che mi addebitino la seconda notte. Finalmente si parte. Il bus, lasciata la piana di Korca, comincia a salire lungo una strada che serpeggia tra distese erbose spelacchiate. Iniziamo la discesa piena di tornanti verso un’altra conca; il paesaggio si è fatto boscoso. Una signora vomita più volte nella busta di plastica in dotazione a ogni passeggero. Proseguiamo poi in una vallata; a sinistra la muraglia dei monti Gramoz segna il confine con la Grecia. Dopo le due siamo ad Erseka.; faccio mente locale come in giro si veda solo qualche chiesa e nessuna moschea, un po’ strano per un paese considerato islamico!

Riprendiamo a salire; la strada è stretta ma in buone condizioni. Superiamo il passo Barnash, a oltre 1700 metri di quota. Un ragazzo scende, scaricando monitor e computer comprati in città. Il paesaggio è spettacolare con montagne boscose e panorami mozzafiato. La strada attraversa fitte foreste di conifere; ci fermiamo a una fontana in mezzo a un bosco per fare rifornimento di acqua. Superata Leskovik, riprendiamo la discesa in un canyon roccioso. In basso, in una gola profonda e stretta, tra pareti verticali si scorgono le acque limacciose di un fiume che formano rapide e cascate. Dopo le quattro raggiungiamo la strada proveniente dal confine greco, girando nella direzione opposta. Abbiamo cambiato valle e direzione di marcia. Sulla sinistra i monti appaiono altissimi, anche perché siamo scesi tanto: uno scenario meraviglioso di piccole creste rocciose. Costeggiamo il fiume Vjosa. Alle cinque arriviamo finalmente a Permeti che si presenta molto piacevole, circondata da montagne. Mi sistemo nell’hotel Alvero, in un’ottima stanza con balcone e vista panoramica sul fiume. E’ la più economica del viaggio: costa solo dieci euro! Dal ponte sul Vjosa, si domina il fiume che scorre limaccioso tra le rocce. Dietro un’ansa si staglia la Rocca, una grande roccia isolata molto curiosa; di fianco il minareto di una moschea moderna, dietro una fila di belle montagne. In giro non si vede quasi nessuno, forse sono tutti assorti nella visione dei mondiali di calcio. La chiesa di San Nicola, imbiancata a calce, ha il tetto di ardesia e il “classico” esonartece porticato. Più tardi mi siedo nei giardini affacciati sul fiume. La statua di un partigiano ricorda il congresso di Permeti durante la seconda guerra mondiale, tappa fondamentale della storia comunista. Il paese si è animato. Gli anziani siedono sulle panchine godendosi il fresco; molti sgranano un rosario. Una vecchia scurissima ha la pelle grinzosa. Due bambini vivaci insistono per essere ritratti con la mia fotocamera digitale, per potersi rivedere.

Domenica 4 luglio: Permeti – Gjirokastra

Il bus “granturismo” per Gjirokastra parte puntuale alle sette. Finalmente è tornato il sole e le montagne intorno a Permeti sono rallegrate da una mattinata luminosa. Il mio vicino sgrana un rosario senza croce per cui immagino sia musulmano. Proseguiamo lungo la valle: le acque del Vjosa sono diventate verdi e le montagne addolcite. La vallata si allarga e dopo mezzora siamo a Kelcyra. Una striscia di nuvole isolate sembra un batuffolo di cotone imprigionato tra i monti. Subito dopo la valle torna a stringersi con il fiume che scorre proprio sotto la strada. Dalle pendici boscose spuntano in alto le pareti rocciose. Alle otto la strada confluisce nella statale proveniente da Tirana; cambiamo fiume risalendo la valle del Drinos e dopo mezzora siamo già arrivati a destinazione. Il bus non si addentra nella città vecchia e per raggiungere l’albergo devo prendere un taxi.

Gjirokastra è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, le sue abitazioni sono protette dai tempi del comunismo. Arrivando dalla città bassa il colpo d’occhio è indimenticabile, con le case bianche dai tetti d’ardesia addossate le une alle altre. Dall’Italia ho prenotato una notte nell’hotel Kalemi, ospitato in una casa tradizionale; mi sistemo in una camera dal bel soffitto di legno. Salgo poi fino alla casa Zekate, veramente magnifica, costruita all’inizio dell’ottocento come la maggior parte delle case tradizionali. Ha l’aspetto di una fortezza, con due alte torri collegate da un corpo centrale. La parte bassa è in pietra mentre l’ultimo piano è intonacato a calce, coperto da un tetto di ardesia sorretto da travi di legno. Questa tipologia di casa torre fortificata, kulle, apparteneva sicuramente a ricche famiglie. Il pianoterra era utilizzato come magazzino mentre il primo era destinato alla vita di tutti i giorni. Al secondo piano, a fianco delle camere nelle due torri, ci sono i bagni con un buco nel pavimento. L’ultimo piano era destinato ad accogliere gli ospiti: la stanza nella torre di destra è molto bella, con affreschi sulle pareti, soffitto di legno e caminetto. Tutto intorno, sotto le finestre che danno luce all’ambiente, sono disposti bassi divani. Termino la visita raggiungendo la terrazza, dalla quale la vista spazia su tutta la città. All’uscita restituisco la chiave alla vecchietta che me la aveva consegnata, senza poi preoccuparsi di seguirmi nella visita. Proseguendo la passeggiata, esploro i quartieri di Palorto e Varosh. Molte case cadano in rovina e tra le abitazioni tipiche comincia a spuntare qualche edificio moderno. L’effetto è decadente e suggestivo ma necessita sicuramente di un’intensa opera di restauro. Lo scrittore Ismail Kadare ha donato la sua casa alla città ma i lavori di restauro sembrano fermi, a simboleggiare un po’ la situazione di tutta Gjirokastra. Non si può comunque non rimanere affascinati dall’incanto della “Città di Pietra” teatro del romanzo di Kadare, un susseguirsi di stradine acciottolate e gradini che le hanno fatto meritare l’appellativo di città dei mille gradini.

Il museo etnografico è ospitato in quella che fu la casa di Enver Hoxa, anche se l’edificio è stato ricostruito nel 1966 dopo un incendio. La casa ha quattro piani ma la visita si limita ai primi due. La sala degli ospiti è una delle più belle: luminosa per le tante finestre, ha divani bassi lungo le pareti e il soffitto di legno lavorato. A pranzo al ristorante “Kujtimi” incontro Giovanni, un romano in viaggio attraverso i Balcani. E’ laureato in fisica e ha fatto il dottorato come me ma le coincidenze non sono finite: l’anno scorso è stato anche lui in Azerbaigian, percorrendo il mio stesso trekking a Xinaliq.

La cittadella di Gjirokastra incombe sulla città come una presenza minacciosa. Sulle pendici della collina di fianco alla fortezza, nel quartiere di Partizani, spuntano tra il verde alcune magnifiche case torre, tutte risistemate. Raggiunta la fortezza, appena entrato, mi godo il fresco in una grande galleria. Sotto gli archi sono allineati armamenti sottratti a italiani e tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Ironicamente un cartello ricorda che i pezzi italiani erano per lo più riparazioni di guerra fornite dagli austriaci dopo la prima guerra mondiale. In fondo c’è persino un piccolo carro armato FIAT. Nel museo degli armamenti sono conservate armi e foto della guerra partigiana ma l’elemento più interessante sono le statue della retorica comunista: una partigiana schiaccia due piccoli ometti, un prete e un soldato. Si passa poi alle prigioni, con le celle allineate lungo un corridoio. Il vento fa sbattere le grate, un rumore inquietante in un luogo sinistro. Alcune scritte recano gli anni della guerra ma appaiono un po’ sospette perché la trasformazione in museo risale all’epoca comunista, dopo che la prigione aveva continuato a funzionare anche sotto il regime. Uscito all’aperto, mi trovo sui bastioni. Il panorama spazia sulla valle del Drinos e sulla città dominata dal grigio dei tetti di ardesia. Mi torna alla mente l’immagine della città senza i suoi abitanti, sfollati per la guerra, descritta da Kadare come un carapace privo di vita. La parte più bassa colpisce per l’uniformità dei colori, il bianco delle pareti intonacate e il grigio dei tetti. Le case risalgono verso le colline, dove le più belle, con la caratteristica struttura a due torri, sono avvolte dal verde. Sui bastioni ancora oggi si trova la carcassa di un aereo americano che i comunisti sostenevano di avere abbattuto nel 1957. Davanti a un ristorante, sopra una collinetta, scorgo un piazzale circolare usato come parcheggio. Dall’alto sembrerebbe una pista di atterraggio per elicotteri ma un cartello spiega tutto: vi sorgeva la grande statua di Enver Hoxa. Re, fascisti, comunisti, americani, tutto è passato ma il carapace è ancora al suo posto. La pietra è più forte della carne che contiene! In fondo alla fortezza, una grande spianata è utilizzata per il festival folcloristico che si tiene ogni quattro anni; il palcoscenico è al suo posto. La torre con l’orologio chiude la cittadella ma l’ingresso sottostante è sbarrato e devo quindi tornare per la strada da cui sono venuto. Sceso dalla fortezza, siedo a un bar; mi fa compagnia Shkelqim. Ha solo cinquantasette anni ma in bocca gli è rimasto un unico dente; è disoccupato nonostante parli perfettamente italiano, oltre a inglese e russo. Nel mondo del turismo gli preferiscono i giovani. Gli chiedo se la situazione è migliore ora oppure com’era al tempo del comunismo; mi risponde sinceramente che una volta il lavoro era garantito ma se ti azzardavi a parlare con uno straniero, ti mandavano la polizia segreta a casa. Ci vorrebbe un equilibrio – ribatto – ma lui mi dice che l’equilibrio è impossibile!

Lunedì 5 luglio: Gjirokastra – Saranda – Butrint – Saranda

Alle otto parto con il bus per Saranda. I trasporti pubblici in Albania si stanno dimostrando molto affidabili: in particolare i bus hanno orari fissi, diversamente dai furgon che però sono più veloci. Proseguiamo nell’ampia valle del Drinos con frequenti fermate per raccogliere passeggeri. Dopo mezzora lasciamo la statale che continua verso il confine greco, piegando a destra e iniziando a salire in un paesaggio brullo di sassi ed erba spelacchiata. L’autobus arranca lento. Alle nove raggiungiamo la deviazione per la Sorgente dell’Occhio Blu. Il paesaggio è cambiato: prima attraversiamo un bosco fitto, poi costeggiamo le acque cristalline di un ruscello. Da Mesopotam la strada spiana e l’opera dell’uomo prende il sopravvento. Arrivato a Saranda e preso possesso della stanza all’hotel Kaonia sul lungomare, riesco a prendere al volo un autobus per Butrint. La strada è la peggiore del viaggio, ridotta in uno stato pietoso per i lavori in corso. Il parabrezza del bus, sfondato su un lato, si regge con grandi pezzi di nastro adesivo. Costeggiamo dall’alto la piacevole laguna di Butrint. In un attimo cambiamo versante e appare il mare, azzurro e turchese, con l’isola greca di Corfù. A Ksamil, come a Saranda, molti edifici sono stati lasciati a metà, con il solo scheletro dei piloni, che spesso cade già a pezzi. Uno giace tutto piegato su un lato, altri sono crollati come castelli di carte. Sembra di vedere una città dopo un bombardamento. L’accesso al sito archeologico di Butrint, patrimonio dell’umanità, è salato: 700 leke. Davanti si trova il canale Vivar che collega la laguna con il mare. Per passare dall’altro lato, sorvegliato da una bassa fortezza, c’è a disposizione una chiatta. Appena entrato nel sito, una torre costruita dai veneziani veglia su questo lato del canale. Si raggiunge poi il teatro; l’alzarsi del livello freatico ha sommerso l’orchestra. C’è un grande silenzio rotto solo dal canto dei grilli. Il teatro faceva parte del complesso recintato del santuario di Esculapio, al quale in epoca romana furono aggiunte persino le terme. Utilizzato inizialmente per le cerimonie religiose, con lo sviluppo della città divenne il teatro cittadino. La statua della Dea di Butrint, conservata nel museo di Tirana, è stata trovata proprio qui. Addossate alla collina due curiosità: una parete affrescata che pare sospesa nel vuoto, unico resto di una chiesa bizantina, e un pozzo con una lastra che reca i segni lasciati dalle corde. La visita del sito prosegue attraverso un percorso circolare ombreggiato da alberi eccetto che negli spazi dei monumenti, incocciati al sole. Il Ginnasio probabilmente era dedicato a un culto pagano ma poi fu trasformato in chiesa. I suoi mosaici, come tutti gli altri presenti a Butrint, sono coperti per garantirne la conservazione impedendone così la vista. Il Battistero risale al VI secolo; presenta un magnifico pavimento musivo colorato, purtroppo coperto. Per ammirarlo non mi resta che acquistare una cartolina al museo. Lasciato il battistero con l’amaro in bocca, raggiungo il ninfeo, un tempo alimentato dall’acquedotto costruito dai romani attraverso il canale Vivar. Di fianco un’imponente basilica del VI secolo; le tre navate hanno perso il tetto ma le pareti con grandi archi e finestre, ancora in piedi, formano una visione pittoresca. Una signora che sta lavorando a opere di restauro, mi segnala in un angolo un frammento di mosaico geometrico colorato; l’unico visibile in tutta Butrint, magra consolazione! Proseguo la visita costeggiando le imponenti mura megalitiche della città, fino alla stretta porta Scea che si apre sul lago. Virgilio racconta come Enea arrivato a Butrinto incontrò Eleno, figlio di Priamo, e Andromaca, vedova di Ettore, fondatori della città che avevano creato come una piccola Troia; per questo gli archeologi hanno assegnato il nome porta Scea, in memoria della mitica porta di Troia. Nella Porta del Leone è inserito come architrave un grande blocco con il bassorilievo di un leone che azzanna la testa di un toro. Il sentiero prosegue salendo sulla collina, dove un tempo si trovava l’acropoli. Oggi in cima sorge il museo, ospitato in un edificio costruito negli anni trenta dagli archeologi italiani nella forma dell’originaria fortezza veneziana. Dall’alto si apprezza la particolare conformazione di Butrint. Il canale Vivar all’imbocco sul mare è sorvegliato dal castello di Ali Pasha; più vicino sul canale la fortezza triangolare e la torre, poi la grande laguna che forma una rientranza separata dal canale solo da un istmo che fa sembrare Butrint un’isola. Verso il mare, sullo sfondo, l’isola di Corfù. Le parole di Cicerone in una lettera ad Attico appaiono ancora oggi appropriate: “Lasciami dire che Butrinto per Corcira (Corfù) è ciò che Anzio è per Roma, il più tranquillo, piacevole luogo del mondo”. Butrint è veramente un sito incantevole, collocato in una collina boscosa in mezzo alla laguna. Investendo un po’ di soldi per rendere fruibili i suoi mosaici diventerebbe un vero gioiello! Terminata la visita, devo riprendere il bus per tornare a Saranda. Mentre aspetto, la chiatta fa avanti e indietro trascinata dal cavo d’acciaio per portare i veicoli da un lato all’altro. Non mi azzardo a tentare la traversata per paura di perdere il bus. Il pomeriggio per visitare la sorgente dell’Occhio Blu, a una ventina di chilometri da Saranda, l’unica soluzione è un taxi. Al posteggio chiedo al primo della fila che mi spara 2500 leke. Cerco di fargli abbassare il prezzo, scrivendo su un foglietto, ma tiene duro. Interviene un altro tassista che parla italiano. Insisto per 2000 leke e allora il secondo tassista mi dice “ti porto io”. Salito a bordo però mi chiede 20 euro che corrispondono a più di 2500 leke! E’ un gran furbacchione e alla fine mi concede la grazia di uno sconto di cento leke: pagherò 2400 leke. Il tassista si chiama Marco come me e parla un po’ tutte le lingue, persino il giapponese, quanto basta per spillare soldi ai turisti! Durante il tragitto mi propone più volte, con un fare viscido, di portarmi domani fino a Berat. Con la sua fissazione per le lingue a volte è anche divertente: tira fuori un quaderno, dove ha segnato frasi in tutte le lingue. Arrivati a destinazione, senza pagare la tassa-biglietto alla polizia, grazie all’intervento del tassista – secondo lui – raggiungo un ristorante; i tavoli, collocati sotto grandi alberi, sono circondati dalle acque che scorrono rumoreggiando. A poche decine di metri si trova l’Occhio Blu: si tratta di una sorgente che scaturisce da grande profondità, esplorata solo fino a cinquanta metri. La colorazione celeste e azzurra ricorda proprio l’iride di un occhio. Tornando verso Saranda, vicino il paesino di Mesopotan, raggiungiamo l’antica chiesa di San Nicola. Le sue mura sembrano avere molto da raccontare con finestre e porte tamponate, la parte bassa in pietra e quella superiore in mattoni. Nella parte absidale sono inseriti dei blocchi, riciclati dalla città di Phoinike; sono decorati con un’aquila, un leone, un drago e una strana creatura che sembra strangolarsi con la sua stessa coda. L’interno è chiuso, per restauri sostiene il tassista. Lungo la strada del ritorno, Marco non demorde: insiste per portarmi al castello che domina Saranda. Gli chiedo se l’escursione è senza sovraprezzo, visto quanto mi ha già chiesto, ma lui ribatte che vorrebbe 3000 leke in tutto! Alla fine per scoraggiarlo gli dico che sono stanco per il caldo e voglio fare un bagno in mare. A Saranda la spiaggia cittadina che corre sotto il lungomare è stretta ma comodissima per un tuffo: basta attraversare la strada davanti all’albergo. La sera su consiglio del cameriere, ordino la specialità del giorno, pesce con qualche salsa, senza conoscerne il prezzo. Alla fine spendo 1600 leke, di gran lunga la cena più costosa del viaggio.

Martedì 6 luglio: Saranda – Himara

Per raggiungere la meta giornaliera, sfrutto il bus diretto a Tirana che transita per Himara; parte alle cinque e mezzo, costringendomi a una levataccia. Lasciata Saranda, la strada in buone condizioni segue il versante interno della catena costiera, coperto di ulivi. Dopo mezzora riappare il mare con la lunga striscia di Corfù. La costa è bellissima, con montagne verdeggianti che arrivano al mare. La strada prosegue panoramica. La visuale è chiusa da Baia Palermo, già illuminata dalla luce diretta del sole. A nord di Corfù nello Ionio altre tre isolette greche; in basso una spianata termina con una lunga spiaggia. Alle sei e mezzo facciamo una sosta a Borshi; cominciò a capire perché la distanza tra Saranda e Himara, cinquanta chilometri, sarà coperta in due ore! Anche in questa zona, tra tante bellezze naturalistiche, i paesi invece sono brutti. Il sole salendo in cielo esalta la distesa di ulivi nella piana di Qeparo. Sulla spiaggia spiccano alcuni bunker. Nella baia Palermo, chiusa a semicerchio da monti erbosi, al centro su un isolotto scorgo il castello di Ali Pasha. Lo spettacolo è fantastico e ricorda i paesaggi delle isole Kornati in Croazia per l’assenza di vegetazione.

Alle sette e mezzo sono a Himara. Mi siedo in un bar sul lungomare per un caffè. La stretta spiaggia a quest’ora è ancora deserta; l’acqua appare cristallina. Ho prenotato, tramite Edialtour, una camera all’hotel Panorama. Non ce ne era assolutamente bisogno perché il lungomare è pieno di alberghi e Himara appare molto meno turistica di Saranda. Avevo immaginato l’hotel Panorama come un grande albergo sul mare, invece il tassista dalla statale prende una sterrata che sale verso l’interno. L’albergo si trova nel nulla più totale, lontano dal mare, anche se la vista sulla baia è bella. In compenso mi danno subito la stanza nonostante siano le otto del mattino. Si tratta della sistemazione più costosa del viaggio ma lo sciacquone non funziona!

Per il proseguimento della giornata vorrei visitare Baia Palermo e Qeparo, ma non ho voglia di combattere con un altro tassista. Considerando che Baia Palermo dista una decina di chilometri da Himara, decido di fare l’escursione a piedi. La scelta si rivela indovinata: dalla strada mi godrò, con tutta calma, panorami indimenticabili. Alle otto e mezzo, lasciato l’albergo, incomincio la lunga passeggiata circondato dagli ulivi. Dopo mezzora dall’alto posso ammirare la spiaggia di Lamana, attrezzata con ombrelloni, una macchia bianca contro il turchese del mare. Scomparsi gli alberi, le rocce del promontorio sono coperte solo d’erba. Il paesaggio è fantastico! Subito dopo, appare Baia Palermo; al centro il castello, su un “isolotto” collegato alla costa da una striscia sottile. Regna il silenzio, rotto solo dal canto di grilli e cicale; pochissime le auto. Con la luce piena del sole il mare ha assunto colorazioni da Caraibi. Una galleria in cemento ricavata nella montagna mi lascia pensare a qualcosa di militare (scoprirò in seguito che si tratta di una base di sottomarini sovietici risalente agli anni cinquanta). Raggiunto il bar davanti all’isolotto, mi ristoro prima della visita. Il castello fu costruito da Ali Pasha Tepelena nell’ottocento. L’interno della fortezza presenta un grande ambiente a volta e altri più piccoli, tutti molto bui. Dai bastioni superiori si gode la vista su tutta la baia.

Ripresa la marcia lungo la costiera e superata baia Palermo, si apre una visuale molto più ampia con la lunga striscia della spiaggia di Qeparo, la distesa sterminata degli ulivi e le montagne a fare da cornice. Su un cucuzzolo si scorge arroccato Amp Qiparo (Qeparo Alta). Avvicinandomi, noto i bunker sulla spiaggia e poi quelli piazzati in mezzo agli ulivi. A Qeparo bassa faccio la spesa per il pranzo; un gruppo di vecchi gioca a carte all’ombra di un albero, discutendo animatamente. Nonostante il caldo e l’orario sfavorevole, manca poco all’una, decido di iniziare l’ascesa verso Qeparo Alta. Il sole picchia forte e la salita è erta, piena di tornanti. Una vera faticaccia che alla fine mi costringe ad aprire l’ombrello per ripararmi dal sole. La vista in compenso è eccezionale: il mare, gli ulivi in basso (come a Delfi in Grecia) e il paesino con le case di pietra che si avvicina, ma sembra non arrivare mai. Dopo quaranta minuti di arrancata, raggiungo Ano Qeparo; la sua popolazione greca ha dato i natali persino a un direttore della CIA. Il paese, formato da case di pietra, è un villaggio fantasma. In giro non c’è anima viva; molte case sono diroccate, altre chiuse con catenacci. Solo poche sembrano abitate; tutto cade a pezzi. Giro per i viottoli senza riuscire a raggiungere la chiesa, della quale salendo avevo scorto il campanile. Sono le ore calde e i pochi abitanti se ne staranno rintanati dentro casa; improvvisamente sento un vociare e dietro un portone scorgo quattro vecchie sedute per terra all’ombra. Un’asina si è rintanata con il cucciolo dietro un’auto per sfuggire al caldo. Sulla statale, per tornare a Himara prendo bus di passaggio diretto a Tirana. Dalla segnaletica stradale capisco che la distanza tra Qeparo e Himara è di quindici chilometri: ho fatto una bella scarpinata!

A Himara mi riposo in spiaggia, naturalmente all’ombra dopo tanto sole. Fatto il bagno, sono di nuovo vittima dalla “frenesia dell’esploratore” e vorrei visitare Castro Himara; dopo la brutta esperienza di ieri con il tassista sono ancora sotto “choc”. La Lonely Planet segnala che il “castello” si trova lungo la statale e così decido di fare un’altra scarpinata in salita, questa volta verso nord. Arrivato a destinazione, scopro che non si tratta di un castello ma del paese antico costruito in alto e non sulla costa (come per Ano Qeparo). L’ingresso al paese effettivamente è sulla statale, con i vecchi seduti al bar che giocano a carte e le auto parcheggiate. Tutto sembrerebbe normale ma in realtà il paese cade a pezzi. A differenza di Qeparo, Castro però è molto più popolato. La sua popolazione greca deve essere espatriata in massa e le case di pietra come anche i viottoli non hanno retto all’incuria. Oggi però sembra che qualcuno stia tornando: la grande cattedrale è stata risistemata come le case più vicine alla statale. Forse però i soldi sono finiti troppo presto perché le stradine sono trasformate in trincee con passerelle per accedere alle case a causa dei lavori lasciati a metà. Quando poi ci si addentra nel paese, si scopre come molte case siano diroccate. Attorno alla chiesa bizantina sulla punta sembra esserci stato un bombardamento. Himara deriva da Chimera, il mitico animale; la città fu fondata dai Caoni e un muro con massi megalitici tradisce le sue antiche origini (si parla del 2000 a.C.). Speriamo che non vada tutto perduto!

Mercoledì 7 luglio: Himara – passo Llogarja – Valona

La mattina, prendo al volo l’autobus Himara – Valona. Superato Castro Himara, la strada corre all’interno tra colline boscose. Dopo venti minuti ricompare il mare ma lontano, dietro la massa verde degli ulivi. Raggiungiamo il bivio per la spiaggia di Dhermi, considerata la più bella dell’Albania. Attraversati alcuni paesi tutti alti sulla costa, iniziamo una ripida salita; dopo pochi tornanti la vista è già mozzafiato. La tavolozza dei colori è ricca: il blu del mare, la macchia chiara della spiaggia, il verde degli ulivi, il verde lucente dei prati nei pendii montani, il serpente scuro della strada, evanescente nel mare Corfù. Al passo di Llogarja,dopo una curva tutto cambia repentinamente: il mare scompare e siamo in montagna in mezzo a un fitto bosco. Iniziata la discesa, comincio a preoccuparmi che l’autista si sia dimenticato della mia richiesta di scendere al passo ma vedendomi agitato, tutti mi fanno capire che “Llogarja” è più avanti. In realtà nella mentalità locale mi lasciano davanti a un gruppo di ristoranti, più in basso. La temperatura è scesa di molti gradi. Sono ancora le otto del mattino quando faccio colazione al ristorante “Bego” con una zuppa di carne! Il ragazzo che mi serve ha lavorato otto anni a Ciampino in Italia. Chiedo consiglio su qualche passeggiata ma mi segnala solo la strada. Chiacchieriamo un po’ dei nostri paesi, del passato e del presente. Sono ancora in un’area greca e la gente si saluta con kalimera. Lasciato lo zaino al ristorante, inizio a risalire la statale verso il passo, attraverso una foresta di pini e abeti. Dopo un’oretta raggiungo il pino-bandiera, proclamato monumento nazionale: si tratta di un pino con i rami curiosamente allungati su un lato come una bandiera al vento. Mi siedo ai suoi piedi in compagnia del canto degli uccelli. Raggiunto il passo, a quota 1027 metri,ammiro il panorama dai tavolini del ristorante. Il contrasto tra il pendio verso il mare privo di vegetazione e l’altro coperto di alberi è stridente. Lontana si scorge Corfù; s’intravede un tratto di spiaggia bianca con l’acqua turchese. Una nave solitaria sembra scivolare sul mare mentre un bus arranca lungo la serpentina della strada. La riviera albanese è proprio magnifica, piena di spunti interessanti oltre che con un mare stupendo! Proseguo per un altro tratto fino a una curva, dove la visuale si apre sulla costa verso sud. Lo strapiombo con la strada piena di tornanti dà le vertigini. La spiaggia bianca di Dhermi appare in tutta la sua meraviglia con l’orlo cobalto del mare che sfuma nel blu intenso subito al largo. Incorniciano il tutto, montagne rocciose in alto e coperte di vegetazione più in basso. Le auto sembrano formiche in fila sulla strada. L’opera dell’uomo questa volta completa la natura. Con il binocolo scruto in basso, fino agli ombrelloni sulla spiaggia. Tale è lo strapiombo che mi sembra di poter toccare con le mani le case dei paesi, laggiù in basso. Ripresa la strada del ritorno, a mezzogiorno sono di nuovo al ristorante, dove ordino un “agnello al bastone” e patate al forno. La porzione è la stessa con la quale mia mamma sfama tutta la famiglia a Pasqua, ma questa volta è solo per me!

L’”albanese di Ciampino” mi procura un passaggio per Valona con tre suoi clienti, padre e due figli. Accetto volentieri: mi sistemo davanti nella Mercedes. Non sono molto loquaci e quando si fermano per fare benzina, lui tira fuori una scatola piena di soldi! Arrivati a Valona, vuole essere pagato: gli mostro 200 leke ma dice che sono pochi e mi tocca dargliene 500 poiché non ho altri tagli. Il viaggio è durato un’oretta; dopo la discesa abbiamo raggiunto la baia di Valona, chiusa dalla penisola Karaburuni. Dallo Ionio siamo passati all’Adriatico; lungo la strada è stata tutta una successione di lidi. La spiaggia a sud di Valona era un vero carnaio.

Raggiunto l’albergo, inizio l’esplorazione della città. Il grande viale, che dal porto conduce a piazza della Bandiera, nella prima parte è fiancheggiato da alti edifici, costruiti solo da qualche anno. Molti ospitano banche italiane. Le palme conferiscono alla strada un aspetto mediterraneo (o californiano!). Nel tratto successivo si ritrovano i miseri palazzi dell’era comunista, con il piano terra occupato da negozi. Unico monumento rilevante è la moschea Murad, un piccolo edificio ottomano, bicolore per l’alternarsi di mattoni e pietre. A Valona nel 1912 fu proclamata l’indipendenza dell’Albania; un grande monumento nello stile realista socialista ricorda quell’evento. Un portabandiera sopra una roccia solleva il vessillo mentre sotto gli fanno contorno popolani armati di mitra e personaggi legati all’avvenimento, tra cui il protagonista Ismail Qemali sepolto nel parco subito dietro. Tornato al porto, visito il museo dell’indipendenza, ospitato nella casa dove si riuniva il primo governo albanese. E’ un piccolo edificio a due piani; un signore mi accompagna illustrandomi le varie stanze che espongono foto e cimeli dell’epoca. Al primo piano si conservano il gabinetto del primo ministro, Ismail Qemali, e la stanza nella quale si riuniva il governo (mi chiedo come facessero a entrarci tutti i ministri, oggi ricordati nelle foto alla parete). Il governo comprendeva esponenti di tutte le fedi professate in Albania: cattolica, ortodossa e musulmana. L’ultima stanza è dedicata al problema della definizione dei confini: la delegazione albanese alla conferenza di Londra del 1913 propose un Grande Albania (con Kosovo, Montenegro del Sud, parte dell’Epiro e della Macedonia) mentre gli stati vicini volevano una Piccola Albania. Si giunse a un compromesso che corrisponde agli attuali confini. Una foto mostra gli albanesi impiccati dai serbi nella regione di Kukes; un’altra le feste per la liberazione di Scutari dai montenegrini. Insomma furono anni sanguinosi che lasciarono irrisolti tanti problemi!

La sera, sul lungomare lo struscio è accompagnato da una lunga fila di macchine. Ceno con un’ottima pizza cotta in un forno a legna, birra Moretti e maxischermo per la semifinale dei mondiali. Sembra proprio di essere in Italia!

Giovedì 8 luglio: Valona – Fier (Apollonia e Ardenica) – Berat

Alle otto parto con il bus per Tirana alla volta di Fier. Il percorso monotono attraversa alcuni paesi popolosi. Incrocio le prime fabbriche del viaggio e persino una ferrovia a binario unico. Dopo un’ora dalla partenza arrivato a destinazione, scendo a una rotatoria. Subito mi aggancia Ilias; gli dico che vorrei visitare Ardenica e Apollonia e iniziamo la trattativa sul prezzo, scrivendo le cifre su un foglietto. Per ora ci accordiamo per 2500 leke. Per primo raggiungiamo il monastero di Ardenica, tutto racchiuso da mura. Si entra in una corte; al centro la chiesa, intorno le celle dei monaci, alle quali si accede da un porticato di legno al primo piano sopra archi di pietra. La chiesa è un lungo edificio di pietra gialla con un portico ad archi molto aggraziato; il campanile invece, ricostruito nel novecento, è intonacato a calce e con il suo bianco contrasta con la leggiadria delle altre architetture. In giro c’è solo il guardiano ma i panni stesi e qualche voce nella parte non visitabile fanno intuire la presenza dei monaci. Il luogo, una collina sopra la pianura, trasmette grande serenità. L’interno della chiesa, una sala rettangolare, presenta un pulpito e un trono episcopale di legno, tutto intagliato, quasi barocco, oltre a una ricca iconostasi dorata. Gli affreschi, opera dei fratelli Zografi, sono molto belli ed espressivi.

Terminata la visita, sorge una nuova discussione sul prezzo. Il giro prevede due escursioni da Fier: Fier – Ardenica – Fier e Fier – Apollonia – Fier. Ilias vorrebbe 2000 leke per ciascuno dei due percorsi. Gli offro invece 3000 leke in tutto e sembra andargli bene. Non è un tassista ufficiale e deve “accontentarsi” (anche a me va bene poiché sulla guida è riportato un costo di 2500 leke per la sola gita ad Apollonia). Sulla strada verso Fier rimaniamo senza benzina ma Ilias è pieno di risorse: ferma una macchina di passaggio e si fa trainare fino al benzinaio. E’ un tipo caciarone ed esuberante, molto più simpatico dei tassisti ufficiali. Nel sito archeologico di Apollonia, i due edifici più importanti sono uno di fronte all’altro: il Boleuterio e il teatro. Il primo si presenta come un tempio del quale è stata rialzata la facciata con le colonne, l’architrave e il timpano. Il teatro racchiuso tra mura di mattoni è addossato alla collina. Di lato si trova la stoà, la passeggiata coperta, ma sono sopravissute solo le nicchie a grossi blocchi e le basi delle colonne. Nell’acropoli è rimasto ben poco: il lastricato della strada d’accesso e parte del muro di contenimento. Tornato al teatro, sul lato opposto alla stoà, una porta con arco ogivale si apre nel muro di grossi blocchi di pietra. Prima di lasciare il sito, riguardo il cartello con la piantina: sono segnati altri edifici ma l’assenza d’indicazioni mi ha impedito di trovarli. Di fianco al sito archeologico si trova l’antico monastero con la chiesa dedicata a Maria da una piccola comunità di cristiani nel XIII secolo. Oggi ospita una serie di statue e reperti trovati negli scavi. La grande corte è racchiusa dall’edificio a due piani in pietra, un tempo residenza dei monaci. La chiesa ha un portico con colonne; i capitelli presentano bassorilievi di animali con i volti umani.

Tornati a Fier scorgiamo un posto di blocco della polizia. Ilias sembra preoccupato: accosta prima, si fa pagare i 3000 leke e m’istruisce di dire alla polizia “friends no leke!”. In realtà passiamo indenni senza essere fermati. Scampato il pericolo, vorrebbe farsi una birra con il suo grande amico ma riesco a tenerlo a freno e convincerlo a potarmi al bus per Berat. Mi conduce alla rotatoria dove ci siamo incontrati; vorrebbe altri soldi per la benzina ma io scendo veloce e subito individuo un furgon per Berat. Saluto caloroso con Ilias e partenza. Durante il tragitto attraversiamo una pianura densamente popolata. Faccio quattro chiacchiere con un passeggero, un ragazzo che è stato in Italia per un paio di mesi durante il militare. Parla bene italiano, lavora nel ramo costruzioni a Valona e il lavoro non gli manca. Gli chiedo come mai in Albania tante case siano state costruite solo a metà; mi risponde che per loro è naturale finiti i soldi interrompere i lavori, magari tornare in Italia per tirare su un altro gruzzoletto e riprendere la costruzione in un secondo tempo. Mi racconta che a Fier metà della popolazione proviene dal Kosovo, fuggita durante le persecuzioni serbe. Nel frattempo avvicinandoci a Berat compaiono le prime colline, con i monti sullo sfondo.

A Berat mi sistemo nell’Hotel Mangalemi, ospitato in una bella casa tradizionale. Inizio l’esplorazione dalla città bassa, con il quartiere di Mangalemi. Nella piazza dietro la stazione dei bus, convivono cristiani e musulmani. La nuova chiesa ortodossa si staglia con la cupola e i due campanili dai tetti di tegole sullo sfondo delle montagne; la moschea del Piombo, così chiamata per la copertura delle sue cupole, è un edificio ottomano, rigorosamente chiuso da un lucchetto. Raggiungo poi la moschea del Re, una delle più antiche dell’Albania, con un profondo portico intonacato a calce dal tetto di legno. Alle cinque è l’ora della preghiera: arriva l’imam apre la moschea e ne approfitto anch’io per entrare (non sono molto “rigidi”). L’interno è interessante, con un bel soffitto di legno a motivi geometrici colorati mentre il mihrab ha decorazioni di legno quasi barocche. La galleria delle donne è magnifica: molto profonda, tutta in legno lavorato e dipinto. Entra un fedele che mi spiega come l’Islam sia la religione “definitiva” e mi consegna un libretto per cercare di convertirmi. L’imam nel frattempo inizia le preghiere invocando Allah inginocchiato nel mihrab; dietro di lui due adulti e due bambini si profondono in inchini.

La piazzetta dietro la moschea è incantevole, il cuore della Berat turca. Il teke sufi ha un portico ad archi che sembra tratto dal Rinascimento italiano mentre un lungo edificio a due piani con galleria di legno un tempo era la residenza dei dervisci. Nel frattempo l’imam ha terminato la preghiera, chiude la moschea e se ne va.

Lungo il fiume raggiungo la terza moschea, intitolata agli scapoli, costruita nell’ottocento; sotto il tetto sporgente di tegole presenta decorazioni dipinte a motivi floreali mentre il loggiato al piano terra oggi è occupato da negozi. Un moderno ponte pedonale consente, scavalcato il fiume, di raggiungere il quartiere di Gorica, rimasto cristiano anche durante la dominazione turca. Dal ponte la vista spazia sui monti che circondano Berat tra cui svetta il Tomorri alto più di 2000 metri. Dopo la visita alla piccola chiesa di San Thoma, passeggio attraverso il quartiere: le case hanno facciate intonacate a calce e tetti di tegole scure. Raggiungo Santo Spiridion, una basilica di pietra preceduta da una galleria ad archi, il solito esonartece. L’interno a tre navate appare frutto di recenti restauri. Dal ponte di Gorica si gode la vista completa del quartiere con le case bianche che sfumano in alto nel verde degli alberi sulla collina. Sull’altro lato del fiume, la collina del castello è già in ombra con la chiesa di San Michele abbarbicata sulla roccia. La sera mentre ceno in albergo mi viene naturale fare un raffronto tra Berat e Gjirokastra. Le case di Gjirokastra sono più monumentali, delle vere fortezze, ma in molti casi cadono a pezzi. A Berat tutto sembra più curato con la cornice naturale delle montagne, senz’altro superiore. Grazie poi allo status di città museo, a Berat sono sopravissute al comunismo molte chiese e moschee, distrutte invece a Gjirokastra. La città del sud è più “dura”, concede poco ma affascina molto; Berat invece indulge nella grazia. Insomma due gioielli dell’Albania!

Venerdì 9 luglio: Berat

Il mattino il sole illumina le bianche case di Mangalemi, addossate alla collina del castello. Le facciate piene di finestre hanno fatto meritare a Berat l’appellativo di città delle mille finestre. Abbarbicata sulla roccia, sotto i bastioni del castello, ma raggiungibile solo dal basso, si trova San Michele, una chiesetta del XIV secolo. Le pareti di pietra e mattoni sono sormontate dall’ottagono della cupola. Naturalmente è chiusa; proseguo quindi passeggiando per le stradine di Mangalemi, vicoletti acciottolati spesso ombreggiati da tralci di vite che rendono meno faticose le continue scale, salite e discese. Le case hanno il piano terra di pietra senza finestre, mentre sopra aggettano i piani intonacati a calce. Sono molte belle, superiori a quelle di Gorica, e in buono stato di manutenzione.

Per completare la mia esplorazione di Berat, non mi resta che visitare la cittadella in cima alla collina. Protetta da possenti mura, Kala, è ancora abitata. Al suo interno si trovano diverse chiese ma l’unica visitabile è quella dell’Assunzione che ospita il museo Onufri. Dall’esonartece porticato si accede alla basilica a tre navate ricostruita nel settecento. L’iconostasi è molto bella, con il legno dorato intarsiato che forma grovigli barocchi; la porticina centrale reca due uccelli che mangiano l’uva. Tra le icone spiccano una Madonna di Onufri che, rompendo la tradizione, tiene il Bambino con la destra. Maria ha le occhiaie e indossa una splendida veste “rosso Onufri” mentre lo sfondo è di metallo battuto. Due sale ospitano un’esposizione d’icone, molte provenienti dalle chiese della cittadella. Proseguendo il giro nella cittadella m’imbatto nelle altre chiese. In un angolo delle fortificazioni, la chiesa della Santa Trinità è la più antica, molto scenografica con le sue cupole di mattoni che si stagliano sul fianco della collina, appena sotto l’ingresso della Fortezza Superiore. Uno spiazzo erboso è sfruttato dai bambini per giocare a pallone. Dopo tante chiese, ecco la moschea Rossa della quale sopravvive solo il minareto. Raggiungo la torre Belvedere; Mangalemi proprio sotto è un mucchio di tetti di tegole da cui spunta un minareto mentre Gorica sembra schiacciata ai piedi della montagna boscosa. Il fiume Osumi serpeggia tra i quartieri sotto i ponti. Il giro per Kala è terminato; certo se fosse possibile accedere anche agli interni delle chiese …

Il pomeriggio, visito il museo etnografico, ospitato in un’abitazione tradizionale appartenuta a qualche ricco proprietario terriero. Al piano terra una stanza ospita la riproduzione di un bazar medievale, con la strada in mezzo e le botteghe ai lati. Il primo piano gravita tutto intorno alla grande veranda, dove si svolgeva buona parte della vita della famiglia. Era organizzata con vari “angoli”, come quello rialzato sopra la scala che fungeva da salottino, con bassi sofà; è incantevole, mi sembra di vedere gli ottomani che fumano il narghilè. Le porte delle stanze si aprono sulla veranda. Nella stanza che riproduce la camera degli ospiti (maschi!), le donne da una loggia potevano controllare che fosse tutto a posto, senza essere viste; vi si accedeva da una scaletta nell’ambiente di passaggio. Se invece gli ospiti erano parenti, le donne potevano stare con loro e nella loggia andavano le serve.

Sabato 10 luglio: Berat – Durazzo

Per raggiungere Durazzo, prendo un bus diretto a Tirana. Procediamo lungo un percorso pianeggiante, transitando per Lushnje, annunciata da una serie di fabbriche abbandonate. Dopo due ore raggiungiamo la riviera di Durazzo, una fila di palazzoni tra la spiaggia e l’autostrada. L’autobus mi lascia a una rotatoria in periferia, dalla quale prendo un bus diretto in centro.

A Durazzo mi sistemo in un albergo sul corso principale e raggiungo subito il lungomare. La torre veneziana è occupata da un bar. Alcuni monumenti ricordano la storia recente, in particolare la grande statua in stile realista socialista di un partigiano; ironicamente davanti è stato allestito un palco per concerti sponsorizzato dalla Vodaphone, multinazionale del capitalismo. Sul lungomare si trova anche il museo archeologico; la collezione copre dal periodo arcaico alla dominazione romana, ma il mosaico “La Bella di Durazzo” è rimasto a Tirana tra molte polemiche. Terminata la visita, raggiungo le antiche mura bizantine; di fronte la ex fabbrica di tabacco reca ancora un bassorilievo che ricorda lo sciopero del 1940 contro i fascisti italiani. Durazzo è una delle città più antiche del Mediterraneo ma le poche vestigia del passato sono accerchiate dalla città moderna. I resti delle terme romane sono finiti sotto il teatro moderno mentre la piazza circolare del foro bizantino, con le colonne rialzate, è incorniciata da squallidi condomini. La piazza centrale, con il municipio, il teatro e la moschea, è stata “completata” recentemente da un nuovo palazzo multipiano.

Il pomeriggio, visito l’anfiteatro, il più grande dei Balcani, con una capienza di oltre 15.000 spettatori. E’ stato scoperto nel 1966 ma solo una parte è stata riportata alla luce. Negli spalti i gradini sono scomparsi mentre si conservano molto bene gli ambienti e le grandi gallerie di accesso. Sotto gli spalti fu ricavata una cappella bizantina con una bifora nella piccola abside e un mosaico a parete con santi e angeli e, più piccoli, i finanziatori. I colori sono vivaci e la cappella, una vera chicca! In cima alla collina dietro l’anfiteatro, raggiungo il palazzo di re Zog, tinteggiato rosa e crema. Nel 1997 è stato saccheggiato; oggi è inaccessibile, con tanto di filo spinato e discarica! Proseguo fino alla collinetta con il faro, dalla quale si domina il lungomare con i palazzoni e si apprezza come la residenza del re “controllasse” tutta la città. La passeggiata mi ha proposto un concentrato del peggio dell’Albania: vecchie case fatiscenti, palazzi di decine di piani in costruzione, strade inesistenti, spazzatura tutto intorno! Il momento negativo continua disceso al mare. Il lungomare è una distesa di cemento con qualche palma spelacchiata; la spiaggia è stata mangiata del tutto. Proseguo verso nord; subito dopo una fogna, ricompare una spiaggia microscopica, affollata di ombrelloni. Tutto intorno incombono alberghi e alti condomini. Nessuno fa il bagno: sarà solo perché è il tardo pomeriggio? I ristoranti si succedono uno dopo l’altro: evidentemente il posto ha il suo fascino per albanesi, kosovari e altri balcanici dell’entroterra. Vedremo questa sera se almeno ci sarà un po’ di mondanità! Proseguendo nello studio sociale raggiungo il “Flagship Center”, un centro commerciale ultramoderno vicino al porto, in stridente contrasto con i palazzi dell’era comunista, subito a fianco. La sera il lungomare è affollatissimo per lo struscio. Le giovani albanesi si esibiscono su tacchi vertiginosi e minigonne da capogiro. Io ritrovo i sapori italiani con una buona pizza.

Domenica 11 luglio: Durazzo – Tirana – Kruja – Tirana

Alle sette e mezzo prendo il bus per Tirana. E’ domenica mattina e l’autostrada è affollata nella direzione opposta, verso il mare. Dopo poco più di un’ora sono già arrivato alla stazione ferroviaria della capitale. Raggiunta la pensione Andrea per lasciare lo zaino, mi accordo con il mio tassista di fiducia, Socrates, per la corsa notturna all’aeroporto. Tornato alla stazione, scopro che il bus per Kruja parte solo alle dieci. Nell’attesa faccio un giro per il mercato, affollato di gente; tra gli indumenti spiccano grandi pile di mutande Kalvin Klein. Un’ora di autobus mi porta a Kruja, sulle prime montagne dopo la piana di Tirana. Subito mi accoglie una grande statua di Skandeberg a cavallo. Sono, infatti, nell’antica capitale che i turchi non riuscirono mai a espugnare finché fu in vita l’eroe albanese. Per raggiungere la cittadella, attraverso il bazar, una successione di stalli di legno allineati lungo la strada. Il museo Skandeberg fu costruito ai tempi del comunismo dalla figlia e dal genero di Hoxa, in uno stile a metà tra un castello medievale e un edificio moderno. L’esposizione celebra l’eroe con grandi statue. Una galleria termina in un’abside dipinta con una scena di battaglia tra albanesi e turchi sotto la cittadella di Kruja; davanti, lo spadone e l’elmo di Skandeberg, con tanto di testa di ariete, sono delle copie. Passo poi al museo etnografico, ospitato in una lussuosa abitazione ottomana. Il pianterreno, utilizzato per le attività “pratiche”, oggi ospita un grande torchio di legno per l’olio, un mulino ad acqua e altri oggetti interessanti. Il primo piano ha un ambiente centrale, con una parete di legno verso la scala e finestre “a grate”. Tra le varie stanze, come sempre, la più lussuosa è la sala per gli ospiti. Il soffitto di legno colorato è magnifico; tutto intorno, divani e al centro, un basso tavolino. Una particolarità è il piccolo bagno turco con pareti imbiancate a calce e cupoletta centrale.

Completo la visita della cittadella raggiungendo il teke, luogo sacro per la setta dei bektasi, un ordine sufi che dopo essere stato proibito nella Turchia di Ataturk ha trovato in Albania il suo centro. L’edificio ha una grande cupola affrescata, scritte in arabo e una curiosa rappresentazione di una moschea. Contiene tombe di baba e dervisci. Passeggiando per la cittadella ho modo di rendermi conto come sia ancora abitata, ma le case ormai sono moderne.Lasciata la cittadella, rieccomi nel bazar; le botteghe di legno affacciate sulla strada acciottolata hanno l’aspetto ottomano. Oltre i souvenir del XXI secolo vendono bei tappeti qilim, tessuti al telaio, e oggetti curiosi come accendini ricavati da proiettili della seconda guerra mondiale, tabacchiere anni sessanta, libri di Hoxa, elmetti con fori di proiettili.

Tornato a Tirana, il tardo pomeriggio davanti al “ragno” del Taiwan, i giardini sono pieni di gente: i bambini giocano a pallone, i vecchi siedono sulle panchine, le giovani camminano in minigonna. La sera, ceno in un locale nell’animato quartiere Blloku. E’ il giorno della finale dei mondiali e tutti i locali si sono attrezzati, considerato il grande interesse degli albanesi.

Lunedì 12 luglio: Tirana – Roma

Sveglia alle 3:20, nel cuore della notte. Socrates mi aspetta parcheggiato in via George Bush; all’aeroporto mi bacia e abbraccia. Il volo parte puntuale e alle sette e mezzo sono già a Roma, in tempo per iniziare una giornata lavorativa.



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