Retrospettiva di un Capodanno a Palermo
Anche la Sicilia è una terra dal forte carattere ancestrale, culla di civiltà e culture millenarie; terra di passione e amore, che sa di mare, di lava, di essenza agrumosa. La sua bellezza è così potente che in un certo senso quasi ti ferisce; il suo ventre è ampio e pieno di vita, ti accoglie e ti protegge: è come una Grande Madre, una divinità primordiale, mediatrice tra l’umano e il divino, che dà e sostiene la vita, che a lei ritorna per rinascere continuamente; e al contempo ha la sensualità di un’amante passionale, sanguigna, vendicativa , un’Afrodite bellissima e capricciosa come tutte le divinità, come tutte le belle donne; e la sua voce ha una forza misteriosa, è un richiamo a cui non si può resistere, come la malia del canto delle sirene e il suo potere di seduzione e di fascinazione. E una volta che ci arrivi capisci anche perché tanti popoli,nei secoli, l’anno conquistata.
In Sicilia per la prima volta ci sono stata da ragazzina, in gita scolastica;e sebbene allora fosse tutto dettato dalla distrazione tipica dell’adolescenza e dall’euforia di essere per la prima volta lontani da casa senza genitori, la Sicilia mi si è impressa negli occhi e nel cuore. Per questo quando per Capodanno abbiamo pensato di sottrarci allo stress di ennesime abbuffate luculliane e di comitive indecise sul da farsi, con mille idee tutte ben confuse, e abbiamo pensato di partire , non abbiamo avuto dubbi sulla meta: Palermo (a maggior ragione poi che Vito non era mai stato in Sicilia e questa mancanza andava assolutamente colmata).
Così il 30 dicembre ci siamo messi in macchina: direzione Villa San Giovanni, imbarco per Messina e poi due ore di autostrada da Messina a Palermo. Durata totale del viaggio 7 ore e 9 minuti. Ovviamente tutti non hanno fatto altro che dirci che sarebbe stato un massacro, che avremmo fatto prima con l’aereo; ma viaggiare nei periodi festivi può diventare economicamente insostenibile e poi forse gli altri non hanno una driver come la mia amica Roberta, che è fortissima al volante e nella vita in generale.
È stato bello trovare per strada la neve; è stato bello riconoscere nel buio all’improvviso il mare;è stato bello arrivare a Villa San Giovanni e vedere la Sicilia tutta illuminata; è stato bello vedere Vito emozionarsi quando siamo saliti sul traghetto.
E anche l’arrivo non proprio felice,a causa della casa in cui avremmo dovuto alloggiare che non aveva climatizzatori funzionanti, né stufette di emergenza, né tanto meno materassi comodi, oltre che un livello igienico un po’ discutibile e un’improvvisa perdita di acqua con conseguente allagamento, si è risolto poi il giorno dopo in un senso di meraviglioso stupore,quando l’agenzia ci ha trovato un’altra sistemazione, spostandoci in una casa enorme e luminosa,con un mega terrazzo, proprio nel cuore del centro storico( e proprio sul mega terrazzo, il primo dell’anno, abbiamo fatto colazione al sole, a maniche corte).
Palermo la ricordavo bella e l’ho ritrovata bellissima. Una delle cose che più mi ha colpito di Palermo è la sua luce, una luce molto intensa, forte e manifesta da risultare quasi drammatica. Palermo è una vera e propria centrifuga di storie, culture, stili, idee diverse che pur rimanendo ben delineate sono riuscite ad amalgamarsi tra loro creando un perfetto connubio. Palermo non è una ma cento città.
Nei pochi giorni che abbiamo avuto a disposizione, non abbiamo voluto affidarci ad itinerari turistici ma piuttosto lasciarci guidare da quello che è il dictum dei palermitani: per scoprire Palermo bisogna predisporsi a taliari, sientiri e tastari. Palermo infatti è una città estremamente sensoriale, estremamente ‘visiva’, ‘olfattiva’ e ‘gustativa’ .Taliari sta per guardare: occhi ben aperti e vigili,pronti a catturare tutta la bellezza,le infinite sfumature e la sua arte così molteplice, con tutte le commistioni e le suggestioni delle culture che in questa terra si sono succedute nei secoli ; sientiri nel senso di ascoltare, captare tutti i suoni, i rumori della città che vive, si muove, respira; e ovviamente il dialetto che per i palermitani non è una parlata minore ma una vera e propria lingua, caratterizzata da quella mescolanza che caratterizza tutti gli aspetti della vita palermitana; tastari, tastare, toccare e soprattutto assaggiare, gustare, mordere tutto il gusto e la bontà della cucina siciliana.
È così che,vagando a caso, nel quartiere della Kalsa, antico quartiere arabo, seguendo il luccichio del mare, siamo stati rapiti da un odore intenso e molto invitante e ci siamo imbattuti in questa sorta di bottega, molto spartana, senza nessuna insegna, dove una coppia di simpaticissimi signori,marito e moglie, preparava il famoso pani câ meusa, il pane con la milza, uno dei must dello street food siciliano. Si tratta di un panino con un ripieno speciale, un mix di frattaglie, tra cui la milza; ho fatto un po’ di ricerche e ho scoperto che le sue origini risalgono al Medioevo, legate ad un’antica comunità ebraica che si era stanziata a Palermo, specializzata nella macellazione degli animali. Questi macellai ebrei, non potendo percepire denaro per il proprio lavoro, a causa della loro fede religiosa, trattenevano come ricompensa le interiora del vitello. I macellai dovevano trovare quindi il modo di trasformare in denaro questa ricompensa, e finalmente un giorno ebbero un’idea che risultò geniale. Si accorsero che i cristiani erano soliti mangiare le interiora degli animali, accompagnandoli con formaggio o ricotta; e ispirati da questa usanza, idearono un panino farcito con polmone, milza e “scannarozzato” ossia pezzi di cartilagine della trachea del bue. Ferdinando II di Aragona decise però di cacciare la comunità e questa attività venne continuata dai caciuttari palermitani che fino ad allora vendevano pane “abbagnato”, cioè intriso, di sugna, accompagnato dal cacio. Io e Vito abbiamo preso un panino diviso a metà, date le proporzioni(anche se Vito ha immediatamente bissato), rigorosamente senza aggiunta di limone, accompagnato da una bella birra fresca, il tutto ovviamente gustato seduti a terra, accanto alla bottega. E senza esagerazione posso affermare che è stata davvero una delle cose più buone che io abbia mangiato nella vita.
Proprio vicino alla ‘bottega’ dei nostri amici, ci siamo imbattuti nella Buca della salvezza, la cui storia è molto curiosa. Questa parte del quartiere era la zona degli scupari e delle scupariote, cioè coloro che si occupavano della manifattura delle scope. Tra di loro erano molto diffuse le “sciarre”, litigi fra donne che si accapigliavano e si insultavano, mentre gli uomini stavano a guardare. Al termine della contesa erano di rito commenti e medicazioni. Proprio una di queste “tirate di capiddi” ha avuto un’incidenza su fatti storici del risorgimento italiano. Nel 1860 due rivoltosi, Franco Patti e Gaspare Bivona, che avevano partecipato al moto rivoluzionario che doveva preludere all’entrata di Garibaldi a Palermo, fallito il tentativo si trovarono braccati all’interno della cripta sotterranea della Chiesa della Gangia. Le forze borboniche non potevano entrare in chiesa per i veti che allora esistevano; i due rivoltosi, stremati a causa della fame, fecero una buca nel muro e avvisarono le popolane della loro presenza. Le donne, per liberarli, sceneggiarono una zuffa,distogliendo così l’attenzione delle truppe poste a guardia dei rivoltosi, che accorsero per intervenire. I due rivoltosi così ebbero il modo di allargare la buca e fuggire attraverso il vicolo alle spalle della chiesa, che da allora fu chiamato Vicolo della salvezza.
Poco distante dalla Buca della salvezza, si trova la Passeggiata delle Cattive, una terrazza che dà sul Foro Italico, posta sulle mura civiche, da cui si domina il Golfo di Palermo. Etimologicamente il termine deriva dal latino captivae che significa prigioniere, termine che veniva usato per identificare le vedove, considerate prigioniere del dolore del lutto. Questa terrazza infatti veniva utilizzata per le passeggiate delle vedove, che potevano così camminare senza essere importunate, tenendosi a distanza dalla passeggiata classica che si svolgeva al Foro Italico.
Seguendo il flusso emotivo e olfattivo, siamo arrivati alla Vucciria, uno degli storici mercati palermitani a cielo aperto, istallati dagli arabi durante la loro permanenza a Palermo. Oltre che un luogo fisico, la Vucciria è uno vero e proprio state of mind, e questo lo si evince già dall’etimologia stessa del nome. Il termine vucciria deriva dal francese boucherie, butchery in inglese, boqueria in spagnolo,italianizzato in bocceria e infine sicilianizzato: un termine che designava i luoghi di vendita di carni e pesce, ma che in siciliano è diventato anche sinonimo di confusione, miscuglio di voci, persone, oggetti, espressioni e azioni tipiche del mercato. In vicarielli stretti, in mezzo a bancarelle colorate, stracolme di prodotti di ogni tipo, si accalcavano venditori e compratori; l’atmosfera che si respirava alla Vucciria era davvero unica: un miscuglio quasi indistinto di colori, voci, odori shakerati ad un ritmo frenetico e incessante. Un tempo si diceva “I balati ra Vucciria ‘un s’asciucanu mai”, cioè le strade della Vucciria non si asciugano mai, tanta era l’acqua che si utilizzava per tenere fresco il pesce, questo proprio per sottolineare il flusso continuo di vita che animava il mercato. Oggi però il mercato della Vucciria ha perso le sue peculiari caratteristiche, ma pur cambiando volto, rimane sempre un luogo di grande suggestione. Oltre ad un paio di fruttivendoli e a qualche pescheria, la Vucciria è diventata essenzialmente luogo di vita notturna, tappa obbligata e paradiso per gli estimatori di drink low cost e di tutto lo street food palermitano. È possibile cenare all’aperto sui tavolini di plastica di Piazza Caracciolo, con qualsiasi tipo di prelibatezza: panelle, crocchè, polpo bollito, pane e milza, frittura di pesce. Il nostro ingresso alla Vucciaria è stato accompagnato dai fumi del pesce fritto al momento e del ribollire della milza. E la Vucciria è stato il luogo designato al saluto dell’anno vecchio. Ci siamo mischiati anche noi alle voci, alle risate e ai brindisi dell’anno che stava per lasciarci, ordinando un numero non ben identificato di bottiglie di Etna Bianco(ci sono pareri contrastanti al riguardo). E il nostro cenone della vigilia è stata un’abbondante frittura di pesce,che Vito ha ordinato su un banco, chiedendo alla signora di friggere praticamente qualsiasi cosa avesse a disposizione: è proprio vero che a Palermo non ci si nutre ma si mangia. Per capire appieno l’atmosfera di ieri e di oggi della Vucciria consiglio di vedere la famosa tela di Renato Guttuso, considerata la sua tela più celebre,oggi esposta nel palazzo Chiaramonte-Steri di Palermo, che immerge completamente lo spettatore in uno spaccato di vita del mercato palermitano, con tutto il suo caos,reso ancora più realistico dal dettaglio delle carni e dei pesci tagliati a metà; e di ascoltare il brano di un bravissimo cantautore siciliano(nonché un amico) Alessio Bondì che proprio alla Vucciria ha dedicato uno dei suoi testi, rigorosamente in dialetto siciliano; e ovviamente andateci di persona e lasciatevi avvolgere e travolgere dalla sua anima vitale.
Una delle tappe fondamentali del nostro girovagare per la città è stata ovviamente la Cattedrale di Palermo, una delle opere più caratteristiche,la cui originalità è rappresentata proprio dalla commistione di forme e stili in un unico corpo architettonico, derivata dalle differenti e molteplici popolazioni che si sono alternate sul suolo siciliano e che hanno fatto di questo luogo di culto cattolico addirittura una moschea durante il periodo di reggenza araba( sulla prima colonna a sinistra del portico è ancora impresso nella pietra un passo del Corano). Particolarmente bello è stato salire sui tetti della Cattedrale, un passeggiata che regala un’incredibile vista su Palermo; e mentre passeggiavamo sulle balconate, ripensavo alla canzone dei Tre Allegri Ragazzi Morti: “..la Cattedrale di Palermo,paradiso e inferno dentro..”.
Prima di salire sul tetto della Cattedrale abbiamo pensato di vincere i morsi della fame mangiando un’appetitosa arancina: a Palermo e nella Sicilia occidentale questa prelibatezza è designata al femminile e presenta una forma rotonda, mentre a Catania e nella Sicilia orientale rigorosamente al maschile, arancino, dalla forma appuntita. In realtà esiste al riguardo una vera e propria diatriba che dura da decenni, a cui ha contribuito anche l’Accademia della Crusca. Secondo la Crusca,sebbene si possano dire corrette ambo le forme, sarebbe forse più appropriato il femminile arancina,almeno nell’impiego formale, in quanto il nome sarebbe legato all’analogia con la forma e il colore dell’arancia. Da assaggiare ovviamente la classica “Accarne” con il ragù, e quella bianca con prosciutto e mozzarella. Ma vero è che ormai l’arancina viene declinata in ogni modo e molto buone sono anche quelle preparate con il pesce: noi abbiamo provato quella con pesce spada e melanzane: un’autentica prelibatezza.
Non poteva mancare ovviamente la passeggiata per le due vie principali della città: via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele, che si incrociano ai Quattro Canti, centro di snodo dei quattro settori simmetrici che formano il centro storico. La piazza è nota anche come piazza Villena o Teatro del sole, perché dall’alba al tramonto è sempre illuminata dai raggi del sole. A pochi metri dai Quattro Canti c’è Piazza Pretoria, detta anche Piazza della Vergogna, particolarmente bella da vedere rischiarata dalle morbide luci della sera. Sullo sfondo della piazza, si può vedere la Chiesa di Santa Caterina. Un tempo monastero di clausura per le suore, a partire dal 2017 l’edificio ha riaperto le porte al pubblico trasformandosi in un polo museale. Ma data la vasta struttura e la ricchezza dei tesori contenuti, i lavori di recupero risultano molto onerosi. Per questo motivo il ticket di ingresso di 8 euro richiesto ai visitatori sta permettendo l’autofinanziamento. Tra gli spazi recuperati, ha riaperto anche lo storico laboratorio di pasticceria del convento. Per secoli infatti le monache di clausura hanno deliziato i palermitani con i loro dolci della tradizione locale, che venivano venduti su una ruota. Le ricette erano segrete; le suore si limitavano a trascrivere le dosi. Oggi, dopo un lungo lavoro di ricerca delle antiche ricette e degli antichi procedimenti, grazie anche ad incontri con le monache anziane, il laboratorio di pasticceria è stato riavviato ad aperto al pubblico. Nessuno di noi conosceva l’esistenza e la storia di questo antico convento delle monache pasticcere. Dobbiamo in realtà ringraziare mio suocero che durante un periodo di permanenza in Sicilia, durante gli anni del servizio di leva, ha avuto modo di assaggiare una cassata del convento e ne è rimasto così estasiato, che ci ha chiesto di andare alla ricerca del convento e dei suoi sapori perduti. Particolarmente bello è il chiostro del convento con un meraviglioso pavimento maiolicato. E pare che mangiare un dolce palermitano, seduti sulle panchine del convento, con lo sguardo rivolto verso il chiostro, non abbia prezzo.
Ma di Palermo abbiamo avuto modo di conoscere anche un altro volto. Vagando alla scoperta di Piazza Magione, ci siamo imbattuti nei resti della casa natale di Giovanni Falcone, distrutta dai bombardamenti della guerra; e alle spalle la casa in cui è nato Paolo Borsellino; e la scuola che ha visto Borsellino e i suoi fratelli bambini,ben lontani dal difficile futuro che li attendeva; e l’emozione che si prova non si riesce davvero a tradurre in parole, ti stringe il cuore e piega in due l’anima. Ho pianto un pianto disperato quando nella Chiesa di San Domenico, eletta a pantheon degli uomini illustri di Sicilia, ci siamo trovati di fronte alla tomba di Giovanni Falcone, la cui salma qui è stata traslata nel 2015 : ho pianto per l’umanità negata, la giustizia soffocata, la vita spezzata. Palermo è anche questo: la sua vita è una vita fatta di luce ma anche di tante ombre, dense, fitte che attanagliano la città fino alle sue viscere più profonde. E di contro c’è il coraggio di chi combatte e ha combattuto,anche a costo della propria vita; di chi non si è lasciato mai intimorire,pur sapendo che il proprio impegno e la propria stessa esistenza doveva essere immolata sull’altare di un sacrificio più grande e più giusto.
E ripenso alle parole di Franco Battiato: “..Ccu tuttu ca fora c’è a guerra, mi sentu stranizza d’amuri..”: Palermo è questo: una stranizza d’amuri.