Namibia, colori d’Africa tra dune e onde

Uno splendido itinerario fai da te attraverso tutta la Namibia. Tra etnie, città, natura e armonie cromatiche
Scritto da: madeinflorence
namibia, colori d'africa tra dune e onde
Partenza il: 17/05/2011
Ritorno il: 06/06/2011
Viaggiatori: 5
Spesa: 3000 €
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Un’occasione particolare, il festeggiamento di un neo-pensionamento, offre l’occasione per organizzare e realizzare in famiglia uno dei viaggi che da più tempo ci ronza in mente: la Namibia. Convinti da conoscenti che avevano già affrontato un’esperienza simili, dai racconti di viaggio letti su turistipercaso.it e rassicurati dal fatto che questo paese è detto “l’Africa per principianti”, decidiamo di tentare per la prima volta un’avventura in terra africana in fai da te, senza appoggio di tour operator, guide e quant’altro. Scegliamo di partire a metà Maggio, periodo di bassa stagione in quanto già iniziata la secca stagione invernale namibiana, caratterizzata da temperature miti durante il giorno e da brusche escursioni termiche nelle ore notturne e della prima mattina. A Gennaio prenotiamo il volo aereo per il quale purtroppo non abbiamo grandi possibilità di scelta. Voli diretti esistono solo dalla Germania con partenze da Monaco o Francoforte. Optiamo per la partenza da Francoforte dove il vettore nazionale Air Namibia decolla con voli pressoché giornalieri consentendoci di scegliere comodamente il giorno più utile. Con un volo Lufthansa copriamo invece la tratta Firenze-Francoforte (e viceversa). Nonostante la prenotazione sia avvenuta con molti mesi di anticipo rispetto alla partenza, la tariffa di andata e ritorno del volo intercontinentale si è aggirata sui 750 euro (tasse incluse). Il volo, di circa 9 ore, si svolge di notte e l’arrivo all’alba nella capitale Windhoek consente di poter sfruttare anche tutto il giorno di arrivo. La compagnia Air Namibia è una compagnia assolutamente affidabile, puntuale e con uno staff cordiale. Nella scelta dei posti è da preferire la fila centrale dell’aeromobile, i cui 4 posti sono più spaziosi rispetto a quelli delle file laterali.

Grazie ai preziosissimi consigli degli utenti di questo sito, per la prenotazione degli alloggi ci siamo affidati, dopo aver richiesto altri preventivi (ben più cari) ad agenzie in loco, alla Cardboard Box Travel Shop, società con sede a Windhoek specializzata nell’offerta di ogni tipo di servizio turistico in Namibia. Grazie ad una sempre celere assistenza e agli utili consigli di una gentile Chantelle, tramite mail abbiamo prenotato gli alloggi per le 17 notti in terra africana concordando le tipologie di lodge, camere e trattamenti secondo le nostre esigenze. L’offerta delle strutture presenti in Namibia è piuttosto ampia e varia sia come costi che come servizi offerti, ma sono sempre garantiti pulizia e standard qualitativi più che soddisfacenti. Per alcuni pernottamenti abbiamo fatto esplicita richiesta di lodges di cui avevamo letto ottime recensioni, per altri ci siamo affidati ai suggerimenti della Cardboard che non applica alcuna spesa accessoria nella prenotazione né supplementi ai prezzi applicati dalle strutture scelte. Per il pagamento, da effettuare in anticipo all’agenzia, vi sono varie possibilità di scelta completato il quale sono recapitati, tramite posta elettronica, i singoli voucher per ogni sistemazione alberghiera prenotata, da stampare e presentare di volta in volta alla reception.

Per il noleggio dell’auto, una possente Toyota Hylux 4×4, ci siamo avvalsi della “African Tracks” che ha prezzi competitivi ma ci ha messo a disposizione un mezzo con qualche pecca e pneumatici non proprio nuovissimi (abbiamo forato due volte). Come dotazione assolutamente indispensabili due ruote di scorta e una tanica per l’acqua e polizza “zero excess”; il noleggio prevede trasferimento da/per l’aeroporto (a 40 km dal centro città). Nel Toyota Hylux entrano piuttosto comodamente cinque persone e nel cassone c’è ampio spazio per bagagli e zaini che, è buona regola, inserire in sacchi di nylon per proteggerli dalla polvere che entra abbonante nell’abitacolo duranti i percorsi su tragitti sterrati.

A circa un mese dalla partenza sono giunte notizie poco incoraggianti sulle devastazioni subite dall’intero paese a causa di una stagione delle piogge eccezionalmente abbondante e rovinosa (erano 80 anni che non pioveva così tanto). Tutte le zone della nazione sono state colpite e danneggiate e molte strade sono state completamente distrutte dalle piogge torrenziali. Grazie al sito www.tourbrief.com siamo rimasti costantemente aggiornati sulle condizioni delle strade namibiane alcune delle quali a pochi giorni dalla nostra partenza risultavano ancora in cattive condizioni o addirittura chiuse al traffico. Fortunatamente durante il nostro soggiorno siamo riusciti a percorrere tutte le strade previste, molte delle quali avevano già il fondo stradale ripristinato ed altre ancora sottoposte a profondi lavori di manutenzione. In Namibia la cautela alla guida non è mai troppa; massima attenzione, velocità moderata e spostamenti solo diurni sono le regole imprescindibili da seguire.

Dopo essersi dilungati sulla fase organizzativo-pratica del viaggio, veniamo alla descrizione dell’itinerario e alle valutazioni turistiche. Windhoek, la capitale e città principale del paese, non merita più di un giorno di visita. Prezioso si è rivelato il consiglio di Ric, guida per caso della Namibia su questo sito, che da me contattato prima della partenza, mi ha consigliato di sostare il giorno dell’arrivo in città per una breve visita e rimandare all’indomani la partenza per l’esplorazione del resto della nazione. In questo modo si ha la possibilità, in tutta tranquillità, di visitare la città e di ambientarsi con la nuova realtà. Post Street, con l’esposizione di meteoriti, la caratteristica chiesa luterana Christuskirche, il mercatino lungo Fidel Castro Street, la centralissima via commerciale di Post Street Mall, qualche edificio in stile coloniale lungo Indipendence Avenue a testimonianza del tempo che fu: ecco i pochi punti di interesse del centro città, di dimensioni limitate e facilmente percorribile a piedi. Nessuna situazione di rischio si avverte girando per le strade di giorno, sono necessarie solamente le accortezze strettamente legate al buon senso. Per un pasto economico ma abbondante un’ottima soluzione è il Mugg&Bean in Post Street, locale accogliente con connessione wi-fi gratuita, nel quale decidiamo di sperimentare subito uno dei piatti tradizionali, il bobotie, un saporito pasticcio di carne. Per la cena immancabile tappa al Joe’s Beerhouse, il ristorante più conosciuto e consigliato da ogni guida e viaggiatore. Un’atmosfera accogliente e vasti locali ci introducono in un ambiente dove ogni sorta di oggetto, anche il più inusuale e malmesso, trova una sua collocazione ideale in un arredamento che definire eclettico è dir poco. Piatto tipico, imperdibile, è il bushman sosatie, uno spiedino alla griglia con carne di struzzo, coccodrillo, zebra, kudu e pollo da accompagnare con un bel boccale di birra locale, la Tafen lager o la Windhoek lager. Essendo un po’ fuori dal centro si può raggiungere con il taxi o con l’auto propria da lasciare in custodia, per pochi spiccioli, nel parcheggio privato del ristorante. Considerato l’alto afflusso di clienti, sia stranieri che locali, è necessaria la prenotazione che ci ha gentilmente riservato l’addetta alla reception del nostro albergo, Pension Steiner, non lontano dal centro con camere semplici e pulite, piccola piscina e parcheggio interno con sorveglianza 24 ore al giorno.

Secondo giorno

Siamo partiti alla volta del sud in direzione deserto del Kalahari. Sia a sud che a nord di Windhoek, lungo la B1, l’arteria stradale più importante del paese, ci sono posti di blocco permanenti della polizia ai quali è necessario fermarsi. Spetterà al poliziotto avvicinarsi per controllare i documenti o far un cenno che invita a proseguire. I posti di blocco sono sempre segnalati in anticipo con apposita cartellonistica che invita a rallentare; nel caso in cui il poliziotto non sia in strada ma sul ciglio, è necessario comunque fermarsi entro la linea di stop e attendere disposizioni.

Il deserto del Kalahari è un bel primo assaggio di terra africana. Accolti da un fresco drink di benvenuto, prendiamo possesso dei bungalow a noi riservati nello splendido Kalahari Anib Lodge, ad una trentina di km a nord di Mariental. Pasto veloce, un po’ di relax sull’amaca nel giardino e poi tutti sulle jeep per il game drive pomeridiano organizzato nella riserva del lodge (partenza ore 15.00). Gli avvistamenti di animali si susseguono così come i mutamenti di paesaggio. Branchi di springbook saltanti ci attraversano la strada per poi scomparire nelle distese di erba dorata. Inizialmente osservati con entusiasmo, questa specie di gazzella diventa, dopo pochi giorni di soggiorno in Namibia, un animale tanto comune da non attirare più l’attenzione. Struzzi in corsa, zebre al pascolo, kudu all’ombra degli alberi, branchi di diffidenti gnu ci accompagnano in questo piccolo safari fino al tramonto quando, arrestate le jeep sulla cima di una duna di sabbia rossa, brindiamo al sole che lentamente scompare con bevande prontamente fornite dalle nostre guide.

Abbondantemente prima del suono della sveglia, siamo già tutti pronti per affrontare un nuovo giorno che ci vedrà impegnati nella discesa verso il sud del paese. Imboccata la famigerata B1, sfrecciamo davanti al Brukkaros, “vulcano” che con i suoi 600 metri di altezza si erge maestoso in lontananza, per raggiungere in prossimità di Keetmanshoop la Quiver tree forest, un’area dove cresce rigoglioso l’albero nazionale, il cosiddetto kokerboom (albero faretra), dall’aspetto bizzarro quanto intrigante. Turisticamente poco emozionante è invece il vicino Giant’s playground (entrambi sorgono in terreni privati e quindi accessibili con biglietto di ingresso), conformazioni rocciose di colore rossastro. Ripreso il cammino in direzione sud arriviamo nel tardo pomeriggio al Canon Lodge, base prescelta per la visita al Fish River Canyon. Prima di cena altro immancabile “sundowner”, l’aperitivo serale davanti all’orizzonte che si incendia di colori pastello mentre il sole tramonta.

Il Fish River Canyon, secondo solo al Grand Canyon per dimensioni, fu originato da un movimento tellurico e poi scavato dall’omonimo fiume che ancora scorre fino a 500 metri più in basso. Spostandosi in auto, sostiamo in alcuni dei punti panoramici per ammirare le pareti scoscese del canyon illuminate dalla luce del primo mattino e per scattare, con l’autoscatto, foto di gruppo. La giornata è ancora lunga e per raggiungere Aus, meta finale del giorno, abbiamo deciso di percorrere la C37 per poi imboccare la C13 in direzione Rosh Pinah. Una strada desolata, che non offre possibilità di ristoro o rifornimenti di carburante, aperta solo ai mezzi 4×4 e sulle cui condizioni è sempre bene informarsi prima di percorrerla. Titubanti per le notizie che indicano questa strada come una delle più devastate dalle piogge torrenziali durante la stagione delle piogge e destinata a lunga chiusura, decidiamo comunque di avventurarci dopo aver ricevuto indicazioni confortanti dalla proprietaria del Canon Lodge (i gestori dei lodge sono tra i principali referenti per ricevere informazioni sullo “stato di salute” delle vie di comunicazione della loro zona). Dopo aver ammirato paesaggi incantati lungo la C37, tra il bivio con la D316 e la C13, proseguiamo lungo quest’ultima in direzione Rosh Pinah. Fatti poche centinaia di metri troviamo però la strada chiusa da una sbarra. Prima di procedere è necessario registrare l’auto, il numero di passeggeri e l’ora di ingresso in un piccolo ufficio adiacente. La strada, in parte già ripristinata ed in parte ancora sottoposta a pesanti lavori di manutenzione, corre per lunghi tratti parallela al limaccioso fiume Orange che segna il confine con il Sud Africa. Per circa due ore e mezzo percorriamo questa strada di confine, isolata ma circondata da paesaggi suggestivi, prima di rimboccare la strada asfaltata in prossimità di Rosh Pinah. Dato che il tempo lo consente, ci rechiamo a Garub sulla strada B4 in direzione Lüderitz per avvistare i cavalli del deserto, colonia di equini selvaggi sulle cui origini si sprecano numerose storie, più o meno leggendarie. A Garub è stato allestito un punto di avvistamento nei pressi di una pozza dove i cavalli si avvicinano per dissetarsi, al fine di rendere più facile l’avvistamento di tali animali. Due cavalli, dopo aver bevuto alla pozza, ci regalano una entusiasmante quanto giocosa corsa al galoppo, uno a fianco all’altro, immortalata in scatti in sequenza dalle nostre macchine fotografiche. Pernottamento al Desert Horse Inn ad Aus con ottima cena a buffet servita in una terrazza di legno panoramica.

La mattina seguente partiamo in direzione di Lüderitz con sosta, strada facendo, alla città fantasma di Kolmanskop. Sorta agli inizi del 1900 sulla spinta della frenetica caccia al diamante (di cui l’intera zona è tutt’ora ricca) per opera di minatori tedeschi, questa piccola cittadina ebbe un rapido sviluppo seguito da una lenta fase di spopolamento a causa del calo dell’attività estrattiva, fino al completo abbandono avvenuto a metà degli anni 50. La peculiarità di questa città fantasma consiste nelle dune del deserto che stanno velocemente inghiottendo gli edifici: si gira da soli per la città entrando nelle abitazioni invase dalla sabbia, che si fa prepotentemente strada attraverso porte e finestre spalancate. Vecchie stufe, cartelli arrugginiti e suppellettili abbandonate: testimonianze di una remota quotidianità ormai soppiantata da un’imperante spettralità, che si accentua nelle prime ore mattutine per le nebbie provenienti dall’oceano. Unico ricordo dell’antica prosperità rimangono due diamanti dipinti sulle pareti esterne di una casa fatiscente.

Raggiunta Lüderitz, attraverso una strada sterrata ci dirigiamo verso la penisola a sud della città. Una mezza giornata consente di percorrere le strade che conducono fino ad Halifax Island, passando per Penguin Island dove ha sede una colonia di pinguini, per Diaz Point ed il suo punto panoramico sull’oceano dominato dal faro e per le numerose lagune abitate da cormorani e dagli splendidi fenicotteri rosa. Senza dimenticarsi di attraversare in auto, durante le ore di bassa marea, la laguna in secca.

Lüderitz, definita a sproposito la “Monaco del deserto”, non merita una visita. I colori accesi dei pochi edifici in stile coloniale tedesco non smorzano l’anonimia della cittadina che ai nostri occhi si è palesata ancora più evidente in quanto capitati di domenica, giorno in cui la vita locale sembra fermarsi! L’unico ristorante aperto in tutta la città è quello del nostro albergo, il Bay view hotel, dove l’attesa per cenare è stata infinitamente lunga. Considerando la posizione geografica non favorevole per le consuete rotte turistiche e lo scenario offerto, conviene non perdere tempo prezioso e saltare questa tappa oppure in alternativa, dedicare un giorno alla città, alla penisola e a Kolmanskop con partenza e ritorno da Aus in giornata. La nostra scelta di dedicare due giorni interni alla zona è stata senza dubbio errata. Il secondo giorno ci siamo dedicati nuovamente all’esplorazione della penisola a sud di Lüderitz, godendoci i paesaggi marini, fotografando le foche di Diaz point e allestendo un pic-nic improvvisato sugli scogli. A metà pomeriggio decidiamo che è l’ora di tornare verso il Desert Horse Inn ad Aus dove ad attenderci ci sono accoglienti camere e un servizio davvero cordiale. Consigliati dal manager del lodge, ci rechiamo ad ammirare il nostro ennesimo “sundown” africano a Geisterschlucht. Percorrendo una stretta pista in terra battuta, tra infinite pianure erbose, ci imbattiamo in un branco di cavalli al pascolo. Una giovane cavalla, incuriosita dalla bizzarra compagnia di viaggiatori che procede stipata in una bianca jeep impolverata, si avvicina affiancandoci al nostro incedere lento. Scendiamo per fraternizzare con questo animale così dolce ma, una volta risaliti in auto per proseguire il tragitto, la cavalla si posiziona davanti alla macchina, impedendoci di proseguire. Disturbata forse dalla nostra volontà di “abbandonarla” nuovamente al suo stato selvaggio, improvvisamente si imbizzarrisce ed inizia a scalciare pericolosamente verso il cofano della jeep. Con una lesta manovra di sterzo e una sgassata degna di essere ammirata su palcoscenici automobilistici, riusciamo a sfuggire all’assalto equino e proseguiamo il nostro tragitto. Giunti nei pressi di un solitario albero a cui fa compagnia la carcassa di una vecchia auto arrugginita, ci fermiamo e montiamo una schiera di cavalletti per le nostre videocamere e macchine fotografiche: pennellate di arancione e di un intenso colore rosa si impossessano del cielo proiettando le loro sfumature sul panorama davanti a noi.

Verso il confine settentrionale

Dopo una calorica colazione a buffet, lasciamo Aus imboccando la C13 in direzione nord. Oggi abbandoniamo il sud per dare inizio alla graduale risalita fino all’estremo confine settentrionale della Namibia. La C13 e la C27 sono due arterie stradali molto importanti del paese, in terra battuta ma in buonissime condizioni, circondate da incantevoli scenari. A Betta, minuscola località al bivio tra la C27 e la D826, c’è una pompa di benzina ed un punto di ristoro gestito da una giovane mamma tedesca che, coadiuvata da gente del luogo, vende biscotti, torte fatte in casa, caffè caldo e generi alimentari di prima necessità. Con una deviazione dal percorso principale raggiungiamo il Duwisib Castle, fatto erigere nel 1909 quale residenza privata dal barone Heinriche Von Wolf, comandante delle truppe tedesche in Namibia. Costruito quasi interamente con materiali importati dall’Europa via mare fino a Lüderitz, e poi trasportati su carri per 600 km attraverso il deserto del Namib, il castello, con le sue imponenti pareti di pietra, ha un aspetto tanto austero fuori quanto curato dentro. Gli sforzi profusi per costruirlo non furono certo compensati da una duratura permanenza in esso del proprietario e della moglie: nel 1914 durante un loro soggiorno all’estero, scoppiò la prima guerra mondiale e il barone fu nuovamente arruolato nell’esercito tedesco, morendo in battaglia due anni più tardi. La moglie non fece più ritorno in Namibia e il castello, abbandonato per lunghi anni è diventato proprietà statale alla fine degli anni ‘70.

Nel primo pomeriggio arriviamo a Sesriem, ai margini del deserto di Sossusvlei, una delle attrazioni turistiche più visitate ed apprezzate della Namibia. Appena giunti, un’amara sorpresa ci attende: una delle ruote posteriori è alquanto sgonfia. Fortunatamente presso il benzinaio del paese c’è un gommista, aperto 24 ore al giorno, dove un allegro e frenetico manipolo di ragazzi namibiani offre assistenza a prezzi irrisori. Riparato il pneumatico, prendiamo possesso presso il Desert Camp delle nostre confortevoli tende con bagno privato, vista savana. Soluzione economica, nei pressi dell’entrata del parco (5 km), alquanto suggestiva per posizione e tipologia di sistemazione, con inclusa la colazione (a partire dalle ore 5.30) presso il vicino ristorante del lussuoso Sossusvlei Lodge dove, con una scelta azzeccata, decidiamo anche di cenare. Per 200 nad si ha accesso ad un buffet di proporzioni smisurate, con una sezione dedicata esclusivamente al braai, la carne (di zebra, kudu, orice, springbook, ecc.) cotta alla griglia al momento dagli instancabili cuochi locali.

L’ingresso al deserto di Sossusvlei richiede il pagamento di un biglietto che è consigliabile acquistare il giorno precedente alla visita. Questo evita di perdere tempo prezioso la mattina, all’entrata del Namib-Naukluft National Park, per chi desidera vedere l’alba dalla dune. Pur trovandoci all’entrata del parco alle ore 6.00 in punto (orario di apertura in inverno), dovendo acquistare i biglietti e trovandoci delle auto in coda davanti a noi all’ingresso, non siamo riusciti a vedere l’alba dalla duna 45 (su cui si può salire a piedi e che dista appunto 45 km dall’entrata).

Il deserto del Sossusvlei è qualcosa di inimmaginabile. Dune di sabbia rossa a perdita d’occhio, sinuosamente modellate dal vento e complici del sole in infiniti giochi di ombre e tonalità. Faticosa ma impagabile la conquista a piedi della cima della duna 45 lungo l’elegante e sinuosa dorsale che sembra non finire mai. Una volta raggiunta la cresta, non resta che sedersi sulla soffice sabbia, il volto rinfrescato dalla brezza mattutina, il silenzio ovattato intorno ed un emozionate panorama a 360°.

Una comoda strada asfaltata lunga 55 km consente di addentrarsi in questo paesaggio di dune che raggiungono altezze superiori ai 300 metri. Solo gli ultimi 6 km di strada sono su fondo sabbioso ed interdetti alle auto 2×4. Da questo punto in poi possono procedere solo le auto 4×4, in alternativa esiste un servizio di navette per percorrere l’ultimo tratto di strada verso il luogo che ha dato il nome all’intera area, Sossusvlei. Da qui, un percorso a piedi di circa 2 km conduce a Deadvlei, una depressione argillosa nascosta tra le dune che in passato si presentava come un’oasi di acacie e che oggi, a seguito del cambiamento del percorso del fiume che alimentava l’oasi, si è trasformata in una teatrale composizione di tronchi secchi su terreno arido. Come in un quadro impressionistico, è il netto contrasto cromatico tra l’arancione delle dune, il bianco del fondo arido, il nero dei tronchi e l’azzurro del cielo. Per chi ha la possibilità di ammirare il Fish River Canyon, può tralasciare la visita del Sesriem Canyon, anch’esso all’interno del Namib-Naukluft National Park. Ad eccezione di un punto ristoro all’ingresso del parco, non esistono altri punti ristoro. E’ bene fare scorte di acqua e cibo prima di addentrarsi nel deserto; nei pressi di Sossusvlei ci sono dei tavoli all’ombra di acacie presso cui è possibile fare una sosta pic-nic. Dopo una giornata faticosa e assolata ci prendiamo un meritato riposo a bordo della piscina dello scenografico Desert Homestead, lodge presso cui veniamo accolti con uno squisito cocktail di benvenuto a base di frutta e dalla mascotte del luogo, una scodinzolante e festosa canina di nome Deisy. Al termine della cena, lo staff del lodge si esibisce in una piacevole serie di canti e balli popolari tra i tavoli dei pochi e sorpresi ospiti. E’ il nostro carosello: al termine tutti a letto, che l’indomani ci aspetta un’altra lunga tappa verso la costa.

Come ogni mattina sveglia di buon’ora, valigie metodicamente disposte nel bagagliaio, abbondante colazione e quindi partenza. Percorsi circa 60 km sulla C19, una strada con un buon fondo stradale di ghiaia, facciamo una sosta obbligata a Solitaire, una minuscola località famosa non certo per l’anonimo distributore di benzina circondato da rottami di vecchie auto né per il desolato albero secco che ha dato il nome al luogo ma grazie a Moose, un pittoresco signore che nel lontano 1992 ha aperto qui un piccolo forno che ogni giorno produce circa 150 kg della torta di mele più buona della Namibia. Rifocillati e con abbondanti scorte di pezzi di torte, giungiamo a metà pomeriggio a Swakopmund dopo qualche difficoltà incontrata a causa di una nuova foratura di una gomma posteriore. Grazie all’abilità di Pietro, i cui trascorsi nel corpo degli alpini si rivelano quanto mai preziosi, in men che non si dica la ruota è sostituita ed il viaggio può proseguire fino a Walvis Bay, dove facciamo riparare la gomma forata presso un gommista. Swakopmund è una vivace cittadina marittima, curata ed accogliente, un’armoniosa miscela architettonica di edifici in stile coloniale e negozi di artigianato africano di ottima fattura (chiusura ore 17). Punto di riferimento è il faro, oggi trasformato in ristorante. Per il giorno seguente prenotiamo presso l’ufficio del turismo l’escursione “combo” con l’agenzia locale Laramon tours: un’intera giornata alla scoperta della baia di Walvis e della meravigliosa Sandwich Harbour (costo totale euro 130 a persona incluso pranzo). La sera, consigliati dal simpatico proprietario della Sea Breeze Guesthouse dove alloggiamo, ci regaliamo una cena a base di ottimo pesce al The Tug, il ristorante più noto di Swakopmund, con vista sull’oceano ed un ottimo servizio da parte di Richard, un intraprendente cameriere dal sorriso contagioso.

dove le dune incontrano il mare

La mattina seguente una navetta della Laramon Tours ci preleva dal nostro alloggio per condurci al molo di Walvis Bay, da dove alle ore 9.00 in punto avrà inizio la nostra giornata escursionistica. Dopo un paio di foto ad una coppia di pellicani per niente intimorita dalla curiosità dei turisti, ci imbarchiamo su un catamarano per una navigazione di un paio di ore nella baia. Richiamati dal pesce fresco offerto da un mozzo, l’imbarcazione è ben presto accompagnata dal volo di un gruppo di cormorani e da 4 splendidi esemplari di pellicani con il piumaggio rosato. Niente a confronto però della improvvisa visita di una foca che, salita sul catamarano, si accomoda sui divanetti e con circospezione attende la sua lauta porzione di pranzo. Tra foto di rito, brevi carezze al gradito ospite, un cocktail ed un paio di delfini che appaiono fugacemente nei pressi della barca, proseguiamo la navigazione in direzione di Pelican Point. Un vecchio faro bianco e nero e una nutrita colonia di foche è tutto quello che si può trovare in questa lingua di sabbia protesa nell’oceano che delimita la baia. Poco distante attracchiamo per scendere dal catamarano e dare inizio alla seconda parte dell’escursione, quella che ci condurrà a Sandwich Harbour, il luogo in cui “le dune incontrano il mare”. Ad attenderci troviamo una potente jeep guidata da un ragazzone biondo di evidenti origine tedesche, e una coppia di simpatici turisti francesi. Viaggiamo a velocità sostenuta su un angusto lembo di sabbia, stretto da un lato dalle pareti scoscese delle dune e dall’altro dalle onde dell’oceano che si infrangono sulla spiaggia. C’è il pericolo di rimanere insabbiati ma questa è l’unica “strada” per raggiungere la nostra meta. Con il respiro strozzato nel petto per il brivido di questa folle corsa, l’attenzione è tutta rivolta alla natura selvaggia che ci circonda. Ad un tratto, le dune indietreggiano rispetto alla linea del mare creando lo spazio per una laguna che si interseca con le acque marine. Un luogo incantato, senza anima viva. Un cartello solitario ricorda il divieto di spingersi oltre quel punto. Mentre faticosamente ci arrampichiamo su una duna per ammirare il paesaggio dall’alto, la guida si rinfresca tra le onde dell’oceano prima di allestire un magnifico buffet sotto una tenda. Mozzafiato, e non solo per la fatica accorsa per scalare la duna, il panorama intorno e sotto di noi. Una quiete totale, interrotta solo dall’incessante andirivieni delle onde sulla battigia e da qualche uccello che sorvola questo paradiso. Discesa la duna, ci sediamo sotto la tenda per il pranzo dove ad attenderci ci sono un gustoso piatto di ostriche fresche (specialità della zona) e altri ottimi spuntini accompagnati da una bottiglia di prosecco. Terminato il pranzo, per favorire la digestione, il nostro accompagnatore ci coinvolge in adrenaliniche corse in jeep sulle dune tra le festose quanto atterrite urla dei passeggeri a bordo. Indimenticabile la sosta sulla cima di una duna a strapiombo sull’oceano. Per la cena a Swakopmund optiamo per un altro ristorante molto rinomato, l’Einrich’s, anch’esso consigliabile e di buona qualità.

Verso il Moon Landscape

La mattina seguente, uscendo dalla città, deviamo dalla B2 verso il cosiddetto Moon Landscape, un’area paesaggistica molto particolare dove una serie di colline, erose nel corso di milioni di anni dal fiume Swakop, creano un paesaggio che ricorda quello lunare. Non ci soffermiamo troppo in questa zona perché sprovvisti del permesso necessario, acquistabile presso gli Uffici del Turismo di Swakopmund. Inaccessibile, per un fiume in piena che ha inondato la strada, è la Welwitschia Drive, un itinerario che consente di ammirare numerosi esemplari della Welwitschia Mirabilis, una pianta tipica della Namibia considerata una sorta di fossile vivente poiché il suo ciclo di vita raggiunge i 1500-2000 anni. Ci rimettiamo in marcia in direzione Cape Cross, per fare visita da una folta e maleodorante colonia di foche. Lungo un breve tratto di scogliera si accalcano migliaia di foche che, grazie alla corrente del Benguela, trovano un habitat marino particolarmente ricco di cibo. Proseguendo in direzione nord, poco dopo Cape Cross, la strada asfaltata termina ed inizia una carrozzabile salina percorribile in auto che, dopo 100 km circa, conduce all’ingresso della famigerata Skeleton Coast, il cui nome è spesso erroneamente utilizzato per indicare tutta la costa namibiana. In realtà è qui, al di là di un cancello con le raffigurazioni di due enormi teschi, che ha inizio quel tratto di costa inospitale la cui lugubre e macabra fama ci ha incuriosito tanto da decidere di percorrerla per raggiungere la regione del Damaraland. Relitti di navi, nebbie spettrali, solitudine e atmosfere tetre: si narra che questo sia ciò che attende i pochi avventurieri che si spingono fin qua. E noi, come novelli Goonies, lo vogliamo verificare di persona. Ricevuto il permesso gratuito necessario per accedere, pieni di curiosità ma anche con un pizzico di inquietudine varchiamo il cancello di ingresso della Skeleton Coast. E’ con grande sorpresa che ci troviamo per decine e decine di km in un grigio deserto, con l’unica strada percorribile che corre lontana dal mare. Niente nebbie, un solo relitto alquanto insignificante avvistato, un vecchio pozzo petrolifero abbandonato, nessuna suggestione ed uno scenario monotono. Che delusione! Riposto lo spirito da esploratori, indossiamo nuovamente quello da turisti ed usciamo dalla Skeleton Coast prima di Torra Bay per dirigerci verso Twyfelfontein, al Twyfelfontain Country Lodge. In questa zona ci imbattiamo, per la prima volta dall’inizio del nostro viaggio, in strade in pessime condizioni a causa dell’esondazione nei mesi precedenti del fiume Haub e di altri piccoli torrenti che, invadendo le strade, hanno trascinato detriti e creato insidiosi avvallamenti. Questo magnifico lodge, incastonato tra formazioni di roccia lavica, è stato costruito con il massimo rispetto verso il paesaggio circostante. Suggestiva la panoramica dining room, dove sono serviti i pasti con buffet assai variegati.

La zona di Twyfelfontein è considerata patrimonio dell’Unesco dal 1997 per la presenza di numerosi incisioni rupestri, opera degli antenati dei moderni Boscimani. Alcune di queste raffigurazioni, in particolare figure di animali, si possono ammirare anche sulle rocce antistanti il lodge. Il tempo stringe e ci accontentiamo di scattare due foto a queste, senza partecipare ai tour guidati nei siti con maggior concentrazioni di incisioni. La conquista dell’estremo nord deve essere ancora compiuta, la strada è lunga ed il tempo a disposizione ci consente solamente una breve deviazione alla Pietrified Forest, circa 40 km ad ovest di Khorixas. La breve e insignificante visita guidata in quest’area, dove si concentrano alcuni alberi pietrificati, ci ha fatto rimpiangere il tempo perso. Unica consolazione aver potuto ammirare degli esemplari della famigerata Welwitschia Mirabilis.

Le strade C35 e C41 che da Kamanjab conducono ad Opuwo sono asfaltate e rappresentano la soluzione migliore per spingersi verso nord. Nonostante il limite di velocità su queste strade sia di 120 km/h, è bene tenere un’andatura più lenta a causa della costante presenza di greggi di capre e mandrie di vacche che pascolano lungo la strada e sovente l’attraversano. Seduti ai bordi della strada, molta gente del luogo rimane in attesa per lunghe ore di un passaggio per spostarsi da un villaggio all’altro, dato che in queste zone spesso le gambe sono l’unico mezzo di locomozione disponibile. A malincuore, dato che eravamo già al massimo della capienza, non abbiamo potuto offrire il nostro aiuto alla popolazione locale. In questa zona sono presenti blocchi della polizia permanenti. E’ ben fermarsi sempre prima del segnale di stop. In uno dei controlli, abbiamo avuto la malaugurata sfortuna di fermarsi appena dopo il segnale di stop: nonostante il mea culpa del sottoscritto in un inglese alquanto arrangiato, ci siamo dovuti subire una ramanzina di 10 minuti del poliziotto di turno, con tanto di ripetizione a voce alta della buona prassi dell’automobilista disciplinato. Nel frattempo, sfrecciavano accanto a noi pick-up stracarichi di persone del luogo: molti in piedi nel cassone, alcuni aggrappati agli sportelli, altri a sedere fuori dai finestrini. Ultima perla del poliziotto prima della fine della “penitenza” è far allacciare le cinture anche ai passeggeri posteriori….mentre i pick-up continuano a sfrecciare! Differenti interpretazioni del codice della strada. Dopo questo piccolo imprevisto giungiamo ad Opuwo, cuore della regione del Kaokoland, una zona selvaggia, scarsamente abitata e spesso fuori dai circuiti turistici tradizionali. Uno dei motivi che ci ha spinto ad addentrarci in quest’area incontaminata è stato il desiderio di entrare in contatto con l’etnia Himba, una popolazione seminomade che proprio in questa regione ha la sua massima concentrazione. Percorrere l’unica strada che attraversa Opuwo è un’esperienza unica nel suo genere: una mescolanza di etnie che si affaccendano nelle loro attività quotidiane, tra maiali in cerca di cibo lungo la strada, bambini che giocano nella polvere, “negozi di abbigliamento” e parrucchieri. Incantevoli per la naturalezza con cui indossano i loro vestiti tradizionali, le donne anziane di etnia Herrero camminano a testa alta, avvolte nei loro imponenti gonnelloni a fantasie sgargianti ed agghindate con il tradizionale copricapo a forma di corno, fiere del loro ruolo sociale e della loro discendenza etnica. Ad esse si contrappone la semplice nudità delle donne Himba, per le quali l’evidenza del ruolo sociale e l’appartenenza alla stirpe è affidata agli ornamenti e alla simbologia estetica. In un simile contesto sembra quasi un miraggio la presenza di un benzinaio aperto 24 ore e di una banca con sportello bancomat.

Per adeguarsi perfettamente ad una realtà quasi incontaminata, il pernottamento scelto ad Opuwo è stato tra i più singolari e spartani. Un piccolo campo tendato (in cui ci troviamo ad essere gli unici ospiti), costruito sotto i caratteristici alberi di Mopane, con grandi tende con bagno annesso… a cielo aperto! Senza elettricità, ci si muove al calar del sole con torce e si cena a lume di candela vicino ad un enorme focolare. Unico neo la presenza invadente di ragni all’interno delle tende e le basse temperature raggiunte durante la notte…ma anche questa è Africa!

Fortunatamente la sveglia suona presto e mentre davanti a noi albeggia, ci ritroviamo intorno al solito ma quanto mai prezioso focolare per una colazione… open-air. Sistemate le valigie in macchina con la consueta organizzazione “a catena di montaggio”, imbocchiamo la lunga strada che da Opuwo conduce alle Epupa Falls, al confine con l’Angola. Il sole sta lentamente rischiarendo il cielo e una leggera nebbiolina avvolge i campi erbosi. In circa 3 ore copriamo la distanza tra le due località prestando molta attenzione alla strada disconnessa e ammirando i piccoli villaggi Himba lungo il tragitto. Tra foto ad enormi baobab e ad una coppia di giovani Himba (che si lasciano fotografare in cambio di una ricompensa in denaro), giungiamo all’Epupa Camp Lodge in perfetto orario sulla tabella di marcia. I gentili proprietari tedeschi ci accolgono con salviette alla citronella per scongiurare il pericolo zanzare e si scusano per i lavori in corso in alcune aree del lodge. Le piene del Kunene, sulle cui rive è adagiato il lodge, hanno causato, durante il periodo delle piogge, ingenti danni alla struttura. Grazie ai celeri lavori di ristrutturazione, nessun disturbo o disagio è arrecato alla clientela… funziona perfino la connessione internet wi-fi! La collocazione delle tende a ridosso di questo fiume impetuoso e limaccioso crea un giusto equilibrio tra il senso di inquietudine per la forza della natura e l’incredibile fascino del luogo. L’atmosfera del luogo rapisce, l’accuratezza dei dettagli sorprende, i suoni ammaliano. I palmeti, le scimmie sugli alberi, il fluire dell’acqua: ogni cosa partecipa ad un contesto perfettamente armonico. Per questa sistemazione abbiamo scelto un pacchetto che oltre al pernottamento e pensione completa include due escursioni con guida locale. La prima di queste, ad un villaggio Himba della zona, è effettuato in tarda mattinata. Dopo aver ricevuto il consenso dagli abitanti, la nostra guida ci introduce nel villaggio di capanne mettendoci in contatto con le secolari tradizioni di questo popolo. Accanto alle capanne fatte di sterco, fango e legno di mopane, siedono gruppi di donne con le loro acconciature e copricapo simbolici, i vistosi orpelli e le gonnelline di pelle. Tutto richiama un rigido simbolismo che identifica la fascia di età, lo stato civile e il numero di figli. La pelle del corpo cosparsa di polvere di ocra accomuna tutte le donne del villaggio, affascinanti nelle loro lente movenze e con gli sguardi carichi di intensità. I ragazzi adolescenti del villaggio hanno una curiosa acconciatura che ricorda la forma di una coda di scorpione. Incantati dalle spiegazioni della guida, ci spostiamo all’interno del piccolo villaggio tra focolari, capre al pascolo e bambini che rincorrono le galline. La “matrona” del villaggio ci offre ospitalità dentro la sua capanna dove l’aria è resa irrespirabile da un fumo acre proveniente da un incensiere. A stento, accovacciati uno accanto all’altro per lo spazio esiguo, resistiamo per una manciata di minuti prima di tornare a respirare a pieni polmoni all’aria aperta. Una, due, tre, dieci, cento foto…scatti a raffica, rapiti da questa realtà così profondamente lontana dalla nostra civiltà moderna. I bambini si avvicinano incuriositi dalle macchine fotografiche: sorridono, con i loro grandi occhi espressivi, alla vista della loro immagine negli schermi delle reflex. Lasciato il villaggio, prima di rientrare al lodge, raggiungiamo un cimitero Himba dove sotto tumuli di pietre adornati con corna di bovini (simbolo di ricchezza e potenza) riposano i vecchi capi del villaggio. Dopo un frugale pasto con una splendida vista fiume e un po’ di relax sulle sdraio, ci incamminiamo per una passeggiata lungofiume al di fuori del lodge. Abbiamo ben presente il consiglio dei proprietari: nessun problema a muoversi sulla terraferma ma guai a toccare l’acqua…pericolo coccodrilli! Ed infatti, in lontananza, su un’isoletta in mezzo al fiume avvistiamo un coccodrillo di piccole dimensioni che riposa al sole. Raggiungiamo il villaggio locale, una manciata di baracche fatiscenti e tanta sporcizia, prima di imbatterci in un maiale in cerca di cibo e in alcuni bambini che pescano seduti sulla riva. Intorno alle 15.30 partiamo per la seconda escursione, quella alle Epupa Falls. Con un breve sentiero si raggiunge un punto panoramico da cui è possibile ammirare le numerose cascate e il tumultuoso incedere del fiume Kunene. L’abbondanza di acque dovuta alle eccezionali piogge dei mesi precedenti rendono lo spettacolo ancora più suggestivo. Tra palmeti e imponenti baobab in bilico su speroni di roccia, fa mostra di sé un arcobaleno alimentato dalla nube di vapore creata dalle cascate. Attendiamo il calare del sole impegnati nell’ormai consueto brindisi alcolico. Torniamo al lodge per la cena, simpaticamente annunciata da un battito di tamburi che chiama a raccolta i commensali.

Etosha Park

All’alba, avvolti da un freddo pungente, abbandoniamo questo splendido angolo incontaminato di Namibia, con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta nell’allungare il tour fino all’estremo nord, troppo spesso sacrificato dai classici itinerari turistici. L’entusiasmo nella jeep che macina i km di strada sterrata è alto. Ci attende infatti l’Etosha Park con le sue meraviglie della natura. Ad ora di pranzo siamo ai cancelli dell’Andersson Gate (ingresso sud del parco). Velocemente compiliamo i moduli necessari per l’accesso, paghiamo l’ingresso e imbocchiamo il pezzo di strada asfaltata che conduce al nostro primo alloggio, l’Okaukuejo Resort. Procedere a velocità ridotta è una delle regole base all’interno del parco, non solo per avvistare meglio gli animali ma soprattutto in termini di sicurezza. Ovunque ed in qualunque momento è possibile avvistare e imbattersi in animali di ogni tipo lungo strada. A poca distanza dall’ingresso infatti, un enorme branco di zebre ci appare improvvisamente alla nostra sinistra intento a brucare erba. Foto, foto e ancora foto… ignari che di zebre ne vedremo fino alla nausea, in ogni luogo e in ogni posa! La nostra “strategia” di esplorazione dell’immenso parco di Etosha prevede una rotta da ovest verso est con 3 pernottamenti in altrettanti resort (Okaukuejo, Halali e Namutoni) in modo da rendere progressivo l’avvicinamento all’uscita orientale del parco (Von Lindequist Gate) senza perdere tempo ogni giorno a percorrere indietro la strada.

Le regole da seguire nel parco sono poche ma chiare. Quella incontrovertibile anche se non scritta, pone l’uomo in gabbia e gli animali liberi. Senza eccezioni. Nell’Etosha l’animale è padrone del proprio habitat, incontrastato dominatore ed arbitro degli eventi; l’essere umano confinato sempre in spazi delimitati (che sia l’auto o il resort), ha limiti nella libertà di movimento e rigidi confini temporali (rispetto degli orari di uscita e ritorno ai lodge). Curiosa la presenza sul comodino dell’Okaukuejo Resort di una tromba del tipo da stadio da utilizzare per spaventare eventuali animali poco graditi all’esterno del bungalow…

Solamente nei resort vi è la possibilità di consumare i pasti, acquistare generi alimentari e fare rifornimento di carburante. Poche sono le aree attrezzate con wc nel parco. La possibilità di condurre i safari in autonomia con le proprie auto è un’opportunità da non perdere (vi sono anche safari organizzati dai resort a ore prestabilite). Grazie alle piantine fornite agli ingressi e con le indicazioni presenti lungo le strade è facile orientarsi tra le numerose strade polverose del parco. Avvistare gli animali è frequente, alcune volte ci vuole un po’ di pazienza e un’ottima vista ma l’occasione di incontro con la fauna locale è sempre dietro l’angolo o, per meglio dire, dietro l’albero. Le numerose pozze sparse nel parco rappresentano spesso il luogo ideale per scorgere gli animali che si avvicinano per abbeverarsi. Una volta spento il motore della jeep, armati di macchine fotografiche e binocoli, si attende fiduciosi che quello specchio davanti a noi si trasformi ben presto in una“sfilata” di zebre, giraffe, kudu e facoceri. Il tempo vola, la speranza di fare incontri con qualche animale di grossa taglia è sempre viva, l’adrenalina è a massimi livelli. Prima del calare del sole rientriamo all’Okaukuejo Resort, soddisfatti del nostro primo pomeriggio di safari, desiderosi di una doccia rigenerante prima di cena. Ma mentre mi accingo ad entrare in doccia, vengo richiamato dalle urla di Pietro che bussa prepotentemente alla mia porta… a quanto pare gli avvistamenti della giornata non sono finiti, presso la pozza del lodge c’è un elefante. E’ così che, rivestito alla meglio, mi precipito alla pozza per ammirare il “nostro” primo elefante. Una emozione incredibile: il sole scompare dietro la figura del pachiderma che lentamente si allontana.

Ogni resort ha nei pressi del proprio recinto esterno una pozza d’acqua per osservare gli animali da breve distanza, rimanendo comodamente seduti sotto tettoie in religioso silenzio, interrotto solo dai rumori della natura e dai clic degli scatti delle macchine fotografiche. Se la pozza dell’Okaukuejo Resort ci ha regalato l’avvistamento di alcuni elefanti, quella del Halali Resort si ricorda per uno splendido ghepardo all’imbrunire e per una movimentata “passerella” di rinoceronti e iene durante le ore notturne. Poca soddisfazione invece presso la pozza del Namutoni Resort, se si esclude qualche giraffa di cui tutta la zona nei dintorni è popolata.

Ogni giorno la scoperta del parco ci ha riservato grandi sorprese ed emozioni: un elefante che ci ha attraversato la strada a meno di 10 metri, un branco di 7 giraffe intente ad abbeverarsi presso una pozza con la loro sgraziata postura, 5 leonesse stese al sole osservate con attenzione da un branco di gazzelle nelle vicinanze, una zebra sbranata divenuta un gustoso banchetto per avvoltoi e sciacalli, una piccola zebra intrappolata nel fango di una pozza d’acqua, destinata ad una morte certa e osservata con impotenza dal resto del branco sulla riva.

Tra ghepardi e leopardi

La vacanza sta concludendo al termine e così il nostro giro. E’ giunto il giorno di trasferirci all’Okonjima lodge, non prima di aver fatto tappa ad Otjiwarongo dove visitiamo il Crocodile Ranch, un allevamento di coccodrilli namibiani a scopi commerciali. L’Okonjima è il migliore e più suggestivo tra tutti i lodge in cui abbiamo soggiornato. Le view room sono magnifiche, con enorme parete a vetri sulla savana, tutto l’ambiente è arredato con gusto in tipico stile africano e lo staff è estremamente cordiale. Nel pomeriggio partecipiamo all’escursione organizzata nella riserva gestita dal lodge dove vivono ghepardi e leopardi. Presso Okonjima ha sede infatti l’Africat Foundation, un’associazione non-profit che si occupa della salvaguardia e cura dei grandi felini feriti dai cacciatori ed agricoltori. Obiettivo è curare per poi reintrodurre, quando possibile, gli animali nel loro habitat. Soggiornando presso il resort e partecipando alle numerose iniziative in programma, si contribuisce agli sforzi che vengono compiuti per portare avanti questa nobile quanto difficile causa (più di mille esemplari salvati negli ultimi 18 anni). Poiché nonostante le cure alcuni felini non sono più in grado di poter vivere liberamente nel loro ambiente, sono accuditi in vaste riserve e monitorati attraverso appositi collari elettronici di cui sono dotati. E’ il caso di 4 ghepardi, fratelli, salvati dopo la morte della madre, incontrati nella riserva durante il nostro giro.

Siamo giunti davvero al termine, lungo la strada che porta alla capitale ci fermiamo a Okahandja, cittadina famosa per i due mercati all’aperto che vendono prodotti di artigianato africano. Se al primo di essi, riusciamo a fare piccoli acquisti dopo lunghe contrattazioni, in quello più grande situato nella parte sud della città, veniamo letteralmente circondati da uno stuolo di venditori particolarmente petulanti che ci costringono a rinunciare ad ulteriori acquisti e alla visita del mercato.

Al nostro rientro a Windhoek, il contachilometri dell’auto segnala 5660 km percorsi. Un ultimo giro per la città, piccoli acquisti di artigianato africano e per finire un’ottima cena dal Joe’s Beerhouse, esattamente dal quel luogo in cui era iniziata la nostra splendida avventura 18 giorni prima. E per finire l’immancabile brindisi: ai vivaci fedeli compagni di viaggio, agli scenari incantevoli, al generoso popolo namibiano, alla natura selvaggia e alle infinite emozioni africane che porteremo sempre con noi.

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Windhoek

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Un momento di relax

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Il paradiso di Sandwich Harbour

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Epupa Falls

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Deserto di Sossusvlei

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Namibia. Colori d'Africa tra dune e onde

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Bambina Himba

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"Pedoni" nell'Etosha Park

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Fauna dell'Etosha Park

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La strada è lunga...

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