In piena luce

Oman, una terra sospesa tra presente e passato, povertà a ricchezza, tradizione e innovazione
Scritto da: Kingsize
in piena luce
Partenza il: 22/12/2013
Ritorno il: 06/01/2014
Viaggiatori: 15
Spesa: 3000 €

MUSCAT, 7.15 pm

Il naviglio reale all’ancora, mezzo addormentato vicino alla nave da crociera misteriosamente stazionaria, neanche s’è accorto del calar della luce. La corniche è tutto un brillare di neon e il movimento da e per il souq continua incessante. Gli uomini, nelle loro candide dishdashah, ne attraversano il passaggio centrale ignorati dai commercianti occupati a gettar esche sui turisti, spacciando, con richiami e sorrisi, artefatti dozzinali per persone dozzinali. Il forte Mutrah, appollaiato da più di quattrocento anni sul suo sperone di roccia, dirige il traffico che continua a sottolineare con strisce di luce la grande ansa della baia. Una dopo l’altra, le impressioni hanno riempito la giornata: camminare sui marmi tirati a specchio degli ampi cortili della Grande Moschea ad Al-Ghurah e arrestarsi all’ingresso della sala da preghiera principale, fulminati dall’ampiezza, dalla ricchezza delle decorazioni e dal lampadario, quasi un’articolata navicella spaziale irradiante energia. Meravigliarsi all’ostentazione del vertiginoso atrio dell’albergo Al-Bustan, completo di fontana e di affaccio sull’oceano. Restare abbagliati dai marmi che impreziosiscono il Teatro dell’Opera, candidi contro l’indaco di un cielo minacciosissimo ma, fortunatamente, rapido nel suo quotidiano atto d’amore alla terra. Già, perché c’è una stagione in cui in Oman può anche piovere. E poi, avvicinarsi al palazzo del Sultano, spaziare lo sguardo verso l’oceano che tanto ha significato per la prosperità del passato, e venir assorbiti dai colori e dai profumi del souq Mutrah, magari con qualche cedimento all’impegno, segretamente preso con se stessi all’entrata, di non acquistare nulla. Uomini e ragazzi in dishdashah nera entrano in moschea per un sermone che suona discorsivo, più spiegazione che esortazione. Dopo il caldo della giornata e prima del freddo della notte, dopo la piena luce che brucia, dissennata, le rocce seghettate che coronano il piccolo golfo e prima della notte che rapisce ogni vivente alle strade, questo è il momento perfetto per una pausa. Il viaggiatore, saturo, torna in albergo, solo per essere svegliato di soprassalto dal gracchiare dell’altoparlante della vicina moschea, cui fa riscontro quello di un’altra, più lontana. Nonostante lo stereo sia stonato e scoordinato, le invocazioni si allacciano e si allitterano, creando pause inaspettate come in una canzone, e sospendono i loro versi nell’aria color pastello della sera come una speranza. Le cupole delle moschee hanno spento il loro luccichio di mosaico dorato, quella della Grande Moschea al contrario s’illumina, bellissima, sotto un’elegante grata, d’un sontuoso giallo sole, e gli operai che sostavano, appollaiati come uccelli migranti sulla curva d’un’altra cupola da terminare, là vicino, hanno finito da un pezzo la loro giornata. L’Oman è una nazione in costruzione. La produzione degli architetti di periferia è un esercizio elementare cogli stilemi basilari dello stile arabo: parallelepipedi – la Kuba di Palermo è un esempio appropriato – che gli archi acuti delle porte non riscono a far lievitare e le colonnine decorative e le filigrane delle finestre non riescono a ingentilire, appesantiti come sono da reminiscenze trapezoidali egiziane e babilonesi e dall’imprinting indelebile della tozza architettura dei fortini di cui il paese è costellato. Anzi, l’impressione che le costruzioni siano di Lego è accentuata dalle merlature che ne ornano la linea di colmo. Ma a Muscat, la capitale, l’eleganza sfonda a volte la barriera della tradizione perché sia noto a tutti, e non senza un pizzico di orgogliosa ostentazione, che l’Oman è un paese in buona salute, alla faccia degli inaffondabili, titanici agglomerati di nazioni. Anche parte della corniche è invasa dalle gru: si sta costruendo un nuovo approdo per gli skiff da pesca e un nuovo mercato del pesce. I pescatori salperanno più tardi, aggirando il gran pavese che illuminerà i vacanzieri per tutta la notte. Adesso, dopo la preghiera, il ritorno alle case e il riposo.

SUR, 5:45 pm

Prima di diventare un pezzo d’antiquariato restaurato e apprezzato come eredità del passato, il ghanjah Fatah al-Khair, tipico vascello costruito in questo cantiere nel 1940 e recentemente riportato in questo porto, s’è trovato a essere un relitto abbandonato in Yemen. La tradizione marinara di Sur, affacciata sul Mare Arabico, sarà pure pluricentenaria, ma il riscontro attuale si limita a un paio di imbarcazioni in costruzione più per vanità che per necessità, mentre altre stanno lentamente disafacendosi più in là, oltre le tre torri bianche che sovrintendono all’accesso alla baia. Non più i commerci marittimi di spezie e profumi: altre sono le fonti dei proventi che hanno finanziato i lucidi marmi del lunghissimo marciapiede del lungomare. E, come ogni nouveau riche, anche l’Oman muove passi falsi e rivela cadute di gusto: quei marmi tirati a specchio son lasciati invadere dalla sabbia sollevata dal vento forte. E, in città, le ampie vetrine e le candide maioliche di negozi e uffici nuovi di zecca affacciano su strade raffazzonate, collegate da stretti passaggi in terra battuta. I gradini e i frequenti cambiamenti di livello che seguono l’andamento originale del terreno denunciano che la logica degli spazi abitati non è cambiata dal tempo degli edifici di sassi e fango posati su un’emergenza rocciosa, come ad Al Hamra, o abbarbicati alla costa di uno scosceso wadi, una piccola gola formata da un modesto corso d’acqua, come a Wadi Bani Habib. Le rovine di questi villaggi antichi sono un’attrazione turistica come i Sassi di Matera e, al pari di quelli, offrono al visitatore la peculiare sensazione di presenziare, non visto, i fatti non suoi di vite d’altri tempi. Insinuandosi negli angusti spazi di quegli abituri si entra d’improvviso in un medioevo in cui la luce, il calore, il riparo e la segretezza armavano la lotta che ogni giorno ingaggiava per arrivare al successivo. I materiali sono cambiati, ma non il modo di interagire con l’ambiente: le nuove case, anche quelle dove non s’è lesinato nella decorazione – ceramiche, colonne, finestre ad arco acuto – danno l’impressione d’aver stanze contenute e spazi ridotti. La dice lunga anche il muro – alto abbastanza da assicurare una perfetta privacy – che delimita le proprietà su cui sorgono le costruzioni e che marca senza mezzi termini il confine tra due mondi. La dicotomia tra pubblico e privato è sottolineata in Oman da mille dettagli. Qualcuno si sarà pur dato da fare per far venire al mondo gli stormi di bambini che ci hanno accolti a Wadi Tiwi, ma per le strade uomini e donne compaiono assieme solo sporadicamente. Anzi, le donne addirittura si vedono soltanto raramente, e per strada vestono un camicione nero, la testa coperta da una garza dello stesso colore. Ma in casa questi fantasmi in lutto smettono le gramaglie e sfoggiano i vestiti acquistati al souq delle donne – un vasto quartiere di negozi di abiti confezionati a mano dagli abili sarti bengalesi –, indumenti che definire un’esplosione di colori e decorazioni sarebbe far loro torto: sono più una fantasia infinita di lustrini e di appliques, di giochi di fogge e di colori, di variazioni sull’unico tema approvato dalle monotone direttive della moda musulmana: un camicione che arriva ai piedi. Scommetto che in casa queste madonne in nero indossano anche i lavoratissimi ori delle gioiellerie, sorprendentemente numerose: anelli, pettorali, collier da regina che un occidentale immaginerebbe di vedere solo in un museo di preziosi reperti babilonesi. È per questo che la giovane coppia che s’è affacciata al Sinkhole Park – lui in tunica bianca, lei in tunica nera – non ha convinto nessuno: quel che si vede, di questa gente, è la parte emersa d’un iceberg dalle forme misteriose e impreviste. Fortunatamente gli sposini sono arrivati troppo tardi per vedere la nostra presa di possesso di questo minuscolo lago dalle trasparenze turchesi, nascosto in un cratere affossato – le nostre donne in costume da bagno e gli uomini a petto nudo. Non è solo una religione o radicate tradizioni a separarci, ma un modo globale di rispondere all’imperativo dell’esistere. Sarà forse per gli eccessi del clima? Il nostro, tra i più temperati, ci permette grande libertà di indumenti e di movimenti, ma qui vale quel che si cantava nel 1931: “Solo i cani impazziti e gli inglesi escono al sole del mezzogiorno”. In piena luce, nella calura delle ore centrali della giornata, i paesi diventano città fantasma: a parte qualche manovale nei cantieri e le ruspe nelle strade in costruzione, in giro non c’è nessuno, neanche a Sur, che come città è cospicua. Solo alla chiamata alla preghiera della sera gli uomini si ritrovano tutti in piazza, al mercato delle chiacchiere, della frutta e della verdura. I dhow d’alto mare sono già in museo: ora il commercio corre su ruote, ogni strada nuova è un’altra puntata sulla prosperità a venire, una vittoria sull’estensione, sull’isolamento, sulle asperità geologiche di questo Paese. Il progresso avanza, ma la pratica di non farsi friggere le cervella dal sole a picco non necessita miglioramento. E così, inserendo i brandelli del passato nell’ordito del presente, si tesse il tappeto del tempo, quel tappeto volante che ci ha portati fin qui.

SALALAH, 6.20pm

Il sole, dopo qualche scaramuccia con le nuvole che decoravano la linea dell’orizzonte, s’è eclissato dichiarando forfait e le schiere di palme da cocco restano immobili, impensierite, mentre l’incertezza su quel che porterà la notte si contagia, di piantagione in piantagione, lungo i chilometri di costa. Non un alito sale dal canale, dal mare che circonda le pietre di Al-Baleed, mille anni fa prospero porto sul Mare di Oman, punto di scambio di spezie e di incensi tra l’Arabia Felix e le numerose destinazioni oltre il corno d’Africa e in India, in Cina, nel Mediterraneo.

Le pietre bionde, annerite dalla luce e dall’aria, rimandano gli echi di Sumhuram, più a est, duemila anni fa una delle maggiori città marinare del pianeta. Le luci gialle dei fari al sodio marcano le rovine più cospicue – il palazzo del sultano, i luoghi di culto – e costeggiano i muri di recinzione delle tenute coltivate a cocco e a banane, frutta venduta, assieme a papaye, melograne e arance, da dozzine di chioschi lungo la strada costiera. Questi infiniti filari luminosi, che arrivando ai rilievi vicini iniziano a serpeggiare, accompagnano il traffico che, lungo ariose arterie, arriva al centro della città. Uno appresso all’altro, i neon e i colori delle insegne di banche, ristoranti, negozi, farmacie e sartorie sottolineano la rinascenza dell’Oman, fino a quarant’anni fa immerso in un sonno secolare dal quale Qabus bin Said al Said, l’attuale sultano, ha provveduto a scuoterlo. È interessante vedere come presente e passato si coniughino: uomini in candida dishdashah tutti intenti all’onnipresente smartphone, turbanti alla guida di fuoristrada, farmacisti competenti che prescrivono le stesse medicine del medico della ASL, gruppetti di uomini in amabile conversazione seduti su un tappeto steso su uno spartitraffico, pastori che riuniscono il gregge di cammelli a suon di frustate immortalati da macchine fotografiche digitali.

Più moderna e curata di Muscat, è evidente che la capitale dell’Oman meridionale è stata oggetto di particolari attenzioni da parte del Sultano, nativo di qui. Resta molto da fare: una bonifica degli spazi pubblici e un uso più accorto del territorio, spesso occupato da costruzioni in rovina accanto alle quali nuovi complessi stanno sorgendo. Un maggior senso civico eliminerebbe alcune spiacevoli sbavature, proprio come da noi. La convivenza civile è un traguardo da conquistare nei paesi in cui il clima non impone agli abitanti il rispetto dell’altro e del territorio. L’Oman in questo è avvantaggiato dalla nobiltà d’animo che ha lungamente caratterizzato i suoi abitanti, come testimoniano i viaggiatori europei che, superando innumerevoli difficoltà, riuscirono a raggiungere questi mitici territori. Nei loro resoconti si legge di un’accoglienza cordiale e rispettosa, di una solidità di valori e d’una tradizione tollerante della pluralità d’espressioni colla quale veniva a contatto. Infatti, dopo un periodo di dominazione portoghese e alterne vicissitudini dovute a contrasti intestini, l’Oman s’affacciò alla ribalta internazionale stringendo patti colle maggiori potenze del XIX secolo. E, nell’attuale clima internazionale di incertezza e di improvvisi voltafaccia, l’Oman rimane un’isola felice, teso com’è verso uno sviluppo spedito e sicuro. Tanta della forza lavoro viene dal subcontinente indiano, dissipando parrocchialismi e, per contrasto, dando un rilievo ancor maggiore alle fogge e alle tradizioni locali, testimoniate dal bellissimo museo Bayt al-Zubir di Muscat, e al passato marinaro della nazione, illustrato nel piccolo ma curato Museo della Terra dell’Incenso di Salalah. Il traffico, che a Muscat rivaleggia il caos delle nostre tangenziali, scorre sereno e convinto nella verde Salalah, per sempre affacciata sul mare. Il frangersi cadenzato delle onde, le luci della notte, le conversazioni amichevoli fumando il shisha al riparo da sguardi indiscreti e uno spicchio di luna, fulgente come un anello, annunciano che domani sarà una giornata di luce piena, proprio come oggi.

AL-AYN, 6.15pm

Senza presunzione, modeste ma tenaci, e forti ora della protezione dell’Unesco (http://whc.unesco.org/en/list/434), stanno lì, appollaiate sulla cresta di una ruga di questa vecchia terra. Porte verso l’infinito che antichi uomini hanno varcato, da quattro, forse cinquemila anni, quelle tombe resistono, costruite colle stesse pietre della roccia che si sta frantumando alla loro base. Nemmeno nell’ultima dimora era concesso, all’uomo dell’età del bronzo, di giacere tranquillo: le tombe sono piccoli alveari cilindrici, un po’ svasati alla base, dove un esiguo varco sembra invitare altri aspiranti al volo verso l’alto, visto che degli originari occupanti non è rimasta traccia. Ora come allora, fa loro buona guardia il profilo massiccio di Jebel Misht, e le carovane che passavano sotto la sua formidabile mole, sostando per la notte, debbono aver ascoltato i nomi e la storia dei defunti che hanno avuto l’onore di quella sepoltura. La strada ora è asfaltata, ed è una fortuna che i trapassati siano già tutti arrivati, perché nessuno si fermerebbe adesso ad aiutarli con una preghiera. Jebel Misht è una presenza imponente e indimenticabile, ma a volte i rilievi della catena degli Hajars sembrano quasi una dimenticanza, come se il gigante che avesse progettato il panorama dell’Oman avesse scaricato parecchi camion di materiale per chiudere il Golfo Arabico prolungando il corno degli Emirati fino all’Iran, ma avesse abbandonato l’impresa a metà: pile di sassi senza forma e senza grazia son distribuiti senza logica sulla regione. A volte però queste montagne, aride e inospitali come sono, si fanno decisamente serie e attaccano il fuoristrada del turista con arrischiate strade bianche che serpeggiano lungo spaventosi burroni e s’inerpicano fino a 3.000 metri, fino all’orlo di Wadi Ghul, il Grand Canyon arabo, un campione sorprendentemente fedele di quello americano. Le creazioni della natura e degli uomini ci guardano da mille e mill’anni ancora, refrattari al nostro interesse, testardamente fedeli ai loro segreti. La luce piena del pomeriggio sta calando e la massa dei rilievi più vicini è già una siluetta nera, mentre i sipari più lontani restano illuminati dall’aria tersa della sera. I pochi alberelli si protendono verso occidente per assorbire ogni atomo di luce, ogni delicata sfumatura del pallore di questo cielo. E’ un lungo, lento addio. Le tombe sono ormai una presenza nella mente, un alito nell’aria, e aspettano, aspettano che i fari delle nostre vetture scivolino dietro una curva, aspettano che anche questo giorno, questo battito d’ala del tempo, scivoli nell’eternità.

WAHIBA SANDS, 6.47am

I pescatori stanno rientrando, i netturbini danno l’ultimo tocco alle strade, e sono mattinieri che iniziano l’attività o nottambuli che terminano oscuri affari, quelli per strada? Il caleidoscopio delle menti, ancora assonnate, è sbiadito a quest’ora, e i ritmi umani, con le loro lungaggini e i loro astrusi, assurdi meccanismi, ancora non ingranano. Ma tutto questo, qui, è solo un ricordo come d’un’altra dimensione. Qui gli uomini sono una presenza fugace, e regna un’eternità fatta di elementi fuori scala. La sabbia è finissima, così cedevole al passo che una salita ne vale almeno due e talmente sfuggente sotto le ruote che per superare un modesto dislivello il fuoristrada deve prendere la rincorsa con tutta la foga che ha in motore. All’alba il campo tendato sembra un miraggio, un modellino per un gioco infantile. I canti di ieri sera – allietati una rara apparizione femminile autoctona – forse sono stati un sogno, creato dalla necessità di far arrivare al cielo la voce festosa della vita, e i nostri balli una fantasia per chiudere la giornata con gioia, sotto un coperta trapuntata di stelle più vasta dello stesso orizzonte. Non c’è neanche la brezza della sera, quella che leviga le dune facendo gentilmente correre granello su granello. La notte ha tutto cancellato, restano solo le orme di piccoli animali, tracce di zampette e di codine che s’interrompono d’improvviso, segni di un’invisibile vita minuta che cerca, che si cerca, si perde e sparisce all’arrivo del sole. Eccolo, e la grigia sabbia s’indora, ecco, arriva il padrone, avanza a vista d’occhio e il suo sguardo tutto incenerisce. Si rimane immobili per un istante infinito, come per l’apparizione di un dio, e come quella d’un dio è insopportabile la sua mancanza, e insostenibile la sua presenza. Non si sa esattamente cosa fare, nel deserto, ma nel deserto un’euforia ti prende, e lo vorresti portare a casa, lo vorresti far tuo, vorresti che non finisse mai. Qualcosa nel profondo lo riconosce, e gode della sua grandezza. Le dune non son che linee, ma riempiono gli occhi. Non c’è che silenzio, ma è una sinfonia di terra e cielo. Non ci fermiamo che qualche ora, ma l’impressione si scolpisce dentro, dolce e dura come la voce del tempo: è come vedere il film della propria vita d’un fiato, dove le persone sono apparizioni incerte quanto un miraggio, dove il contingente evapora nell’infinito e rimane solo l’io, la consapevolezza d’un creatore di mondi in un corpo di polvere. D’imperio, i raggi del giorno appena iniziato ci illuminano d’immenso. Non è che un momento: si riparte. I cammelli pazientano, mentre le jeep si allontanano sollevando una scia di polvere. In pochi minuti non son più che un punto all’orizzonte, grande come un grano di sabbia, nella piena luce del giorno.

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Muscat

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Wadi bani khalid

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Forte di ras al hadd

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Forte di nakhal

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Forte di nakhal

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Albero dell'incenso



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