Il viaggio, passaggio fra due mete
Now just let me sleep….. Urla la radiosveglia. Sono le 5:25 a.m. Di Sabato e sobbalzo sul letto; tento disperatamente di far tacere l’infernale frastuono ma le sveglie sono da decenni costruite in maniera tale da rendere introvabile il tasto dello spegnimento e così mi adopero per un buon minuto alla ricerca a tastoni, comprendente anche i...
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Now just let me sleep… Urla la radiosveglia. Sono le 5:25 a.M. Di Sabato e sobbalzo sul letto; tento disperatamente di far tacere l’infernale frastuono ma le sveglie sono da decenni costruite in maniera tale da rendere introvabile il tasto dello spegnimento e così mi adopero per un buon minuto alla ricerca a tastoni, comprendente anche i prolungati tempi di reazione, e finalmente riesco a far tacere l’apparecchio (non so neanche io come ma ho uniformemente pigiato sull’intera superficie!). E’ esperienza comune quella di rigirarsi dall’altro lato del letto (anche l’ex rumore è sufficiente a spingere a cercare maggiore distanza) e tentare di proseguire il “viaggio” fra le braccia di Morfeo per poi essere nuovamente destati d’improvviso; il pensiero di un impegno, di un appuntamento si è disincastrato dai circuiti cerebrali ancora ingolfati e si è materializzato. Io personalmente sono poi una di quelle persone che scattano dalle molle del materasso per scoprirsi dal tepore delle coperte tutto d’un colpo; non riuscirei ad avvicinarmi al risveglio a tappe progressive perché finirei per cadere nuovamente vittima del sonno incipiente. Così scatto d’improvviso, mi alzo non avendo ancora definito i contorni dell’impegno che ha spinto , la serata precedente, la mia mente, allora lucida, a segnare quest’ora antelucana. Accendo la luce e seduto sul letto fra uno stiramento e l’altro faccio mente locale, conscio che generalmente sono uso posizionare la sveglia dieci minuti prima del dovuto. Ah sì, sì! Finalmente, devo partire per una meritata vacanza di una settimana, questo è il mio “pensiero”. Mi alzo sollevato di non essere la vittima di un’occupazione straordinaria del Sabato mattina e mi dirigo diretto in bagno. Non sono abituato a fare colazione la mattina presto perché il mio fisico, come la mia mente, non è in grado di occuparsi in operazioni elaborate come la digestione e combatte l’impegno col rifiuto così mi preparo direttamente. Mi lavo e vesto come preordinato la sera precedente ma la lentezza delle operazioni mi costringe, come sempre, ad una corsa finale che è però funzionale a svegliarmi completamente. Sono persona vagamente ansiosa ed ho fatto del ritardo cronico una scelta di vita, una sorta di palestra per combattere certe forme di eccessiva pressione tanto da diventare poi ritardatario viscerale. Cerco di incastrare in valigia le ultime cose rimaste fuori ma è all’ultimo che si scopre la mancata corrispondenza fra quanto preventivato e gli spazi oggettivi ma spingendo, spostando, selezionando e scartando amaramente riesco, forzando, a chiudere la cerniera della valigia implorando che i dentini della stessa rimangano serrati pur “digrignando” per l’eccessiva pressione a cui sono sottoposti. Finalmente esco dalla porta , pulsante dell’ascensore ed ansimando per il peso del bagaglio a mano mi dirigo verso la stazione della metro. Le valigie sono da tempo costruite con l’opzione “carrello” ma le case produttrici utilizzano rotelle francamente piccole e troppo lente ed inoltre l’irregolarità della distribuzione dei carichi è inevitabilmente causa di oscillazioni alle “alte velocità” così che tutti finiscono per sobbarcarsi del peso sulle proprie spalle (comprese rotelle e manubrio estraibile!). Dovrei, per evitare di affaticarmi troppo, aspettare l’autobus sotto casa ma i servizi pubblici a Roma tradiscono il pacato spirito cittadino così che tempi e modi non solo non sono segnati ma rappresentano una variabile incalcolabile e preferisco optare per le buone e vecchie gambe. Davanti ed intorno al mio caseggiato c’è poi una ampia pineta ed il profumo dell’aria mattutina, le luci che svelano il tono della giornata sarebbero esperienza piacevole se non fosse che il mio ritardo lascia poco spazio persino ad una occhiata generale. Mi dirigo diretto alla stazione e dopo un quarto d’ora di passaggio di mano della valigia, responsabile ormai di due ampie strisce rossastre sul palmo delle mie mani, sono arrivato. Mi trovo a fare la medesima considerazione tutte le volte che utilizzo i mezzi la mattina presto: mi sarei aspettato un silenzio pressochè totale ed invece le edicole aperte e la gente in giro sono sì poche ma non poi così sparute. Acquisto un giornale di fresco dall’edicolante che ha fatto delle borse sotto gli occhi un tratto somatico ed ancora chiedendomi cosa facciano a quest’ora tante persone in giro mi dirigo ad una delle panchine della stazione. Si tratta di una di quelle panchine in muratura mezze mangiate dal tempo che, visto il materiale, conserva intatto il gelo dell’intera notte ma le mie gambe preferiscono trovare un freddo riposo e tra me e me penso comunque di fare cosa gradita a chi dopo di me troverà la seduta tiepida. Decido di non leggere il giornale per guardarmi intorno; strettamente addossate alla stazione ci sono numerose case e dalle finestre è possibile capire, piano per piano, chi stia ancora dormendo e chi si sia appena svegliato e giurerei di poter definire anche di quali stanze si tratti e cosa stiano facendo esattamente i rispettivi inquilini. Una signora esce dalla finestra della cucina per stendere degli indumenti appena lavati ma vista l’ora immagino che sia una di quelle persone anziane che, incapaci di trovare tranquillità e sonno nel letto, si affannano a riempire i vuoti di un’ora troppo silenziosa per sembrare sufficientemente piena. Intanto arriva la metro e con fatica mi alzo per riadagiarmi sul sedile dello scompartimento. Non sono solo e seppur siamo ben distribuiti mi ritrovo davanti un signore sulla cinquantina in giacca e cravatta che neanche fa caso al coinquilino per gettarsi diretto all’interno della cronaca di un giornale che fa da sipario fra noi due. Riesco ad osservarlo al di sopra del margine superiore del giornale mentre lui immerso nella notizia non si accorge neanche della mia indiscrezione. E’ persona elegante più per forma che per sostanza e lo immagino impiegato d’ufficio non so dove. Penso ai figli ancora fra le lenzuola ed alla moglie che lo deve aver salutato per rincontrarlo solo la sera e rifletto sulla distanza di certe vite in comune. Il mio giornale l’ho ormai messo in valigia e volendolo riservare intonso per il viaggio in treno mi limito a sbirciare le notizie riportate dal giornale del mio dirimpettaio che fortunatamente è diverso dal mio. Normalmente non amo quanti si sporgono per sbirciare dall’altrui giornale perché quando mi capita sento la pressione di non sapere quando poter girare pagina per non lasciare a metà la lettura di chi sta sbirciando le ultime nuove dal mio. Così quando noto che il mio compagno di viaggio mi guarda cerco di dissimulare la mia attenzione per la sua carta guardando dal finestrino ma non credo di essere bravo a recitare. Dopo due, tre notizie lette a metà per il rapido volta pagina e la difficile lettura di sbieco abbandono l’improba operazione e stavolta seriamente guardo dal finestrino. E’ un alternarsi di scenari assolutamente non compatibili: un campo di prato all’inglese che so essere fonte del prato dell’Olimpico si alterna a resti murari delle domus romane nonché alla serie di sfasciacarrozze che fanno bella mostra di automobili disposte su più piani (Chissà mai che storie racconterebbero quei veicoli; se si pensa al numero di anni di vita condivisi!!). Finalmente raggiungo la metro B che serve la zona sud di Roma e salgo su un altro vagone, francamente meno datato, per raggiungere la stazione Termini. La metro B è zona di confluenza di moltissime persone la mattina presto ma a quest’ora è ancora vuota ed oggi riesco a risparmiarmi la lotta per lo spazio vitale ed i crampi del peso su piede unico. La vocina preregistrata arrivati ad un certo punto recita “Circo Massimo necsst stoppp Colosseo”. Almeno non è incolore e tradisce la Romanità strappando un sorriso a chi non è avvezzo a sentirla. Arrivo alla stazione Termini e seguendo il fiume (sarebbe difficile combattere la corrente) mi dirigo, uno fra tanti, verso il livello superiore. Hanno recentemente rinnovato la stazione e pur non avendo modificato il dedalo delle segnalazioni che finiscono per far perdere persino gli indigeni l’apparenza della stessa nonché la ricchezza in negozi e ristoranti hanno profondamente modificato questo luogo di passaggio. Ho sempre amato stazioni, aeroporti e tutti quei luoghi che sono trampolino verso la fuga, l’allontanamento e probabilmente mi divertirei a spenderci del tempo anche se non in partenza. Gente indaffarata e trafelata per raggiungere treni e coincidenze per chi sa dove, volti tra i più disparati; stranieri che per fattezze fisiche in città sono identificabili come estranei ma che in questo luogo di passaggio sembrano di casa. Anche io mi unisco al marasma e superata l’entrata sono pure io assunto a viaggiatore. Mi dirigo ad uno dei muri sui quali è affisso un grande “cartoncino” su cui è possibile consultare numero del treno, tratta, orario, binario, servizi e stazioni intermedie. Ci sarebbe come valida alternativa per risalire al mio binario il grande tabellone luminoso in continuo aggiornamento ma innanzitutto da notizie solamente sui treni in partenza a breve giro di boa e spesso commette errori così che la tecnologia perde sempre lo scontro con la vecchia e fidata carta. Alla stazione Termini è sempre meglio poi avere l’indicazione corretta del binario poiché in caso di errore, visto il numero degli stessi e la loro rispettiva distanza, è necessario affrontare una traversata non indifferente contando il peso dei bagagli. Mi dirigo al mio binario e pazientemente aspetto essendo ancora presente l’indicazione del treno precedente al mio. Intanto acquisto una bottiglietta d’acqua che per il solo fatto di essere all’interno di questo “recinto” mi costa 2000 lire e così penso al risparmio dell’essere previdenti. Dopo un quarto d’ora sta arrivando in stazione il mio treno e quindi decido di avviarmi verso il fondo (la prima classe non mi è concessa neanche su questa ferraglia), controllo vagone e posto e salgo sugli scalini in ferro calcolati su soggetti almeno 10 centimetri più alti di me sebbene non si possa certo dire che sia basso. Mi avvio nell’angusto corridoio e cerco la mia dislocazione. Entro, saluto un ragazzo di colore seduto nel posto vicino al vetro che dà sul corridoio e mi siedo nel posto accanto al finestrino. E’ un IC vecchio tipo: suddiviso in scomparti da sei posti con i sedili ampi, marrone finta pelle, tanto larghi quanto poco alti di schienale. Nella parte alta c’è poi il poggiatesta regolabile che è esempio unico di scomodità sia per il tessuto plastificato che nel periodo estivo non permette di respirare ed è causa di una non richiesta sauna sia per la regolabilità relativa perché mai si riesce a trovare la posizione corretta ed adatta alle proprie esigenze così che il dolore cervicale è postumo inevitabile di qualsiasi dormita. Mi siedo, uno, due sorrisi al ragazzo di prima come ad annusare la persona che si ha di fronte in relazione alla prontezza dei convenevoli e mi metto nuovamente a guardare fuori dal finestrino. Chi corre da una parte chi dall’altra; si ha come l’impressione che tutti abbiano perso il proprio treno o quantomeno questo stia per accadere. Evidentemente la paura di essere lasciati sulla banchina, la lontananza fra punto preventivato e reale punto di fermata del proprio vagone spingono a corse ossessive. Mi rigiro verso il mio compartimento e penso a quanto io ami i viaggi in treno in special modo in treni con queste caratteristiche. Le Fs infatti hanno introdotto gli ETR che per velocità sono sicuramente vantaggiosi (non lo stesso si può dire dei costi) ma che sono costituiti da un ambiente unico che non fornisce lo stessa sensazione di intimità che invece conservano gli IC. Per non dire poi della scomodità dei sedili e della sensazione asettica di “manager in trasferta” che gli ETR trasmettono. L’organizzazione a microclimi indipendenti che invece caratterizza i vecchi treni ricalca più da vicino quello di una vita condominiale in cui tutto misteriosamente quanto casualmente si incrocia. Mentre mi beo della familiarità dell’ambiente sento un “Permesso?!” ed ecco una ragazza, carina, che si fa spazio cercando di posizionare il suo borsone sul ristrettissimo ripiano superiore. Io e l’altro ragazzo ci alziamo in supporto e la aiutiamo a sistemare le sue cose. Dopo lo “scatto di galanteria” ciascuno riprende la propria posizione indaffarato nel far nulla perchè l’imbarazzo della non conoscenza si fa sentire in due metri per tre. Dissimulando un evidente imbarazzo la ragazza dice “Piacere, Claudia!” e rincuorato dal gesto che tradisce disagio rispondo “piacere, io mi chiamo Andrea!” e voltandomi verso l’altro ragazzo “Noi poi non ci siamo neanche presentati… Come ti chiami tu?” e lui in uno stentato italiano mi dice “Io sono Jacques” ed anche se nella frase non è presente neanche una erre capisco il suono che avrà quando mai ne proferirà una. Si discute sulle rispettive mete e veniamo a scoprire in un italfrancese improbabile quanto spesso incomprensibile che il nostro compagno di viaggio è diretto a Genova essendo partito da Napoli. Ci dice che nella borsa porta oggetti da vendere come ambulante e che il viaggio lo ha fatto per rifornirsi di materiale. Vorrebbe esprimere di più ma non conosce bene l’Italiano così che chiede se uno di noi due conosce il francese ma entrambi non ne sappiamo neanche una parola (il francese si dice sempre sia comunque facilmente comprensibile ma, non certo per fare conversazione!). Continuiamo il colloquio in francoitaliano e Claudia ci dice di essere di Roma e di essere diretta anche lei a Genova per un corso di areografo (non ne conosco con certezza la corretta grafia!); è infatti ex-studentessa di grafica pubblicitaria alla ricerca di un modo per far fruttare le proprie attitudini. Vorrebbe infatti aprire un negozio vicino Roma dove realizzare disegni su automobili, caschi e quant’altro perché per i disegnatori è un ramo che va per la maggiore. Avrebbe voluto realizzare il sogno di disegnare fumetti ma la strada per professioni di questo tipo è estremamente difficile così ha deciso di puntare sull’originalità della scelta. Intanto Jacques per semplificare il dialogo tira giù la borsa per mostrarci quanto è abituato a vendere e la sacca di “Mary Poppins” è in effetti stracolma di oggetti d’ogni tipo: collanine, occhiali, bracciali, le immancabile quanto false statuette africane made in Naple e tutti gli oggetti tipici dell’ambulante compresi accendini a forma di pistola ed incenso profumato, che mai devono mancare. Il tutto è correttamente ed ordinatamente stipato nella borsa il che evidenzia l’ordine meticoloso, elemento evidentemente caratteriale così che penso a cosa si potrebbe trarre dal disordine della mia valigia. La combriccola è definitivamente formata a tal punto che mi piacerebbe comprare uno dei bracciali di Jacques ma sarebbe gesto da Occidentale spocchioso e me ne guardo bene. Il capotreno fischia, si chiudono rumorosamente le porte ed il treno abbandona la banchina. Come ad ogni inizio di viaggio scende il silenzio in quanto tutti e tre siamo indaffarati a ricercare una posizione comoda e la dislocazione più adatta per i nostri oggetti (libro, riviste, parole crociate e pranzo al sacco), come se l’ordine iniziale fosse buon viatico al tragitto stesso. Trovata la posizione più comoda prendo il libro davanti a me che ho accuratamente deciso essere per l’occasione il mio compagno di viaggio. Si tratta di “Sulla strada” di Jack Kerouac, tanto famoso quanto poco letto (ciò che più è pubblicizzato spesso incontra la mia avversione!). Ricomincio a leggere da dove avevo abbandonato la lettura la sera prima e così: “Che cos’è quella sensazione quando ci si allontana dalle persone e loro restano indietro sulla pianura finchè le si vede appena come macchioline che si disperdono?… E’ il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio. Ma noi puntiamo avanti verso la prossima pazzesca avventura sotto i cieli.”. Penso a come una frase anche così “dolciastra” valga un intero libro per come ricalca le sensazioni tanto amate quanto odiate di un viaggio o di un abbandono. E’ quella morsa allo stomaco, quel vuoto viscerale che tanto adoro ed il solo fatto di adorarla ,ho sempre pensato, fa di me un viaggiatore. Continuo nella lettura per altre due facciate ma l’ora ed il sonno mi fanno desistere dal continuare. Stiamo uscendo dalla periferia di Roma ed i palazzoni fronte binari sembrano grandi formicai consuma storie. Intanto la fame si fa sentire e decido di aprire uno dei sacchetti di carta dove ho riposto dei biscotti comprati giorni prima per evitare sensazioni di svenimento; offro ai miei compagni che si guardano bene dall’accettare (ancora si fa sentire, nonostante l’età, il vecchio adagio della mamma di non accettare nulla dagli sconosciuti!) e continuo a guardare fuori dal finestrino. Siamo giusto fuori Roma; su una strada una macchina percorre un tratto parallelo a quello del treno e così ne valuto la velocità in relazione alla mia ma presto scompare dietro una svolta. Claudia intanto riprende il colloquio mentre Jacques ha appoggiato la testa reclinandola ed è lì che boccheggia nel sonno (chissà dove e quanto avrà dormito durante la scorsa notte!?). Claudia mi racconta di amici, viaggi, scuola e scopro che lei è una patita di baseball, sport che pratica in compagnia di altre amiche a livello amatoriale; ma le maggiori difficoltà si incontrano nel trovare campi adatti ad uno sport simile. Il treno intanto ha raggiunto la zona di Santa Marinella, Santa Severa ed a distanza è possibile vedere la Pineta che precede le cittadine e che si spinge fino alla spiaggia e successivamente il centro costituito da palazzine e villette costruite ad hoc come centro turistico. Qui il mare non è quello della Sardegna ma calcolando la vicinanza a Roma non è poi così male, almeno a distanza. Ci allontaniamo dal centro cittadino e successivamente raggiungiamo Civitavecchia. Il treno è già in ritardo ma ben presto siamo di nuovo in moto senza che si sia aggiunto nessuno alla combriccola e dopo un po’ c’è la centrale di Montalto di Castro, abbastanza isolata, ma che è un proliferare di tralicci e centraline. Possibile che l’energia voglia proprio un simile orrore? Penso all’energia eolica ed all’estetica delle innumerevoli pale a vento viste in Andalucia ed alla “poesia” di alcuni “orrori” della meccanica. Intanto Jacques ha variato una cinquantina di volte posizione piombando continuamente e nuovamente nel sonno più profondo dopo aver aperto gli occhi rossi e cisposi per ogni variazione di postura mentre Claudia è catturata da una variopinta quanto poco interessante rivista che è una sequela continua di pubblicità. Il treno raggiunge quindi la laguna di Orbetello. Mai ho avuta l’occasione di fermarmi qualche ora se non qualche giornata in questo posto, nonostante sia poco distante e ricco di campeggi ma la laguna circondata dal mare da cui è separata da una strettissima striscia di terra mi ha sempre affascinato. L’Argentario sullo sfondo aggiunge indefinizione a questo luogo che non è mare, non è palude, non è riva né altopiano. Riprendo la mia lettura di Kerouac e mi immergo nel viaggio senza meta, nella ricerca che non ha luogo e mi ricordo la frase di Kierkegaard (lettera a Jette) :”Soprattutto, non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata… Ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati… Perciò basta continuare a camminare , e andrà tutto bene” oppure la frase di Gautama Buddha: ”Non puoi percorrere la via prima di essere diventato la via stessa.”. Perché anche nella mia esperienza mi sono avvizzito nell’immobilità e riscoperto e rinnovato nel movimento. Con questi saggi pensieri siamo a Grosseto. Il treno si ferma e entrano nel nostro scompartimento due nuovi “affittuari”. Sono insieme e si tratta di un signore in giacca con barba curata leggermente canuta ed un giovane altrettanto elegante dal naso adunco che si siedono l’uno di fronte all’altro. Dopo un breve saluto di rito ed avendo ricevuto il nostro benvenuto si sistemano sulle rispettive posizioni e mentre il giovane guarda dal finestrino lanciando rare quanto furtive occhiate a Claudia il signore più “adulto”, che mi siede accanto, aprendo la ventiquattr’ore ne tira fuori un fascicolo di fogli da cui riesco a leggere “Università di Firenze”. Non è possibile! Finalmente in vacanza, il tema del viaggio cattura forze ed attenzioni essendone io stesso protagonista e mi ritrovo accanto un Professore che spinge la mia mente a pensare alle incombenze del mio ruolo di studente. Ma stavolta distolgo rapido l’attenzione dalle carte del mio vicino e torno sul mio libro. Fintanto che i due nuovi arrivati non faranno parte del nostro “condominio” quantomeno per anzianità regna il silenzio quasi che gli scambi di battute fra me e Claudia siano fuori luogo visti i due sconosciuti. Ma sono proprio loro due a rompere il silenzio e confabulano fra di loro di seminari d’approfondimento. Cerco di ricostruire i ruoli e mi sembra di capire che quello che mi siede accanto sia Professore di cattedra alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze mentre l’altro dovrebbe essere un suo assistente. Me li immagino seduti dietro lo scranno ad interrogare gli studenti ed in effetti la fisicità corrisponde al ruolo professionale. Che a tutti corrisponda nel fisico una specifica professione? Che tutti quanti siamo, ignari, destinati ad un ruolo istituzionale preciso? E quale allora il mio futuro? Che abbia spalle troppo larghe per fare il gelataio o troppo piccole per essere avvocato? Che il mio naso sia quello di un medico ma abbia la sciagura di possedere occhi da impiegato? Non trovo risposta perché non riesco a vedermi oggettivamente, non ho sguardo esterno a me stesso e così sono destinato o a sbagliare professione oppure a contare sulla fortuna della scelta. Intanto il treno prosegue il cammino e siamo a Follonica e proseguendo a Cecina, Livorno Centrale ed infine Pisa Centrale. Quanto amo Pisa!; l’ultima volta che ci sono stato avevo appena dodici anni e Piazza dei miracoli non avrebbe potuto avere nome più adatto. Il Duomo, il Battistero e la torre pendente (allora era ancora possibile salirci); la repubblica marinara ghibellina; i Della Gherardesca con Ugolino in cima richiamano i ricordi dell’Inferno Dantesco e della Torre dei Gualandi. Ma il “ripasso” è breve perché siamo già fuggiti, la corsa ha poche soste e brevi. Mi alzo e facendomi spazio fra le ginocchia dei miei compagni, svegliando inevitabilmente Jacques, mi porto nel lungo corridoio per sgranchire le gambe ed approfittare per andare al bagno. Proseguo attraverso il lungo corridoio e ad ogni scomparto volto la testa per guardare i protagonisti delle storie che si svolgono parallele alla nostra. Una signora logorroica tiene banco due scomparti da noi mentre a quattro scomparti di distanza un gruppo di cinque ragazzi si prepara probabilmente ad una vacanza. Apro la porta a vetri di fine corridoio ed il rumore delle rotaie si fa improvvisamente più intenso, diventa fastidioso. Nello “slargo” in coda al treno trovo il solito ragazzo giunto infondo per fumare una sigaretta; uno sguardo di taglio e sono dentro la toilette. Le toilettes dei treni sono tanto brutte quanto fonte di ricordi. Mi viene in mente quando da piccolo mi divertivo all’idea di lasciare la mia traccia sulle rotaie, penso allo scarico che si apre semplicemente sulla ghiaia “in corsa”. Esco dalla porta del bagno (da piccolo guardavo sempre il rosso/verde del libero ed occupato) e decido di fermarmi a chiacchierare col ragazzo fuori anche per facilitare ulteriormente la circolazione. Fa parte del gruppetto dei cinque ragazzi che avevo già notato e che sono effettivamente diretti in vacanza; tre coppiette dirette a Sestri ben amalgamate da una lunga amicizia. Si parla del mare e della pulizia delle acque nelle varie zone d’Italia e dopo averlo salutato decido di tornare al mio posto. Sveglio nuovamente Jacques e ritorno a sedere. I due “Universitari” non hanno ancora abbandonato la discussione “Modi e Temi della didattica” e così disinteressato mi rimetto a leggere. Claudia si è addormentata non trovando evidentemente interesse nella conversazione in corso ma è estremamente composta tanto che giurerei non dorma affatto per garantire la plasticità della posizione. Intanto siamo a Sestri e dal treno scende la comitiva sommersa dai bagagli ma con sorrisi che promettono divertimento ancor prima d’iniziare. Il treno riparte e dopo aver letto altre due facciate decido di preparami; la prossima è la mia fermata. Mi alzo e tiro giù la valigia; le mie mani ricordano perfettamente la durezza della plastica del manico e dopo aver salutato tutti, Claudia e Jacques compresi (a cui auguro tutte le fortune) decido di vivere l’avvicinamento nello “slargo” di fine vagone. Intervallati dai muri delle gallerie è possibile vedere scorci di spiaggia e mare, scogli e precipizi ricoperti dalla macchia e un mare immenso di un blu cobalto che non so descrivere. Pregusto la mia felice sorte e presto il treno si ferma. Qui il mio viaggio finisce perché come disse Stevenson :”For my part, i travel not to go anywhere, but to go. I travel for travel’s sake. The great affair is to move.” . Ma infondo una bella sosta me la merito…