La dolce vita
I montanari lo sanno, e anche chi abita agli ultimi piani: è un piacere osservare dall’alto. Dalla Statua della liberazione – quella che reggeva un’elica quando fu dedicata al figlio di uno dei dittatorucoli di cui è affollata la scena politica ungherese del XX secolo – o dal belvedere della Galleria Nazionale, il panorama di Budapest, risorta dalle rovine in cui la disfatta del 1945 l’aveva lasciata, è uno spettacolo.
Identificare i punti iconici non è facile: il caseggiato è uniforme, privo dei grattacieli che caratterizzano centri più recenti, e Városliget, il grande parco cittadino, è relegato al bordo dell’industrioso alveare umano addossato a questa curva del Danubio. Il traffico scivola sulle ampie arterie che lo affiancano; i tram, come bruchi gialli su dei rametti, s’avventurano sui ponti che lo attraversano e, non avendo scadenze e preoccupazioni, si potrebbe restare per ore a gustare con indifferenza il futile andirivieni là sotto. Il piacere si fa sottilmente perverso se a sentirsi re della città si indulge dall’attico di uno stabilimento termale, a mollo in una vasca rivestita di mosaici blu: per una modesta cifra, questa carezza all’ego è possibile ogni giorno ai bagni Rudas. Sotto il terrazzo panoramico, si mangia con stile in accappatoio; sotto il ristorante, si sguazza nelle vasche recentemente rinnovate, a temperature dai 15 ai 42 °C. Dalla linearità e dall’apertura degli ambienti moderni, attraversando spogliatoi con venerandi arredi in massello, s’accede ad uno spazio dimenticato dal tempo: la grande vasca ottagonale ottomana, colla cupola stellata di minuscoli occhi dai quali raggi colorati si tuffano nell’acqua come, dalle vetrate d’una cattedrale, filtrano i colori, chiazzando la navata. Le colonne che abbracciano la piscina conferiscono all’ambiente, immerso in una perenne penombra, una sacralità che invita gli uomini discinti, che s’alternano tra le vasche, la sauna finlandese e il bagno turco, a un’attenzione maggiore verso il proprio corpo, contro cui s’accaniscono perniciose abitudini e cibi velenosi.
“Città delle terme”, annuncia un dépliant pubblicitario, e a ragione: le Király (“Reali”, ma in urgente bisogno di ristrutturazione) sono le uniche altre a ritenere la suggestione turca, mentre le Gellért, parte dell’omonimo, imponente albergo a quattro stelle, accolgono con le eleganti curve déco delle majoliche e con le onde artificiali della grande piscina all’aperto. Attrazione imprescindibile, nelle Széchenyi, piacevolmente attorniate da aiole fiorite e dal parco, ci si può lasciar portare dalla corrente circolare qui o, là, farsi massaggiare gli zebedei dai getti verticali dal fondo della vasca, nuotare nella piscina o conversare amabilmente nella terza vasca all’aperto. All’interno si snoda un rosario di pozze, piscine, saune e vapori per tutti i gusti e a tutte le temperature, e non manca nemmeno il massaggio thai. Per eludere i sensi di colpa connessi ad un’attività così ludica è necessario immergersi con la serietà d’un necessario rito sociale, quale in effetti appare essere per i locali. Sotto lo sguardo d’una voluttuosa Leda, ogni giorno è il giorno delle terme. Le partite colla scacchiera poggiata sul bordo della vasca, le confidenze che scorrono mentre l’acqua borbotta, la pura joie de vivre che ha lasciato nello spogliatoio dilemmi e doveri ricreano le scene che Diocleziano e Caracalla vivevano nelle loro terme: Budapest ha raccolto con passione il lascito di Roma.
Forse per i cento e più chili di carne in grassi intingoli che consumano pro capite annualmente, o per gli irresistibili dolci di cui sono specialisti, o ancora per colpa della massiccia americanizzazione, gli ungheresi sono quadrati: gente solida, dura. Si può togliere la popolazione dall’impero, ma non si può togliere l’impero dalla mente delle persone. I grandi autoritarismi che hanno dominato questo territorio hanno, sì, lasciato una sete di libertà (attualmente dispiegata nel fiorire dei “bar nelle rovine” e nella dolce vita notturna di Goszdu Udvar), ma anche un’abitudine alla disciplina e alla responsabilità, a una coesione sociale che noi italiani invochiamo invano. I punti focali della città sono collegati da una rete di trasporti pubblici chiara, fitta e soprattutto affidabile. Bus, tram, filobus e trenini riducono il traffico automobilistico che, comunque, ha trovato un impianto cittadino favorevole, con ampi spazi e una pianta a raggiera che rende spostarsi in centro comodo e intuitivo. E’ con tutti questi “sì” alle piccole ma essenziali necessità quotidiane che Budapest seduce. Un grande parco al cui limitare il traffico si fermi, con fontane, posti di ristoro, terme, zoo e circo? Városliget ha tutto, compreso un castello che compendia il meglio dell’architettura nazionale e un corso d’acqua per i cigni e le anatre d’estate e per i pattini e le slitte d’inverno. L’accesso trionfale è da Piazza degli Eroi, un enorme emiciclo da cui i capostipiti della nazione ricordano ai cittadini l’illustre epopea di cui sono gli eredi. Alle ali, due grandi musei fungono da trampolino per lo spirito, per cambiar frequenza dalla mondanità delle strade alla serenità che la natura offre giusto oltre il canale. E se quegli alberi non bastassero a ripulire l’aria, provvede l’isola Margherita, oasi verde vietata agli automezzi, piccolo bosco sotto casa che della corsa del tempo conosce solo le stagioni e del sapere solo qualche statua e i libri che vi si leggono all’ombra e in solitudine, mentre le rovine della cappella di San Michele riposano le loro stanche ossa al sole.
E’ proprio in quella zona, sulla sponda destra del Danubio, che i romani stabilirono una legione, il più importante di una fila di avamposti a protezione del limes pannonico che arrivava sino al Mar Nero. Nella zona civile, a nord, si trova ora il museo con le terrecotte, i vetri, i monili e i mosaici. Più a valle, le Thermae Maiores, i vasti bagni del castro, si ritrovano ora sotto i tentacoli di una bretella trafficatissima. Più a sud si distinguono le rovine di un anfiteatro e della cittadella militare. Vi passò Adriano e, dopo di lui, Valentiniano II, e l’alto tenore di vita della città, a cui era stato dato il nome di Aquincum, è testimoniato dal bel mosaico della Villa di Ercole e dal ricchissimo lapidarium. I bassorilievi e le steli funerarie tramandano con commovente immediatezza la passione per i cavalli, per la pesca, per gli sport o per le armi del defunto, sottolineando un’importanza dei legami familiari probabilmente sconosciuta alle etnie autoctone. Dalla crudezza delle figure si percepisce quanto la vita fosse ardua, ma nobile e solida come queste pietre scolpite più d’un millennio e mezzo fa, un’avventura cui pose fine l’esaurirsi della linfa vitale proveniente da Roma. Di quella debolezza i popoli confinanti approfittarono a più riprese, fino alla distruzione finale operata da Attila nel 409. Sebbene precedente alla conquista magiara del bacino carpatico, Aquincum è ricordata con orgoglio e con più d’una punta di esibizionismo culturale. Per imperialista che fosse la politica dell’impero, i romani portavano organizzazione, ordinamenti e tecnologie apprese dalla pletora dei popoli sottomessi: i magiari, arrivati alla fine del X secolo, erano asiatici in cerca di terre che i romani non avrebbero esitato a chiamare barbari. Aquincum, dunque, dà un lustro che Budapest non merita se non per occupare il medesimo territorio.
A questo proposito, quella delle radici degli ungheresi è questione nebulosa, persa nei percorsi di tribù ugro-finniche provenienti dagli Urali, e la collocazione geografica a metà tra Europa e Asia non aiuta. L’intenso nazionalismo di fine Ottocento puntò, più che all’Occidente, a cui tende, per ovvie ragioni politiche ed economiche, l’Ungheria attuale, all’Oriente, colla voce potente di Ödön Lechner, progettista dell’incredibile Museo di Arti applicate, che causò grandi polemiche nel 1896 quando venne ultimato e che ancora meraviglia per la bellezza e l’arditezza delle decorazioni. Anche la sede della Banca dei Risparmi Postali, la Chiesa di San Ladislao e, a Kecskemét, il municipio, portano l’inconfondibile firma di Lechner, decano degli architetti in vita e consacrato ora genio nazionale. Bandita la linea retta, la ricerca di uno stile che si potesse dire ungherese ha combinato, su una base popolare, elementi indiani, persiani e musulmani in una sintesi ardita e immaginifica. Gli archi lobati islamici e le nervature delle volte del candido, zuccheroso interno del museo danno l’impressione di essere entrati in una torta di matrimonio. La presenza nel paese di eccezionali fabbriche di ceramica ha dato briglia sciolta all’ossessione decorativa e fiori, uccelli ed ornamenti esotici, inattaccabili dagli agenti atmosferici e dall’inquinamento urbano, risplendono come il primo giorno anche per noi, provocatòri come allora ma non senza un sorriso sotto i baffi: il compassato nonno dei costruttori imperiali ci sberleffa nei mosaici del pavimento all’ingresso con l’inverecondia di un motivo apparentemente floreale.
Quelle di Lechner non sono le sole eccellenze monumentali: un urbanista che volesse fare una passeggiata non riuscirebbe a camminare più di cinque minuti senza prendere appunti. L’emergenza causata dalla fine dell’occupazione sovietica e la crisi iniziata nel 2009 hanno impedito lo scempio dell’asettica modernizzazione che ha reso impersonali diverse città del continente. Non possono che far simpatia i palazzi dalle enfatiche decorazioni ma che hanno bisogno di rifarsi l’intonaco – sentiamo una comunanza di destini, qui: eravamo giovani e belli e guarda adesso in che stato ci troviamo. Ma, se le rughe sono profonde e le strade sconnesse, la grande personalità rimane. Nelle statue, ad esempio, manca quell’irrigidimento, quella classicità che raggela l’estro: è possibile arrivare all’aulico anche con un approccio meno standardizzato e più disinvolto. E il moderno non fa paura, anzi: i contrasti valorizzano i diversi contesti caratterizzandoli e creando punti di riferimento nel tessuto urbano. Sulla riva sinistra Bálna, una grande balena di vetro del 2013 che ha riscattato due depositi fluviali in disuso, è un centro per esposizioni, conferenze, spettacoli, negozi di antiquariato e rivendite di prodotti biologici. La terrazza è un buon posto per un aperitivo al tramonto, alle luci verdi del verde Ponte della Libertà, quello sormontato dalle aquile, magari per essere accolti più tardi dalle compassate sfingi del Teatro dell’Opera del 1884, per una rappresentazione o un concerto in una delle migliori acustiche d’Europa. Nella classica Buda, le rocce a strapiombo e le solidissime fortificazioni sembrano a fatica portare il peso delle vicende lunghe e sanguinose di cui sono state testimoni, con le loro prospettive monumentali dal Palazzo del Governo verso il Palazzo Reale. La moderna Pest risponde in scala altrettanto grandiosa con il prospetto essenziale del Museo Ludwig. La neutralità dell’edificio permette alla babele di idiomi dell’arte contemporanea, a cui è esclusivamente dedicato, assoluta libertà d’espressione su tre piani. Ancora, però, ci si impesierisce avvicinandosi a finestre senza un parapetto visibile, e i vetri pavimento-soffitto sono pulitissimi…Sotto, i tavolini del bar all’ingresso, con gli omini e le donnine a discorrer d’arte, sono piccoli come in un plastico. Solidissima, invece, la sensazione nello Ziggurat che lo fronteggia. Non serve a niente, ma è bello salirci per apprezzare il labirinto di siepi che dialoga con l’atrio del nuovo Teatro Nazionale, riuscitissima fusione di classico, liberty e contemporaneo mentre, alle spalle, le rosse punte d’acciaio del ponte Rákóczi tentano invano di stuzzicare il cielo. E ancora: la spianata di Széchenyi István tér è definita dalla massa classica di Palazzo Gresham, recentemente rinnovato come albergo di lusso ma, al lato, quasi come contropartita, la modernità ha imposto le striature verticali in vetro dell’albergo Sofitel. Da qui iniziano i moli dai quali partono le crociere sul Danubio e, sebbene la sfilata delle costruzioni notabili che vi si specchiano sia degna del Canal Grande, la suggestione maggiore viene dall’irrefrenabile, stupenda, esagerata esaltazione neogotica del Parlamento che, non importa quante centinaia di finestre abbia o quante tonnellate di marmo comprenda, appare sempre leggero come un modellino e leggiadro come una sinfonia di Mozart. E, dell’interno, non si dimenticano i soffitti dorati! Con una gran varietà di stili a disposizione, fusi talvolta nell’eclettico ungherese che combina con destrezza gotico, classico, rinascimento, barocco e art nouveau, Budapest è un favoloso museo a cielo aperto.
Senza il Danubio, potente amico, non avrebbe respiro la storia, che si agglutinerebbe senza scorrere. Di giorno vi si tuffano i pullman turistici anfibi, lasciando sull’argine le sessanta paia di scarpe in ghisa, monumento agli ebrei fucilati e gettati nel fiume dai membri del Partito della Croce Frecciata nel 1944, così toccante da far sembrare asettico quello, a Washington, alle vittime della guerra in Vietnam. Ancor più dentro, fino al fondo del pozzo oscuro di ogni orrore che ognuno nasconde in sé, arriva una visita alla Casa del Terrore, quartier generale prima delle Croci Frecciate, gli spietati fascisti ungheresi, e poi della polizia segreta comunista. L’identica natura dei due regimi, diversi solo nel colore, si tradisce nella necessità che ambedue hanno avuto d’un luogo come questo. Il carro armato nel chiostrino crea l’atmosfera che, scendendo di piano in piano, seguendo la processione delle atrocità perpetrate, si fa sempre più amara. Immagini, musiche e commento informano e coinvolgono con interviste a chi visse quelle situazioni personalmente, per finire nelle segrete, dove venivano torturati i “nemici” – e tutti abbiamo i requisiti per essere “nemici” di qualcun altro. Se ne esce interrogandosi se questo è un uomo, quello che ha il nostro volto, o se quel che ci guarda dallo specchio è la punta d’un iceberg dalle insondate capacità di crudeltà. Il cuore, bersagliato da tanto accanimento, è lasciato a sanguinare, ma la visita, assieme alla lettura dei pannelli eretti nello spartitraffico davanti all’ingresso del palazzo, è indispensabile per apprezzare la storia, piuttosto che soltanto i muri, di Budapest. Non sorprende, dunque, che il memoriale ai soldati russi in Piazza della Libertà, colla dedica “Gloria ai liberatori sovietici della città”, debba essere sorvegliato per evitare vandalismi. E’ l’unico rimasto dov’era: le statue comuniste – quelle sopravvissute al cambio di regime – sono state relegate in un parco fuori città. In Lituania hanno avuto lo stesso destino, ma mentre nel Grüto Parkas i personaggi si mimetizzano nel verde e compaiono, come oniriche materializzazioni, tra gli alti alberi della foresta, nel Memento Park sono lasciati, altrettanto surrealmente, in ampi spiazzi vuoti, ad arringare una folla che non c’è più. Con potente simbologia, oltre l’imponente muro della facciata non c’è nulla. E per aggiungere insulto al danno, le sue elementari geometrie rimandano direttamente ai pezzetti di legno – archi, triangoli, cilindri – con cui giocavamo da bambini: è sull’ignoranza che le dittature prosperano. Di fronte all’ingresso, gli stivali di Stalin – tutto quel che resta d’un’enorme statua – fanno pensare a un moderno Colosso mentre, in una nicchia, Lenin incappottato ha l’aria del simpatico zio scapolone venuto a far visita. La vacuità della retorica è esemplarmente esemplificata nelle lattine in vendita, che invece del tonno contengono “l’ultimo respiro del comunismo”. Dei capolavori, alcuni già in sfacelo, ha un qualche valore artistico solo l’armata brancaleone in lamiera saldata in onore di Béla Kun. L’autore, Imre Varga, uno dei maggiori scultori ungheresi, ha un piccolo museo a Óbuda per i suoi bronzi e i suoi oli, ed è suo anche l’albero della vita nel giardino della Grande Sinagoga, sulle cui foglie sono incisi i nomi delle vittime dell’Olocausto. L’albero è un salice piangente ma, sebbene la minoranza ebrea sia stata dimezzata dai nazisti, non ci sono solo lacrime: la Sinagoga è la più grande d’Europa ed è il sito più bello della città. Accanto, un minuscolo camposanto ospita i morti che durante la guerra non poterono essere portati altrove (il ghetto era blindato) e un museo, sul retro, presenta gli stupendi oggetti – argenterie, filigrane, ceramiche – e gli interessanti filmati sugli artigiani che hanno addobbato il loro luogo di culto come un albero di Natale: l’interno è un’esplosione di gioia in stile moresco con una profusione di luci, marmi e legni pregiati. E la sera, passeggiando per Dohány utca, la facciata maestosa, dorata dai lampioni, pare quella d’una reggia. I motivi delle decorazioni murali hanno i colori carichi e terrosi della tradizione rurale mitteleuropea e richiamano il decoro della Chiesa di Mattia Corvino che svetta sullo sperone che domina la città.
Lì, le colonnine dell’elegante campanile si rincorrono e s’intrecciano con grazia neogotica, ma l’interno è un campionario di simboli folklorici che i bassorilievi di marmo e gli ori tentano invano di arginare. Al di là dei significati di ogni pala d’altare e delle motivazioni di ogni santo che ha inviato il suo ritratto a ricevere le preghiere dei fedeli, si viene contagiati dalla vitalità di questo déco popolano che ha colonizzato anche il tetto, sfrontatamente coronando con tegole dai colori caldi i volumi grigi e spigolosi della chiesa – un po’ come è successo agli uomini, per i quali la fantasia della cravatta s’è insinuata nel grigiore d’un abbigliamento rigidamente codificato. Sebbene un secolo sia passato dalla risistemazione della chiesa e del sito, tutto pare nuovo di zecca e apertamente progettato per la delizia dei turisti. L’architetto, Frigyes Schulek, verrebbe ora scritturato da Disney per l’abilità di dare la sensazione della storia senza appartenere alla storia. E così, dall’alto del loro monumento rococò nell’adiacente Piazza della Trinità, Dio Padre, conversando col Figlio, visibilmente stupito dall’affluenza, sembra ora contare i visitatori – dopo aver contato le vittime della peste alla fine della quale la colonna fu eretta. Completo di draghetti di pietra, il belvedere attorno alla cattedrale è cinto dal Bastione dei Pescatori, le cui sette fotogeniche torrette a punta rappresentano le sette tribù ungheresi che si stabilirono presso il Danubio nell’896. I marmi decorativi e celebrativi riportano al Padrão dos Descobrimentos e allo stile manuelino del Mosteiro dos Jerónimos e della Torre di Belém di Lisbona. In paziente attesa sul suo cavallo di bronzo, alle epopee magiare monta di guardia Stefano, re e santo, che fondò qui la prima cappella mille anni fa. Sempre Stefano, sceso dal suo cavallo di marmo e con aria compunta, vigila sulla Chiesa nella Roccia, ricavata da una grotta che porta il suo nome nella collina di San Gerardo. Stefano è padre della nazione e icona imprescindibile per gli ungheresi, tosti tanto che re Mattia, morente, avvertì la moglie di non ambire al trono perchè avrebbero ucciso fino all’ultimo uomo piuttosto che sottomettersi al governo di una donna. Di questa fiera identità fa parte integrante la religione, proprio alla stregua dei musulmani, che peraltro furono i padroni qui per ben 150 anni. A differenza di noi, che la sentiamo come una fastidiosa concrezione causata dalla sgocciolatura dei secoli, a Budapest quella croce sghimbescia sopra la corona non è oppressione, non è gabbia ma è mamma, è casa, è orgoglio. La co-cattedrale di Santo Stefano, a Pest, essenzialmente un edificio di rappresentanza che grida “1880” da ogni affresco e mosaico e “neoclassico” da ogni colonna, conserva la veneratissima mano destra del capostipite. Che solo al Parlamento sia stato concesso di eguagliare i suoi 96 metri di altezza indica la duplice natura, civile e religiosa, del potere in Ungheria. Questo, almeno istituzionalmente. Da qui alla pratica corre forse la stessa distanza che c’è tra il dire e il fare, ma un bell’esempio di spiritualità vissuta è testimoniato dai preziosi “Dialoghi con l’angelo”, emozionanti incontri di quattro giovani ebrei durante il secondo conflitto mondiale, trascritti da Gitta Mallasz. E neanche Gül Baba, derviscio morto dopo la conquista turca di Buda, è dimenticato: il mausoleo costruito su ordine di Solimano il Magnifico sulla collina dedicata a quel santo è stato da poco rinnovato. Ma non occorre essere dispensatori di miracoli: ai personaggi che hanno lasciato il segno viene tributato l’onore che meritano nel sereno cimitero di Kerepesi, più un parco di sculture che un trampolino per l’altro mondo. Lajos Kossuth, il Mazzini magiaro, Lajos Batthyány, il loro Massimo D’Azeglio, Ferenc Deác, politico accorto e capace come il nostro Cavour, Károlyi Mihály, il corrispettivo di Gramsci, son tutti qui e c’è anche, attorniata dal canto di angioletti deliziosamente cicciotti, l’attrice e cantante Lujza Blaha. Statue di penitenti in ginocchio davanti ad angeli compassionevoli, di vecchi intenti a scrivere, di giovani aitanti e di pensatori che ancora non si capacitano del fato avuto in sorte s’alternano a più curiose invenzioni colonizzate dai rampicanti: cittadini in nudità eroica imploranti al cielo o intenti per l’eternità a leggere la stessa pagina d’un libro di pietra. Il più curioso è però il mausoleo del primo ministro Jószef Antall: cavalli cornuti e vecchi che brandiscono una croce si lanciano contemporaneamente verso i quattro punti cardinali da un massiccio nucleo di sudari: impressionante! Nel piccolo museo funerario si nascondono maschere funebri, cippi di legno e interessanti bare del ’700, simili a quelle rivenute recentemente a Vác.
Ma Vác è solo una delle località alle quali Budapest rimanda: la capitale è in effetti un sunto rappresentativo dell’intero paese, dalle terme – delle decine presenti nel territorio, spiccano il grande stabilimento di Hajdúszoboszló e le singolari grotte di Miskolctapolca – alle ferrovie a scartamento ridotto: il percorso gestito dai bambini nelle colline di Buda ricorda il fitto degli alberi del trenino di Lillafüred e di quello che da Gyöngyös si insinua nelle foreste di Mátra. Le rovine romane di Aquincum, i mosaici, i cippi e i bronzi del Museo Storico Nazionale trovano un’eco nelle necropoli di Pécs e di Szombathely. Dalle regioni di produzione – tra tutte, Tokaj e Villány –, ricche di cantine grandi e piccole che offrono assaggi, gli eccellenti vini ungheresi sono presentati anche nella cantina Faust, allestita nello storico labirinto scavato nella collina di Buda e, in Váci utca, la strada dei turisti, a CultiVini, con 56 vini alla spina da provare e più di 150 da acquistare. La commovente vita agricola presentata nei musei rurali di Decs e di Balassagyarmat è più ampiamente analizzata nell’esaustivo Museo Etnografico della capitale, che dà un quadro gustosissimo dell’Ungheria che non c’è più: maschere di pelle di animali, ritratti ufficiali per fidanzamenti e matrimoni e, tra le ceramiche, i piatti da spaccare in testa al marito ubriacone. A sei anni i bambini erano già vestiti da cowboy della puszta e, dopo tre o quattro anni di lezioni, lasciavano la scuola. Avevano appreso giusto le basi per leggere, scrivere e far di conto, ma lo sguardo era già consapevole delle lunghe nottate nella prateria magiara, sotto un cielo vuoto sopra una terra vuota. La vita è dura, non importa quanti fiori allietino gli stivaletti della festa o decorino le cassapanche e le antine degli armadi. Nelle foto figurano uomini e donne al lavoro o in posa per occasioni collegiali, con gioielli un po’ russi (kokòshnik sul capo) un po’ musulmani (collana di monete al collo). Presenti anche gli attrezzi da falegname e i ricami rossi di questo popolo di terra: artigianato e arte spiegati con passione dalle maestre alle tantissime scolaresche che affollano i musei. E se, da una parte, è importante dare agli uomini di domani un’evidenza delle loro radici, è altrettanto necessario intrattenere i bambini di oggi. Per loro, Budapest ha allestito un acquario/tropicarium con tanto di sonnecchioso alligatore e parecchie impensabili forme di vita per la delizia dei piccini e lo sconcerto degli adulti.
Quanti ne ha in serbo, di questi piaceri improvvisi, di queste scoperte deliziose, l’edonistica Budapest! Città una e trina, Pest è il corpo attivo, dove si flettono i muscoli dell’ingegno e dell’arte; Buda, l’aristocratica, serba il parco storico, paradiso dei turisti, e nella quieta Óbuda, ariosa e residenziale, si riconosce la radice primigenia, punteggiata di chicche per intenditori. Là, il municipio sonnecchia davanti alla sua grande piazza soleggiata, rivelando la sua matrice contadina nel basso caseggiato che la delimita: forse una fattoria o una grande stalla, ora adibita a museo. Là si viene a sapere delle multiformi imprese del grande rivoluzionario Lajos Kassák mentre sotto le ampie, candide arcate di un convento vicino, un virus altera le quadrettature di Vasarely: le gonfia, le incurva, le risucchia, le polarizza e le inverte cosicché le figure, perduta la loro purezza, suggeriscono processi organici che tendono al surreale. L’agilità del genio ungherese trova riscontro nella perizia tecnica documentata nel Museo della Fonderia, ex-fabbrica Ganz, capannone industriale all’apparenza, in realtà tempio all’industriosità umana. Sarà anche freddo e un po’ brutale questo esaustivo campionario di oggetti in ghisa – dalle statuine alle campane – ma all’uscita si è pervasi da un segreto orgoglio, dalla sotterranea soddisfazione di aver avuto degli antenati tanto creativi. La loro vita è censita in quella rara sineddoche che è diventato il Museo Kiscelli, con le simpatiche insegne dei negozi ad uso degli analfabeti, le statue calate dai tetti delle chiese e dei palazzi, le macchine tipografiche, i dipinti di artisti minori che, non raggiungendo l’atemporalità dell’arte con la A maiuscola, meglio esprimono la loro epoca, fino a una farmacia del 1700 arredata di tutto punto. Più recenti sono gli oggetti e i manifesti che vivacizzano lo spumeggiante Museo del Commercio e del Turismo Ungherese. Alla biglietteria, una Trabant – copia comunista della Ford Anglia – annuncia una scorpacciata di nostalgia, dell’era in cui obiettivo della pubblicità era sedurre, non imporre. Dirimpetto, le serate trascorrono serene cenando sotto il pergolato di una storica trattoria o ascoltando un concerto nel patio del centro culturale Óbudai Társaskör. Altri musei, specialistici o minori, offrono ore di puro svago perché non li si visita per assolvere un obbligo morale ma solo per soddisfare la curiosità: la Bedo Haz, piccolo quartier generale dell’Art Déco; il museo Farmacia all’Aquila d’Oro, con una vera tsantsa (testa ridotta proveniente dall’Amazzonia) e la sega d’un pescesega; il museo svizzero Sommelweis, con parafernalia ambulatoriali che fan sentir grati d’essere nati in un’età di laser e di tecniche non invasive. Frutto di amorosa passione sono il grazioso museo della Posta e quello delle ambulanze, col bunker approntato nell’emergenza della seconda guerra mondiale, vere chicche che si visitano in beata solitudine. Trafficatissimo invece è l’emblematico Ospedale nella Roccia, dove i feriti di quel conflitto venivano soccorsi, quale che fosse lo schieramento al quale appartessero, nei cunicoli e nelle grotte scavate nelle viscere dello sperone di Buda. E i due musei della fotografia? Forse solidali, forse rivali, condividono il medesimo indirizzo: Nagymező utca, ma, mentre la Casa Ungherese della Fotografia ha ampi locali neutri adatti a grandi mostre, la Casa di Fotografia Mai Manó era l’abitazione art déco del fotografo imperiale, ambienti intimi che sanno ancora di casa, appropriati per piccoli formati e soggetti privati. I fasti del periodo austroungarico sono riproposti dai tendaggi e dagli ori del bar dell’albergo Astoria, mentre l’estro ungarico insulta le ristrettezze nei fantasiosi “bar nelle rovine”, locali aperti in edifici abbandonati, arredati con mobili riciclati e caratterizzati da immagini enigmatiche, imperscrutabili come le scritte in ungherese. Nell’Istant, ad esempio, il patio sul quale s’affacciano bar e salette è attraversato da una cavalcata di lepri uscita dalle pagine di Alice nel paese delle meraviglie, mentre una psichedelica civetta col corpo di donna, librata nello spazio come un crocefisso di Dalí, sovrintende ai notturni riti pagani che vi si compiono.
Tra fine ’800 e inizio ’900 Budapest era un enorme cantiere: assieme al restauro della Chiesa di Mattia e alla costruzione del Bastione dei Pescatori, del monumento al millennio in Piazza degli Eroi e del Castello Vajdahunyad nel parco Városliget, si stava scavando la prima linea della metropolitana, una delle prime in Europa e così ben realizzata da essere ancora in funzione. Contemporaneo è anche lo spazioso Grande Mercato coperto, dove cibi d’ogni sorta invitano i clienti in attraenti, coloratissime parate e dove le tentazioni per il turista, dai giocattoli di latta ai pizzi paesani, sono legione. Né cessano le meraviglie: basta scendere nelle imponenti stazioni della nuova linea 4 della metropolitana per comprovare che Budapest pensa ancora in grandezza e in bellezza: nei pavimenti ci si può specchiare. E, tanto per avere la misura della distanza di senso civico che ci separa, non si vede alcuna bicicletta – se mai c’è stata – parcheggiata alle solitarie colonnine davanti ai giardini della nostra capitale: a Budapest le verdi biciclette pubbliche non aspettano che d’essere usate. La nostra dolce vita s’è ridotta a un breve viale di albergoni e bar vuoti, se non per l’apparizione occasionale di nostalgici, patetici fantasmi, obesi avanzi dell’intellighenzia che riempiva gli Harry’s Bar di Roma, Firenze e Venezia. Invece gli ungheresi, che a colazione mangiano uova e maiale – qui cappuccino e cornetto sembrano assolutamente ridicoli – e si piccano di parlare una lingua tra le più difficili da apprendere al mondo, hanno per capitale una metropoli vibrante, cosmopolita, con bei parchi e una vita notturna pittoresca. Le soluzioni alle questioni poste dal formato urbano ci sorprendono come se ci appartenessero: logiche, attuabili e – la fase che a noi manca – attuate. Una città che funziona, di gente compresa nel proprio daffare, fiera e battagliera, che non dà nulla per scontato perché tutto è difficile e nulla cade dall’alto. “Il passato resta sempre con noi, ci accompagna. Siamo fatti di diversi elementi che ci compongono via via che cresciamo”, ha scritto Sandra J.B. Celis. Nel suo millennio di vita, Budapest è assurta a modello di autorealizzazione grazie ad interventi decisi e non mediati, attenta a non perdere nessuna novità portata dall’air du temps: architetture moderne, arte per quest’età plebea avida di bellezza e di cultura, storia dai bassorilievi di Mitra alla propaganda comunista, curiosità (c’è un “museo” che si “visita” in completa oscurità), e l’opera e l’operetta, con teatri sempre zeppi perché in tempi grami la gente ha bisogno più che mai di evasione. Il soffio del presente si espande dal punto focale della Chiesa di Mattia agli alberi dei cimiteri scompigliati dal vento, proponendo stimoli esotici ed esperimenti inediti, esperienze che rafforzano la stabilità perché offrono il sostegno necessario per sopportare il rigore dell’attuale congiuntura in modi ancora inimmaginati, infondendo coraggio e aiutando a tenere i nervi saldi. Il sontuoso respiro della città non è, fortunatamente, appannaggio solo di pochi. Marx diceva che “Il problema non è liberarci dalle illusioni. Il problema è liberarci dalle situazioni che richiedono illusioni”. A differenza di luoghi ordinari come Buenos Aires o Sydney, o torvi come Londra e New York, Budapest sa che il paradiso è uno stato dell’essere, e che si ha la possibilità di crearlo già sulla terra, ovunque, basta volerlo, perché è la materializzazione di ciò che di più nobile è in noi. Inaspettatamente, il nuovo arrivato la riconosce, Budapest, perché il cuore l’aveva già dentro di sé, a propria insaputa, perché il cuore serba il noto e l’ignoto. “Siamo dilaniati tra la nostalgia del familiare e il desiderio di qualcosa di esotico e diverso”, scriveva Carson McCullers, tanto che “spesso proviamo più nostalgia per i posti che non abbiamo mai conosciuto”. Ognuno di noi ha bisogno di un luogo dove fuggire da tutto e da tutti: alla mente ritorna, ostinata, l’immagine della notte beata sul Danubio che riflette con sussiego le luci del Parlamento. A Budapest calza quel che Virginia Woolf scriveva ad un’amica: “Spero sinceramente di non riuscirti mai a capire fino in fondo. Sei così mistica, serena, intrigante; racchiudi in te tanto fascino. M’incanti con lo splendore della tua presenza… è tutto così stupendo, voluttuoso e assurdo”. Ho trovato, finalmente, la mia tribù.