Tra cascate e ghiacciai, verso il Cibrario

Da Margone al rifugio Luigi Cibrario, impegnativa ma stimolante passeggiata in alta quota
Scritto da: J&B
tra cascate e ghiacciai, verso il cibrario
Partenza il: 11/07/2013
Ritorno il: 11/07/2013
Viaggiatori: 1
Spesa: 500 €
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Tutta colpa di una guida, (quasi) omaggio di non ricordo più quale quotidiano.

Il titolo era rassicurante, Cammini d’estate. E il sottotitolo ancora di più, Itinerari alla portata di tutti. Sfogliandola l’occhio è caduto sull’itinerario numero 56, da Margone al Colle Altare, sulle Alpi Graie nel gruppo del Monte Lera.

Le Valli di Lanzo sono vicine a casa e da tempo il rifugio Luigi Cibrario -tappa intermedia di quella che a tutta prima aveva l’aria di una stimolante passeggiata- era nella lista dei luoghi che volevo vedere. Due buoni motivi, dunque, per tirare fuori gli scarponi dall’armadio e preparare lo zaino. E poco importa se nelle prime cinque righe del testo della guida si susseguivano aggettivi come “lunga” e “impegnativa” in riferimento alla parola “sfacchinata”. La montagna, in fondo, mi piace; sentieri e scarpinate non mi spaventano.

Mai, però, scelte lessicali furono più calzanti e veritiere.

L’annuario Cai dei rifugi e dei bivacchi stima la salita ai 2.616 metri della conca del Peraciaval in tre ore e mezza di camminata. Partenza del sentiero la frazione di Margone, poco dopo il paese di Usseglio in Val di Viù.

Tradotto in chilometri, una novantina da casa, tangenziale di Torino e provinciale che dopo il parco della Mandria porta a Lanzo Torinese comprese.

Dunque, scelto il secondo giovedì di luglio come giorno per l’impresa, punto la sveglia alle 5,30 e arrivo all’unica piazza di Margone poco dopo le 7,40.

Il sentiero inizia proprio di lì, come mi conferma un passante, quasi stupito che io sia l’unico a non saperlo. Ad ogni buon conto prendete come riferimento la targa del rifugio Cibrario che campeggia sulla facciata dell’unico ristorante della frazione -targa che informa anche sull’apertura o chiusura del rifugio- e incamminatevi tra le case dove troverete la prima vera indicazione del sentiero, il numero 118, da seguire poi fino in cima.

Si parte da quota 1.410 metri, in direzione della frazione Trapette. Il sentiero qui è ancora una stretta via tra un gruppo di case che porta direttamente in un bosco.

Pochi metri e la strada inizia a salire, per non mollare più tra pendenze e falsopiani. Usciti dal bosco il sentiero letteralmente si perde nell’erba alta di un pascolo ma la direzione è comunque segnata sulle pietre. Ad ogni buon conto non fate come il sottoscritto che si è ritrovato in mezzo a vacche pecore e cavalli e tenete la diagonale di destra: presto ritroverete le tracce del passaggio di altri escursionisti.

Sotto lo sguardo attento del Monte Bassa si arriva ad un pianoro che è solo il preludio ad una ripida salita tra le rocce. Ai piedi della salita ricompare l’indicazione per il rifugio Cibrario.

È questo un tratto abbastanza impegnativo perché in poco più di mezz’ora si arriva quasi a quota 1.900 metri: guardando indietro ci si rende conto dei quattrocento e più metri di dislivello già superati ma guardando avanti non si ha la percezione dei settecento metri ancora da affrontare.

Ad ogni buon conto, dopo poco più di un’ora dalla partenza, scelgo un costone di roccia per la prima pausa della giornata. L’allenamento è quello che è e il fisico reclama riposo, acqua e un supplemento alla colazione.

Ripreso il cammino il sentiero attraversa una conca d’ombra e si affaccia su un vallone che se il senso dell’orientamento non mi ha abbandonato dovrebbe essere quello di Arnas. Di qui in avanti il sentiero diventa una mulattiera, la vegetazione si dirada e il paesaggio cambia. La fatica e il sudore sono finalmente ripagati dai panorami e soprattutto dal bel tempo che dopo alcuni giorni di pioggia e nuvole basse finalmente concede una tregua.

Si cammina sempre sul costone e ormai sempre in salita, che sia in diagonale o a svolte. Più in basso si intravedono i binari di una ferrovia a scartamento ridotto, di quelle che una volta si chiamavano decauville. A quota 1975 metri si arriva in prossimità della fontana della Lera e intorno ai duemila metri il primo imponente getto d’acqua, il Rio della Lera. Qui il nostro sentiero ne incrocia un altro, che scoprirò poi essere quello che porta all’Alpe Barnas, altro punto di partenza per la salita al rifugio ma più agevole e veloce -sic!

Sulla sinistra finalmente si vedono i ghiacciai -su tutti quello di Bertà- e le propaggini ultime dei nevai, ancora non del tutto cancellati dai primi caldi estivi. Anzi, in un paio di punti la neve copre ancora il sentiero e bisogna puntellarsi bene per attraversare alcuni tratti. Faticoso ma molto divertente.

La salita continua sempre sulla sponda sinistra della valle e dopo una serie di brevi tornanti ci si imbatte in uno sperone di roccia a strapiombo sul vuoto ma soprattutto di fronte alla cascata del Rio Peraciaval. Siamo a quota 2.160 metri. Un ponte in legno, recentemente rinforzato da tiranti in acciaio attraversa il rio proprio all’altezza della cascata e la vista che si apre a metà ponte è da togliere il fiato e l’udito, sovrastato quest’ultimo dal fragore dell’acqua che prima sbatte sulle rocce e poi si getta nel vuoto.

Una volta attraversato il ponte abbiamo cambiato sponda della valle e la salita concede la possibilità di una seconda sosta. Possibilità alla quale non mi sottraggo. Decido di fermarmi un centinaio di metri oltre il ponte: qui il torrente defluisce ordinato e placido da una presa dell’Enel, ovvero da una sorta di diga di dimensioni e di tono minore, costruita per convogliare in un unico corso d’acqua piccoli torrenti laterali che scendono dalle pareti della montagna.

Poco dopo essermi fermato, dalle rocce fanno capolino gli stambecchi: un branco, soprattutto femmine con i piccoli. Scendono e vengono a fermarsi sull’altra sponda: si arrampicano sulle pareti della presa e passeggiano tranquillamente. Un incontro inaspettato che cancella per un momento la fatica di questa che ormai è sempre più una sfacchinata, proprio come avvertiva la guida che mi è stata di ispirazione.

Il rifugio però è ancora lontano. Il ritmo della camminata è ridotto e secondo la mia cartina ci sono ancora più di ottocento metri di cammino da percorrere e centocinquanta metri di dislivello da superare. Da qui in avanti la valle si stringe e allungando una mano sembra quasi di poter toccare i ghiacciai che riflettono il sole sotto le nuvole. Ma se una mano tocca il cielo i piedi devono essere ben piantati a terra. La neve copre ancora il sentiero e si sta sciogliendo: quindi attenzione a non scivolare e occhio all’acqua che sposta le pietre.

Sono le ultime svolte, la mulattiera ormai domina la gola dall’alto e dietro una roccia si intravede, in lontananza, l’asta con la bandiera che sventola. È il segnale che il rifugio non è lontano. Arrivati in cima al dosso appare la conca del Peraciaval e in fondo alla conca il Luigi Cibrario, lì ad accogliere escursionisti e camminatori dal 1890. Finalmente quota 2.616.

La conca è tutta innevata. Solo qua e là, nelle zone più esposte al sole, rocce ed erba. E anche per l’ultimo tratto si affonda nella neve e questa volta fino al ginocchio. Ce n’è talmente tanta che un lato del rifugio è coperto, da terra fino al tetto. Sarà difficile proseguire per il Colle.

Prima però uno sguardo all’orologio. Per arrivare fino in cima ho impiegato 4 ore e 15 minuti. Tre quarti d’ora in più della media della guida del Cai. Mi sono lasciato dietro un dislivello di 1.200 metri, sicuramente si può fare di meglio ma per essere la prima vera uscita della stagione posso dirmi soddisfatto.

È mezzogiorno, dunque tempo per la terza pausa di giornata. Che si rivelerà più lunga del previsto. Dietro al rifugio parte il sentiero 122, quello che porta alla meta ultima dell’escursione, i 2.901 metri del Colle Altare. Ma c’è ancora troppa neve e visto in lontananza il canalone che conduce in cima è troppo bianco per tentare di incamminarmi.

Preferisco godermi il sole che ormai sempre più fa capolino tra le nuvole: e poi la compagnia dei tre volontari del Cai che presidiano il rifugio è piacevole. Sembrano usciti da un romanzo. Fatte le debite proporzioni e sostituita la cadenza pisana con la parlata delle nostre valli potrebbero tranquillamente ben figurare in uno dei racconti di Marco Malvaldi, a fianco dei simpatici pensionati-investigatori che popolano il suo Bar Lume.

Reminiscenze letterarie a parte, la pausa per il pranzo alla fine si prolunga fino alle tre del pomeriggio: lo sguardo è fisso alle cime, tutte tremila metri che chiudono la conca creando anche il naturale confine con la francese valle Mauriennee. L’orecchio invece, tra i richiami delle marmotte e i volteggi dei rapaci, è costantemente sintonizzato sui racconti dei tre custodi.

Ma c’è pur sempre una discesa da affrontare.

Così, dato ancora un ultimo sguardo al panorama e scattate le foto di rito saluto e mi rimetto in cammino. Non senza che prima dal rifugio siano riusciti a estorcermi la promessa di tornare, questa volta però dal sentiero di Alpe Barnas, per accorciare la salita e soprattutto continuare fino al Colle Altare.

La discesa è più veloce, ma certo non meno impegnativa. E ripassando davanti la presa ecco ancora il piccolo branco di stambecchi, ultimo assaggio di alta montagna prima di ritrovarmi alle sei in punto nel parcheggio di Margone.

Ho mancato la meta ultima, è vero. Ma sono arrivato al rifugio, nonostante la neve e la fatica. Ripagata comunque dai silenzi e dalla maestosità di un panorama che merita di essere visto.

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