Popoli e Paesaggi dell’Angola Meridionale
L’impatto più forte è quello con le persone. Questa regione è popolata dalle tribù degli Himba e dei Mochimba e qui attraversiamo insediamenti tra i più diversi: da macerie di villaggi a malapena sopravvissuti alla guerra (sia civile che con il Sudafrica negli anni ‘80), a variopinti mercati del bestiame in mezzo alla boscaglia, fino ai raggruppamenti di capanne delle popolazioni semi-nomadi che vivono di pastorizia. Ovunque, la comparsa dei fuoristrada e dei nostri volti bianchi suscita un’allegra curiosità: di turisti in Angola se ne vedono pochi e le persone ci accolgono accalcandosi con grandi sorrisi, contente di posare per le nostre fotografie, cercano di comunicare, ci regalano l’acqua dei loro pozzi e non chiedono mai niente. Spesso lasciamo loro farina, zucchero, e altri beni di prima necessità. Il primo villaggio che incontriamo è Chitado, dove i segni della guerra recente sono visibili ovunque: nelle costruzioni diroccate, nelle case crivellate dai proiettili, nella semplicità dei vestiti della gente. Un piccolo edificio, che una scritta a mano sul muro identifica come clinica veterinaria, colpisce la nostra attenzione: ha le finestre murate e come molti altri appare in totale abbandono. Con uno stentato portoghese ci lanciamo in conversazioni con la signora Augusta e gli altri abitanti, che hanno voglia di parlare, di sapere e di raccontare. Alla fine del viaggio, avremo imparato questo: che gli angolani sono così, un popolo candidamente curioso di conoscere queste persone armate di macchine fotografiche e occhiali da sole, e perché mai siano arrivate proprio lì.
Ben diversi sono gli incontri con le popolazioni più tradizionali: gli Himba, che si presentano a noi inizialmente sotto forma di giovanissime ragazze seminude ai bordi dello sterrato, il corpo interamente ricoperto da un impasto rossastro fatto di ocra e grasso animale, di monili, ed da un copricapo di pelle di capra. Silenziose, quasi altere, ci colpiscono per lo sguardo, fiero ed impassibile di fronte alla nostra ovvia curiosità. Paul, nostro accompagnatore sudafricano, ci racconta dei loro costumi e del loro stile di vita. Veniamo così a sapere del rito del parto, che prevede l’allontanamento della partoriente dal villaggio: il parto avviene nel bush, con il solo aiuto di una o due donne del villaggio in funzione di levatrici. Rimaniamo affascinati dal complesso simbolismo dell’abbigliamento: la conchiglia appesa al collo rappresenta la maternità, il copricapo indica lo stato di donna sposata, mentre le ragazze in età pre-puberale portano le lunghe trecce sul viso, a coprirlo completamente. Ogni orpello, ogni oggetto ha una precisa ragione.
Il viaggio prosegue con un tuffo nel deserto del Namib, dapprima lungo aride, immense steppe pianeggianti, poi attraverso ampie dune di sabbia, che si susseguono a perdita d’occhio fino alla Foz do Cunene, la foce del fiume. Qui avvistiamo finalmente i primi animali: branchi di zebre di Hartmann, springbok, struzzi e splendidi orici, sopravvissuti alla fame ed alle mine. L’Oceano ci accoglie scuro ed arrabbiato. Qui è la natura a riempirci i sensi di odori, colori, forme e contorni selvaggi, dall’umidità dell’aria che ci porta sulla pelle la corrente fredda del Benguela, alla sabbia del Namib che ci frusta la sera quando si alza il vento. Bisogna risalire a Nord lungo la costa, ma passare dall’interno è impossibile: le jeep affondano e si arrendono nella sabbia molle delle dune. Scegliamo quindi di passare su quella più dura della battigia nelle ore di bassa marea; quando poi la schiuma dell’oceano arriva ad accarezzare le gomme delle auto, ci rintaniamo tra le dune per montare le tende ed aspettare il giorno dopo. I paesaggi sono meravigliosi e nella nebbiolina che ci avvolge sul bagnasciuga incontriamo foche, fenicotteri e pellicani. All’orizzonte, tra le onde, oltre gli squali saltatori, s’intravedono la Isla dos Tigres e la sua città fantasma, testimonianza di un passato coloniale dove il commercio viveva comodamente sulla pescosità di questo mare.
Sarà impossibile dimenticare i campi nel deserto, stretti a mangiare intorno al fuoco mentre il vento freddo sembra spazzare via le tende dopo il tramonto, o il bagno di Ferragosto, il contrasto tra l’acqua gelida e la sabbia calda. Questo tratto del viaggio ci riserva la vista di un gruppo di delfini a pochi metri dalla riva; poi arriviamo alla nostra ricompensa: due notti in lodge, una collezione di bungalow sulla spiaggia, molto spartano in senso assoluto, ma poco meno di una reggia imperiale per noi. Prima però c’è tempo per passare da Tombwa, piccolo paese sulla costa, dove possiamo acquistare del pane e rivedere della gente. Anche qui strade di terra e polvere, bambini che corrono, gente vestita di poco: il mercato è una collezione di cianfrusaglie, cibo secco, mosche, stracci. La sensazione è che si viva di niente. Al lodge passiamo serate memorabili in compagnia della bizzarra famiglia proprietaria: Rico, con la sua faccia da avventuriero, un sudafricano da anni residente in Angola; suo figlio Ray, un giovane pallido e pazzoide che ci sfreccia accanto in jeep sulla spiaggia, con la canna da pesca sempre in mano; Cleopatra, come abbiamo battezzato la vistosa fidanzata di Ray, una ragazza anglo-egiziana che la sera si dimena elettricamente flirtando con un aiutante mentre Ray è impegnato a bere; e Joao, pittoresco cuoco angolano, mago del pesce dal faccione nerissimo e sempre allegro. Impariamo anche a ballare la Kizomba! A pochi kilometri dal lodge abbiamo l’onore di fotografare la welwitschia miraiblis (pianta millenaria dell’Africa australe) più grande ed “anziana” della regione: secondo Ned ha non meno di 4.000 anni… deve averne viste di cose, questa pianta dall’aspetto carnivoro, con enormi foglie tutte curve e apparentemente rinsecchite! La destinazione seguente è Namibe, città costiera, chiamata Moçamedes ai tempi del colonialismo portoghese. Qui pranziamo, ed è la nostra prima volta in un ristorante angolano, in pieno centro. Namibe è molto diversa dai villaggi nel bush. La maggiore dimensione la rende più simile ad altre città di Paesi in via di sviluppo che abbiamo visitato. Il pranzo è saporito ed abbondante, annaffiato naturalmente da birra locale. Nel pomeriggio puntiamo al mercato, che ci aggredisce con i colori, l’odore forte e sgradevole del pesce vecchio; i venditori espongono le loro povere mercanzie – qualche pomodoro, patate rinsecchite, cipolle, legumi, montagne di scarpe usate, impolverate e spaiate, jeans e coloratissime pezze di stoffa che le donne usano come vestiti, CD contraffatti di musica angolana. Qualcuno ha la malaugurata idea di comprare da una venditrice di strada un intero vassoio di dolci, allo scopo di dividerlo fra i bambini presenti: un momento che non arriverà mai, perché un attimo prima di poterlo fare il vassoio è per aria, rotola a terra, e i bambini si gettano in una nuvola di polvere per acchiappare anche soltanto un boccone dal suolo.
Lasciando Namibe, è la volta di ammirare le incantevoli bellezze naturali dell’interno: un canyon angusto e suggestivo in cui recuperiamo un piccolo rettile mummificato (macabro amuleto per il nostro viaggio), una infinta distesa arida che si trasforma in lago nella stagione umida, sovrastata da archi naturali scavati nelle montagne, e poi via verso Lubango. La strada sale fino quasi a 2000 metri per il passo di Leba con una serie impressionante di tornanti: la vista dall’alto è uno spettacolo. Poco lontano c’è il Canyon della Morte: una voragine spaventosa dove – si dice – venivano gettati gli avversari politici dell’MPLA durante gli anni cupi della guerra civile. Lubango è una città grande, una metropoli per gli standard angolani. Su di essa, dall’alto di una collina, troneggia un’enorme statua bianca di Cristo sul modello di Rio e dell’Avana. Non ci fermiamo a Lubango, ma la breve visita è sufficiente per scorgere le tracce di un passato coloniale ricco e sfarzoso: casinò, bellissimi giardini in fiore, un’enorme piscina abbandonata, hotel di lusso. Nella zona degli uffici pubblici dell’MPLA facciamo rifornimento in un supermercato che vende di tutto, compresa merce d’importazione a prezzi alti anche per le nostre tasche: buon vino, giocattoli, struccanti per occhi. Questo negozio non è per il popolo, ma per i ricchi funzionari del governo. C’è ancora il tempo di rimanere intrappolati nel traffico: non sembra possibile che la sconfinata solitudine del Namib sia distante poche centinaia di kilometri. Da Lubango si fa rotta verso sud per rientrare in Namibia e ci prepariamo a salutare questo straordinario Paese, che non assomiglia a nessun altro. La strada è una delle più disastrate ed infernali che esistano: devastata dai bombardamenti dell’aviazione sudafricana, dai temporali tropicali e dai pesanti camion che, gravando sull’asfalto fradicio e fangoso, ne hanno staccato interi pezzi. Ai lati non è raro vedere un souvenir della guerra, tra cui spiccano vecchi carri armati russi arrugginiti. Ci fermiamo ad una scuola; è chiusa per ferie, ma il maestro vive lì con la sua famiglia. E’ l’ultima chiacchierata con degli angolani, anche questi socievoli e pazienti con le nostre domande. L’aula per le lezioni è spoglia, ci sono solo i banchi e le pagelle dei ragazzi appese alle pareti. Fuori, la moglie del maestro tiene a bada cinque figli mentre si occupa delle faccende di ogni giorno.
Ed eccoci a Santa Clara, per le interminabili procedure di uscita dal paese. Ci dispiace lasciare l’Angola, ci dispiace salutare Ned, ci dispiace non sentire più la dolcezza del portoghese. Ma la sensazione, forte, è che questo Paese ci rimarrà dentro in qualche modo. Forse a lungo, forse fino al giorno in cui ci ritroveremo, di nuovo, ad aspettare pazientemente in mezzo a polli e bambini, ad un posto di frontiera.