Route66: Mother road
Ecco il diario di bordo: 22 agosto Chicago “…Adesso considera un po’ questi qua davanti.Hanno preoccupazioni, contano i chilometri, pensano a dove devono dormire stanotte,quanti soldi per la benzina,il tempo,come ci arriveranno…E in tutti i casi ci arriveranno lo stesso,capisci. Però hanno bisogno di preoccuparsi e d’ingannare il tempo con necessità fasulle o d’altro genere, le loro anime puramente ansiose e piagnucolose non saranno in pace finché non riusciranno ad agganciarsi a qualche preoccupazione affermata e provata e una volta che l’avranno trovata assumeranno un’espressione facciale che le si adatti e l’accompagni, il che come vedi, è solo infelicità, e per tutto il tempo questa aleggia intorno a loro ed essi lo sanno e anche questo li preoccupa senza fine…” Kerouac La sveglia era puntata per le 10, ma la smania di partire era tanta e sulle 9 e 15 tutti eravamo in piedi (il Franz dalle 6 e 30 !). Una bella passeggiata per il lungomare di Chicago, poi un taxi e un simpatico fratello nero ci ha accompagnati a Villa Park, dove BigMama ci aspettava tutta pulita e bella pronta. Chi è BigMama? Semplice, è tutto. BigMama da oggi è la nostra casa, la nostra automobile, il nostro Pub, la nostra discoteca, il nostro ristorante. E’ bastato un battesimo a base di Budweiser e ce ne siamo innamorati.
Pratiche per il noleggio, spesona collettiva, spaghettata da veri italiani Campioni del Mondo e via, on the road, alla volta di St.Louis. Le regole del viaggio sono semplici, ma importanti: la casa si chiama BigMama, il pilota Mateo, il copilota Matia…Il resto è libert a 360 gradi. Eh si, è dura qua in mezzo alle campagne dell’Illinois !!! Ora c’è tanta strada davanti a noi, è tanta, fidatevi sulla parola. Ma c’è altro qua…Ora c’è un camper, c’è benzina, c’è cibo e roba da bere a sufficienza, ma soprattutto c’è un gruppo di cinque amici, felici e consapevoli di essere sulla strada più famosa del mondo, pronti a vivere in prima persona le emozioni dei loro film preferiti !!! A domani (a cura di Nicola) 23 agosto, St Louis (Missouri) In effetti è un pò strano,suona la sveglia e la prima cosa che abbiamo visto aprendo gli occhi è che siamo dentro al nostro camper (o meglio la nostra Big Mama); scostando la tendina dal finestrino si para davanti a noi la vista di St. Louis e del suo Gateway Arch che domina sulla città.
Il ricordo della notte precedente diventa a poco poco nitido…La situazione era più o meno questa:siamo arrivati nella tarda notte quì a St Louis in Missouri dopo aver atraversato l’Illinois,arrivati in città e senza una destinazione precisa abbiamo girovagato un pò.
La città era incredibilmente deserta ed è stato veramente uno spettacolo sfrecciare con Big Mama sotto i grattacieli illuminati ed approffitare di una connessione internet senza fili gratuita davanti ad un hotel per donarvi le nostre prime emozioni.
Una piazzola di sosta è stato il nostro primo hotel ed ora possiamo veramente dire di essere stati battezzati alla vita on the road! La mattina è passata velocemente con una visita della città ed allo stadio del baseball,mentre nel pomeriggio si è realizzato il sogno che si nascondava in tutti noi eterni bambini bevitori:la visita alla fabbrica di birra fra le più grandi del mondo,la fabbrica della Bud quì a St Louis.
Apettando che gli Umpa Lumpa uscissero da un momento all’altro abbiamo fatto tutto il tour fino al gran finale:una sala per “degustare” gratis qualsiasi variante di Budweiser,dalla light a quella al mirtillo.
Approfittando forse troppo dell’ospitalità, dopo tre birre a testa (salvo Nicola,eletto stoicamente ad Mateo della serata) siamo stati gentilmente invitati ad uscire dove abbiamo meditato a lungo di invertirci i vestiti e ripetere l’intera visita per un’ulteriore assaggio. (VEDI VIDEO, clicca qui) Poteva già bastare per essere una giornata memorabile ma abbiamo osato di più! Frisbee sotto il Gateway Arch, conquista della sua vetta e la cena finale sul camper parcheggiato sulle sponde del Mississipi hanno chiuso egregiamente la giornata.
Adesso siamo nuovamente on the road diretti verso Oklahoma City…
il vecchio West è un pò meno lontano! I contatti al sito di oggi sono stati tantissimi,grazie a tutti e, se volete, continuate a seguirci! (a cura di Fabio) 24 agosto, Oklahoma City “Rimini, Cesena, Forli, Faenza, Castel Bolognese, Imola, Castel San Pietro, Bologna” Mi piace iniziare il racconto di questi due giorni di Viaggio partendo proprio dallo speaker della stazione di Riccione. Il tono romagnolo lo rende carico di storia e di orgoglio ma quando si parte da St. Louis e si raggiunge Oklahoma City guidando Big Mama attraverso l’America intera ci si può permettere di guardare con un pizzico di sorriso quella piccola stazione di provincia.
Non è superbia, siamo vittime anche noi di questa pazzia generale che ci fa valutare la Mother Road in modo “diverso” da tutte le strade del mondo. In queste 48 ore ho deciso di rimanere molto tempo sul sedile di pilotaggio per osservare da vicino che cosa la renda davvero così speciale. E’ solo questione di lunghezza o ci sono altri fattori che le donano fascino? Miglia dopo miglia ti accorgi che questa strada è sempre in posa ma non ne riesci a cogliere i motivi. Quando a Oklahoma City ci siamo fermati al memoriale per l’attentato del 1995 ho capito che è tutto connesso, fa parte tutto di un piano: Route 66, Big Mama, asfalto, storia, passioni e cultura si fondono.
Chicago – Los Angeles non è solo una linea che unisce due punti A e B, è un medium moderno che si carica di significati. L’impasto gommoso dei pneumatici stringe un legame tra noi e questa terra molto più complesso del semplice contatto fisico. La strada è un vettore che ci orienta direttamente dentro la cultura di questo popolo fino a scoprirne quel lato tristemente famoso: le paure e l’estrema solidarietà. Proprio ieri siamo stati sul punto di piangere quando ci siamo resi conti che una signora, mai vista prima di allora, a nostra insaputa ci ha pagato il parchimetro durante la nostra assenza, per evitare che prendessimo una multa. Quando l’abbiamo vista armeggiare davanti alla porta del camper siamo corsi con i pugni in alto urlando qualcosa di semi minaccioso in americano ma ci siamo dovuti guardare in faccia l’uno all’altro senza capacitarci del gesto.
Questa donna, che non ha accettato nulla in cambio se non i nostri ringraziamenti, ci ha mostrato veramente chi c’è dietro la facciata, forse un po’ troppo famosa, delle politiche estere americane. In quel momento ho capito che le foto scattate davanti al memoriale acquistano un significato che prima dell’11 settembre era impensabile, si caricano di presagi e sembrano alludere a qualcosa che ci inquieta. La Route66 diventa allora la “storia sociale” di questo paese…Presente e passato si confondono…I big truck, le rest area, le gas station diventano il miglior monumento da visitare: i rassicuranti miti americani si danno forza l’un l’altro e ogni miglio è un inno alla libertà.
Per la cronaca…Ieri notte abbiamo guidato a turni fino alle 8 del mattino per passare da St. Louis a Oklahoma City (Oklahoma). Dopo essere stati fermati dalla police con tanto di lampeggianti e pila puntata in faccia ci siamo fermati a riposare nel parcheggio di una chiesa battista. Risolto il problema dell’acqua per il camper, gentilmente offerta dai proprietari “dolcissimi” di un golf club, ci siamo addentrati nel centro di Oklahoma City. Qui abbiamo visitato il memoriale costruito dopo il crollo di 3 palazzi a seguito del primo vero attentato all’America. Partiti alla volta di Amarillo (Texas) ci siamo fermati in un museo della route66 e poi…Ancora in viaggio. Paesaggi, deserti, montagne e alla fine…Canyon. Scegliamo di fermarci in un’area di sosta in mezzo al canyon texano. Di fronte a noi si apre uno scorcio di mondo mozzafiato. A questo punto, scattate le foto di rito battiamo in ritirata perché un esercito di bagarozzi e cavallette circonda il camper. Abbandonata l’idea di farci la barba con il coltello optiamo di concludere la serata in compagnia di fagiolata e poker! E’ tutto bellissimo! (a cura di Francesco Zazza – Franz) 25 agosto, Albuquerque L’alba è spuntata troppo presto per i nostri bioritmi e il buon proposito di svegliarci in tempo per ammirarla illuminare pian piano il canyon è sfumata. Dopo una fugace colazione (latte e biscotti per alcuni – uova e bacon per altri) ci siamo rimessi in cammino. Prima tappa: Cadillac Ranch, l’omaggio di un riccone stramboide americano alla route. Le dieci Cady piantate col muso nel terreno sono un monumento tanto inutile quanto affascinante. L’attrazione viene da subito calamitata sulle migliaia di scritte che ricoprono le carrozzerie…Firme che risalgono anche a 60 anni fa. Ovviamente non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di lasciare il nostro segno. Sazi di fotografie ci siamo avviati alla volta del BAR-B-Q, un simpaticissimo ristorante texano situato lungo l’ultimo miglio praticabile della route texana. Qui, con la bellezza di 7 $ a testa, ci siamo rimpinzati di manzo e fagioli. Bisogna però ammettere che questi fagioli texani hanno conseguenze olfattive molto modeste. Quindi, senza bisogno di alcun Arbre Magic, siamo rimontati a bordo e ci siamo diretti verso Albuquerque (New Mexico). Dopo una lunga ricerca di un campeggio siamo arrivati all’Arbor RV Park. Incredibile ma vero: il proprietario, tale Mariano Baldoni, è il figlio di emigranti italiani originari di Santarcangelo di Romagna. Le lacrime dell’uomo, quando gli abbiamo detto di essere romagnoli, ci hanno commossi al punto che abbiamo trascorso l’intera serata a telefonare a tutti i Baldoni residenti a Santarcangelo per cercare di metterlo in contatto con parenti che non sente da più di trent’anni. Purtroppo la ricerca è stata infruttuosa tuttavia è difficile spiegare l’emozione di tutti noi al sentir dire, ad un anziano signore americano, espressioni tipo “Cum us cièma?”, “Biagio l’è mort” e “Aspèta un sgond” in dialetto romagnolo. (a cura di Valerio Vincenzi – Vadi) 26 agosto, montagne rocciose Di nuovo svegli, siamo nel camping del nostro amico Mariano, detto anche Tom, che gentilmente ci omaggia con un filone di pane italiano appena cotto. Qui rivalutiamo i nostri programmi di viaggio e votando all’unanimità si decide di avviarci alla volta di Los Alamos. Questa cittadina si trova all’estremo sud delle montagne rocciose ed è famosa esclusivamente a causa del progetto Manhattan. Per i profani la progettazione e la costruzione di Littel Boy e Fat Man, le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Dopo aver adeguatamente salutato il buon vecchio Tom ci mettiamo in marcia, il viaggio non è lungo e con il Mateo di turno al volante vediamo il paesaggio attorno a noi che cambia progressivamente, la strada sale, usciamo dalla highway e iniziamo a salire sul fianco di una montagna. Arrivati a Los Alamos ci dirigiamo al Bradbury Science Museum dove gli americani raccontano a modo loro la storia della costruzione e dello scoppio delle bombe atomiche. Con ciò non intendo dire che il museo non sia interessante, tutt’altro; vediamo le riproduzioni delle bombe, e molta altra documentazione sulla seconda guerra mondiale. Quello che risulta un po’ difficile da mandar giù per noi latin guys è l’orgoglio nazionalistico che trasuda dal filmato che ci viene mostrato e dai commenti entusiasti che troviamo sul libro delle firme all’ingresso del museo. Insomma non è così facile apprezzare le meraviglie della scienza e della tecnica dopo aver letto la storia di quelle che sono state le conseguenze di queste incredibili quanto terribili scoperte. Finita la visita la fame è vigliacca e decidiamo di provare la cucina del New Messico. Scegliamo un locale dove mangiando Hamburger più o meno carichi facciamo la conoscenza di quattro simpatiche vecchiette che per la fase che stiamo attraversando non sono neanche troppo male… Rifocillati ci rimettiamo on the road. Direzione Four Corner, il punto in cui si incontrano New Messico, Arizzona, Utah e Colorado. E’ proprio qui che quello che sembrava dovesse essere un semplice spostamento si rivela essere una nuova grande avventura. Senza averlo preventivato ci addentriamo nel bel mezzo delle montagne rocciose, dove la temperatura non è certo quella del deserto Texano, viaggiando per strade sterrate poco più larghe di Big Mama che a 15 miglia orarie ci porta attraverso boschi fiumi e montagne dai colori indescrivibili dove incontriamo decine di mandrie di pura carne Montana sotto forma di mucche e i cervi in due diverse occasioni. Pian piano scende il tramonto con i suoi colori che si riflettono sulla vegetazione e in breve il cielo si fa scuro. Il viaggio procede tranquillo su strade via via più grandi ma sempre deserte fino a quando Vadi non butta un occhio al cielo e ci obbliga a fermarci e a spegnere le luci del camper. Così, in mezzo al nulla del New Messico rimaniamo estasiati dalla stellata più incredibile che chiunque di noi abbia mai visto; assolutamente indescrivibile… Ci ritroviamo così a valutare come in pochi giorni abbiamo ammirato metropoli di dimensioni spropositate con palazzi che arrivano in cielo, pianure coltivate, cittadine con nulla attorno, deserto sconfinato e ora ci ritroviamo in mezzo a boschi, laghi e animali selvatici. Il risultato di tutto questo pensare è che stiamo attraversando un paese tanto vasto quanto magnifico e incredibile, stiamo realizzando un nostro piccolo o grande sogno che sicuramente ci sta dando molto, forse più di quanto tutti noi potessimo pensare. Chiedo scusa a tutti se questo lungo racconto vi ha annoiato ma è davvero difficile esprimere tutto quello che questo on the road ci sta regalando. A presto ragazzi. (a cura di Pietro Biondi – Pi) 27 agosto, monument valley “In America 200 anni sono un’eternità, in Europa 200 miglia sono un’eternità”. Non è una citazione, un aforisma tratto da una canzone. Semplicemente, così ci ha salutati l’ultimo amico incontrato on the road. L’uomo giusto, al momento giusto, nel posto giusto. Costeggiando il Colorado sulla sponda sud del Grand Canyon, trovare simpatico un camionista sconosciuto, parlargli dell’Italia, accarezzare il suo cagnolino, ascoltarlo mentre invidia la nostra storia e insieme sorride delle nostre piccole distanze, ha il sapore più intimo di una giornata indimenticabile. Ieri sera, infatti, dopo esserci lasciati alle spalle le Montagne Rocciose, e sopra la testa il cielo più stellato della nostra vita, ci siamo diretti verso i FourCorners, la dove Utah, Arizona, Colorado e NewMexico si incontrano formando una croce perfetta, simbolica quanto inutilmente trasformata in attrazione turistica. Trovare un posto dove piazzare il camper per la notte è stato problematico fin quando, scorgendo all’orizzonte qualche fioca luce, l’abbiamo raggiunta. Era Teec Nos Pos, posto tanto sconosciuto quanto surreale ed emozionante. Lo so, è difficile, ma costruite nella vostra mente una comunità di pochi sparuti indiani nativi in mezzo al deserto roccioso, accatastati in 20-30 casupole. Ed ora immaginate di svegliarvici la domenica mattina poco dopo l’alba, e di trovare il nulla, inteso come edifici abbandonati, cani randagi, polvere spazzata dal vento e solitari alberi secchi. Il nostro risveglio è stato tutto questo, è stato la stupefazione, l’impossibilità di rendere a parole. A riportarci con i piedi sulla Terra, in qualche modo, sono stati i nostri ormoni, che iniziano a sentire un po’ strette le quattro pareti di questa casa semovente, dove non c’è aria di quella cosa che a ventitre anni è un po’ come il pane. Lasciata la nostra città fantasma, un po’ bambini e un po’ italiani, non potevamo non farci una mano di poker seduti attorno ai FourCorners, così come palleggiare da uno stato all’altro, all’altro, all’altro. Da qui, la nostra BigMama, senza mai lamentarsi, ci ha accompagnati attraverso scenari marziani alla celeberrima Monument Valley, là dove l’iconografia non ha eguali nel mondo. Ma non voglio inquinare di parole insufficienti certe sbalorditive immagini. E’ più efficace, forse, riportare la mente ai film di Sergio Leone, di Stanley Kubrick, di Steven Spielberg. Insomma, i nostri film. Percorrerla di corsa come Forrest Gump, personalmente, è stato la realizzazione di un piccolo grande sogno. Spaghettino in amicizia, simpatiche conoscenze tra i camperisti di passaggio, foto di rito, e via, di nuovo on the road alla volta del Grand Canyon. La strada è quella dei film, sempre dritta, ma passa meravigliosamente, e ci ritroviamo a macinare ore su ore su miglia su miglia senza sentire la fatica, inebriati come da qualcosa che ci accomuna nel silenzio assordante di questi paesaggi. Ed ora che abbiamo raggiunto il Grand Canyon, ansiosi come bambini di svegliarci per la prossima indelebile alba seduti sul suo bordo, ci sentiamo un po’ più ricchi. Ci sentiamo un po’ meno impauriti dalle grandi distanze, dalle apparenti irraggiungibilità, come se il nostro amico camionista, là, ci avesse trasmesso un po’ della sua esperienza. Se me lo permettete, sentiamo di aver messo “un altro mattoncino nel muro”. Questa però, ahimè, è una citazione. (a cura di Nicola Placucci – Nic) 28 agosto Grand Canyon Come si fà a raccontare una giornata come questa? Sfogliando mentalmente l’elenco degli aggettivi possibili l’unico che credo possa descriverla al meglio è surreale! La sveglia è stata puntata alle cinque del mattino,in quanto il nostro programma è quello di vedere l’alba spuntare dal Grand Canyon. Guidando assonnati lungo la strada ancora illuminata dalle stelle non sappiamo bene cosa aspettarci in quanto il Grand Canyon ancora noi non l’abbiamo mai visto essendo arrivati ieri durante la notte, sarà quindi come un’immensa sorpresa, ma non improvvisa, si rivelerà invece lentamente, minuto dopo minuto. Arriviamo al “Mother Point”, una sorta di scoglio a picco sul canyon che si staglia per 2370 metri di altezza e stupefatti notiamo una cosa: siamo praticamente soli e ci servono alcuni minuti per realizzare che il famosissimo Grand Canyon è lì, ancora buio, solo per noi! Vestiti di tutto punto a causa della temperatura polare e con una tazza di caffè caldo fra le mani ci sediamo sul ciglio aspettando. Il sole spunta verso le cinque e mezza e rapidamente illumina tutto lasciandoci senza fiato e con le vertigini per la bellezza e l’altezza del panorama che ci circonda; poco più tardi i turisti iniziano ad arrivare a frotte e lì decidiamo che è meglio andare via, lasciando che il mitico Grand Canyon resti, per quanto possa sembrare un’ossimoro, un ricordo intimo. Risaliti su Big Mama si riparte,la direzione è il Nevada passando per il deserto dell’Arizona, ormai più che vaccinati ai km da percorrere. Il paesaggio è quasi lunare,si incrociano solo sabbia,asfalto,edifici lasciati a loro stessi e macchine distrutte lungo le vallate che costeggiano le strade le quali si trasformano in invitanti bersagli per prove di lanci di precisione. Avvicinandoci poi a piedi verso una di quelle auto notiamo a poca distanza alcune croci e ci accorgiamo si tratta di un vecchio cimitero indiano! Si riparte e lungo il tragitto incrociamo una grande miniera, la Gold Road, sulla cui entrata c’è un cartello che indica che è visitabile, come resistere? Entrati ed indossato il canonico elmetto di protezione ci si presenta un uomo che più americano di così non si può immaginarlo, con la sua sigaretta senza filtro di ordinanza al lato della bocca, il quale ci trascina sottoterra dentro le cave della miniera spiegandoci con uno slang che probabilmente già qualcuno di una contea diversa dalla sua farebbe fatica a capire, figuriamoci noi poveri romagnoli che ci troviamo così costantemente ad annuire alla fine di ogni sua frase. Vedere una vera miniera fa spavento e ci fa apprezzare a tutti il fatto di studiare! Poi si riparte per una nuova tappa,la città fantasma di Oatman; ecco non sapevamo bene cosa aspettarci ma noi tutti la facevamo un po’ più “fantasma”. Era invece una piccola cittadina simil Far West trasformata in un viale “souvenir” con tanto di muli liberi per le strade e finti cow boy fuori dai saloon che inscenavano duelli sotto al sole per qualche dollaro. Fatto un giro nei negozietti puntiamo ad un locale la cui tappezzeria era fatta da biglietti da un dollaro lasciati dai clienti con su scritto un messaggio,noi scriviamo l’indirizzo del sito e l’incolliamo alla parete. Il pranzo è allietato da un signore avvinazzato di mezza età che fà cover di grandi classici del rock in uno stile tutto suo, cioè stonandoli a morte. Gli diamo due dollari e facciamo la richiesta di un grande classico: “Quando quando quando” in versione umplugged, stonature comprese. Si punta adesso al Nevada, direzione LAS VEGAS! Lungo la strada ci accorgiamo che è troppo presto per andare dritti a Las Vegas in quanto vogliamo arrivarci con il buio più totale per apprezzarne le luci, mentre pensiamo cosa fare passiamo sopra il fiume Colorado, immenso corso d’acqua che attraversa il Colorado, lo Utah, l’Arizona, il Nevada e alla fine sfocia in California. Senza neanche consultarci pochi secondi dopo siamo in costume, bagno e partitella di calcio a bordo fiume da veri italiani campioni del mondo! Ricapitolo: canyon,miniere,città fantasma e bagno nel Colorado! Ah,giusto per fare ulteriore invidia adesso stò scrivendo dal camper parcheggiato a 20 miglia dall’entrata di Las Vegas,stiamo per cenare e guardare “Paura e delirio a Las Vegas” in modo da essere il più carichi possibile per l’ingresso in città! (a cura di Fabio Ferrari – FF) 29 e 30 agosto, Las vegas e Death Valley Con l’arrivo delle tenebre cominciamo a notare, oltre le montagne, la miriade di luci che la twilight city spara contro il cielo. E’ giunto il momento. Sottofondo musicale a base di “Viva Las Vegas” di Elvis. Nei bicchieri uno squisito coctail preparato dal nostro barman personale, Franz. Si va! Le venti miglia che ci separano, letteralmente volano via. Poi accade tutto in un istante. Oltrepassiamo un promontorio e Lei è lì… Non è possibile descrivere a parole la visione che si presenta ai nostri occhi… Un mare sterminato di luci al neon, del quale non si riesce vedere la fine. Ci immergiamo nella bolgia luminosa e in una mezzora raggiungiamo la Strip, la strada principale. Qui è tutto come nei film: hotel immensi, strip club e cappelle che sponsorizzano matrimoni veloci ed economici. Inghiottiti nel traffico facciamo subito amicizia con altri automobilisti appena arrivati. Il consueto giro turistico per la città è un vero spettacolo. Gasati all’inverosimile cerchiamo subito una stanza. Dopo un paio di tentativi in hotel dai quali veniamo cacciati dai prezzi improponibili, decidiamo di accontentarci di una modesta camera in una pensione in pieno centro. Rapido make-up, brindisi, e siamo in strada. Nonostante l’eccitazione generale ci sentiamo come provincialotti spaesati. La Strip sembra infinita. I casinò si presentano come immense città dove una moltitudine di persone delle più svariate etnie soffrono e gioiscono (in pochi casi) seguendo dadi capricciosi e roulette dispettose. E non è possibile non citare le slot machines. A qualunque ora del giorno e della notte le loro luci e i loro jackpot attraggono facce tristi, incazzate e concentratissime che continuano a sperare nel colpo grosso. Verso le quattro di mattina ci accorgiamo che, considerando anche il fuso orario, siamo in piedi da 24 ore. Si opta quindi per un sonno ristoratore e la giornata si chiude senza neanche una puntata. Al mattino decidiamo di trasferirci al Luxor, il leggendario hotel a forma di piramide. L’immensità della hall (la più grande al mondo) ci lascia senza fiato. Anche qui slot e tavoli da gioco dovunque. Il pomeriggio trascorre tra shopping e piscina. Con la luce del giorno la twilight city mostra ulteriormente la sua necessità di sperperare denaro per sopravvivere: tutte le luci sono accese anche sotto un sole accecante e le pubblicità degli spettacoli sono affidate ad aerei che, con uno spettacolo stile “Frecce Tricolore” della durata di pochi minuti ma dal costo esorbitante, avvertono dell’evento serale. Verso sera, dopo aver aggiornato il sito (pensiamo sempre anche a voi), decidiamo che è giunto il momento di puntare qualche dolla alla roulette. Ed è qui che si realizza il sogno americano. Sotto lo sguardo incredulo degli altri giocatori, alla mia prima puntata in un casinò, becco il numero sul quale la curiosa pallina si ferma. Il numero mi era stato suggerito, prima della partenza, da una maga modenese, alla quale va la mia riconoscenza. Giro di whisky per tutti e si continua a giocare. Sazi di emozioni d’azzardo ci dirigiamo all’hotel…La mattina seguente ci aspetta una ardua strada. Go West Young Men!! Dopo l’ultimo bagno in piscina partiamo alla volta del supermercato per rifornirci d’acqua: 10 litri a testa… ci servirà!! A questo punto giriamo Mama in direzione Ovest cominciamo a macinare strada verso la California. Ad attenderci non ci sono, come si potrebbe immaginare, palme e spiaggie stupende, bensì uno dei luoghi più inospitali della terra: il deserto simpaticamente chiamato Death Valley. Oltrepassato il confine di stato spegniamo l’aria condizionata per non fondere il motore. Ogni trenta minuti è necessario fermarsi per bagnare i pneumatici per non correre il rischio di una spiacevole esplosione. Dentro il camper la temperatura ha oramai raggiunto i 50°C e sappiamo che aumenterà. Verso il tramonto arriviamo a Badwater, il punto più basso dell’emisfero occidentale (85 m sotto il livello del mare) nonchè uno dei luoghi più caldi del mondo. Usciamo dal camper e ad accoglierci sulla strada c’è un vento impetuoso e molto più soffocante di un asciugacapelli. Qui follia generale: già ridotti in mutande dal clima torrido, leviamo anche quelle e cominciamo a correre come pazzi nel deserto. Emozioni indescrivibili capaci al tempo stesso di uccidere e riappacificare col mondo. La pseudocompetizione dura solo pochi secondi, sufficienti tuttavia a sfiancarci mentalmente e fisicamente. Stremati, ci rimettiamo in viaggio e dopo un paio di ore ritroviamo qualche segno di civiltà. Dal lusso frenato e sfoggiato di Las Vegas al solitario e fatale terreno della Death Valley… non è facile credere che queste due realtà appartengano allo stesso mondo. La stanchezza si impadronisce di noi sulla strada per il Sequoia National Park. Per oggi può essere sufficiente. (a cura di Valerio Vincenzi – Vadi) 31 agosto, Sequoia national park (california) Il Sequoia National Forest è una gigantesca foresta che coprende 34 singoli boschi. Al suo interno si trova il dirupo più profondo d’America, la vetta più alta d’Amercica e…In teoria la sequoia più grande del mondo. Peccato che tra la definizione “forest” e “park” passino all’incirca 600 km di strada di montagna. Ebbene si, per la prima volta in questa vacanza ci siamo sbagliati…Abbiamo dormito di fronte all’ingresso del National Forest e dopo una 50 di silometri dove un Nik entusiasta si convinceva di vedere sequoie sempre più grandi, abbiamo digerito l’amara lezione che anche gli Americani hanno delle regole nel lessico. La nostra vera destinazione doveva essere il sequia national PARK, non FOREST. Per fare un esempio…Ci siamo ritrovati in veneto invece che in lombardia. Un gruppo di persone normali avrebbe rinunciato a farsi altre 6 ore di macchina per vedere un albero (destinato a diventare la più grossa catasta di legna da ardere) ma noi, reduci dalla corsa nudi nel deserto della morte, abbiamo giurato che quel dannato albero sarebbe stato comunque lo scopo della giornata, fosse l’ultima cosa che avremmo fatto, dannazione! La sveglia ha suonato puntualmente alle 8 e con una mossa da velocisti l’abbiamo spenta verso le 10 e mezza (la sera prima non siamo andati a letto presto…Per motivi top secret, le morose stiano comunque tranquille! Anzi..Orgogliose!) Abbiamo addentrato Big Mama all’interno di una foresta tanto vasta quanto inutile ai fini del nostro itinerario e dopo aver fatto 3 o 4 inversioni di rotta (sempre negli stessi 600 metri) abbiamo realizzato il nostro errore. Direzione sud, poi ovest e infine nord. Mariano Mariano è impazzito, il gatto non la smetteva più di saltare da un letto all’altro e Wilson assisteva impotente a tutto questo trambusto (vedi legenda sotto). Dopo qualche ora di marcia ci siamo fermati a mangiare in una piazzola dove dei daini ci guardavano tra il sorpreso e (il più probabile) schifato. Finito di mangiare li abbiamo salutati e Pietro ha pensato bene di lasciare sulle rocce un pacco di sigarette altamente infiammabile assieme ad un bicchiere di Big Mama. Doppio danno. (Ricordo che Pietro ha giù perso le guide della California poco prima di entrare in California) La giornata in realtà è passata in fretta sulla strada, abbiamo perso qualche ora ma eravamo comunque contenti di realizzare il sogno di Nik (e di fare questa pazzia). Siamo arrivati all’ingresso del parco quasi al tramonto e il buon Vadi ha salutato la guardia con un “Good morning” sentendosi rispondere in tono tipicamente yankee “morning??!?”. Vadi ha concluso la simpatica scenetta con una risata. Il ranger invece l’ha guardato in faccia e ha pensato bene di consegnarli una guida. Quella che doveva essere una giuda si è rivelata poi un vero e proprio manuale di sopravvivenza. Fino ad ora le nostre uniche paure erano rappresentate da ispanici, negri e ragazze ubriache ma ora ci tocca fare i conti con orsi bruni, puma, coyote, serpenti a sonagli e protozoi avanguardie di una guerra batteriologica. Da quel che leggiamo (e vediamo in giro) pare che l’incontro con l’Orso affamato non sia un evento tanto raro e la guida sta cercando di spiegarci che la nostra immagine mentale di Bubu è molto distante dalla realtà. “Gli orsi nesi sono attratti dai generi alimentari consumati dall’uomo e possono causare gravi danni nel tentativo di ottenerlo. In questi frangenti possono inoltre divante agressivi”. A seguito di questa frase vengono elencati tutti i modi per inscatolare gli odori dei cibi ma il decalogo non ci tranquillizza. Subito dopo leggiamo “Nel parco è facile incontrare serpenti a sonagli. Fare estrema attenzione a dove si mettono i piedi” e “In questi parchi vivono i puma, evitare di correre da soli. Se si incontra un puma non correre né accovacciarsi. Rimanere fermi e indietreggiare lentamente, agitare le mani, urlare e lanciare sassi” (in pratica…Fare le checche impazzite) ma poi continua “Se venite attaccati, difendetevi!” (Guarda la foto di Franz attaccato da un Puma e difeso da Fabio). Non ci facciamo intimorire da queste raccomandazioni e carichiamo il Mateo di turno (Vadi) a piagiare sull’acceleratore. Il nostro obiettivo è il grandissimo Generale Sherman: l’essere vivente più grande della terra. Questa particolare sequoia ha tra i 2300 e i 2100 anni e il suo ramo più grande raggiunge quasi i due metri di diametro; ogni anno la sua crescita equivale a un albero di proporzioni normali alto 18 metri. La maggior parte degli alberi della Sierra Nevada muore per malattie, funghi e così via ma niente colpisce il Grande Albero che sembra immortale. Per tali ragioni decidiamo di presentarci di fronte al Generale in alta uniforme e dunque ci vestiamo con la giacca. Durante la corsa solitaria nella foresta (come raccomandava la guida) incontriamo qualche persona che risalendo verso la cività apprezza il nostro stile tutto italiano. Finalmente il grande Generale: imponente, maestoso, sequoioso. Lo apprezziamo così tanto che nel momento in cui rimaniamo soli, scavalchiamo il recinto che lo protegge e gli offriamo in dono la nostra urina. Sappiamo che gli alberi la gradiscono e la sua corteccia ne sarà stata sicuramente ghiotta. Fuggiti velocemente dall’arresto per vilipendio alla bandiera torniamo su Big Mama per non diventare cibo di puma, coyote, e quant’altro. Come sempre, siamo contentissimi anche di questa giornata, non particolarmente entusiasmante ma di certo unica. PS: Sento il bisogno di spiegare al mondo intero chi è Wilson, Quinto, il gatto, ecc.. Ecco la legenda: Mateo: Dicesi “Mateo” (rigorosamente con tono Checca-Brasiliano) il guidatore di turno. Il termine nasce dal nome di battesimo del pilota Londra-Chicago. Il Mateo è inoltre responsabile delle chiavi di Big Mama, della sua chiusura ermetica durante le soste ed è in generale il responsabile legale per qualsiasi atto fuori legge commesso dal gruppo. Dunque il Mateo rimane tale anche fuori da Big Mama fino al momento in cui non passa le chiavi al nuovo Mateo. Matia: Dicesi “Matia” chiunque risieda a fianco di Mateo. Le origini del suo nome si perdono nella notte dei tempi ma delle leggende ci portano a sospettare che il nome nasca dalla piacevole somiglianza fonica tra lui e il suo vicino. Il Matia è responsabile dello stato di veglia del Mateo. Quinto: Dicesi “Quinto” chiunque risieda dietro gli altri. La filologia riporta le origini del nome a “Quinto Baldoni”, antenato del più celebre Tom Mariano Baldoni. Mariano Mariano: E’ il nome attribuito al Tom Tom (navigatore satellitare utilizzato in casi di emergenza). Come è facile intuire, il nome deriva da “Tom Mariano Baldoni”, gestore del camping di Albuquerque, nonché cesenate. Gatto: Dicesi “gatto” il pallone comprato al Wal Mart. Assume questo nome (e identità) nel momento in cui scivola sotto i piedi di Vadi che lo scambia proprio per un gatto ed esclama (seriamente) “avete comprato un gatto??!”. Da quel momento il gatto è libero di saltare dentro Big Mama a suo piacimento. Biagio: E’ la cassa comune. Viene chiamata Biagio dal momento in cui Tom Mariano ha rivelato che “Biagio l’è muort”. (La domanda era “per caso un suo parente si chiama Biagio?”). Le ragioni per cui la cassa comune (che è sempre in fin di vita) viene chiamata Biagio sono evidenti. Tommaso: E’ la nostra pila personale. In realtà fisicamente è sempre il telefono di Franz, nonché navigatore, nonché Mariano Mariano, nonchè Chiara ma a seconda dell’uso assume un nome diverso. Il nome Tommaso deriva da Thomas Edison. Chicca: Nel momento in cui Tommaso entra in funzione emette anche suoni, in particolare Pupo con “Su di noi” Chiara: E’ la voce di Mariano Mariano. A volte si attiva a volte dorme. Il Tagliagambe: Dicesi “Tagliagambe” il palo di ferro che sorregge il tavolino. Nel momento in cui il tavolino viene nascosto il palo è libero di girare orizzontalmente a suo piacimento in cerca di gambe da spezzare. Da segnalare che a volte litiga col gatto. Wilson: Wilson è il nostro amico di viaggio preferito. Tecnicamente lo si potrebbe definire “corteccia di albero a forma di maschera” ma per noi è semplicemente Wilson. Ci fa compagnia dal giorno del bagno nel colorado e passa tutto il giorno sul cruscotto a osservare la strada. Ricordo il primo momento in cui l’abbiamo avvistato e ricordo inoltre Pietro che saltellava come uno scimpanzé con Wilson a fargli da pettorina. Scene impedibili. Harrison e robbins: sono i due stracci da pavimento. Vengono chiamati così in onore dei libri di clinica medica e patologia generale. Da ciò si dovrebbe intuire lo stato dei nostri pavimenti. Tina: La nostra calamitino attaccata all’aspiratore della cucina. Ci fa compagnia da Oklahoma City. Infine Big Mama…! (a cura di Francesco Zazza – Franz) 1 settembre, san francisco Dopo la memorabile visita al vecchio tronco ci siamo diretti ad un campeggio nelle vicinanze per trascorrere la notte. Piazzato Big Mama nella piazzola numero 14 (in onore della vittoria di Vadi a Las Vegas) abbiamo deciso di andare a letto convinti di poterci riposare adeguatamente grazie al fresco delle montagne. Errore. Non è ancora sorto il sole e siamo già tutti svegli. Il motivo? Semplice: è un freddo vigliacco! Ciascuno tenta di difendersi come può; chi usando coperte saggiamente acquistate in Texas, chi indossando felpe su felpe, e chi svuotando il proprio cuscino (nonché sacco dei panni sporchi) e indossandone il contenuto. La sveglia è prevista alle 6 per fare una passeggiata nei boschi ma quando suona siamo già svegli. Come in tutte le storie è giunto il momento di vedere chi è davvero un duro e chi no. Si tratta di scegliere se vestirsi e uscire nel gelo mattutino o rannicchiarsi sempre più sotto le coperte. In tre decidiamo di uscire: io, Nic ed il buon vecchio Fabio. Due mollano… Appena usciti il freddo è tremendo e non avendo idea di dove dirigerci chiediamo indicazioni al boss del camping che ci indica un sentiero della lunghezza di un paio di miglia. Il morale non è certo alle stelle ma comunque si parte e dopo un centinaio di metri di strada asfaltata, che alimentano le perplessità di Nicola (“certo che se dovevamo camminare sull’asfalto potevamo anche stare a letto…”), entriamo nel sentiero vero e proprio. Camminando in breve ci si scalda, la passeggiata diventa subito gradevole, e i nostri occhi assonnati si aprono progressivamente per ammirare tutto ciò che ci sta intorno. Siamo in un bosco composto in gran parte da pini e sequoie, alberi giganteschi e magnifici. Ormai è chiaro che è valsa la pena di alzarsi e uscire per visitare questo posto magnifico, ma dentro di noi c’è ancora un piccolo sogno del quale nessuno ha il coraggio di parlare: l’incontro con l’orso o magari con un puma. Il sentiero risale un torrente sino a raggiungere le cascate, questa è la nostra meta. Stiamo per uscire dalla parte del sentiero all’interno del bosco per continuare sulle rocce quando vediamo a pochi metri da noi un animale, anzi due, ma no guarda sono tre; tre grossi cervi che brucano erba ai lati del sentiero vicino ad una sequoia abbattuta. Scattiamo subito foto temendo che scappino da un secondo all’altro. Ma va la, non ci pensano neanche ad andarsene. Così ci avviciniamo fino ad un paio di metri da loro dove rimaniamo per una decina di minuti ad ammirarli. Mi era capitato altre volte di vedere animali di questo tipo ma mai di potergli andare così vicino senza incutergli alcun timore. Poco dopo ci rimettiamo in marcia, lasciando le bestie alla loro prima colazione, e in breve copriamo l’ultimo tratto di sentiero e arriviamo in cima. Oltrepassiamo il cartello che indica la fine della passeggiata e raggiungiamo le cascate dove pensiamo bene di lasciare un segno del nostro passaggio. Solo qui ci accorgiamo che siamo fuori da più di un ora e non abbiamo incontrato assolutamente nessuno. Dovete sapere che il campeggiatore medio americano pesa più di cento chili, possiede un camper o una roulotte lunghi diverse decine di piedi dentro al quale si trova l’immancabile sulky o scooter elettrico per gli spostamenti all’interno del campeggio, nonché un barbecue nel quale cuoce bistecche da un kg l’una possibilmente condite con litri di salse di vari tipi. Insomma non il classico camminatore. Sentendoci i padroni del monte e scattata qualche foto ci rimettiamo in marcia e torniamo da Big Mama senza incontrare Yoghi ma comunque entusiasti della camminata e dell’incontro con Bambi. Qui ritroviamo i due dormiglioni in compagnia di Wilson, MarianoMariano e compagnia bella. Sono solo le 11 del mattino e ci attende una giornata di viaggio per cui si parte; meta St. Francisco. Le miglia passano, l’altitudine diminuisce e pian piano la California diventa sempre più California. Verso metà pomeriggio siamo a poche decine di miglia dalla città con il morale alle stelle quando ecco che si mostra ai nostri occhi quello che mai ci si apetterebbe in un highway a sei corsie: fila. Buoni buoni ci mettiamo in attesa e mentre raccomandiamo agli altri automobilisti la visita del nostro sito attendiamo impazienti di entrare in città. Ce la caviamo con un’oretta di fila e il trionfale ingresso in città si rivela assolutamente al livello delle nostre aspettative. St. Francisco è diversa da tutte le altre città che abbiamo visto fino ad ora. E’ arrampicata su alcune colline e figuriamoci se questi americani si mettono a costruire strade con le curve, ciò che ne deriva sono salite e discese mozzafiato. Inoltre le costruzioni sono basse, eccezion fatta per qualche gigapalazzo nel down town, e con stili architettonici molto vari e caratteristici. Ci sembra dopo tanto tempo di rivedere una città Europea. Quello che vediamo attorno ci prende a tal punto che parliamo concitatamente fra noi di tutto ciò che ci sta intorno fino a quando in cima ad una salita non appare davanti a noi un’immagine vista centinaia di volte ma mai dal vivo: il Golden Gate Bridge. Attimo di silenzio smarrito seguito da urla esaltate. Andiamo. La prima cosa che facciamo è attraversare il ponte con Big Mama. Entusiasmo alle stelle, così alle stelle che solo più tardi ci accorgeremo di essere arrivati al cospetto di niente popò di meno che l’oceano pacifico… Bravi noi. Dopo qualche foto di rito torniamo in città dove facciamo spesa, ceniamo in un parcheggio di fronte all’isola di Alcatraz e in tutta calma ci prepariamo alla nostra prima serata a St. Francisco. Altro errore. Si perché se nella realtà della riviera romagnola uscire verso mezzanotte il venerdì sera è assolutamente normale, non lo è a St. Francisco. Scopriamo con somma gioia che c’è un grande quartiere Italiano a North Bay, in centro, dove sventolano bandiere tricolore e dove troviamo anche il poster dei campioni del mondo affisso a qualche vetrina; scopriamo anche che qui tutti i locali sono in fase di chiusura. Non molliamo. Chiediamo a giovani indigeni che ci indicano un altro district in cui si può tirare a tardi. Carichi prendiamo un taxi che ci porta nella strada che ci hanno consigliato. Qui scendiamo, lo vediamo e ci innamoriamo: il Delirium. Una bettola orrenda. Assolutamente perfetta. Entriamo e superato il bancone e il tavolo da biliardo entriamo nel salone da ballo: 5 metri per 4, settanta gradi centigradi, musica rock. Ci buttiamo subito nella mischia pronti alla lunga notte che ci aspetta ma dopo un paio di canzoni la gente inizia ad andarsene e dopo mezzora le luci si accendono e siamo gentilmente invitati ad uscire dal locale. Allibiti guardiamo l’orologio: sono le 2. Giriamo un po’ il quartiere in cerca di qualcos’altro da fare ma non c’è storia, la serata è finita, tutto chiude. Alla ricerca di un taxi che ci riporti da Big Mama giungiamo alla conclusione che per poterci sentire fino in fondo dentro ad uno dei nostri film preferiti ci manca solo di assistere a una rissa. Subito accontentati. Una montagna nera tira due o tre cazzotti a un piccoletto, che sicuramente se l’è cercata, prima che altri fratelli neri intervengano per dividerli. Ok, la lunga notte a St Francisco è terminata. Torniamo nel quartiere italiano dove abbiamo lasciato la nostra auto, la nostra casa, insomma la nostra mama, davanti all’insegna di un locale: “qua se magna”. Ci rimettiamo in moto alla ricerca di un area in cui dormire. In un campeggio fuori dal centro ci chiedono 55 dolla per notte… Il parcheggio del signor Mc Donald andrà benissimo… sogni d’oro. (a cura di Pietro Biondi – Pi) 2 settembre, san francisco Tutto sommato, il parcheggio del signor McDonald è stato più che accettabile. La sveglia non è stata quella del giorno prima, degna dei migliori boy scout, ma come al parco delle Sequoie, è per così dire, condita, da un elemento di quelli a cui non pensi se parli di California: il freddo. Non dico candele ghiacciate sulla punta del naso, ma pur sempre un freddo di tutto rispetto. Se vi chiedete come sia possibile potete immaginare la California come un lungo stato, simile alla buona vecchia Italia, in cui Los Angeles potrebbe essere la Napule dai mille colori, e San Francisco qualcosa tipo Trieste, spesso annuvolata e costantemente spazzata dal vento del Pacifico. L’effetto è unico, infatti le nuvole sfrecciano sulle nostre teste ad una velocità inspiegabile. Interessante. Abbiamo due giornate da spendere qui, quindi il programma di oggi prevede ovviamente di parcheggiare BigMama il più vicino possibile al centro, per poi divorare la città camminandola in lungo e in largo. E’ sabato, e pare noi si sia scelto il week end del Labour day (uno sorta di primo maggio a stelle e strisce in cui gli americani fanno visita ai loro parenti, magari nelle grandi città) per parcheggiare una bestiola da 9 metri e 40 nelle tipiche strade in saliscendi di San Francisco. Le peripezie sono immaginabili, ma come al solito a noi non ci ferma nessuno e dopo qualche minuto siamo in strada, zaino in spalla, alla volta della nostra prima tappa. Trattasi del Fisherman’s Wharf, una sorta di lungo mare in stile nordeuropeo ricco di ristorantini con una vista eccezionale sull’oceano e, alle spalle, sulle colline dove si adagia la città. Si fa ora di pranzo quand’ecco materializzarsi all’orizzonte una specie di miraggio. E’ Hooters, locale che fa parte di una catena di ristoranti, bar e alberghi (c’era persino il casinò a Las Vegas) con una intelligente particolarità: le cameriere sono estremamente simpatiche, servizievoli, carine e…Praticamente in bikini. Così, mangiare un hamburger piuttosto che una zuppetta assolutamente normali, si trasforma in un ottimo pranzo. Il prezzo dite voi? Ma chee, dettaglii. Solo 15 dollari per un panino e una Coca, praticamente gratuitii. Sii, tanto il problema non si pone se mentre ti portano il conto sei ipnotizzato. Bene così. Camminando verso il centro le sorprese non mancano e, piano piano, ci rendiamo conto di essere in una metropoli incredibilmente vivibile, sorridente, sobria ma allo stesso tempo trasgressiva. E districandoci tra i suoi isolati, ci perdiamo nelle mille sfaccettature culturali di cui si veste. Dopo un caffettino di rito al Vesuvio, locale storico nel quartiere dove nacque la cosiddetta “Beat Generation”, arriva il momento dello shopping. A zonzo per negozi non può mancare una sosta al megastore della Apple, semplicemente il negozio più fico che si sia mai visto. In tutto, questa città somiglia più ad una capitale europea, che ad una metropoli statunitense. Da segnalare quindi la carenza di quei supermegaciccioni simpaticoni mangiatori di hamburger a colazione, e la foltissima fauna femminile di gradevole aspetto e molto ben vestita, immagine utopica nelle nostre precedenti tappe on the road. L’atmosfera ha tutto di un sabato pomeriggio che si rispetti, con giro in centro per negozi ed aria frizzante. Naturalmente, in questi pomeriggi frizzanti, il problema maggiore, ammesso che lo si voglia definire problema, è quello di stabilire come e dove passare la serata. Ebbene, abbiamo ormai talmente in pugno questa città, che sappiamo già cosa ci aspetterà ed il problema è presto risolto. Così, con ringalluzzito entusiasmo, torniamo da BigMama. Wilson ha fatto il suo lavoro di guardiano, tutto è ok. Doccia, hotdog quotidiano, vestizione, e si va. Ah no, non ancora. Prima c’è da dar fondo alle scorte alcoliche di Franz…E in fretta, sono già le 21…Mah, con sti americani sempre di assistere alla vecchia storia del Carosello, e poi tutti a nanna bambini. Breve rave party nel camper parcheggiato davanti ad un supermarket, follia collettiva che tocca il picco della vacanza, e giù in strada alla cerca di un taxi. La meta è ovviamente il Delirium, che ci riporta alle atmosfere un po’ Vidia e un po’ Velvet di casa Romagna. La corsa si rivela una specie di Montagna Russa urbana, e noi a cantare a squarciagola la nostra canzone del giorno, il “Ballo di San Vito” di Vinicio Capossela nelle orecchie dello sventurato tassista cinese, che per un attimo pensa di farsi un regalo, lasciandoci in strada senza volere il pedaggio, pur di sbarazzarsi di noi. “Bella l’atmosfera, bella la musica che gira”. La nostra catapecchia del Rock è più che mai carica, ma stasera, signore e signori, l’attrazione sono gli italiani. Non si sa come, spariscono i dettagli, ma a fine serata ci conosce praticamente chiunque. Finisce che uno stanco tassinaro cinese, dall’aria diffidente e dalla guida cantilenosa, ci riaccompagna da mamma, con lo stomaco che brucia un po’, ma arricchiti di memorabili fotogrammi sfuocati che porteremo sempre con noi. (a cura di Nicola Placucci – Nic) 3 settembre, san francisco La giornata di oggi è stata segnata dalla diaspora del nostro affiatato equipaggio in due fazioni rivali caratterizzate da intenti differenti: i “tuttoquellochevoglioèunpòdirelax” composto da Pietro, Vadi e Franz, e nei “vogliovederepiùcosepossibili” di cui faccio parte io con il prode Nicola. Infatti mentre i primi tre hanno optato per una tranquilla giornata al Golden Gate Park fra un libro ed una partita di frisbee, noi due ci siamo incamminati di buon ora per scoprire il più possibile di questa affascinante metropoli. Come prima tappa decidiamo di girovagare anche noi per il Golden Gate Park, il quale, più che un normalissimo parco cittadino, è una città nella città essendo lungo più di cinque Km ed avendo al suo interno musei,laghi e quant’altro. Dopo un giro del parco decidiamo di portarci verso il centro di San Francisco; non sapendo bene come arrivarci ci facciamo aiutare da un ragazza cinese la quale ci accompagna alla più vicina stazione della metropolitana dove ci saluta con la promessa di andare il prima possibile a visitare il nostro sito. Arrivati in centro io e Nicola ci sentiamo perfettamente a nostro agio in questa città così simile ad una qualsiasi capitale Europea e, preso il classicissimo caffè/beverone take away in bicchiere di plastica, giriamo a zonzo per i viali principali. Dopodiché decidiamo di dividerci, dandoci appuntamento per qualche ora dopo. Nic punta alla zona del porto con le sue sculture ed i mercatini tipici mentre io mi indirizzo nella zona degli Yerba Buena Gardens per visitare il MoMa, cioè il museo di arte moderna di San Francisco situato in un bellissimo edificio progettato dall’architetto svizzero Maria Botta. Passato il primo quarto d’ora a cercare di convincere la cassiera a farmi pagare il biglietto d’ingresso a prezzo ridotto da studente pur essendo sprovvisto del badge, cedo e, pagato il prezzo intero, entro. Passo la maggior parte del tempo al secondo piano in cui si possono ammirare quadri di Matisse, Frieda Kahlo, Pollock, Picasso e tanti altri; i restanti piani sono dedicati ad opere d’arte moderna dalla discutibile bellezza, mostre fotografiche e sale dedicate all’architettura ed al design. Con le cuffie nelle orecchie mi ributto nel traffico cittadino per andare a rincontrare Nicola; la sensazione è bellissima, mi sembra di vivere quì da una vita ed aggiungo alla personale lista mentale dei posti in cui mi piacerebbe vivere per un po’ anche San Francisco. Trovato Nic e consumato un veloce spuntino in uno Starbucks decidiamo di dirigerci verso la Coit Tower, una torre alta 86 metri posta su una dei punti più alti da cui ci hanno assicurato si gode una vista incredibile di tutta la città. La camminata è un’esperienza strana, sia perché San Francisco è un continuo e terribile saliscendi, mortale anche per i polpacci più allenati, sia perché si attraversa il Financial District, North Beach (ossia Little Italy) e Chinatown trovandoti a passare nel giro di un’ora dall’ambientazione di una metropoli fatta da manager in giacca e cravatta, ad una sorta di viale napoletano, fino a trovarti nella Cina più profonda. Arrivati con qualche polmone in meno in cima alla torre si conferma il consiglio che ci avevano dato, la vista è mozzafiato: si vedono i grattacieli, le strade con i tipici saliscendi, Alcatraz, il Golden Gate, i parchi e una miride di persone che brulica per le strade. Foto di rito e si riparte, prima di tornare dagli altri decidamo però di passare da Lombard Street in cui c’è la strada più tortuosa del mondo in cui le macchine passano in un vialetto fiorito fra curve a zig zag incredibili (vedi foto). Tornando verso il camper distrutti e contenti ci auto-congratuliamo fra noi per aver avuto la forza e la voglia necessaria per la lunga camminata di oggi, completamente appagati dei panorami visti. Arrivati al camper io e Nic crolliamo mentre gli altri ragazzi un po’ più riposati di noi e ligi al dovere della vita on the road si rimettono al volante. La direzione? Finalmente le famose spiagge californiane, pronti a mettere un altro tassello nel disomogeneo insieme paesaggistico che ha caratterizzato l’intera vacanza, o meglio l’intero viaggio, ben consapevoli dell’immensa diversità di questi due termini. (a cura di Fabio Ferrari – FF) 4 settembre, Malibu e Los Angeles Dopo esserci alternati alla guida per tutta la notte, verso le 6 di mattina, la figura imponente di Big Mama si staglia a pochi metri dalla spiaggia di Santa Barbara. Finalmente caldo e mare degni del nome California! Dopo qualche bagno tonificante nell’oceano, un paio di tiri a frisbie e un po di meritato svacco è già ora di ripartire. Infatti abbiamo deciso di vedere più spiagge possibili prima di arrivare a Los Angeles. Scorrendo sulla cartina la costa della California la tappa successiva non può essere che una: Malibu… In un paio di ore ci siamo.Tuttavia orientarsi non è sempre facile ed inconsapevolmente ci ritroviamo in una zona più residenziale che turistica. Qui la vista del mare, nonostante sia a poche decine di metri da noi, è completamente oscurata da case costruite una accanto all’altra letteralmente a ridosso del bagnasciuga. Nonostante un po’ di difficoltà troviamo un varco e raggiungiamo una spiaggietta. Dopo pochi minuti dal nostro arrivo ecco che si materializza ad una ventina di metri da riva uno spettacolo degno di Quark: un branco di una decina di delfini che nuota tranquillamente in mezzo ai bagnanti stupefatti. Ci tuffiamo subito, sperando in un incontro ravvicinato ma oramai è troppo tardi e il branco si è portato al largo. Tutto ciò che troviamo in acqua sono onde alte anche due metri… peccato non essere surfisti! A prendere il sole però siamo ancora capaci, e quindi ci piazziamo sulla sabbia mescolandoci alla fauna locale. Presto si fa ora di aperitivo e niente è meglio della dispensa di Big Mama in queste occasioni: tacos e salsa piccante (davvero piccante). Per la serata decidiamo di andare a farci un giro ad Hollywood. Nonostante tutti gli sforzi possibili non si riesce ad essere pronti prima delle nove e mezzo. Dopo un’ora e mezzo di ricerca del parcheggio giungiamo finalmente in Hollywood Boulevard, la famosa strada i cui marciapiedi sono costellati di stelle di marmo, ciascuna delle quali dedicata a personaggi famosi. Non c’è niente da fare, coi nostri orari qua è difficile combinare qualcosa di interessante la sera. Alle 11 ci vediamo infatti sbattere in faccia un paio di “Sorry, we’re closed”. Il giro per Hollywood continua fino ad esaurimento batterie. Per la notte riusciamo a trovare da parcheggiare lungo una strada a Venice Beach. (a cura di Valerio Vincenzi – Vadi) 5 settembre, venice beach e los angeles La vendetta del Generale Sherman non si è fatta attendere a lungo (vedi 31 luglio), in meno di 5 giorni il suo apparato di informazione è riuscito a istruire tutti gli alberi della California e così alle 8:30 del mattino ci sembra il momento ideale per scastrare Big Mama dalla morsa fatale di un piccolo albero di provincia. L’elenco dei danni inizia dallo lo sfiatatoio del frigo che è vistosamente penzolante ma mettiamo a tacere le nostre paure convincendoci che quel coperchio è solo un dente da latte. Lo appoggiamo sul tetto. Spostiamo Big Mama ferita verso un parcheggio di fronte al pontile di Venice, non più di 3 metri dalla sabbia e decidiamo che quella è la nostra base per la giornata di mare e turismo.
Di fronte a noi c’è un negozietto che affitta rollerblade, biciclette, chopper e tandem. Non servono parole, nel giro di 10 minuti (necessari per distruggerci a vicenda le voglie di affittare un chopper a pedali) abbiamo i pattini ai piedi! La giornata inizia con i test dell’assicurazione sanitaria: Nicola è il primo a gustare il cemento del comune di Venice Beach ma poi anche Vadi preferisce frenare con il ginocchio. Nonostante lo stile di frenata tutto italiano decidiamo che la giornata a Venice Beach con i roller è più importante della nostra (e altrui) incolumità e dunque ci avviamo per il lungomare.
La sensazione è piacevolissima, ad ogni metro ti vengono in mente film su film…Il cortometraggio che si para davanti ai nostri occhi è: palme, sabbia dorata, ragazze bellissime, artisti di strada, tatuatori, massaggiatori, sportivi si ogni genere, ecc… Sfrecciare affianco ai guardaspiaggia che dal loro pickup giallo ti fanno ok con il dito non è da tutti i giorni! Nella passeggiata di Venice incontriamo incredibilmente un gruppo di amici inglesi e australiani che abbiamo conosciuto lungo la Monument Valley…A più di 2000 kilomtri da li!! La coincidenza incredibile ci commuove ma dopo due minuti decidiamo che evidentemente è molto facile rincontrarli e dunque…Sostituiamo la loro compagnia con quella di 5 ottimi hamburger sul pontile di Santa Monica! Il pomeriggio continua sui roller ma sappiamo bene che è arrivato il momento di comprare il regalo per il compleanno di Fabio. Con una mossa scaltra lo portiamo dentro un negozio di tendenza e osserviamo che il suo interesse (dopo il cesso) si posiziona su alcuni libri. In particolare è affascinato dal libro “101 cose da fare prima di morire” che gli si apre proprio sulla pagina “Route 66”!! Fabio è indeciso se comprarlo o meno…Ci mostra ogni dettaglio di questo libro ma poi decide di riporlo. E’ il nostro momento, glielo compriamo di nascosto! L’operazione sembra conclusa ma il buon Fabio torna sui suoi passi e accenna a volerlo comprare. La nostra fantasia ci sostiene e dunque…Frottola dopo frottola riusciamo a scoraggiarlo all’acquisto (dopo 20 minuti di contrattazioni!!).
Torniamo al camper e dopo aver risolto la questione “Nicola E La Truffa Del Bancomat” sfruttiamo la spiaggia per giocare, prendere il sole e scattare foto al tramonto. Si sta avvicinando un triste momento per “noi altri”…Sappiamo che dovremo lasciare su questa sabbia il nostro amico Wilson e il gatto. Prima però c’è l’ennesimo momento di pazzia generale: propongo di toglierci i vestiti e di fare il bagno nell’acqua gelida sotto onde alte 3 metri. Inizio a correre in mutande verso l’acqua e sento dietro di me i passi di tutti…È fatta, siamo un gruppo affiatatissimo! Come in tutte le storie è giunto il momento di vedere chi è davvero un duro e chi no. Si tratta di scegliere se rimanere nell’acqua gelata in balia delle onde o se tornare a coprirsi su Big Mama. In due decidiamo di rimanere (e facciamo il bagno nudi): io e Nic. Tre mollano…(Per capire a fondo questa frase è necessario leggere la giornata del 1 settembre!).
E’ il momento di affrontare la separazione dei nostri valorosi compagni Wilson e il gatto. Con una cerimonia improvvisata diamo il nostro arrivederci al “migliore amico di legno dell’uomo” liberandolo sulla battigia e infine seppelliamo il gatto ormai senza vita. Sono momenti difficili, duri da superare ma a volte per crescere è necessario affrontare anche delle salite.
Il morale per la serata è ormai compromesso per almeno 5 minuti e dunque dopo mezz’ora ci ritroviamo con un cacciavite in mano (aggiustando Big Mama) a festeggiare la mezzanotte del compleanno di Fabio. Siamo nell’ennesimo parcheggio di un centro commerciale e aprendo la porta del camper troviamo dei palloncini sporchi utilizzati nel pomeriggio per inaugurare un qualche gadget…Gli diamo una breve spolverata e li presentiamo a Fabio come se fossero stati preparati da noi durante il pomeriggio (dimenticavamo però che quel ragazzo ora ha un anno di più…E infatti non ci crede!). Bravi noi! (a cura di Francesco Zazza – Franz) 6 settembre, los angeles Di nuovo svegli. E’ presto. Qualche secondo per realizzare. Siamo in una zona residenziale dalle parti di North Hollywood. La sveglia è suonata di buon ora per un motivo estremamente semplice: oggi ci attende la visita agli Universal Studios. Trattasi di un parco dei divertimenti che ha come tema il cinema, o meglio, i film che hanno fatto la storia del cinema, le cui attrazioni sorgono esattamente affianco ai set di Hollywood. In pochi minuti il Mateo di turno (trattasi del buon vecchio Fabio) ci conduce davanti all’ingresso. Saltiamo giù da Big Mama e carichissimi varchiamo l’ingresso. Da giovani romagnoli quali siamo ci aspettiamo una Mirabilandia in grande stile. Non è così. Niente di paragonabile al Katoon dal punto di vista dell’adrenalina, i giochi qui sono molto più simili a spettacoli teatrali per la cura dei particolari e i continui colpi di scena. Nel complesso le attrazioni sono bellissime anche se poco numerose. Ci spostiamo cosi dal cinema 3D che ci fa visitare la palude di Schrek ai gommoni di Jurassik Park, attraverso le montagne russe dentro la piramide della Mummia fino al simulatore, a forma di Delorian a 8 posti, che ci permette di viaggiare nel tempo con Doc e Martin all’inseguimento di Biff… (…Semplicemente una figata…). Fra un’attrazione e l’altra ci spariamo anche una visita guidata all’interno dei più famosi set cinematografici della storia. Tutto questo per alcuni non sarebbe niente di eccitante. Non per noi. Noi piccoli grandi bimbi di provincia non riusciamo proprio a non trovare fantastico anche il semplice fatto di trovarci dove prima di noi sono stati i nostri eroi del grande schermo, il poter toccare con una mano la “macchina del tempo” o l’auto, rigorosamente senza accendisigari, dei Blues Brothers. Insomma il morale è come sempre altissimo e la giornata passa con una velocità incredibile. Si fa sera. La nostra ultima sera. L’ultima sera dei Big Mama’s boys a Los Angeles, California, Stati Uniti. Inoltre la sera del compleanno di Fabio dr. Ferrari. 23 anni. Ci sono posti peggiori in cui compiere gli anni. Il programma è semplice: un locale, musica e voglia di divertirsi. Troviamo parcheggio corrompendo il cassiere della Tower Records che ci fa piazzare la Mama nel parcheggio del negozio. Siamo praticamente davanti ad uno dei locali storici di L.A.: il Viper Room, di proprietà di niente popò di meno che Jonny Depp (lo stello locale dove ha perso la vita River Phoenix, trovato steso sul marciapiede davanti all’uscita). Andiamo. Il posto è più piccolo di come ce lo immaginavamo ma c’è gente e un gruppo suona dal vivo del buon Rock and Roll. Non entro nei dettagli: musica, birra, festa e divertimento. Ancora una volta il nostro spirito di gruppo e la nostra voglia di fare, uniti a tutte le possibilità che questo grande paese ci offre ci fanno trascorrere una serata alla grande. Proprio quando la serata volge al termine il buon vecchio Franz prende un taxi e va a vedere il famosissimo locale di Dan Aykroyd. Dopo mezz’ora è di ritorno con gli occhi luccicanti come quelli di un bimbo il giorno del suo compleanno. Viene da noi e ci fa: “Sono stato a vedere la House of Blues!!! Il posto è bello ma soprattutto c’è il toro meccanico…” Se uno viene da me e mi dice una cosa del genere io non so proprio come resistere. Andiamo. Io e lui ci avviamo di buon passo e in 10 minuti siamo li. La macchina mortale è splendida. Un solo problema: costa dieci dollari con due tentativi. Ci guardiamo… E quando ci ricapita??? Dopo aver visto una buona serie di americani finire al tappeto, senza che nessuno sia riuscito a domare la bestia, montiamo su. Sbanchiamo. Io al secondo e Franz addirittura al primo tentativo domiamo il toro per tutti i 25 secondi della durata della giostra. Conduttore che urla e locale in visibilio. Il resto è storia. Torniamo dagli altri alla Tower Records. Andiamo a cercare un campeggio. Bisogna fare bella Mama, domani la salutiamo. Fate le valige, si torna a casa. See ya’ later alligator (a cura di Pietro Biondi – Pi) Il viaggio è stato seguito in diretta da tutti gli amici in Italia attraverso questo sito: . Nel sito ci sono anche le foto e i filmati.