Namibia, persa nel nulla

Un sogno realizzato... un viaggione nella savana tra animali, erba gialla, rocce rosse, chiazze verdi, cieli stellati...
Scritto da: airada
namibia, persa nel nulla
Partenza il: 18/08/2012
Ritorno il: 30/08/2012
Viaggiatori: 3
Spesa: 4000 €
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La foto della famosa duna 45: questo è il punto di partenza che mi ha ispirato per il viaggio in Namibia. Una foto in fondo è solo un richiamo, un suggerimento di una sensazione che puoi provare poi dal vivo o il ricordo di un’esperienza vissuta. Dietro la foto ci sono tutte quelle cose che non possono essere catturate in un’immagine: gli odori, gli altri colori che sono intorno, i rumori e i suoni dell’ambiente. Insomma tutto quello per cui la realtà di un luogo differisce da uno scatto fotografico che riesce a catturare solo una piccola parte. Ecco perché mi piace viaggiare: per scoprire e sentire sotto la pelle tutto quello che c’è oltre una foto che fa solo da specchietto di richiamo.

Ho scelto un tour di 12 giorni (10 notti) organizzato: ho letto che la maggior parte delle persone sceglie la formula self-drive, ma personalmente non avevo voglia di guidare per quasi 4000 chilometri (la maggior parte sterrati) su strade per lo più deserte, senza conoscere il paese. Per fortuna il nostro gruppo era in tutto di 10 persone, l’ideale, niente turismo di massa. Abbiamo avuto una guida speciale, Betta, molto preparata, fuori dagli schemi, senz’altro anticonformista, ma veramente eccezionale e, grazie a lei, abbiamo avuto la fortuna di penetrare nello spirito del paese, di imparare tante cose, di essere stimolati al ragionamento, insomma una grande fortuna.

1° giorno-sabato 18 agosto: Roma-Francoforte-Johannesburg

Partenza da Roma alle 19,10 per Francoforte con volo di linea Lufthansa (LH239). Arrivo alle 21,10. Volo da Francoforte alle 22,15 (LH 572) per Johannesburg.

2° giorno-domenica 19 agosto: Johannesburg- Windhoek

Arriviamo a Johannesburg alle 8,45. L’aeroporto mi colpisce subito: si respira, tra i negozi etnici, un’aria particolare diversa dagli altri aeroporti, più standardizzati. Siamo veramente in Africa, nel Sud. Compro l’adattatore di corrente che qui è lo stesso della Namibia. Un po’ stravolti prendiamo l’ultimo volo (british airways BA 6275) alle 12. Arriviamo all’aeroporto internazionale di Windhoek alle 13 (1 ora indietro all’Italia), dove incontriamo la guida e cambiamo qualche soldo.

Alloggiamo a Windhoek all’hotel Safari (3 stelle): la hall e le camere sono carine (solo il bagno non è gran che). Betta deve tornare in aeroporto perché ad una persona non è arrivata la valigia e noi ne approfittiamo per un po’ di riposo.

3° giorno – lunedì 20 agosto: Windhoek – Deserto del Kalahari km 280

Appena usciti dalla capitale iniziamo a percorrere una strada rettilinea che taglia un paesaggio semi-desertico che sarà la caratteristica del nostro percorso per tutto il viaggio. Un senso di pace in grandi spazi che sembrano senza fine: ho la sensazione di essere persa nello sconfinato paesaggio, lontano dal resto del mondo. Anche che se poi risulterà ripetitivo, sono affascinata dalla distesa di ciuffi gialli d’erba, rovi spinosi e contorti, alberi più verdi disseminati qui e là, babbuini che sbucano all’improvviso e attraversano la strada. Il traffico è pochissimo (la guida è a sinistra) e ci fermiamo in uno strano punto chiamato weighbridge dove l’autobus viene “pesato” (un eccessivo peso dei mezzi di trasporto ha causato gravi danneggiamenti alle strade della Namibia costringendo il governo a spendere parecchi soldi di manutenzione). Facciamo una sosta in un centro abitato con qualche negozio di abbigliamento (qualità tipo negozi dei cinesi): primo scorcio di popolazione locale (tutti sorridenti e gentili) per poi ripiombare nel “nulla” con una sosta emozionante presso il cartello “tropico del capricorno” dove facciamo tante foto, anche di tutto il gruppo con l’autoscatto. Arriviamo quindi al bellissimo Kalahari Anib Lodge molto particolare con giardino ricco di vegetazione tipica locale, piccola piscina e bungalow in mattoncini rossi, dove pranziamo all’aperto, serviti dalla graziosissima Claudia di razza ottentotta (qui ci sono tantissime razze) che ci affascina con la sua lingua del Damaraland ricca “clic”, una specie di “schiocchi” che si alternano alle vocali e consonanti, stranissima, ricca anche di sfumature tonali.

Alle 15.30 tutti sulla jeep con il simpaticissimo autista ranger Francoise che ci scarrozza tra i sentieri del parco naturale su stradine di sabbia rossa. Splendido pomeriggio! La guida ci indica alberi particolari con dei nidi enormi e stranissimi (c’erano anche nel nostro lodge), costruiti da un uccello chiamato “tessitore socievole” e pieni di buchi in cui vivono insieme diverse centinaia di uccelli. Intorno a noi vediamo springbok saltellanti con le corna non molto lunghe e appena ricurve (più spesse quelle dei maschi), orici con le corna lunghe e diritte, struzzi, gnu, kudu, antilopi “red heart” (cosiddette per le corna a forma di cuore).

Poi il must: il “sundowner”. Saliamo su una duna di terra rossa (in un angolo uova giganti di struzzo) e sostiamo per un aperitivo in attesa del tramonto. Viene allestito un tavolo con tovaglia a disegni “africani”, bibite e patatine e nel frattempo il sole, rosso fuoco, a poco a poco scende fino a scomparire.

Al rientro la temperatura cala di colpo e ci copriamo per bene. L’atmosfera è bellissima: in cielo uno spicchio di luna, la strada illuminata solo dai fari della jeep, venticello fresco sul viso, stupendo! Al rientro al lodge ci accoglie la bella atmosfera del ristorante dove gustiamo un’ottima cena il cui menù viene “declamato” in lingua Damaraland a clic. All’esterno del ristorante accoglienti zone semi-aperte con il bar e divanetti in pelle disposti intorno a caminetti accesi, che invitano gli ospiti alle ultime chiacchiere prima di andare a letto.

4° giorno-martedì 21 agosto: Deserto del Kalahari – Deserto del Namib km 410

7.30: partenza dal Lodge. Incontriamo un bel gruppo di bellissimi asinelli che ci attraversano la strada, poi sosta idraulica in un carinissimo posto gestito da tedeschi; l’interno è arredato in modo originale con tante cose che pendono dal soffitto: cuori e crocifissi di carta colorata, barattoli di latta. Sparsi intorno: mobili rustici con antiche macchine da scrivere e da cucire, barattoli di confetture, foto d’epoca, molto carino. Riprendiamo la strada che è simile a quella di ieri: una lunga striscia di asfalto che scorre davanti a me all’infinito con ai lati distese di ciuffi gialli di vegetazione bassa e arbusti spinosi; è monotona ma nello stesso tempo è affascinante “navigare” in questo paesaggio dove non passa nessuna macchina e prevale il vuoto assoluto.

All’improvviso vedo un namibiano che corre lungo il bordo: ma dove va? I centri abitati sono pochi e lontani l’uno dall’altro. Ogni tanto vedo ai lati della strada un albero più alto con sotto un piccolo sedile e un tavolino o talvolta solo un cestino per i rifiuti: sono punti di sosta per le autovetture. Mi sento veramente persa nel nulla: questa è la sensazione che mi porto dentro da ieri e che mi accompagnerà per tutto il viaggio.

Betta è molto preparata e riempie i lunghi tempi di trasferimento dandoci notizie sul paese che stiamo visitando, ma lo fa in un modo poco ortodosso cercando di porre molte domande e portare noi stessi a trarre conclusioni. Dopo tanti tentativi scopriamo che “il diamante nero” della Namibia sono le pecore di astrakan; impariamo che le acacie trasmettono per via aerea dei segnali per avvisare le altre piante dell’arrivo di predatori (giraffe) e fanno diventare amaro il loro succo per allontanarli; che la Namibia è il primo esportatore di diamanti ed il secondo (dopo l’Argentina) per l’esportazione di carne bovina.

Stanotte dormiamo in un hotel bellissimo (forse il più bello in assoluto di tutto il tour), il Namib Desert Lodge. Di notte una luce ben posizionata illumina la roccia più particolare ed una pozza d’acqua di fronte al ristorante, dove ogni tanto qualche animale arriva per abbeverarsi. L’arredamento dell’hotel è favoloso, in stile namibiano, con legno e paglia (sintetica ma imitata benissimo). Fiaccole e candele accese fuori e dentro il ristorante. Due piccole piscine accanto alle quali abbiamo pranzato. La strada per arrivare fin qui (lasciando il deserto del Kalahari e proseguendo verso ovest) è stata lunga (circa 400 km), ma, dopo un paesaggio iniziale simile a quello di ieri, a poco a poco abbiamo iniziato ad inoltrarci nel deserto del Namib (il nome significa in lingua nama “luogo vasto, luogo di nessuno, il nulla”), uno dei più antichi del mondo, e lo scenario è cambiato. Distese sconfinate di erba gialla e sullo sfondo rocce rossastre: a poco a poco arriviamo alle dune, molto antiche, la cui sabbia si è pietrificata nell’arco di milioni di anni e che si trovano al di fuori del Namib-Naukluft National Park (la più importante delle numerose aree protette del Namib). Il nostro lodge è situato proprio sotto le dune rosse pietrificate. Dopo pranzo siamo partiti per il nostro secondo “sundowner”, nella riserva privata di Gondwana, sempre su jeep scoperte ma in uno scenario diverso da quello di ieri. Abbiamo attraversato distese di erba dorata nelle quali spiccavano nettamente i solchi delle ruote, unica traccia “umana”; dopo una sosta fotografica in un punto panoramico meraviglioso, abbiamo iniziato a salire su una duna ancora più suggestiva di quella del kalahari: sabbia rossa, chiazze verdi, ciuffi gialli, cielo azzurro con nuvole bianche a pecorelle, palla rotonda del sole che sparisce all’orizzonte. Lo sguardo che si perde nello sconfinato “intorno” che sembra non avere fine: sono sensazioni che non si possono spiegare ma solo vivere!

5° giorno-mercoledì 22 agosto: Deserto del Namib, Sossusvlei km 280

Il giorno più bello di tutto il tour, almeno per me. E’ impossibile descrivere le sensazioni che ho provato oggi. Solo venendo qui e vivendo di persona questa giornata si può capire il senso di libertà, meraviglia, emozione, bellezza, grandiosità e gustare la cromaticità cangiante dei colori che spaziano da quelli del cielo appena colorato all’alba con le nuvole rosa, all’arancio delle dune che a poco a poco si tingono di pesca, albicocca sempre più intenso, con una netta divisione tra la zona arancione esposta al sole e quella nera in ombra, con l’effetto di una linea curva serpeggiante sulle creste e diversa per ogni duna! Dal lodge partiamo all’alba, intirizziti ma pieni di aspettative: dopo parecchi chilometri su una strada sterrata, arriviamo a Sesriem, un piccolo centro dove ci sono gli uffici che rilasciano i biglietti d’ingresso al Namib-Naukluft National Park. Passati i cancelli la strada è asfaltata per 60 km, fino alla zona di Sossusvlei, che è la parte più famosa del parco, sede delle dune rosse (la colorazione è dovuta alla composizione ferrosa della sabbia e alla sua ossidazione). Le dune più antiche sono quelle dal colore rosso più intenso. Il bus si ferma in un posto stranissimo pieno di rifiuti ingombranti abbandonati, un bagno in una baracca con un alta cisterna d’acqua: da qui una jeep ci porta vicino alla Dead Vlei, una depressione caratterizzata da un suolo di sabbia bianca, dura e compatta che sembra sale. Anticamente era un’oasi di acacie ma ora ci sono solo alberi morti di colore molto scuro che contrasta col bianco del suolo e l’arancione delle dune. Scendiamo dalla jeep e ci offrono un bicchiere di “rooibos”, un’infusione ricca di effetti benefici che abbiamo imparato a consumare spesso in questi giorni: infatti sotto gli alberi c’è un tavolo con caraffe di acqua calda e biscotti che ci danno un po’ di energia per affrontare la salita e il caldo che inizia ad aumentare. Lasciamo tutte le giacche più pesanti appese ad un albero e iniziamo la passeggiata: qualcuno andrà solo lungo il vlei, altri sulle dune più basse, io, con altri, inizio la scalata di quella più alta. Si cammina su una striscia non più larga di 50 cm e quando sali vedi a destra ed a sinistra due pendii ripidi che se hai le vertigini ti possono fare impressione. Io vado abbastanza avanti ammirando con emozione il panorama intorno: le dune che mi circondano a perdita d’occhio e la dead vlei, tutta bianca, in basso, punteggiata da alberi neri. La grande Betta ha preferito portarci a scalare questa duna (invece della 45, chiamata così perché si trova al 45º km della strada che conduce da Sesriem a Sossusvlei. E’ la duna più fotografata del mondo ed è alta 80 m) perché è meno affollata e ce la possiamo godere meglio. Inoltre la “nostra” è la Big Daddy, la più alta (390 m.) dell’area di Sossusvlei e del mondo. Stamattina all’alba, quando abbiamo lasciato il lodge, faceva un freddo cane (ma in compenso c’era un cielo stellatissimo), ora invece fa caldo e sono contenta di essere rimasta solo in pantaloni leggerissimi e mezze maniche. Fantastico, fantastico, fantastico! La navetta ci riporta al nostro bus e, dopo vari chilometri, ci fermiamo per il pranzo al Sossusvlei lodge, campo tendato (qui va di moda andare ai campi tendati ma d’inverno sono freddissimi e d’estate caldissimi, io preferisco gli hotel in muratura). Comunque il posto è molto carino, arredato con gusto delizioso: pitture rupestri (naturalmente finte ma suggestive) nella sala ristorante e nei bagni! Bellissime piante tutt’intorno. Tappa successiva al Canyon di Sesriem che si rivela molto bello. Dall’alto si presenta come una spaccatura del terreno, profonda fino a 30 m e lunga circa un chilometro. Il nome Sesriem significa “sei cinghie”, e deriva dal fatto che i primi coloni dovevano usare un sistema di sei corregge per estrarre l’acqua dal fondo della gola. Io credevo che fosse tutto lì, invece Betta ci suggerisce di scendere giù e scopriamo un vero e proprio canyon che, pur non avendo pareti eccessivamente alte, ha una sua suggestione e scenograficità. Richiama (naturalmente in scala ridotta) l’ingresso (il siq) di Petra (le pareti di quest’ultimo arrivano anche a 200 m…). Molto bello il contrasto delle rocce con il cielo blu. Arrivati al lodge, instancabili, invece di tornare in camera, facciamo ancora una passeggiata intorno all’hotel, sotto le dune pietrificate, passando sotto un albero di camel thorn (o acacia erioloba) di cui abbiamo già ammirato i baccelli dalla curiosa forma di mezzaluna o di orecchio (da cui il nome), con tre enormi nidi di tessitori socievoli tra i rami.

6° giorno-giovedì 23 agosto: Deserto del Namib – Walvis Bay km 270

Giornata di trasferimento verso l’Oceano Atlantico. Partiamo alle 7.30: il tempo è bellissimo, il cielo terso senza nuvole, il sole dell’alba illumina le dune pietrificate, l’aria è frizzante ma il ristorante della colazione è riscaldato. Turisti giusti (come nel lodge precedente), sembriamo una grande famiglia pronta a separarsi e sparpagliarsi tra i deserti della Namibia. In fondo questa è una terra di deserti: dalle dune rosse più sabbiose del Kalahari, a quelle rosa fossili e pietrificate del Namib, a quelle di Sussusvlei rocciose ma ricoperte di sabbia rossa, a quelle dorate e sabbiose lungo la costa, create dalla grande quantità di sabbia convogliata, nel tempo, dal fiume Orange verso la foce, trasportata dalla corrente del Benguela verso nord e spinta verso l’interno dai venti che le modellano continuamente. E’ terra di spazi sconfinati. La prima tappa è a Solitaire, un posto particolare con una pompa di benzina, un negozio, auto rottamate antiche sparse qua e là tra le piante grasse, un Country Lodge, una pasticceria tedesca, ma la cosa più caratteristica è una lavagnetta appesa a un muro sulla quale vengono annotate le notizie più importanti. In Namibia del resto ci sono pochissimi quotidiani (mi pare quattro, uno tedesco, uno afrikaans, uno indipendente ed uno governativo) che hanno poche pagine e si vendono solo nelle città; inoltre c’è un solo canale TV quindi le notizie “viaggiano” per altre strade.

Riprendiamo la strada e facciamo una sosta in un luogo (sempre deserto) per fare delle foto vicino ad un grande cactus e vediamo anche un buco nel terreno che dovrebbe essere la tana di uno scorpione. Seconda tappa sopra il Canyon Kuiseb dove raccolgo delle pietre luccicanti. Sosta “idraulica” in un altro posto particolare: una distesa senza fine sovrastata da una roccia molto coreografica, un bagno costituito da un buco nel terreno circondato da un recinto quadrato di legno!

I chilometri sono tanti e lungo la strada vedo cartelli con delle lettere: P per strada privata, B-C per strada statale.

Alla fine arriviamo a Swakopmund (foce del fiume Swakop), tappa non prevista nel programma ma che Betta ha voluto inserire per darci l’idea di un centro turistico importante. Alla periferia di Swakopmund ammiriamo le dune gialle sabbiose della costa: la città ci colpisce subito per la sua architettura in stile tedesco. Non sembra di essere in Africa, ma del resto sono stati i tedeschi a fondare questo centro. Betta ci porta in un ristorante molto carino, il 22° South, gestito da un suo amico italiano (qui trasferito) e situato nella costruzione di un bellissimo faro bianco e rosso. Dopo tanto deserto è strano vedere un po’ di verde, il mare in lontananza, tanti alberi e palme. E’ uscito il sole, l’aria è abbastanza mite e pranziamo sul prato all’aperto gustando un ottimo pesce kinglip e frittura. Oltre il ristorante c’è un parco con delle galline stranissime nere a pois bianchi. Facciamo poi una passeggiata per il centro della città piena di zone verdi, edifici “teutonici”, una zona pedonale con negozi di souvenir, ma tutto abbastanza freddo e poco accogliente, soprattutto per l’atteggiamento dei proprietari bianchi che mettono cancelli chiusi all’ingresso dei loro negozi e fanno entrare i clienti a loro discrezione (cioè non i neri…) e vendono prodotti carissimi e neppure tipici namibiani (qui non c’è un artigianato locale, tutti i souvenir vengono da altri stati africani perché la vena creativa della popolazione è stata molto smorzata a causa dell’apartheid, che pur essendo stato abolito, continua a mantenere divisioni razziali con zone abitative ben delimitati tra neri e bianchi. Addirittura in una città del nord anche hotel e ristoranti si riservano il diritto di non ammettere degli avventori e talvolta, se entra qualche nero, non viene nemmeno servito). Qui non vivrei assolutamente. Riprendiamo il bus e percorriamo per 40 km. la strada costiera verso sud, fino a raggiungere Walvis Bay, che ci appare con lo stesso stile e atmosfera di Swakopmund, ma la zona del nostro hotel (il Pelican Bay, bianco e azzurro) presenta un bel lungo mare con tante villette residenziali carine e fenicotteri rosa sul mare. L’aria si sta facendo più umida e fredda.

7° giorno-venerdì 24 agosto: Walvis Bay

Oggi faremo due escursioni: purtroppo il tempo (come avviene molto spesso nella zona costiera) è brutto, nebbioso e freddo. Ci copriamo con tutte le cose pesanti che abbiamo perché dobbiamo fare una gita in barca nella baia. Anche se le probabilità di avere il sole non erano molte, mi dispiace davvero perché la luce è completamente diversa per le foto e un po’ di tepore in più non guastava, peccato! La cosa che mi piacerà di più della gita, e forse resa più affascinante dal freddo e dai colori grigi, è l’atmosfera, veramente bella e particolare, del porticciolo da cui partono i catamarani e delle costruzioni intorno che hanno lo stile di un porto del nord Europa. Il luogo è vicino all’hotel e lo raggiungiamo a piedi costeggiando ristorantini (la specialità del luogo sono le ostriche), bar, negozi-bancarelle, l’ufficio che organizza le escursioni ed un molo. Ci sistemiamo all’esterno, nonostante il freddo, per vedere meglio il marinaio che dà il pesce ad un’otaria (una foca con le orecchie esterne) che è salita a bordo e a pellicani (molto scenografici, bianchi con il becco giallo, azzurro ed arancio) che si sono appollaiati sul tetto dell’imbarcazione e svolazzano sulle nostre teste. Ci forniscono delle coperte per proteggerci dall’aria gelata e passiamo molto tempo a navigare nella baia cercando di avvistare balene (neanche l’ombra) e delfini che, abbastanza raramente, sbucano dall’acqua e saltano. Secondo me nel complesso l’escursione è troppo lunga (forse con il sole e il caldo è tutto più gradevole), invece mi piace molto lo scenario tutt’intorno delle grandi navi all’ancora: le piattaforme americane (alberghi galleggianti per chi lavora nell’estrazione del petrolio), le navi per il trasposto del sale e dei diamanti. Ci avviciniamo alla costa sabbiosa pienissima di otarie che stanno ferme sul litorale o saltano in acqua: ce ne sono tantissime. Arrivati ad un pontile facciamo scendere tutti gli altri passeggeri del catamarano che proseguono per l’escursione sulle dune, infatti sulla spiaggia ci sono parecchi jeep in attesa. In barca rimaniamo solo noi 10 per il pranzo.

Il pomeriggio lo dedichiamo ad un’escursione molto particolare sulle dune sabbiose che costeggiano l’oceano. La costa della Namibia è divisa in quattro zone: quella più a sud è ricca di giacimenti di diamanti, poi vengono le dune rosse, quindi le gialle (Walvis Bay e Sandwich Harbour) ed infine la Skeleton coast (detta così per i numerosi relitti di navi naufragate su queste spiagge).

Saliamo su una jeep guidata da un tedesco: dietro di noi altre vetture e, tutti in fila, iniziamo a correre lungo la spiaggia. Unico neo la mancanza di sole che avrebbe accentuato il colore dorato della sabbia: ci dobbiamo accontentare di un cielo grigio e brumoso, che ha anche il suo fascino però, specialmente riflettendosi sull’oceano, sulla spuma delle onde con i gabbiani che volano, gli sciacalli che corrono sulla sabbia che ha delle bellissime colorazioni rosso-verdastre-nere (a causa dei moltissimi minerali). A destra il mare e a sinistra le alte dune. Dopo circa 50 km a sud di Walvis Bay, arriviamo a Sandwich Harbour, un tempo località per la lavorazione del pesce, l’estrazione di olio dagli squali e la raccolta di guano. Ora è assolutamente deserto: un cartello vieta l’avanzata dei veicoli e facciamo una sosta accanto ad un laghetto con dei fenicotteri. Al ritorno cambiamo strada e iniziamo a salire sulle dune: il percorso è movimentato e divertente. Quando meno ce l’aspettiamo il nostro autista si “butta” giù per una ripida discesa, non riesco nemmeno a fare una ripresa, poi risaliamo, giriamo intorno, riscendiamo. Passiamo anche davanti a delle saline suggestive per i colori sfumati di rosa, bianco e grigio che si esaltano con la luce del tramonto. A Walvis ceniamo in un ristorante scenografico posto visino al nostro hotel su una palafitta (The raft). Una cenetta squisita con antipastini, carne, pesce e crepes dolci con frutta caramellata, in un ambiente sfizioso con le vetrate che si affacciano sul mare e intorno tante luci della baia.

8° giorno-sabato 25 agosto: Walvis Bay – Damaraland km 530

Lunga tappa di trasferimento, oltre 500 km di sterrato! Saliamo a nord lungo la Skeleton Coast, facciamo una sosta fotografica alla spettacolare Moon Valley (valle della luna). Veramente un paesaggio “lunare”, caratterizzato da rocce nere di dolerite, molto affascinante. Anche questo luogo è antichissimo, come la montagna bruciata (che abbiamo visto solo di passaggio); ma il deserto del Namib è di molto precedente. Qui intorno ci sono parecchie importanti miniere di uranio il cui sfruttamento ha creato anche paura e timori nella popolazione, ma naturalmente l’interesse economico ha il sopravvento e pare che non sia “conveniente” fare rimostranze. Durante il rifornimento di benzina vediamo per la prima volta delle donne Herero, vestite in modo molto particolare, con abbigliamento vittoriano composto da gonne ricchissime di tessuto avvolto intorno a strati e con cappelli strani. Hanno adottato questi usi quando sono venute a contatto con i missionari bianchi. La razza Herero proviene dai bantu (agricoltori) ma sono prevalentemente pastori. Poco oltre sosta per foto ad una nave incagliata vicinissima alla costa: è un’imbarcazione moderna lasciata lì non so se ad uso turistico o per gli alti costi per rimuoverla. Iniziamo a deviare verso l’interno e ci fermiamo a pranzo ad Uis al ristorante Montis-Usti, al di fuori del quale un’altra bellissima donna Herero vende bambolette tipiche: ha un abito color arancio, un po’ lucido con grande cappello abbinato e una fusciacca azzurra in vita. E’ strano vedere lungo la strada cartelli che segnalano “pericolo di elefanti”, infatti non è improbabile che animali anche grandi possano attraversare la strada. Una delle cose particolari di questo paese è proprio che lungo i percorsi statali vedi spessissimo animali di tutti i generi che stanno fermi sui bordi della strada o corrono o saltano nella savana circostante: è tutto un grande parco, percepisci l’ambiente selvaggio, l’incidenza dei luoghi abitati è minima e prevalgono immensi spazi sconfinati senza incontrare nessuno! Siamo entrati nella regione del Damaraland (dal nome dei Damara che costituiscono la maggioranza della popolazione locale). Il paesaggio è cambiato: si vedono catene montuose solitarie, formazioni geologiche bizzarre e colori fantastici. Qui vivono gruppi di rinoceronti neri e di elefanti del deserto che sono più grandi di quelli indiani e si sono adattati all’ambiente riuscendo a stare senza bere anche per 7 giorni. Il capoluogo della regione è Khorixas. In lontananza vediamo il Massiccio del Brandberg, con il picco più elevato del Paese (2.579 mt). Betta ci racconta che nelle grotte di questa montagna sono state rinvenute 43.000 incisioni rupestri, la più nota delle quali è la “Dama Bianca” che risale a 16.000 anni fa; ci dice anche che nel sud della Namibia ci sono incisioni nella grotta “Apollo 11” risalenti a circa 30.000 anni fa! Noi però andiamo a visitare l’area di Twyfelfontein (“sorgente incerta”, per una sorgente di acqua fresca). La zona è famosa per l’abbondanza di incisioni rupestri dette “petroglifi”, situate in una valle di arenaria rossa e risalenti a circa 6000 anni fa. La maggior parte delle pitture rupestri, fatte dai boscimani (o san, primi abitanti della Namibia), pur essendo rappresentazioni stilizzate, riproduce fedelmente e con grande abilità gli animali della regione: elefanti, rinoceronti, giraffe, struzzi, orici e leoni, con tutte le gamme del rosso, giallo, ruggine ed ocra. Probabilmente erano fatte a scopo didattico e sono veramente raffinate e ben proporzionate. Prima di iniziare il percorso ci fermiamo nella zona delle toilette, bar, biglietteria, tutta fatta in materiali naturali: mattoncini e piastre rotonde ramate creano i divisori degli ambienti. Una ranger ci accompagna lungo un sentiero non molto lungo, con qualche salita tra le rocce, che conduce ad alcune zone dove si possono ammirare i graffiti. Il posto è magico: le rocce tutt’intorno hanno un colore rossastro accentuato dalla luce del tramonto che è perfetta per le foto. Purtroppo è tardi e dobbiamo risalire sul bus e percorrere ancora parecchia strada. E’ già buio ma Betta fa un piccolo stop per farci vedere la pianta più famosa della Namibia: la Welwitschia (dal nome del botanico austriaco che l’ha documentata) mirabilis. E’ particolare: può avere anche 2000 anni, ha radici molto profonde e delle foglie che crescono in continuazione, mentre le parti finali a poco a poco si sfilacciano e muoiono. E’ abbastanza scuro, ma riusciamo comunque a vedere e fotografare questo esemplare. Finalmente arriviamo al Damara Mopane Lodge, un hotel molto bello con un giardino ricco di alberi di mopane (che gli danno il nome), tipici di questa zona e caratteristici per le foglie a forma di farfalla. I tronchi sono illuminati da luci verdi che diventano blu nella piscina, molto scenografiche però forse un po’ artefatte. Ceniamo sotto un bel portico e la cena è discreta.

9° giorno-domenica 26 agosto: Damaraland – Parco Etosha km 470

Anche la tappa di oggi è lunga e ci porterà al Lodge Toshari, appena fuori del parco Etosha. Invece di prendere la strada più corta, ritorniamo indietro verso Khorixas e facciamo un percorso circolare per andare a visitare un villaggio Himba che in realtà non è completamente “autentico”, nel senso che è situato all’interno del Gelbingen Lodge, una farm tedesca che lo ospita, dà da mangiare alla tribù che però è libera di andarsene quando vuole. Non so se tutta la strada percorsa vale la visita a questi indigeni particolari, proprio per il fatto che è una cosa turistica, con tanto di vendita di chincaglierie alla fine. Del resto, se fossimo andati direttamente a Etosha, non avremmo visto per niente le donne Himba, popolo della razza Herero che non ha accettato l’integrazione con i bianchi e si è ritirato nel nord della Namibia. Le donne Himba hanno la pelle e i capelli coperti di ocra e grasso per assomigliare alle vacche, il loro bene più prezioso. Appena entriamo nel villaggio vediamo delle capanne di forma conica, di frasche, fango e sterco. Gli Himba sono prevalentemente pastori e le donne svolgono i lavori più pesanti: ce n’è una seduta in terra su una pietra che mescola qualcosa di bianco in un tegame sul fuoco acceso. I capelli sono veramente particolari: dopo il matrimonio, vengono divisi in treccine che scendono sul collo avvolte in striscioline di pelle, mentre la parte finale, libera, è riccia e gonfia come un pon-pon. Un ciuffo di capelli è acconciato in modo strano al centro della testa, verso l’alto. Dal collo le pende una pesantissima collana che scende sul seno nudo, mentre intorno alla vita è avvolto un tessuto a quadri. Accanto a lei vaga un bimbo seminudo. Altre donne sono sedute all’entrata delle capanne, piene di monili e braccialetti a cerchio. Una ragazza, giovanissima, sta in piedi vicino ad una capanna con indosso solo un gonnellino azzurro. Gli Himba rifiutano di curarsi con le medicine moderne, essi adoperano esclusivamente rimedi tradizionali, usando erbe e pozioni da loro confezionate. Insomma alla fine penso che la visita sia stata positiva: almeno abbiamo visto da vicino una realtà indigena. Del resto i “veri” villaggi sono più a nord, vicino a Opuwo, fuori dalla nostra rotta, e possono essere visitati solo dopo aver chiesto il permesso al capo-villaggio. Non credo in fondo che tra il villaggio “vero” e “finto” ci sia una gran differenza. Riprendiamo il cammino ed incontriamo una bellissima coppia di giraffe, che ci fermiamo a fotografare e ammiriamo un albero particolare con uno strano tronco panciuto e fiori bianchi, in un piccolo centro dove facciamo rifornimento carburante. Appena arrivati al Toshari Lodge, subito ci troviamo in un bellissimo ambiente: nella luce del tramonto attraversiamo un lungo sentiero di mattoncini che taglia il prato, ai lati del quale sono sistemati i bungalow tra la vegetazione tipica del luogo. All’improvviso va via la luce: ci avevano detto che nei lodge è frequente che dopo una certa ora i generatori vengono spenti, ma finora non ci era mai capitato.

10° giorno-lunedì 27 agosto: Parco Etosha km 300

La giornata di oggi è interamente dedicata al safari nel parco nazionale Etosha, fondato nel 1907 con un’area di 100.000 km², ora ridotti a 23.000. Il suo nome significa “grande luogo bianco”, con riferimento al colore dell’Etosha Pan, una depressione salina di 5000 km² che occupa la parte centrale del parco. Abbiamo deciso, dopo un lungo ragionamento, di prenotare un’escursione organizzata dall’hotel, in jeep scoperta, per tutta la giornata. Sveglia all’alba e partenza alle 6.30. All’inizio mi pento di questa scelta perché fa veramente freddo: ci danno anche delle coperte. Le file dei sedili sono a gradoni per permettere una buona visuale anche ai viaggiatori posteriori. Per fortuna a poco a poco la temperatura si alza ed iniziamo a spogliarci: arriveremo, verso le 12, a morire di caldo. Questo è il mio primo safari e posso fare dei confronti solo con i racconti degli altri viaggiatori: ho capito che in questa zona di Africa, con savana semi-arida, non ci sono tutti i big five (leoni-rinoceronti-leopardi- bufali africani ed elefanti africani), perché manca il bufalo insieme all’ippopotamo e al coccodrillo, che vivono in zone con più acqua, come il Kenia e la fascia dell’Africa centrale dove credo che il paesaggio sia anche diverso. Superato il cartello d’ingresso posto vicino all’Andersson gate (una delle tre porte d’entrata), avvistiamo subito delle maestose giraffe (le femmine hanno le macchie più chiare ed i maschi più scure). Poi facciamo una piccola sosta all’Okaukuejo (uno dei tre campi presenti all’interno del parco) e poi via, lungo i percorsi obbligati che collegano le varie pozze d’acqua (alcune naturali, altre artificiali) dove gli animali vanno ad abbeverarsi: in questa stagione secca, essendoci poca acqua, c’è più probabilità di avvistare le varie specie che, specialmente nelle ore calde, sono costrette a raggiungere l’acqua per bere. Intorno a noi corrono springbok e zebre. Il bush che attraversiamo è abbastanza monotono, ma quando arriviamo alle pozze lo spettacolo si ravviva con tanti animali intorno: è molto bello e per me, essendo la prima volta, anche emozionante. C’è l’assoluto divieto di scendere dalle macchine e dobbiamo accontentarci di osservare e fotografare il tutto dalla postazione più vicina che riusciamo ad ottenere. Man mano che ci addentriamo nel parco incontriamo un bel branco di elefanti che vaga nella savana, poi arriviamo al bianco “pan” che sembra un campo innevato: è un luogo abbastanza inquietante. Poi di colpo avvistiamo tre leonesse distese sotto un albero in lontananza, ma data la distanza, riesco a vederle solo con il binocolo: i fortunati fotografi invece scattano delle belle foto con i potenti teleobiettivi. E’ curioso osservare che, quando ci sono felini in zona, tutti gli altri animali si bloccano immobili come paralizzati e rimangono all’erta per il pericolo. Continuiamo ad appostarci vicino alle pozze dove ammiriamo il bellissimo spettacolo di tantissimi animali che si abbeverano tutti insieme (sempre zebre, giraffe, orici, springbok…), ma la sosta più bella in assoluto è quella che facciamo verso le 12: essendo l’ora più calda, arrivano una marea di elefanti che vengono qui anche per fare il bagno. Rimango veramente a bocca aperta a guardare questa che sembra una scena da arca di Noè: oltre agli elefanti, tutte le altre specie del parco entrano ed escono dall’acqua, vanno verso destra, tornano indietro, i pachidermi giocano tra di loro: è bellissimo! Intorno a noi altre jeep e vetture. Da un lato sbuca all’improvviso un altro branco di elefanti che a poco a poco si unisce agli altri, è proprio emozionante. Sosta pranzo in un altro lodge tendato del parco: l’Halali, campo abbastanza spartano ma la ranger ci offre un gustoso pranzetto. Nel pomeriggio riprendiamo il percorso, vedendo altri animali, altre pozze e persino (colpo di fortuna) il rinoceronte nero (che in realtà è grigiastro), diverso dal bianco (che è più grande e mangia erba) perché si nutre delle foglie più basse degli alberi. E’ abbastanza lontano, ma riesco comunque a fotografarlo. Dopo un lungo tratto di sola vegetazione, usciamo dal parco al tramonto e, mentre percorriamo la strada per tornare al lodge, incontriamo un intasamento di jeep, bus ed autovetture: sta succedendo qualcosa, infatti c’è una bella leonessa che cammina proprio sul ciglio della strada e riesco a riprenderla anche con la mia misera “compatta”. Devo dire che siamo stati proprio fortunati: abbiamo avvistato quasi tutti gli animali del parco.

11° giorno-martedì 28 agosto: Parco Etosha – Windhoek km 430

Lasciamo l’hotel di mattina presto per andare al centro di salvaguardia del ghepardo dove hanno un vastissimo territorio sia per i ghepardi presi dopo i 6 mesi (che verranno rimessi in libertà) che per quelli raccolti prima, che rimarranno presso il centro perché la mamma non ha potuto insegnare loro la sopravvivenza nel wild. Entriamo nel centro dei Cheetah (il nome inglese per il ghepardo) e una guida ci accompagna vicino ad un recinto entro il quale vivono i 4 esemplari più piccoli, che accorrono subito all’odore del cibo che viene loro offerto: considerato che hanno 1 ettaro di terreno ciascuno, si può capire che non sono certo tenuti in “gabbia”. Mi piace questa visita perché anche se i ghepardi sono in cattività, l’ambiente è veramente vasto e non dà il senso di “rinchiuso”; inoltre nel parco sarebbe stato difficilissimo avvistarli, così almeno li abbiamo ammirati da vicino e fotografati in un habitat molto simile a quello dell’Etosha. La Dr. Laurie Marke, coordinatrice del centro, ci dà (insieme ad altri turisti) varie informazioni sul suo lavoro mentre , insieme ad una assistente, tiene al guinzaglio due grossi ghepardi. Arriviamo poi a Otjiwarongo dove ci fermiamo per il pranzo: questa città non deve essere molto tranquilla perché quando scendiamo dal bus, Betta ci raccomanda di chiudere bene le tendine per nascondere i bagagli e non invitare i ladri alla rottura dei vetri. Evidentemente la cosa è molto frequente da queste parti: addirittura all’entrata del ristorante c’è, in bella mostra, un cartello “non lasciare oggetti di valore nelle vetture: siete a Otjiwarongo, non nel paese delle favole”! Torniamo a Windhoeck nello stesso hotel Safari del primo giorno.

12° giorno-mercoledì 29 agosto:Windhoek – Johannesburg

Partenza alle 10: prima di andare in aeroporto Betta ci fa fare un giro di Windhoek che mi aspettavo più brutta. Non è tanto male: ha 350.000 abitanti, teatri, parchi, cinema, insomma sembra vivibile. Il bus fa una sosta fotografica nel centro storico, di fronte alla Christuskirche, l’edificio più caratteristico della città, risalente alla fine dell’800 e costruito in uno stile ibrido tra il neo-gotico e l’art nouveau. Nella zona circostante c’è un monumento ai soldati tedeschi e il palazzo del parlamento: vedo anche uno strano edificio moderno che sembra un silos e che mi pare sia un museo. Un namibiano ci vende degli strani portachiavi fatti con un frutto locale intagliato con disegni di animali e il nostro nome sopra. Fin’ora li avevamo snobbati, ma in realtà sono proprio tipici della zona e guardandoli bene, davvero carini. Ed eccoci di nuovo all’Hosea Kutako International Airport: sono già passati 12 giorni di questo viaggio senza tempo. Prendiamo il volo BA 6274 delle 13,55 per Johannesburg dove arriviamo alle 16,50. Da qui, con il volo LH 7351 delle 19,05 ripartiamo per Francoforte.

13° giorno-giovedì 30 agosto: Francoforte-Roma

Alle 6,10 arriviamo a Francoforte dove finalmente prendiamo l’ultimo aereo (volo LH 230 delle ore 7.35 ) per Roma, dove arriviamo alle 9,20 per avere una spiacevole sorpresa: la mia valigia non è sul nastro del ritiro-bagagli. Al bancone della denuncia apprendo che è rimasta a Johannesburg!

Conclusioni

Ora che sono tornata e ripenso a tutto, mi viene di paragonare il viaggio in Namibia a una traversata oceanica: in quella navighi nelle immensità del mare, vedi pesci, uccelli, ogni tanto un’imbarcazione, cieli stellati, nuvole, silenzi; qui “navighi” persa nella savana semi-arida: vedi animali, erba gialla, rocce rosse, chiazze verdi, ogni tanto una macchina, cieli stellati. In ambedue il paesaggio fa da contorno alle sensazioni della tua anima che rimbalzano all’esterno, si colorano e ritornano all’interno diversamente impressionate. E lì rimarranno a lungo finché il meccanismo dei ricordi riesce a trattenerle: alla peggio mi aiuterò con le foto!

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donna himba

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Namibia: persa nel nulla

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