Sapore di mare a Natale. Vacanza strenna a Ponza

Trekking d’inverno a Ponza
A Ponza Babbo Natale arriva in barca anziché scivolare sul ghiaccio con la slitta e le renne sono dei pupazzotti avviluppati in fili di luminarie che contribuiscono in misura pari a zero al traino. All’imbrunire i bambini scrutano l’orizzonte per tentare di scorgere Santa Claus che attracca nei pressi della stazione marittima col suo natante. Il giretto dura appena una decina di minuti ma sono istanti vibranti di emozione e di felicità per i più piccini. Il porto, illuminato da una miriade di luci che si riflettono nell’acqua, sembra sotto un incantesimo. Dalla penombra emerge l’abitato, improntato a una grande armonia architettonica e cromatica e disposto a guisa d’anfiteatro attorno al porto settecentesco, lambito dal mare.
Lo stupore legato al Natale è anche quello che si prova davanti al presepe interamente ambientato sull’isola di Ponza all’interno della chiesa di S. Maria Assunta a Le Forna. La Piana, il quartiere sacrificato in nome degli interessi della S.A.M.I.P., che dagli anni ‘30 agli anni ‘70 gestì lo sfruttamento minerario delle Isole Pontine, rivive in questo allestimento. Il paesaggio in rilievo è quello di un tipico insediamento mediterraneo, fatto di case a terrazza o a cupola, che appaiono come cubi in sequenza, intonacati con i quattro colori tradizionali: il celeste degli agricoltori, il rosa dei pescatori, il bianco candido della calce e il giallo della roccia, che entrano in risonanza con quelli della vegetazione circostante, degli orti ricavati su piccoli terrazzamenti, dei muretti a secco, del blu del mare.
Ed ecco tratteggiato l’universo che sono venuta a scoprire a Ponza, attratta dalle varie piste e sentieri impreziositi da spettacolari scorci sulla costa ruvida e frastagliata, e con l’idea di vivere scollegata dalla realtà quotidiana per tanti giorni quanti si contano sulle dita di una mano.
Sulla mappa la sagoma contorta dell’isola è simile a una lettera “C” un po’ deforme e callosa. Il perimetro è un continuo susseguirsi di baie, calette che talvolta terminano in grotte, e spiagge difese da scogli e faraglioni. Quelli del Calzone Muto, il Caciocavallo o lo Spaccapolpi restano impressi per i loro nomi peregrini. La sommità più alta, Monte Guardia, non supera i 300 metri, la lunghezza rasenta gli 11 km e la larghezza massima è sui 2,5 km. Queste dimensioni ridotte mi inducono a pensare di avere almeno settanta possibilità su cento di cavarmela nell’esplorazione del territorio senza rimetterci la ghirba. Pronta a inaudite prodezze ginniche, ossia inciampare, scorticarmi le ginocchia e vagare in crepuscoli di tempesta pur di starmene immersa nella festa sfavillante della natura, mi metto dunque in marcia alla velocità di una motozappa, con il consueto armamentario da trekking, dalla località di Cala Fonte che si trova agli antipodi rispetto a Ponza Porto.
DA CALA CECATA A CALA DELL’ACQUA
Il 24 dicembre pare un giorno fabbricato apposta per passeggiare: è deflagrata la primavera in inverno, l’aria è dolce e fresca, il cielo terso; nonostante ciò, a causa dello scarso appeal turistico dell’isola nel periodo natalizio, i luoghi che attraverso sono totalmente spopolati. Buon per me, che sono un topo di campagna. Il silenzio dei campi mi ha viziato e non possiedo gli anticorpi per sopportare la caciara estiva. Per Cala Cecata c’è una freccia e ci picchio subito il naso contro: è sufficiente svoltare a destra dalla variante bassa della strada principale. Galoppo in discesa lungo passaggi e scalette ricavati fra un’abitazione e l’altra. La strada diventa sterrata e l’insenatura la raggiungo dopo pochi minuti. È collegata a Cala Cavone da una capezzagna e da circa 100 gradini che precipitano a mare. Anche se sono vicine le due cale non sono gemelle. La prima è un materasso di ciottoli lercio ma accogliente, con vista sull’isola di Palmarola, la seconda è più inospitale, però speciale, intima; invita a stare fermi come baccalà ad osservare la roccia perforata per farne ricoveri per le imbarcazioni dei pescatori e il viavai continuo dei gabbiani, straordinariamente bianchi, dato che all’alba il sole nascente li illumina da sotto. Però il meglio deve ancora venire. Proseguendo per la stessa stradicciola si giunge a Punta Papa, uno stupefacente belvedere affacciato su Palmarola e su Cala Feola, dominato da una fortificazione diroccata, risalente alla metà del XV sec. che si erge sull’orlo di un dirupo e in mezzo a una landa desertica inframezzata da cumuli di ghiaia. Sbatto interdetta le palpebre di fronte a queste strane dune artificiali: sono le tracce del recente passato minerario dell’isola. Qui accanto, infatti, a Cala dell’Acqua, c’era la cava principale di bentonite, un materiale argilloso dai molteplici impieghi. Nel periodo del fascismo, in cui uno degli imperativi categorici era l’autarchia, la S.A.M.I.P. cominciò a sfruttare le ricchezze nascoste tra le pieghe delle rocce di Ponza, modificando radicalmente la fisionomia di quest’area. La miniera era costituita prevalentemente da gradonature a cielo aperto e si vedono ancora alcune infrastrutture, fra cui lo scheletro di un capannone e il pontile di caricamento, che rimangono come testimonianze di archeologia industriale.
IN BUS AL PORTO. PUNTA DELLA MADONNA, DOVE SORGE IL CIMITERO; IL FARO DI PUNTA DELLA GUARDIA E LA BAIA DEL BAGNO VECCHIO
Adesso vado a testare per la prima volta l’efficienza del trasporto pubblico. Mancano gli orari previsti di passaggio, ma i cartelli delle fermate esistono e dopo poco sbuca da una curva un pulmino che mi preleva e parte a fulmine, filando lungo la provinciale Ponza-Le Forna, che gli oriundi percorrono con foga da concorrenti del Rally Dakar, sebbene sia di quelle che non aiutano la digestione. Superata la frazione di S. Maria si penetra in un paio di brevi gallerie e si giunge al porto, che è la località più suggestiva dell’isola. Ci sono due lungomare che si sovrappongono, la via Banchina Di Fazio, in basso, per i veicoli, e in alto Corso Pisacane, riservato ai pedoni, fiancheggiato da una baraonda di agenzie e negozi rigorosamente chiusi. Siccome qui è tutto un mortorio, decido di fare un salto al camposanto, dove almeno è normale che non affluisca gente e il minimo rumore sia percepito come un peccato mortale. Il cimitero, sovrastato da un impettito faro bianco, potrei definirlo labirintico e degno di essere visitato, in effetti è uno dei più sorprendenti esempi di architettura cimiteriale al mondo, di notevole impatto estetico: un tripudio di cappelle funerarie di svariate forme e dimensioni, qualche alveare composto da loculi e molti sepolcri a terra, semidistesi come pascià sul versante settentrionale di Punta della Madonna. Resto affascinata dallo scenario marino e dalla bellezza della costa scabra e intatta. Per un’intera mezz’ora me ne sto stravaccata su una panchina a rimirarmi lo spettacolo ammaliante di Ponza che sonnecchia e si scalda la schiena al sole. È davvero un privilegio e so che potrei contemplare questo panorama fantastico fino a cavarmi gli occhi, ma se non mi scollo da qui il mio programma di spedizione esplorativa andrà a farsi benedire e devo ancora conoscere una delle mete più celebri: il promontorio di Punta Guardia. Dalla piazza Gaetano Vitiello mi avventuro su per i gradini di via Scarpellini, seguendo le indicazioni per la trattoria Monte Guardia, che oltrepasso tenendola alla mia sinistra e continuando in salita fino alle ultime abitazioni di via Scotti Alto, dove compare un pannello: mi si dice che ho raggiunto il punto in cui il tracciato abbandona le sue vesti di vicolo cittadino per immergersi nella macchia mediterranea e ciò è dimostrato dal fatto che inizia una mulattiera il cui fondo è intagliato in una roccia dura e grigia. Al pianoro degli Scotti mi trovo di fronte a un bivio e imbocco il viottolo a sinistra contrassegnato dalla freccetta “Faro”. Al successivo crocicchio mi imbatto in una grande bacheca in legno, piazzata in questo posto per avvisarmi che girando a mano mancina taglierò giù per Bagno Vecchio, mentre svoltando a destra zampetterò quasi sempre su un sentiero a strapiombo sul mare, soprattutto nell’ultima sezione detta “la scarrupata”, formata da un insieme di blocchi di lava trachitica.