Lambratesi in venezuela

1 Agosto - Caracas Dopo il solito volo interminabile in compagnia di bambini molesti, arriviamo a Caracas circa alle 10 di sera. Fuori dall'aeroporto, stuoli di tassisti abusivi e non, ci importunano per la corsa e per cambiare i soldi. Essendo già buio, l'opzione autobus per raggiungere la città non la prendiamo neanche in considerazione. Non...
Scritto da: shaobell
lambratesi in venezuela
Viaggiatori: fino a 6
1 Agosto – Caracas Dopo il solito volo interminabile in compagnia di bambini molesti, arriviamo a Caracas circa alle 10 di sera. Fuori dall’aeroporto, stuoli di tassisti abusivi e non, ci importunano per la corsa e per cambiare i soldi. Essendo già buio, l’opzione autobus per raggiungere la città non la prendiamo neanche in considerazione. Non vorremmo arrivarci con una mano davanti e l’altra dietro. Scegliamo un tassinaro dall’aria e dal mezzo affidabile, la cifra notturna che riusciamo a spuntare è 140 bolivares, e decidiamo di condividere il viaggio con una coppia di spagnoli un po’ ronciosi. Caracas si presenta, nell’estrema periferia, come una serie di colline illuminate da migliala di piccole luci. Sono i barrios, agglomerati urbati dei più poveri, casette di mattoni che si inerpicano sui pendii quà e là ancora boscosi. Poi, l’autopista raggiunge la valle della capitale, la taglia in due, i barrios lasciano il posto a grattacieli-dormitorio, per poi raggiungere il centro dove diversi palazzi moderni danno un po’ di lustro a una città malconcia. Proviamo a cercare un hotel in zona Altamira, ma presto rinunciamo poichè sono tutti pieni. Ne troviamo uno poco distante, si chiama El Escorial ed è sufficientemente insapore per esordire a Caracas. Una doppia ci costa 60 dollari. L’autista si offre anche di cambiarci i soldi, una volta arrivati in albergo. Ad agosto 2008, la situazione del cambio in Venezuela è questa: in banca per 1 euro vi danno 3 bolivares, sul mercato nero ve ne danno quasi 5. Decidiamo di uscire a fare due passi, nonostante la zona non sia delle più rassicuranti, spinti dalla fame. Il portiere, dopo averci messo in allerta su criminali e poliziotti corrotti, ci indirizza verso un posticino di fiducia. Infatti, lo scopriamo presto, vi cucinano le più immangiabili arepas di tutta la nazione. Torniamo in hotel un po’ sconsolati e affamati. Prima di andare a letto, fumo una sigaretta sul pianerottolo dell’hotel, affacciato al balconcino. Di notte Caracas, anche se è brutta, è affascinante. Mentre sto rientrando, mi accorgo che dalla camera di fianco si è affacciato un travone, guarda la città pure lui. Il riposo è pesante e senza sogni.

2 Agosto – Choroni Viaggio da Caracas (stazione La Bandera, circa 5 euro) fino a Maracay in autopista, poi verso Choroni con un autobus coloratissimo che si arrampica sui tornanti, salsa a tutto volume e imponente clacson a corda. La stradina passa in messo a montagne e foreste, spesso quando incontriamo qualche mezzo che arriva in senso opposto dobbiamo fare più manovre per passare entrambi. Ci addentriamo nel parco Henry Pittier, riserva naturale, per un’ora saliamo fino alle cime nebbiose, l’ora successiva scendiamo verso il mare. Puerto Colombia, a pochi minuti da Choroni, è un piccolo paese di pescatori, ma è anche meta del turismo balneare venezuelano. Sono rari gli occidentali in giro. Cerchiamo un hotel sotto il sole cocente, ma non ne troviamo, per il weekend sono tutti pieni, una serie interminabile di cartelli “Todo completo” e “No hay habitaciones”. Alla fine, in una vietta un po’ laterale, troviamo una posada molto “rustica” (una ludreria) per 20 euro a notte. Il paese consiste in un vialetto centrale di un centinaio di metri in cui si radunano ristorantini e posade, oltre al mercato del pesce. Riconoscete gli uomini del posto perchè alla sera si avviano verso casa con un piccolo tonno, o tre aringhe, in mano. Attorno, viette con abitazioni e posade magari meno in vista ma non male. Il porto è veramente a dimensione umana, con immancabili vecchietti che giocano a domino e bancarelle di piccolo artigianato. Fra le spiagge vicine, la più popolare è senz’altro Playa Grande, raggiungibile con 10 minuti di passeggiata. E’abbastanza affollata, la sabbia è superba, un chilometro di palme interrotto dalle alture a est. Ci dedichiamo ai primi bagni e ai primi texas hold’em. La tecnica di approcio alla spiaggia del venezuelano medio è arrivare con una cava, ossia una cassa di polistirolo isolante piena di hielo (ghiaccio), alcolici, cibo, bibite; per poi spaparanzarsi sotto l’ombrellone e dedicarsi a qualche bagno rinfrescante. Nessuno nuota, i più arditi galleggiano dove l’acqua è più alta. Alle quattro e mezza i bagnini fanno uscire le gente dall’acqua, la spiaggia “chiude”. Alla sera, ceniamo in uno dei ristoranti al porto, un enorme pesce chiamato pargo con un bel contorno e un paio di cuba fatti col Santa Teresa.

3 agosto – Puerto Colombia Dopo una colazione a base di banane, ci siamo diretti al Playon per passare l’intera giornata al mare. Era gremita, le onde erano alte anche un paio di metri e ci siamo divertiti un sacco a sguazzarci dentro e a fare “human surf” come alcuni ragazzi del luogo; i bagnini-Collina fischiavano come dei pazzi. Notiamo che nel pezzo di mare di fronte al centro della spiaggia, c’è una corrente abbastanza forte che porta fuori, decidiamo di starne alla larga prima che ci ritrovino ad Aruba. Abbiamo conosciuto dei ragazzi di Caracas e Macaray, fra cui Rosangela e Clarissa. Erano fornitissimi, ci hanno offerto da bere e ci hanno invitati a contattarli quando torneremo a Caracas. Loro il weekend prossimo vanno a Morrocoy, dicono che è molto più bello di qua. Vedremo. Dopo la giornata al mare, cerchiamo un internet point, per comunicare a casa e agli altri in arrivo che siamo vivi. Dopo le comunicazioni, torniamo in posada a fare un sonnellino, visto che i cavalloni e il sole cocente ci hanno un po’ sfiancato. Per cena, visto che stiamo spendendo troppo, ci accontentiamo di una hamburgesa (gigante con todo). Poi, il piccolo porto si anima di bancarelle, dei ragazzi neri suonano il bongo e ballano, la gente tiene il tempo e viene invitata ad unirsi alle danze.

4 agosto – Puerto Colombia Altra giornata sul Playon. Vinciamo la naturale riluttanza ad aprire il portafoglio e prendiamo un ombrellone e due sdraio, per evitare di flambarci completamente, per ora siamo di un rosso sotto controllo. L’acqua è un brodo azzurro limpido, puoi nuotarci dopo mangiato senza neanche fare il ruttino. Le onde spettacolari ci tengono impegnati. Ogni 10-15 onde turchesi, ne arrivano 1-2 di un blu cupo, alte almeno un paio di metri in cui o ti tuffi, o tenti di cavalcare abbracciandole, come fanno i ragazzi del luogo. Dal mare arriva una brezza fresca che ci concede una pausa dalla calura; diversi uccelli volano sopra la baia, principalmente stormi di pellicani e dei rapaci con la testa lunga e bianca. Il sentiero che va al Playon è costeggiato da mini-negozietti e ristoranti seminterrati sul ciglio. Passando in una traversa del porto ci facciamo accalappiare da un moderno lounge-bar, dietro la promessa di un ottimo cuba, e da lì allo stuzzichino il passo è inevitabile. Diventerà la nostra cena. Passiamo la serata nella piazza del paese. Per il nostro aspetto inconsueto (alti e biondi) raduniamo attorno a noi un folto gruppo di persone, che ci chiedono dell’italia, del milan, di cosa pensiamo del venezuela, ed insistono per fare delle foto con noi. Le mille domande ci danno l’occasione di parlare un po’ di spagnolo. Verso mezzanotte decidiamo di fare un salto al Bar Rumba, ma è semivuoto. Dopo la serata di mondanità paesana, torniamo nella nostra piccola camera, dove le zanzariere ci proteggeranno dagli insetti che popolano la notte tropicale.

5 agosto – Chichiriviche Il viaggio da Choronì a Maracay è il solito delirio di curve e musica caraibica. Verso la fine del tragitto, in discesa, il motore fonde, fa dei rumori brutti e inizia a buttare fumo. Facciamo gli ultimi tornanti in folle. Alla stazione degli autobus di Maracay, siamo obbligati a cercare qualcuno che ci cambi dei dollari, perchè le nostre scorte di bolivares stanno finendo. Un tassinaro ci dirotta in una gioielleria all’interno, vicino ad un bar con l’insegna verde, dove ce li cambiano a 3, abbastanza onesto. Chiaramente, non sembra il posto migliore dove girare con mazzettine di dollari, ma non abbiamo alternative. Dopo qualche tentennamento, compiamo l’operazione (tra l’altro, il gioielliere ci inonda di banconote da 20 bolivares, per cui abbiamo buste di denaro tipo narcotraffico da nascondere). Ora siamo fermi sul bus, in attesa di partire per Chichiriviche. Ci saranno 45 gradi, siamo perlati. Degli ambulanti salgono per vendere acqua e snack, ma noi ora vogliamo solo partire verso ovest. La strada non è molto panoramica, sulla sinistra barrios, raffinerie ed oleodotti, sulla destra il mare che è un susseguirsi di palme e spiagge un po’ sudicie.

Chichiriviche si presenta più grande e turistica di Puerto Colombia, un lungo vialone che finisce sul lungomare, negozi di articoli da spiaggia (i cui manichini hanno tutti la sesta di reggiseno), ristorantini e liquorerie; ai lati, stradine non asfaltate dall’aspetto un po’ vissuto. Il molo non è molto grande, vi si affacciano un paio di ristoranti e c’è un piccolo mercatino di bancarelle. Chiediamo in giro dell’hotel Milagro, ci mandano alla Licoreria Falcòn. Qui una scena bellissima. Chiediamo al proprietario quanto voglia per una doppia, lui ci dice 100 bolivares; alchè, un ubriacone presente (che diventerà il nostro capitano per le gite in mare) alza le braccia e dice “OOOEEEE!!!”, come a dire, ellamadonna che ladrata! Il proprietario lo incenerisce e gli dice “Cerra tu boca, cavron!” Alla fine spuntiamo 80, ci fa entrare da un accesso fra le bottiglie del magazzino, la camera non è male, scegliamo una stanza al secondo piano che gode di un accesso alla terrazza, da cui si ammira un panorama niente male. Ceniamo al molo, un acquazzone improvviso sceglie il ristorante per noi, spaghetti allo scoglio e il peggior cuba libre della mia vita. Per rifarci la bocca, andiamo ad un bar davanti al nostro hotel. Incontriamo Danilo, il componente romano che quest’anno s’è aggregato ai lambratesi, che sciabatta per la strada. A mezzanotte il paese è già vuoto, sul lungomare c’è solo qualche ubriacone e dei ragazzini, qualche auto con la musica a palla gira per il paese.

6 agosto – Chichiriviche Dopo un sostanzioso desayuno (colazione), americano per me e criollo (con fagioli) per gli altri due, ci organizziamo per la gita all’isola di Cayo Sombrero. Rincontriamo Reggae, l’ubriacone dell’hotel Milagro, che è capitano di una piccola barca; la affittiamo assieme a un gruppo di tedeschi. Mentre viaggiamo, Reggae biascica, ride e si spulcia un po’, ma è simpaticissimo. Mentre beve la sua Polar ghiacciata, ci indica le varie isole e baie che stiamo sorpassando, prima di lanciarsi in una gara senza speranza con un’altra barca. Arriviamo a Cayo Sombrero, l’isola è da cartolina, spiaggia bianca purtroppo un po’ sporca e affollata. Ci avviamo sul sentiero fino ad arrivare ad una spiaggetta un po’ isolata, cercando riparo dal sole sotto le palme; solo un pellicano si tuffa qua e là per pescare. La barriera corallina in sè non è bellissima, di colore marrone, ma i pesci che vi abitano sono tanti e coloratissimi, calamari, spugne fiorite che si chiudono al passaggio. Quando esco dall’acqua, per una inspiegabile illusione ottica vedo Marco e Danilo che si baciano, ma in realtà loro sono dietro, è un’altra la coppia che si abbandona alle effusioni acquatiche. Cerco di prendere un grosso granchio, che mi pinza facendomi un taglio. Quando lo catturo, lo mettiamo sul ramo di un albero, e Danilo inscena una gag ai danni di un gruppo di spagnoli che poco dopo vanno sotto l’albero. Dice loro che si tratta di un pericoloso granchio degli alberi, e loro prima se ne allontanano spaventati, e poi gli fanno parecchie fotografie, non accorgendosi che è una bufala da spiaggia. Hanno letteralmente preso un granchio. Quando il sole inizia a calare, cioè verso le 4:30, inizia l’attacco dei temibili puri-puri, dei moscerini che pungono ininterrottamente facendoci ballare il ballo di San Vito per scacciarli. Siamo costretti ad aspettare Reggae in acqua, fuori solo con la testa. Il capitano, meno sobrio che mai, arriva però puntuale all’appuntamento e ci riporta a terra sani e salvi. Cena al molo con fritto misto, serata fra bancarelle e ragazzine che vogliono farci la foto, e poi a nanna.

7 agosto – Chichiriviche Ci svegliamo al solito ritmo martellante di salsa e musiche caraibiche (amor, pasion y corazon). Danilo: “Aò, chiedije se po’ arzà che nun se sente bene!”. Ne approfittiamo per andare in terrazza a lavare qualche panno sporco. La città, vista dal tetto dell’hotel, appare per quello che è: a parte il molo, un agglomerato di edifici insignificanti e un po’ degradati, cani randagi e cisterne arrugginite. E’ però un’ottima base per girare le isole attorno. Il cielo è solcato incessantemente da delle specie di rondoni grossi come gabbiani. Per la navigazione ci affidiamo come sempre a Reggae, che fra i vapori dell’alcool si dimostra affidabile e competente nel portarci nei posti più belli, fra cui una laguna di mangrovie, una piccola baia di acqua bassa chiamata “la pisina”, e altri. Alla sera, dopo due panini giganti e il solito giro di bancarelle, ci informiamo per arrivare alla discoteca “la India” (la disco que te mueve), appena fuori dal paese. Dicono che in settimana è vuota, e ci sconsigliano di andarci a piedi perchè la strada è buia e malfamata. Mentre io e Marco ci abbandoniamo ad un pigro Cuba Libre, Danilo si sbatte e recupera un individuo discutibile che si offre di accompagnarci con la sua macchina. Prima però insiste per farci conoscere due sue amiche molto belle che, nonostante le sue smentite, sono evidentemente due mignotte. Di fronte al nostro educato disinteresse, si rassegna a portarci alla India che, come previsto, è deserta. Per cui torniamo nel peggiore bar di Chichiriviche, dove rincontriamo le due ragazze. Beviamo due Polar, e poi torniamo al molo, dove tiriamo tardi con i vari sbiasciconi punkabbestia di cui la città inspiegabilmente pullula; dev’essere una specie di luogo hippy. “el Chile es bonito y donde y sbla sblah..”. Domani partiamo per Caracas per incontrare Luca e Andrea e dirigerci verso sud, verso Ciudad Bolivar.

8-9 agosto – Ciudad Bolivar Dopo aver beccato gli Luca e Andrea alla stazione orientale dei pulman ( e dopo aver fatto loro uno scherzo, cioè aver mandato uno a nome nostro a dire che dovevano tornare ad Altamira, da cui arrivavano), siamo partiti con un Bus Ejecutivo verso Ciudad Bolivar. Qui, questi grossi e comodissimi autobus li chiamano aviones para la tierra, in quanto per accedervi si fa un vero e proprio check-in con tanto di perquisizione e metal detector. Il viaggio notturno di una decina di ore, a parte il condizionatore, è stato abbastanza confortevole, i morbidi sedili reclinabili ci hanno consentito di dormire per quasi tutto il viaggio. Arriviamo in città verso le 8 di mattina, e ci dirigiamo in taxi verso la nostra posada, caldamente consigliata dalla Lonely Planet. Non restiamo delusi. La posada Don Carlos, infatti, occupa una grossa villa coloniale in una vietta di case colorate, proprio dietro piazza Bolivar, il centro di ogni città venezuelana. Dentro mantiene un’atmosfera dei tempi passati, è pulita e curata e dispone di un piccolo giardino; due mami ci preparano subito un sostanzioso desayuno per placare la nostra fame. La camera per cinque è abbastanza spaziosa e dispone di un soppalco, il soffitto di travi a vista mi permette di attaccare facilmente la zanzariera.

Scendiamo verso pranzo sul lungofiume, dove, essendo sabato, c’è un lungo mercato. L’Orinoco è una distesa marrone a perdita d’occhio, i pescatori sulla riva puliscono e vendono il pesce. La città in sè, a parte qualche scorcio interessante, non offre molto. C’è una bella vista panoramica a un isolato dalla nostra posada, una specie di giardino di massi che scende sulla collina per una cinquantina di metri, dei bei fiori. Organizziamo il tour al Salto Angel, che ci costa una cifra notevole: 1300 baht, al cambio attuale, circa 300 euro. Ora è pomeriggio e andiamo a schiacciare il meritato riposino. In serata, visto che piove, rimaniamo nel cortile della posada a scambiare due chiacchiere con altri ospiti. Il bar ha un aspetto antico, tutto di legno, e il barista-custode notturno è un vecchietto che ribattezziamo Buena Vista Social Club. Ci serve placidamente le cervezas (Claro! Tranquilo!) e ci racconta un po’ la sua vita. In cortile ci sono ragazze e tipi europei, ma non ci interessa molto conoscerli. Buena Vista ci racconta di Caracas (Peligroso!, dice con un espressione atterrita). Mami ci prepara 5 Espagheti Bolognaise. Luca e Danilo escono per andare a ballare al Congo (o Bongo? mah..), gli altri a nanna.

10 agosto – Canaima Sveglia all’alba. La sboldra della posada ci porta all’aeroporto, dove però aspettiamo un paio d’ore che aggiustino l’ impianto elettrico del nostro aereo. In realtà hanno fatto overbooking, e non resta che attendere, l’ambiente non è molto accogliente. Arriva il nostro Chessna a sei posti, pilota compreso. Il volo, anche se tre di noi sono paracadutisti e sono abbastanza abituati, è abbastanza terrificante. Passiamo sopra laghi, foreste e praterie, che il pilota non manca di indicarci compiendo virate ogni volta. Un serbatoio è vuoto, la spia dell’altro oscilla fra il pieno ed il vuoto. Non bastasse, passiamo attraverso un temporale, nelle nuvole grigie illuminate dai lampi mi attacco con le unghie ai poggiatesta davanti. Dopo un’ora in cui paesaggi ed emozioni non sono mancati, atterriamo a Canaima; Luca è lilla e sbocca, io ho la tentazione di baciare il suolo ma penso già al ritorno. Paghiamo una tassa d’ingresso al parco di 35 bolivares, un ragazzino ci porta alla nostra posada. E qui, la prima discussione con la guida. Il tizio vuol farci cambiare il giro, sostenendo di proporcene uno migliore che arrivava in serata al Salto Angel; ma noi da bravi italiani, ci incarogniamo sul giro originale, che prevede una sosta nella laguna di Canaima e il giro ad altre cascate, meno impegantive. Lui infine si arrende e partiamo. Per cui, dopo pranzo, raggiungiamo la laguna, cinta da 5 cascate e dall’acqua rossa come vino per via di tannini rilasciati dalle piante. Con una lunga barca affusolata, passiamo vicino alle cascate, e l’acqua ha sfumature davvero insolite. Giunti dall’altra parte, ci incamminiamo verso il salto Sapo, il sentiero si percorre in una mezzoretta. Prima osserviamo la massa d’acqua che precipita dall’alto, poi scendiamo a valle e con un passaggio naturale ci passiamo attraverso. Ci laviamo da capo a piedi per raggiungere l’altra sponda, ma ci divertiamo un sacco; la vista è suggestiva. Al ritorno, passiamo il tempo a fare un po’ di lotta sulle spiaggia rosa lagunare. Conosciamo un turista di Enna, anche lui dice di essere stato derubato dai poliziotti a Caracas. Dopo cena, quando ci stiamo arrendendo ad una serata permeata di Nulla, conosciamo Onorio, uno spagnolo che sta con una venezuelana, il quale ci svela la presenza dell Amnesia, il bingo-discoteca centro della vita notturna di Canaima. In pratica, in uno spiazzo, ci sono delle panche, qualcuno che balla, anche se l’attrazione vera della serata sono le estrazioni dei numeri, che tutti ascoltano in religioso silenzio. Tiriamo mezzanotte, Onorio ci parla delle bellezze della Colombia e della sua cultura. Per noi, potrebbe essere una continuazione di vacanza, abbiamo tempo e non ci precludiamo di sconfinare. Il ventaglio di ipotesi comprende Trinidad, Guyana, Cuba o Jamaica, e ora anche Colombia.

12 agosto – Salto Angel Ieri è stato il giorno della gita al Salto Angel. Siamo partiti dal campamiento a Canaima alle 11, perchè dovevamo aspettare altri che si unissero al gruppo. Dopo un quarto d’ora di camminata, raggiungiamo l’imbarcadero. Sulla barca, coprono i nostri zaini con un telo impermeabile, e presto capiamo perchè. Dopo mezz’ora di navigazione tranquilla, dobbiamo scendere perchè le rapide sono forti e il fondo troppo basso. Camminiamo su un sentiero fra steppe erbose, pietre nere tondeggianti e grossi formicai. Riprendiamo la barca, e da lì in poi prendiamo incessantemente acqua, fra pioggia fine e battente, schizzi del fiume ecc. Dopo un po’ iniziamo ad avvistare i tepui, cioè le montagne coi bordi a strapiombo che emergono dalla foresta , un po’ minacciosi e avvolti dalla foschia. Dopo tre ore di navigazione controcorrente, attracchiamo nei pressi del campamiento; siamo già fradici. La guida ci consiglia di andare subito al mirador, perchè la visibilità è buona e domani potrebbe essere nuvoloso. Il sentiero per raggiungerlo è in salita, non è tracciato benissimo, è abbastanza impegnativo, grosse radici d’albero da superare e fiumiciattoli da passare su tronchi. La fatica, dopo un’oretta a passo veloce, viene ripagata dal belvedere, in cui conquistiamo una bella posizione per ammirare la muraglia d’acqua, che da un po’ sentivamo scrosciare. Il Salto Angel appare all’improvviso tra gli alberi, dopo un altro pezzo di sentiero arriviamo al laghetto rossastro alla base della cascata. Ci tuffiamo, l’acqua è gelida e di un colore inquietante, fra il barbera e il sangue, ma il panorama è mozzafiato, la colonna liquida sopra di noi che termina come vapore la sua caduta, ma soprattutto la valle sotto. Nonostante la guida ci abbia consigliato di fare un bagno veloce. Ci dilunghiamo più del dovuto fra tuffi e pose per le foto. Il risultato è che cala presto il sole, e siamo costretti a ripercorrere il sentiero prima in penombra, e poi nelle tenebre. Come se non bastasse, appena fa buio fitto inizia a piovere a secchiate, per cui il percorso diventa presto una via crucis. Rocce scivolose, radici, ostacoli nascosti, acqua anche fino al ginocchio, eccetera; camminiamo come automi, come soldati, seguenda una foca luce più a valle. Mi chiedo tuttora come siamo potuti arrivare interi al campamiento; sembriamo degli scampati ad un disastro. Una ragazza di Torino, Giulia di 15 anni, ci aiuta stoicamente con la sua piccola torcia, la ripago cedendole il mio quasi impermeabile visto che è fradicia in maglietta e batte i denti. Al campamiento ci asciughiamo e ci mettiamo il ricambio saggiamente portato con noi. I bagni sono inavvicinabili, per cui facciamo i nostri bisogni sul ciglio della foresta, il cielo ora è sereno e fra gli alberi si vede il Salto, l’acqua è bianca sotto la luna. Non mi ricordo di aver visto una luna così, prima, una falce con entrambe le punte rivolte verso l’alto; forse in Messico. Mangiamo tutti assieme ad una tavolata comune, che Andrea non manca di benedire con una tonante bestemmia. Facciamo due chiacchiere con altri italiani, una partitina a scopa e poi tutti a dormire in amache, ricoperti dalle zanzariere; scopro troppo tardi che è molto più comodo dormire stendendo la coperta a terra e mettendocisi sopra. Stamattina colazione veloce, ritorno sul fiume mediamente umido e ricco di insetti, volo quasi tranquillo e poi di nuovo alla posada San Carlos a Ciudad Bolivar, a lavare la roba e riprendere un aspetto umano. Nota: mentre pranziamo, un turista romano ci racconta di come è stato menato e derubato da un finto tassista a Caracas. Per cui Polizia-criminali: 2-1 13 agosto (?) verso nord Lasciamo la posada. Ieri sera c’è sta un’accesa discussione che ha toccato vari temi, dai problemi dell’Italia al nostro itinerario. Ci siamo scolati una bottiglia di Santa Teresa e poi, da solo, sono sceso fino al fiume per mangiare qualcosa, sfidando la terribile notte venezuelana e i pescatori di pesci gatto. Alla fine abbiamo deciso di andare verso nord, verso il mare, direzione Puerto La Cruz. Per cui, zaini in spalla, scendiamo sul lungofiume a prendere l’autobus per la stazione, e ci saliamo nonostante il pigia pigia. Per prenotare la fermata, ci dice una sciura, è necessario battere le mani, e noi in ritardo facciamo una standing ovation che fa ridere tutto l’autobus. Dalla stazione prendiamo un pullman, non in ottimo stato. Il viaggio di 5 ore è climaticamente disastroso. All’inizio ci mettiamo nei posti in fondo, ma scopriamo il tranello: siamo sopra al motore, praticamente il radiatore siamo noi. Appena si liberano dei posti davanti, ci fiondiamo come dei ninja, ma qui ci sono i bocchettoni dell’aria condizionata che non si chiude neanche a martellate e finisce il lavoro di devastazione. Arriviamo a Puerto La Cruz all’imbrunire. La città, a parte un vivace lungomare, è un po’ tetra e sporca, basura e palazzoni, strade scassate, voragini nell’asfalto. Al terzo hotel in cui chiediamo, il Riviera, troviamo posto per tutti e cinque, una sistemazione non proprio economica ma almeno dignitoso e pulito. Ceniamo in un ristorante arabo e passeggiamo un po’ fra le bancarelle, che vendono la solita fuffa, a parte qualche eccezione. Danilo va a casa perchè non si sente bene, noi decidiamo di vivere la notte. Chiediamo al tassista e ci consiglia la Lecheria, che è una zona in cui dovrebbe esserci un po’ di vita. La strada abbandona la parte povera per addentrarsi in quella ricca, a destra ci sono magnifiche villette circondate dai canali, alcune con relativa barchetta. A sinistra, invece, dei palazzi abbastanza alti ma architettonicamente non sgradevoli. Sul lungomare, un parcheggio, in cui c’è la gioventù bene di Puerto. I giovani ricchi si ritrovano a confrontare le loro auto elaborate, sgasano, bevono, fanno vibrare le casse degli enormi impianti delle macchine. Dopo un po’ ci stufiamo. Ci dicono che c’è una bella discoteca, il Bambuddha, dove dovrebbe esserci vita nonostante sia mercoledì. Ci andiamo, e il tassista non ci fa pagare la corsa perchè i suoi sono di origini italiane, gli diciamo grazie paisà. Il posto non è male, tre sale affollate, un’orchestrina suona salsa dal vivo, passiamo la serata fra quinte, cuba ecc.

14-18 agosto – Puerto la Cruz La giornata trascorre prima sulla spiaggia di El Saco, su cui ci rechiamo in barca. E’ su un’isola selvaggia, qualche chiosco, ombrelloni di fogliame, famigliole, barriera corallina non eccezionale, un po’ di sporco. Abbiamo il nostro frigo di polistirolo e ci passa. Alle 3 parte un acquazzone e decidiamo di tornare sulla costa. Dopo un pisolino, ceniamo sulla terrazza del Hotel Neptuno, posto molto alla buona (forse troppe), e vista sul finale di lungomare. Serata fra le discoteche di Mania, Bambuddha, toacarte toa e sexy muchachate varie.

– Abbiamo passato gli ultimi due giorni in questa cittadina, decisi a sfruttare la movida del weekend prima del ritiro spirituale di Mochima. Purtroppo le condizioni di Danilo non sono migliorate, per cui ora Luca e Andre lo stanno accompagnando all’ ospedale di Guaraguao per capire cos’abbia. Sono quattro giorni che ha febbre altalenante e dolori al ventre, oltre che alla testa. Cito senza ordine episodi e personaggi di sti giorni.

– il pusher-gollum che ci dice nadahhh sibilando – il gruppo di gente conosciuta al Bambuddha che sembrava ci avessero invitato alla mega-villa, invece ci siamo trovati in un monolocale di un palazzone tipo 27 a Cologno. – il tassista italiano che ci manda la corsa. Lo ribeccheremo in discoteca con la moglie libanese.

– i due napoletani un po’ fatti (“me sto ruinand!”), cacciati dall’hotel Europa per aver portato donne e coca. – la pelea (rissa) in Paseo Colon fra un tizio ed un’ubriacona. Questa finisce a terra a pigliare calci. – il cambiavaluta per strada con le calze imbottite di soldi.

– le due giornaliste, di cui una di legno, che per un po’ ci scorrazzano e ci lasciano, con una bottiglia di Cacique, al Paseo Colon.

– cani rognosi ovunque.

– l’albero del male, un tronco sul lungomare che si notte si infesta di ratti e rapidi scarrafoni.

– la gente che attacca i cellulari ai pali della luce, forniti di prese elettriche – rincontriamo Ciribiri, il peruviano folle di Chichiriviche, e ci ignoriamo a vicenda. – colonna sonora: raggaeton, salsa a litrate, il valenato colombiano è considerato musica per poveri che parla di amori e ceffoni.

– i “fiori di corallo” , a centinaia, che si chiudono di scatto quando ti avvicini. – in sei pigiati su un taxi tabbozzo con la musica a palla.

– la cassiera che “habla con los ojos” – grande presenza di arabi – donne di una bellezza rara, alcune ritoccate, amano il loro Paese e parlarne, regalano sorrisi. Per loro tutti i bianchi sono gringos, puntualizziamo che siamo italiani.

– Purtroppo non ci sono buone notizie. Danilo è tornato dall’ospedale di Guaraguo con una diagnosi preoccupante: paludismo, cioè una forma di malaria. Lo ha sicuramente preso a Canaima, anche se ci avevano detto essere una zona non malarica. Siamo dovuti restare un giorno in più per poter andare all’ospedale di Barcelona, per confermare la diagnosi ed eventualmente curare la malattia. Il morale di tutti è abbastanza basso. Speriamo che gli prescrivano solo delle pastiglie e non lo trattengano, iniziamo a non sopportare più questa città e vogliamo scappare a Mochima, per passare qualche giorno spensierato.

18-22 agosto – Mochima Fortunatamente, Danilo, Marco e Andre sono tornati dall’ospedale con buone notizie: nessuno ha la malaria, almeno ad un primo esame. Pieni di nuova gioia, abbiamo preso una serie di pulmini, uno più scassato dell’altro, e siamo arrivati nella ridente cittadina di Mochima, nel parco omonimo. La strada si snoda nella foresta, poi scende in una baia che al tramonto è spettacolare. Il paesino è carino, attorno al molo qualche negozietto e ristorantino. L’autista del carro ci ha accompagnato nella solita posada “della zia”, che in effetti supera le nostre aspettative e si dimostra un buon investimento. Infatti, abbiamo a disposizione un intero appartamento con vista mare, per circa sette euro a testa al giorno. Ora appena pronti andremo a fare una bella cena per dimenticare i guai di Puerto la Cruz.

– Abbiamo trascorso quattro giorni spensierati a Mochima. La baia è molto suggestiva, colline verdi attorno al mare turchese, e in fondo il paesino di casette colorate. Ieri siamo stati in spiaggia, il solito snorkeling, i soliti cuba, sulla Playa Blanca, l’unica un po’ popolata nei dintorni. Stamattina siamo andati a vedere i delfini nella rada dell’Isla venado, è stato emozionante, un gruppo di una dozzina ci saltava di fianco e ci superava; eravamo contenti come bambini. Pomeriggio in Playa e solitra serata nel paesino fantasma.

– Anche stamattina l’abbiamo trascorsa oziando mollemente sulla Playa Blanca, bevendo squisiti Daiquiri alla banana; verso le due si stava rannuvolando, ed io e Danilo abbiamo deciso di andare col capitano ed il suo aiutante a pescare. Un nylon con dei piombi rudimentali ed un’esca di pesce ci fanno tirare su una ventina di grosse aringhe o qualcosa di simile, e tre pesci che sembrano scorfani. L’acqua è talmente limpida che vedo chiaramente l’esca a 7-8 metri di profondità. E’ stato bello farsi cullare dalle onde insieme ai pellicani in attesa di un pesce, ascoltare i pescatori dell altre barche che parlavano e ridevano, il tramonto che lentamente colorava il cielo. Abbiamo comprato patate e pane, che abbiamo mangiato col nostro pescado. Fortunatamente la sciura della posada ci ha aiutato a cucinare, portando peperoni e cipolle. Domani partiamo per la Isla de Margarita, lasciandoci alle spalle questa tranquilla oasi verde di pace, dove il mare è caldo e turchese. Anche ieri io e Danilo abbiamo pescato dallo scoglio, recuperando il solito quasi-scorfano e un paio di grossi granchi, presi al laccetto più per passatempo che per altro. Il pesce ce l’hanno cucinato gratis sulla spiaggia.

24 agosto – Isla de Margarita Il viaggio sulla lancia rapida è stato il solito inferno: calca animale sotto il sole per accedere alla barca, posti conquistati a gomitate, locale climatizzato tipo Findus senza possibilità di fuga, non posso neanche fumare una sigaretta per smaltire la tensione. All’arrivo sull’isola, ci accoglie un vero nubifragio, il pontile è lungo e stretto. Sgomitiamo con quelli che salgono per passare, pioggia a secchiate e neanche una tettoia, confusione per capire dove arrivassero i bagagli. Abbiamo conosciuto un italo-venezuelano, Saverio, che ci ha fatto un po’ da guida e il suo amico Josè, per 60 bolivari, ci ha portati prima in aeroporto, e poi a Porlamar a cercare un albergo. Abbiamo trovato una quintupla all’ hotel Torino (che ora si chiama Jinama), nel centro storico. La stanza era un po’ scarna e tetra, e gli altri hanno voluto cercarne un’altra. Dopo aver girato un’ora a sentire il ritornello “No hay abitaciones”, siamo tornati al Torino. Andre fa il muso, Marco si lamenta, a me sembra che ci si possano passare un paio di giorni senza troppi drammi. La zona è molto pittoresca, negozietti, bancarelle, fiumi di gente. La sera l’abbiamo passata al Frogs, una discoteca di fighetti locaali, un posto uguale a mille altri a Milano. Stamattina Luca, Marco e Andre sono andati alla ricerca di un altro hotel, io e Danilo siamo scesi a fare colazione alla Panaderia sotto l’albergo, e a mandare un paio di mail, in un internet point che ha poi perso la connessione facendoci perdere tempo e basta. La serata si perde in una discoteca vicino al Senor Frogs, l’Opah, un posto revival con salsa, biggies, balli e babbuine varie. Danilo scopre di avere il morbo, cioè la spontanea erezione dovuta ai balli calienti. M. Cambia i soldi da un prestigiatore, che gli fa apparire una colomba.. Lì! Litigi vari su dove andare.

25-29 agosto – Playa el Agua Stamattina abbiamo lasciato l’hotel ludro alla volta di Juan Griego. Abbiamo recuperato un tassinaro con un vecchio Land Rover. Il paesino ci è apparso francamente un po’ triste, e l’unica posada decente era piena, per cui ci siamo sparati a Playa el Agua. Troviamo un labergo, o meglio un villaggetto, che si chiama Coco Paraiso. La quintupla ci costa circa 15 euro a testa, ma è veramente ben tenuto e ricco di verde. Lo spiaggione sarà lungo tre chilometri, meno affollato di quanto pensassimo. Dopo poco sto fumando un Romeo y Julieta vendutomi da un cubano (che, mi spiega con fare complice, Chavez e Castro sono amici). Siamo più o meno tutti contenti, Il ristorante italiano di fronte all’albergo, il Viento en Popa, è gestito da ragazzi di Quarto Oggiaro. Ci cucinano un’ottima spaghettata allo scoglio, e ci offrono un giro di Cacique, sono molto simpatici. In serata proviamo ad andare nell’unica discoteca di qua, il Woody’s, ma ci sono più buttafuori che persone dentro. Desistiamo, beviamo una birretta in un baretto sulla spiaggia, e poi a nanna.

– I giorni trascorrono oziosi sull’isola. Il tempo è clemente, il mare non è dei migliori, ma in fondo si sta bene. Diversi italiani, alcuni dei quali sembrano apprezzare la coca. La vita notturna, qui, è pressochè nulla, domani torneremo a Porlamar per riprenderci da tre giorni di tornei a scopa e passeggiate sul vialone deserto. Il woody’s è un ricettacolo di mignotte e falliti. Ieri sera ho bevuto troppo. Qua sembra esserci qualche oggetto di artigianato un po’particolare da portare a casa. La spiaggia è abbastanza popolata, la gente però a sera torna nei villaggi o in città, lasciandoci soli con i cespugli che rotolano e i cani rognosi. Alcuni di noi sono un po’ delusi dal Venezuela, io invece sono abbastanza soddisfatto, sebbene un paio di settimane anche in Colombia non avrebbero guastato. Ho fatto tre settimane di mare, in posti sempre diversi e particolari, oltre al viaggio fino al Salto Angel.

– Abbiamo lasciato la Isla, ora siamo in viaggio in autobus per Caracas. Gli ultimi due giorni sono stati abbastanza movimentati. L’altro ieri era l’ultimo giorno di Luca e Andre, ci siamo dati un po’ agli stravizi, abbiamo anche aperto la bottiglia di cacique Antiguo, alla fine ci siamo tuffati in piscina di notte.. Nudi, io avevo solo un sigaro tipo Hannibal (adoro i piani ben riusciti!). Il giorno dopo eravamo la leggenda del Coco Paraiso, la “padrona” continuava a ridere, ha detto che eravamo quasi arrivati alla fine senza combinare macelli. Ieri siamo stati principalmente in spiaggia, a chiacchierare con due ragazzi di Vigevano che abbiamo conosciuto. Il mare era pulito. Ah, dimenticavo. L’altro giorno abbiamo noleggiato un auto, abbiamo girato un po’ la Isla, per poi finire a Playa Caribe, non male ma ci aspettavamo un mare un po’ migliore. Alla sera siamo tornati al Senor Frogs, era semivuoto. Il giorno dopo, mentre Andre e Luca erano in spiaggia, io e Marco siamo andati al Pueble de Margarita, una cittadella-museo congelata all’inizio del secolo scorso, con abitazioni e negozi perfettamente conservati. C’è anche un cinematografo con un proiettore enorme e una piccola stamperia. Ma il pezzo forte è l’alambiqueria, e cioè una vecchia distilleria, in cui il vecchio-guida ci ha spiegato il processo di fabbricazione del rhum, dalla cottura della melassa di canna da zucchero alla distillazione.

Tornando a ieri sera, siamo andati a cena in un ristorante di carne a Pampatar, con Checco, Maurizio e gli altri ragazzi del Viento en Popa. Ci siamo abbuffati di cerdo e lomitos, finalmente un po’ di carne buona. Chiacchierando, abbiamo scoperto che: – commissionare un omicidio costa circa 200 euro, la stessa cifra che serve per corrompere un poliziotto per “chiudere un occhio”.

– A Margarita prezzi e criminalità stanno aumentando, di conseguenza il turismo sta diminuendo. Playa el Agua, ad esempio, un paio di anni fa sembrava Rimini ad agosto, ora sembra Gatteo Mare a giugno. I ragazzi pensano di vendere tutto e migrare in Brasile.

30 agosto – Caracas Siamo arrivati a Caracas dopo un viaggio della speranza in pullman; ne abbiamo trovato uno che partiva “ahorita” da Cumanà, alle 10 di sera ci scarica nella stazione della capitale. Il tassista pippato ci ha portato nella zona Los Caobos, all’ Hotel Renovacion, in av. Este 2 n°154, pulito e a prezzi onesti. Il tempo di darci una pettinata e ci siamo buttati nella Rumba Caraqueña. Prima siamo andati a Las Mercedes, un viale costeggiato da diversi locali, che però non ci sono sembrati un granchè. Alcune discoteche volevano parecchio solo per entrare, e viste da fuori sembravano dei buchi, tipo l’Hollywood a Milano. Dopo un hamburguesa volante, ci siamo fatti portare a questo San Ignacio di cui tutti parlano. E’ un centro commerciale a più piani, i ragazzi vagano sulle scale mobili davanti ai negozi chiusi, sembra un piano sequenza di Sorrentino. A piano terra, ci sono una decina di bar-discoteca, dove corpi ansanti e sudati si agitano nella mischia, al ritmo dei tormentoni dell’estate venezuelana. Dopo diverse tappe, decidiamo di dirigerci verso l’hotel per il meritato riposo. Il traffico è abbastanza fuori controllo, si rischia di venire investiti anche se si attraversa col verde. I taxi più sicuri sono quelli regolari con la targa gialla, ma se ispira fiducia si può provare un “pirata”, che applica tariffe più oneste ma in alcuni (rari) casi si rivela un rapinatore, spesso improvvisato.

31 agosto – Caracas Ultimo giorno a Caracas. Ci svegliamo, il tempo di una doccia e siamo pronti per girare un po’ la città, in attesa di andare all’aeroporto. L’albergatore ci consiglia di andare al Sandil, una specie di mega centro commerciale, ma a noi non interessa proprio. Prendiamo la metro alla stazione di Belles Artes e, in fila per acquistare il biglietto, conosciamo tre italiani, di cui uno qua da 13 anni, che stanno andando a fare un giro in centro. Alla fermata di Capitolio si concentrano le maggiori attrazioni della città: il parlamento, la cattedrale, il Museo Bolivariano (con reperti forse non indispensabili, come le calze ed il rasoio del Libertador), e la sua casa natale, dove di interessanti ci sono dei bei quadri e affreschi di Tito Salas che raffigurano le gesta dell’eroe. C’è inoltre il famoso albero sotto cui il giovane Simòn stava a studiare e a pensare come cambiare il mondo; il panorama dietro è però rovinato da un osceno palazzone in disfacimento. Dopo questo interessante intermezzo ci riposiamo sotto gli alberi in Plaza Bolivar, sui cui rami scorrazzano scoiattoli nere e iguane. Passeggiamo nei dintorni ma, a parte un’umanità variegata e qualche bel murales, c’è poco da vedere. Un tassista, infine, ci riporta all’aeroporto, per l’aereo con detinazione Madrid. Ah già, l’aeroporto, naturalmente, si chiama Simòn Bolivar.



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