Il sapore del te
Da parte mia restavo evasiva: “ma si, perché no, vediamo…”, pensando che, anche questa volta, se ne sarebbe dimenticato e lo avrei trascinato altrove.
Chissà perché il Giappone mi ha sempre lasciata perplessa, a me piacerebbe andare a Macchu Picchu, oppure in Messico, Cambogia, Egitto, toccare con mano quelle costruzioni tanto vecchie che sembrano custodire i segreti del mondo e delle sue origini.
Però avevo capito che questa volta non avrebbe mollato. Infatti regolare come un orologio incalza: “dove ti piacerebbe andare in Giappone?”, “sono andato in agenzia, ho trovato questi voli…”. Ero incastrata e sono caduta come un pera cotta.
Mi sono anche incaricata di andare a comprare una giuda, e non sapendo cosa prendere ho chiesto alla commessa, la quale indaga:” ma fate un viaggio organizzato o per conto vostro?” Dio mi scampi dal viaggio organizzato in Giappone! E con aria vissuta ribatto: ” no, no, ci muoviamo per conto nostro” ed allora la commessa me la indica, eccola lì, la Lonely Planet, tutta in inglese, la bibbia del viaggiatore vero, quello “fai da te”, che mi ha sempre affascinato, tant’ é che per un momento ho fin pensato di essere una di loro, sacco in spalla, due mutande, 1 maglietta e i jeans come seconda pelle. Un flash naturalmente, ingannare una commessa é stato facile, ma una volta a casa sola con me stessa e la giuda in mano il gioco si é fatto duro: come la leggi un guida se non sai dove andare, da dove cominciare, che pesci pigliare? Sarà una vacanza particolare questa , non solo per la meta e la completa mancanza di itinerario, ma anche perché con noi viene Massimo, il fratello di Raffaele, anche lui affascinato dal Giappone.
In due, si sa, é facile, ma in tre? Martedì 10.09.02 Partenza sul filo di lana, infatti per viaggiare con i mezzi pubblici in Giappone la mia Lonely Planet consiglia l’acquisto del Rail Pass tramite il Japan Travel Bureau (JTB) locale (Ginevra), cosa che noi abbiamo fatto! Ma quelli del JTB sbagliano indirizzo a due giorni dalla partenza e la raccomandata con i voucher per i pass torna a loro invece di arrivare a noi! Ma p… miseria per una volta che mi ero mossa per tempo… Ce l’abbiamo fatta lo stesso, per espresso super rapido, alla mattina del giorno della partenza eccomi recapitati i tre vaucher. Tutto a posto, li metto subito nello zainetto! Un abbraccio alla mamma, che lascio con l’ultima raccomandazione sulle labbra: “…ragazzi per favore, evitate gli alberghi troppo alti, e se proprio dovete, prendete una stanza al 1°piano…con tutti quei terremoti! fatemi il piacere! Ciao ragazzi, divertitevi! E chiamate!” Zurigo, prima tappa, e primo impatto con il popolo del sol Levante, che in quel giorno, triste vigilia dell’ anniversario dell’attacco alle torri di N.Y., sembra essere il solo interessato ad andare in Giappone, fatta eccezione dei tre arditi e altri quattro uomini d’affari distribuiti nella sala d’attesa.
È la prima volta che volo con la JAL, una compagnia aerea di tutto rispetto, le quasi 12h di volo passano veloci, grazie ad un aereo semi vuoto, alla TV personale, ai video giochi e alle hostess davvero gentili.
Tant’ é che al momento di scegliere tra il menù “Western” e quello “Japanese”, tutti e tre ci lanciamo in un convinto e entusiasta “Japanese of course!”. Siamo aperti e fiduciosi, soprattutto Massimo che osa addirittura assaggiare e finire il dolce, pasta di castagne purissima, che scopriremo essere il leït motiv dei dolci made in Japan.
Arriviamo che é già la mattina del giorno dopo. C’è il sole in Giappone, e mentre lo guardo avvicinarsi dall’alto dell’aereo mi sembra incredibile essere lì, dopo averlo fuggito così a lungo, a volte pensando persino non esistesse per davvero. Invece eccolo, sembra un po’ la pianura padana, con le risaie, uno strato di smog giallognolo e qualche boschetto.
Mi rincuora scoprire che la geografia mi é famigliare, ma un po’ mi scoccia, tutto ‘sto viaggio per la pianura Padana!? Non ci sono dubbi, siamo in Giappone; appena usciti dal braccio meccanico che ci immette nell’aeroporto ci scontriamo con i primi inchini reciproci fra due amici che non sapevano di essere sullo stesso aereo e ora si salutano, crediamo, molto calorosamente! Ci aspettavamo tutti e tre organizzazione, efficienza, puntualità e pulizia; tutto quanto perfettamente confermato e riassunto nell’ aeroporto Narita.
Una monorotaia silenziosa e panoramica ci trasferisce dalla hall di sbarco al baggage claim e nel tragitto osservo e scopro i miei compagni di volo, che, come per magia diventano giapponesi veri, da osservare, capire e vivere, mentre noi diventiamo dei “gaijin”, tutti gli stranieri qui sono “gaijin”, così spiega anche la Lonely Planet.
Poi, valige alla mano, e sacco in spalla, dobbiamo assicurarci un tetto e un letto a Tokyo.
Le informazioni ricevute da amici e la guida assicurano che all’aeroporto c’è un Tourist Information Center, ovvero TIC, fondamentale organo di informazione e servizi in lingua inglese, idioma quasi sconosciuto da queste parti, che ci dovrebbe aiutare per riservare una camera d’albergo.
E` facile da trovare, al piano terreno degli arrivi internazionali, ma noi riusciamo a passarci davanti senza vederlo. Dietro front dopo aver chiesto la prima delle tante indicazioni che costelleranno il nostro viaggio.
La signorina parla inglese? Sì la lingua che usa per farsi capire all’inglese somiglia, e con sguardi, gesti e disegni, ci intendiamo.
Ci chiede in che zona vogliamo stare. Ma in centro naturalmente! Lei insiste: in che zona ? E ci presenta quella che diventerà la nostra cartina di Tokyo, con l’indicazione di tutte le zone: Ueno, Ginza, Shinjuku, Asakusa, Roppongi ecc.
Lentamente affiorano alla memoria particolarità e caratteristiche delle varie zone, leggiucchiate prima di partire: Ueno, la zona dei musei: che pizza; Roppongi, il cuore della vita notturna: troppo presto per affrontarla.
Vorremo qualcosa di più moderato, come Ginza, ci sono tanti alberghi, ristoranti, é una zona centrale e commerciale, vicino alla Tokyo Station.
Vada per Ginza: “per favore, due camere , una singola e una doppia nella zona di Ginza.”. Ci risponde un veloce correre sulla tastiere del computer e poi: “no, a Ginza non ci sono camele disponibili”. Occhiataccia di Raffaele: “te l’avevo detto! Avremmo dovuto prenotare almeno la prima notte!”.
Non disperiamo, mi ricordo di aver letto di Shinjuku, paesaggio ispiratore di Ridley Scott per il bellissimo film “Blade Runner”, vicino c’è la zona hard della città, ma con due uomini al fianco che problemi ci sono? Inoltre c’é anche una stazione con treni che la collegano direttamente all’aeroporto, e pare sia la più trafficata al mondo: vi transitano quasi due milioni di persone al giorno, ma quanti sono due milioni di persone? “Per favore, può vedere se nella zona di Shinjuku c’é disponibilità?”….Tastiera….”Sì, c’è posto al Washington hotel”.
La signorina del TIC non é simpatica e la camera é cara, ma non vogliamo rischiare di perdere l’occasione, accettiamo la proposta al Washington Hotel.
Dalla foto le camere sembrano piacevoli, spaziose e pulite, l’unico problema é che il Washingtonn Hotel é un grattacielo: come lo dico alla mamma? Sistemato l’hotel, scendiamo al piano inferiore, dove partono i treni per la città. Visto che vogliamo usare il nostro Japan Rail Pass solo quando lasceremo Tokyo, dobbiamo fare il biglietto.
Ci penso io, dov’è il problema, si fa segno tre con la mano, si dice Tickets, parola internazionale, e poi si dice Tokyo…più chiaro di così! E invece no: bisogna specificare Shinjuku, visto che a Tokyo ci sono decine di stazioni. Capire da che binario parte, a che ora, che numero di carrozza… Ma come faccio: il tabellone é scritto in giapponese….No, un momento, cambia caratteri…lo scrivono anche con il nostro alfabeto, evviva, l’ho visto c’è un treno tra pochissimi minuti, diretto proprio a Shinjuku, con orario e binario specificato. E vai così! Il viaggio fino alla stazione di Shinjuku dura poco più di un’ora. Quando usciamo alla luce del sole, la follia di luci, schermi pubblicitari, insegne luminose giganti, il formicolare umano che attraversa strade, percorre marciapiedi, esce dalle stazioni del metrò, entra nei negozi, popola la città é già di per sé uno spettacolo! All’angolo c’è chi vende camice, dall’altra parte della strada un esercito di pendolari aspetta il verde per invadere la carreggiata e inghiottirci, dietro di noi, la stazione sembra una bocca che vomita persone in continuazione…eccoli qui i due milioni di persone.
Che fauna! Ce n’è per tutti i gusti, mori, rossi, biondi, ricci, alti e bassi, con un look davvero eterogeneo…io non sono un’esteta dell’abbigliamento, ma qui c’è da far discutere anche il più convinto anticonformista.
Tra scarpe con tacchi da equilibrista su calzette al polpaccio da brivido, e minigonne svolazzanti abbinate a stivali pelosi, non ho abbastanza mani da mettere nei capelli.
Loro se fregano, e passeggiano a braccetto con il fidanzato in giacca e cravatta blu, una vera e propria divisa per l’impiegato tipo.
Ci orientiamo abbastanza in fretta, l’albergo dovrebbe essere lungo questo stradone, che credo si chiami Koshu Kaido, nella zona dei grattacieli amministrativi, dalla parte opposta a Kabuki-cho, il quartierino allegro.
Ci incamminiamo, fa un caldo terribile, é mezzogiorno passato, e raggiungiamo il Washington Hotel, dove di western hanno solo le stanze, perché i volenterosi receptionists fanno del loro meglio ma l’inglese non lo masticano! Poco male, sono gentili e reverenziali, e alla fine dopo un intenso scambio di sguardi, sorrisi e inchini, ci consegnano le chiavi.
Le camere sono al 17°piano: non lo dico alla mamma.
La vista é magnifica e capisco di essere in una megalopoli: quanti grattacieli, quante case, quanta gente…sono contenta di essere arrivata, sento che ci sarà da divertirsi, e imparerò un mucchio di cose nuove, oltre e convincermi sempre di più che il mondo é davvero vasto e in Europa siamo a volte troppo conviti di essere al centro del mondo.
Dopo un doccia nella cabina WC prefabbricata della nostra camera, siamo già per strada, diretti di nuovo verso la stazione, che segna un po’ il confine tra il lusco e il brusco, nel senso che oltre la stazione, a Nord inizia Kabuki-cho, un quartiere fatto di rumori ancora più assordanti, luci ancora più abbaglianti, stradine strette dove si vende di tutto, e sale di Pachinko e videogames, che affascinano subito i miei due intellettuali accompagnatori.
Passino i videogiochi, ma il Pachinko proprio non lo capisco. Che cos’è il Pachinko? Sono delle slot machines, che funzionano con delle biglie di ferro, le quali devono cadere in un certo punto, più ne cadono in quel punto e più se ne vincono, chi più ne vince più bel regalo riceverà.
Almeno questo é quello che credo, perché l’unica cosa che mi é chiara, é che tutte queste biglie che cadono contemporaneamente in centinaia di slot machines in una grande, grandissima sala, piena di persone contornate di scatole piene di biglie, creano un rumore talmente assordante che quei poveri ragazzi che ci lavorano vanno in giro con i tappi nelle orecchie! Però ai Giapponesi piace tantissimo, tutte le postazioni sono occupate! In zona c’è anche un grande negozio di libri, con un piano dedicato a libri in lingua straniera, si chiama Kinokuniya, é una catena di librerie, e al 7°piano ci sono i libri per noi. Cerchiamo un atlante stradale di Tokyo, per orientarci nella ricerca degli edifici degli architetti citati sulla guida architettonica che abbiamo comprato prima di partire.
Anche qui il gentile commesso a cui ci rivolgiamo per chiedere consiglio, incespica e nega di parlare inglese. Fa tenerezza, lui lo parla l’inglese, ma si vergogna, crede di parlarlo troppo male…
Non insisto, lo ringrazio con un inchino e un arigatò e poi ci compriamo il Tokyo City Atlas.
Gli indirizzi in Giappone sono decisamente diversi rispetto al nostro standard, qui si ragiona per zone, numero di zona e infine nr. Di parcella, o edificio. Metodo logico ma per noi complicato! Si é fatto tardi, é l’ora dell’aperitivo, si userà anche a Tokyo? E lo becchiamo subito noi il caffè alla moda della zona, dove il caffè di Massimo passerà alla storia per essere assolutamente e doverosamente il migliore, ma anche il più caro al mondo: 800 yen! Ma lo sapete quanti sono 800 yen? Beh, sono troppi! Girovaghiamo per le strade di Shinjuko: ci sono grandi magazzini che occupano interi palazzi, karaoke che occupano decine di piani di una palazzo, i capsule hotel, i sushi bar, con i piattini di sushi che corrono su di un nastro trasportatore, e dove per mangiare hai a disposizione poco tempo, perché si deve lasciare il posto libero a chi aspetta fuori.
Le vetrine dei ristoranti sembrano musei di pop art, con piatti che riproducono perfettamente i menù offerti, delle vere opere d’arte, che stuzzicano sia la curiosità che l’appetito.
Noi ci infiliamo al 6°piano del Isetan Kaikan Bulding, un edificio di otto piani, di cui ogni piano ospita un ristorante diverso.
La geisha che ci accoglie con il classico inchino e una melodiosa frase di benvenuto ci accompagna al nostro tavolo e nella scelta dei piatti…menù tutto scritto in giapponese! Alé Ogni volta che arriva una portata non sappiamo mai a chi sia destinata, e quindi visto che i piatti arrivano uno alla volta, in barba alle regole del galateo delle nostre parti, mettiamo in mezzo e tutti proviamo di tutto.
Il Giappone sin’ ora é il paese dove mangiare é l’avventura più affascinante, divertente, delicata e raffinata che io abbia mai conosciuto.
Ogni portata é servita su di un piatto, scodella o cestello particolare, atti alla presentazione di un’unica e ben precisa pietanza: il tofu ci viene presentato in un cestello di bambù su di un letto di foglia di non so che pianta; la carne, tenerissima, su di un piatto rettangolare di ceramica blu; la zuppa di salmone é arrivata in una ciotola rossa, con un coperchio bombato, che é stato magistralmente sollevato dalla geisha davanti ai nostri occhi sempre più curiosi; il wasabi, radice fortissima, e altre radici gialle, rosa, e bianche, sono servite su piattini minuscoli, e vanno mischiate alla salsa di soia in un altro mini piatto; i tempura, verdura e pesce fritto, sono adagiati su di un piatto in vetro dalla forma di una zattera; infine il riso in un’ennesima scodella di ceramica.
Insomma é come se lo chef ti suggerisse di assaporare una pietanza alla volta, per non contaminare e mischiare i sapori delicati e particolari dei suoi piatti….Com’è diverso da noi, deve il riso é buono se é ai funghi, panna e pepe, e la polenta si mangia “uncia” con aglio e formaggio! Quello che mi é proprio piaciuto, é che nessuno, ma proprio mai nessuno ha pensato di fornirci anche solo di una forchetta! Bacchette di legno e via andare! La birra Giapponese é buona, ma alla fine non si scappa, arriva sempre, inesorabile come le tasse, la tazza di tè verde! Giovedì 12.09.02 Notte tranquilla e sveglia all’alba, considerando che siamo in vacanza, ore 9.00 colazione all’angolo e all’ombra dei grattacieli di Kenzo Tange, un’icona dell’architettura Giapponese del secolo scorso: il nuovo municipio e la Park Tower, mastodontici pilastroni, che detto fra noi non ci piacciono molto.
Ci dirigiamo nuovamente verso la stazione, da dove inforchiamo con coraggio e sicurezza le scale della subway, Toei Oedo Line, ma che succede, sulla mia Lonely non c’é, o meglio, c’é ma é più corta, adesso attraversa tutta la città! Incredibile, per fortuna abbiamo il Tokyo City Atlas che è aggiornato.
Oggi vogliamo vedere il nostro primo tempio, il Senso-ji, che si trova a Asakusa, quartiere a nord di Ueno, un tempo zona allegra dove teatri (Kabuki) e bordelli erano fiorenti, adesso é un quartiere tranquillo, ha ceduto la scena e lo sfavillio di luci a Shinjuku.
Appena usciti dalla metropolitana, oltre il ponte sul fiume Sumida Gawa, intravediamo la nostra seconda tappa, “La Flamme d’or”, edificio progettato nel 1989 dal designer Phillippe Stark, gli facciamo solo una foto, prima andiamo a cercare il tempio.
Se tutto va bene dobbiamo attraversare questa galleria di negozi e poi girare a destra.
La galleria é costellata anche qui di insegne al neon, sale di videogames e negozi di tutti i tipi, dove si vendono kimoni, zoccolette, vestiti, dolci e tè. Innumerevoli i ristoranti, riconoscibili dalle loro ricche vetrine e da pezze di stoffa rettangolari, lunghe mezzo metro e con lettere giapponesi stampate, appese sopra l’ingresso, che lasciano intravedere l’interno del locale, ma al contempo costituiscono una vera e propria barriera tra la strada e il privato del ristorante.
La prima porta del tempio é detta porta del tuono, protetta da due bestioni, che altri non sono che il dio del vento e il dio del tuono. Lungo il viale che conduce al tempio, e prima della seconda porta, una teoria di bancarelle vende incensi, tavolette votive, bigliettini della buona sorte, dolcetti e cibi strani per la gioia dei turisti, decisamente locali.
Questa strada fa già parte del tempio, che intravedo in fondo. Man mano che ci avviciniamo scorgo facce simili alle nostre…sì, sono turisti come noi, i primi che vedo, mica tanti per la verità, ma ci sono anche qui! Il tempio ha il classico colore rosso vivo dei templi buddisti, scenografici e maestosi nel loro armonioso insieme: la pagoda a cinque piani (terra, acqua, vento , aria , fuoco), la porta, la casetta dove brucia l’incenso. Tutto é disposto secondo un equilibrio naturale.
Facciamo anche un giretto nel parco, ma la fame incalza, e il ricordo di tutti i ristorantini delle gallerie commerciali, ci mette le ali ai piedi, e ci infiliamo oltre le pezze di stoffa di un tipico ristorante.
Ci invitano a salire una stretta scaletta, e poi si capisce: via le scarpe! Si mangia per terra, sotto al tavolo c’è un buco rettangolare grande quanto il tavolo, così che siamo seduti normalmente, perché il tavolo poggia sul pavimento, simpatico, e elimina il problema delle sedie! Primo piatto di sushi, buonissimo, con il tonno che sembra burro, gamberetti saporitissimi, e uova di salmone, dense e colorate di un arancione quasi irreale.
Anche questa volta la presentazione è delicata, come sottolinea Max, che si rivela essere un gastronomo esteta. Sono piatti da guardare e non toccare, anche perché diciamolo, mica tutto ha un aspetto di chiara e diretta provenienza. Per esempio, queste foglie secche, artificialmente quadrate, sono alghe secche, oppure pelle di pesce rinsecchita? Da come sono servite, sole, su di un piattino a parte, devono essere una delizia tutta da gustare. Il palato non mi aiuta, ma quando Max dichiara che a lui sembra proprio pelle di pesce, beh, lo ammetto, il mio palato si é come risvegliato da un brutto sogno! Non credo ne mangerò ancora.
Dopo questo primo pranzetto a sorpresa, ci incamminiamo sotto una canicola da mese di agosto, sul ponte Azuma-bashi.
Raggiungiamo la Flamme d’Or o Super Dry Hall, il surreale tronco di piramide rovesciata in granito nero, sormontato da un pennacchio dorato che sembra essersi posato in un improbabile equilibrio su di un tetto che non é un tetto, perché l’edificio é più simile a una scultura, e la curiosità di entrare aumenta, perché entrare in una scultura non può che essere una sorpresa! Lo zoccolo su cui posa l’insieme é una scalinata in vetrocemento che circonda l’edificio come fosse un tempio greco, difficile trovare l’ingresso, d’altronde una scultura mica ha le porte! Ma Stark é riuscito addirittura a trovare due ingressi, uno per il ristorante al piano terra, la cui atmosfera super chic ci ha intimiditi e abbiamo solo dato una sbirciatina e uno sul lato apposto.
Stanno facendo dei lavori sugli ascensori, la porta é aperta, e visto che nessuno ci ferma, entriamo di soppiatto, e visitiamo tutti i piani, e dobbiamo avere un’aria sicura di noi, visto che quelle poche persone incrociate, non hanno mostrato il minimo tentativo di scacciarci.
I due piani superiori sono occupati da un specie di discoteca, i piani inferiori sembrano essere tutti occupati da ristoranti diversi…non siamo riusciti a capire bene che cosa sia questa Super Dry Hall, quel che é certo é che non deve essere aperta al pubblico al pomeriggio. Decisamente un edificio misterioso, sia dall’esterno che dall’interno.
La scalinata di vetro, oltre a essere una interessante idea di zoccolo fragile, si presta anche per una piccola sosta riflessiva, prima di decidere verso quale meraviglia orientare i nostri passi.
Il fiume qui vicino e le sirene dei barconi ci suggeriscono la soluzione.
Tornando sui nostri passi, dall’altra parte del fiume, c’è la partenza per la piccola crociera sul Sumida-Gawa, con sbarco al Hamarikiu-teien, un parco, a partire dal quale la mia guida dice si può raggiungere la famosa zona di Ginza in 15 min.
Il battello ci offre comode panche, una bella brezza e una visione diversa di Tokyo, città stupefacente nei sui contrasti: da una parte vediamo enormi grattacieli amministrativi, fatti di vetro e metallo, leggeri e eleganti gioielli della nuova architettura Giapponese, dall’altra, una serie di inquietanti torri, simboli della densità di popolazione che contraddistingue questa città.
Conto 45 piani e circa 15 appartamenti per piano in una torre abitativa, e mi prende una sensazione di oppressione e disorientamento, perché non c’è una torre, ma almeno altre dieci come quella, in uno spazio troppo ristretto! Sbarchiamo, il biglietto, include l’accesso al parco. Non mi dispiace l’idea di una passeggiata all’ombra degli alberi e lontano dal traffico della città. Mentre cerchiamo di orientarci sulla mappa del parco, ci facciamo riconoscere dal primo italiano del viaggio, che ci avvicina con aria di meraviglia, e vuole sapere se in Italia va tutto bene, manca da due settimane, e ci anticipa che qui le notizie dal resto del mondo sono difficili da decifrare se non sai il giapponese.
Dopo neanche 5 minuti di passeggiata verso il laghetto della casa del tè ci ferma un altro ragazzo, che non crede ai suoi occhi neanche lui, é un ufficiale della marina italiana, imbarcato come ospite da 4 mesi su di una nave della marina Messicana, e sembra avere una gran nostalgia! Continuiamo la nostra passeggiata lungo le rive di un lago molto artificiale, ma contemporaneamente naturale; scopriamo che il popolo del sol levante é maestro nel creare e ricreare paesaggi naturali talmente perfetti da entrare nell’anima e riempirti di una pace tutta zen. É vero, non scherzo, si vede che questo laghetto non é frutto dell’erosione dell’acqua o della naturale morfologia del terreno, e che le enormi carpe che lo popolano sono tutte parte di un disegno e progetto umano, ma che importa, qui si respira e vede tutto ciò di cui inconsciamente si ha sempre avuto bisogno: un microcosmo accogliente, dove cosa puoi voler in più se non una buona tazza di tè? E così percorriamo il pontile che collega il giardino alla mini isola della casa del tè, dalle pareti fatte di pannelli di legno e carta di riso, e il pavimento di legno e stuoie di tatami, tappeti di ca. 5 cm di spessore, fatti di un intricato ma ordinato intreccio di paglia, forse di bambù, non so.
Via le scarpe e benvenuti nella casa delle fate, perché la delicata accoglienza che ci riservano le ragazze in abito tradizionale, é fiabesca. Con un gentile gesto della mano che abbraccia tutta la stanza ci indica dove sedere, naturalmente a terra.
L’arredamento é costituito dai pannelli in carta di riso, che a seconda della loro posizione permettono di inquadrare la stanza vicina, oppure un angolo del lago, o del parco.
Ci sono diversi visitatori nella casa del tè, inutile dire che nessuno ci assomiglia o ci capisce, ma non c’è granché da capire, devi solo sentire il gusto del matcha, il tè schiumoso che ci viene offerto, devi sentire il canto degli uccelli, devi sentire la calma del lago e la poesia della cerimonia del tè.
Siamo osservati dai nostri vicini, divertiti e compiaciuti credo, dalla nostra presenza, forse siamo una rara apparizione in questo quadro di perfetta pausa di riposo e conversazione che si sono concessi.
Rimesse le scarpe, e con le gambe intorpidite per la “posizione da tè” che abbiamo cercato di mantenere, cerchiamo l’uscita del parco, ci sono zone piene di panchine quadrate, immagino per permettere di sdraiarsi e contemplare il cielo tra un sonnellino e l’altro.
Raffaele ha scoperto che dall’uscita del parco non siamo lontani dalla torre Nakagin, un edificio del 1972, costituito da 140 cellule prefabbricate, appese ai due vani lift. Nell’idea dell’arch. Kisho Kurokawa le cellule dovevano ospitare uffici per imprese di massimo due persone, o come pied-à-terre per chi abita lontano dal centro, una sorta di precursore dei capsule hotel.
Il custode non parla inglese, ma intuisce quello che vogliamo e ci accompagna fuori, dove c’è una cellula che può essere visitata. Togliamo le scarpe, e io e Raffaele ci introduciamo in questo condensato di appartamento, di non più di 10 m2 di superficie, ma dove c’é un letto, una toilette completa di lavabo, wc e doccia-bagno, e una parete attrezzata e studiata al millimetro per ospitare radio, tv, forse anche una cucina, e armadi a volontà.
Dopo questa interessante e inaspettata visita, riprendiamo la metropolitana, vogliamo visitare il museo Tepia, dell’arch. Fumihiko Maki, sulla Hanzomon Line, stazione di Gaiemmae.
Saliamo lungo lo Stadium Dori e sulla nostra destra si staglia, oltre uno specchio di acqua il museo Tepia. Con la facciata scomposta da logge, avantetti e scalinate dalle geometrie complicate.
L’interno é altrettanto bello, essenziale e asettico dell’esterno, se paragono questo edificio a quanto visto ieri sera a Shinjuku, fatico a credere di essere nella stessa città. A scuola gli architetti contemporanei giapponesi sono sempre stati sinonimo di una elegante sobrietà e essenzialità, la poesia del cemento armato. Shinjuku, cuore di Tokyo, é l’inno al kitch e alla sfacciata ostentazione dei colori, in una girandola di luci e rumori pari forse solo a Las Vegas! Ma torniamo al Tepia, che ospita mostre permanenti e temporanee sulla tecnologia elettronica e meccanica avanzata e dove possiamo sederci sui comodi sedili delle auto del domani, osservando I progressi fatti dai giapponesi per la sicurezza sulle strade, o per la comodità e flessibilità delle nuove tecnologie che entreranno nelle nostre case in un futuro prossimo.
Dopo questo tuffo nel futuro, Raffaele ci propone una scampagnata in zona, a una stazione di distanza da Gaiemmae, sempre sulla Hanzomon Line, scendiamo a Omote-Sando, e una volta emersi dalle viscere della terra crediamo di trovarci nel cuore della Tokyo che spende.
Lungo la Omote-Sando Ave. Verso il Nezu Inst. Of Fine Arts, troviamo “La Collezione” edificio progettato dall’arch. Tadao Ando. É un complesso che ospita diversi negozi, parrucchieri, fitness center, tutto rigorosamente di lusso. Scopriamo che una costante degli edifici di Ando sarà la presenza di un negozio per matrimoni all’occidentale, dove si può trovare abito, torta, bomboniere, fiori, e secondo noi anche lo sposo ideale.
La zona é molto “trendy”, negozi alla moda, caffè alla moda, macchine alla moda intasate in un traffico impenetrabile e immobile, a piedi superiamo più volte la stessa Rolls Royce, Porche, Ferrari e anche una Lamborghini! Anche se si sta facendo buio, la gente invade i marciapiedi, e il caldo non diminuisce, la sete é forte, e ci ricaschiamo! “Bello questo caffè, guarda che bella corte, beviamoci un aperitivo.” Siamo duri a capire, e la carta che la gentilissima cameriera ci porge ci getta nello sconforto…non é possibile, tutte le bevande costano 1000 Yen! Anche la Coca Cola! E in più, a girare il coltello nella piaga ecco la cameriera che ci porta subito tre bei bicchieri di acqua gelata! “Saremmo già a posto così”, ci viene da dire, ma mica puoi deludere così le aspettative della cara ragazza.
La cenetta che segue il nostro aperitivo lascia perplesso e insoddisfatto solo Raffaele, siamo tornati in zona albergo, e all’ultimo piano di un edificio, c’è un bel posticino, rumoroso, ma caratteristico, con il solito raduno di scarpe all’entrata, i tavoli bassi con il buco sotto e i camerieri che camminano all’altezza del mio piatto.
Raffaele si é avventurato nell’ordinazione di “Kyoto Vegetables”, che altro non sono se non verdura da bollire direttamente al tavolo, in un’apposita zuppiera bollente, e di un dolce dal nome troppo complicato da ricordare, ovvero tagliatelle di gelatina con sciroppo di cioccolato, molto, ma molto difficili da inforcare con le bacchettine di legno in dotazione! Troppo stanchi per godere dalla night life di Shinjuku, torniamo verso il nostro albergo.
Sarà che siamo a pezzi, sarà che a Tokyo si dorme bene, fatto sta che il jet leg neanche sappiamo cos’è.
Venerdì 13.09.02 Prima tappa il TIC, perché domani vogliamo spostarci verso Kyoto, e visto che non abbiamo ancora imparato il giapponese, la mia guida ci suggerisce caldamente di rivolgersi ai TIC, per prenotazioni e informazioni utili.
Dopo la solita scarpinata dal Washington Hotel alla stazione di Shinjuku, prendiamo la Marunouchi line e scendiamo a Ginza, che alla stregua di Shinjuku, é l’inno alle luci e ai neon, ma più commerciale, qui ci sono veramente solo centri commerciali, oltre al ben noto Sony Bulding, che visitiamo subito.
C’è l’inimmaginabile per chi si vuole sentire proiettato nel futuro: schermi, PC, televisori ultrapiatti, impianti stereo da brivido, macchine fotografiche digitali di tutte le dimensioni, l’ultimo esemplare del cagnolino robot, e tutte le novità dell’universo videogiochi.
Quindi andiamo verso il Tokyo International Forum, a piedi naturalmente, dove secondo la mia guida si trova il TIC.
Il Forum é un enorme complesso pulifunzionale che ospita sale per congressi e teatri, si trova a ridosso della Tokyo Station ed é stato progettato dall’architetto Rafael Vinoly.
La grande hall vetrata a forma di foglia alta 8 piani é sicuramente l’immagine più emblematica e impressionante, oltre ad essere praticamente impossibile da fotografare.
Il TIC comunque non si trova più lì, ma nel vicino edificio Kotsu Kaikan, poco lontano. Questa volta la Lonely ha toppato! Poco male, una volta arrivati una gentile signora che parla molto bene inglese ci aiuta e consiglia su come trasformare il nostro vaucher in un rail pass, da quale stazione partire e quale treno Shinkansen prendere “tutti tlanne il Nozomi, mi laccomando, non salite sul Nozomi”…”mamma mia e che sarà mai ‘sto Nozomi, va bene staremo ben attenti!”.
Ci consiglia di riservare già questa sera i posti.
Poi riserviamo 2 camere in un Ryokan di Kyoto, finalmente vedrò uno di questi famosi alberghi, in tipico stile giapponese, di cui la mia guida fa un bell’elenco, ma quando li indico alla signora mi dice: “Attenzione, questi tutti con camele senza bagno, non potele fale bagno in camela, solo bagno pubblico”.
Altolà, il mio pudore si risveglia. “Sono bagni sepalati, uomini e donne”, assicura la signora, ma preferisco verificare che non ci sia altra possibilità: “Ci può indicare un’altro ryokan con bagni in camera?” E lei pronta: “Celtamente, ecco qui” e ci mostra le foto di un ryokan che mi pare accettabile e decisamente più buon mercato del Washington hotel! “Pultloppo la camela pel la plima notte non ha il bagno, ma la seconda e telza notte si libelano due camele full optionals”. E così eccoci accomodati anche per le prossime tre notti in quel di Kyoto, per il bagno di domani vedremo…….
Finito al TIC si é fatto tardi, lungo la strada Max viene rapito dall’immagine di splendidi e giganteschi dolci alle castagne, e si intestardisce al punto che dobbiamo proprio fargliene assaggiare uno. Non l’avessimo mai fatto! Non smette più di parlarne.
Così mentre pianifichiamo i nostri prossimi movimenti, Massimo si immerge nelle castagne, meringhe e crema pasticcera con tutto se stesso. Emerge felice e soddisfatto dal suo trip solo quando gli comunichiamo che pensiamo di andare a Shibuya.
Nel pieno della sua seconda giovinezza, quando ha letto che Shibuya é il quartiere dei ragazzini alla moda, ha deciso che doveva assolutamente farvi un giro! Mah! Riusciamo a rintracciare anche il museo Shoto, oggi chiuso, peccato, ha un’interessante facciata in pietra, chiusa verso la strada, ma é l’interno che volevo vedere, la corte interna, che porta luce ai piani interrati, purtroppo questo resta un’informazione letta sul libro, perché appena ho cercato di chiedere se per favore mi facevano fare un giro lo stesso, mi hanno scacciato in malo modo:” closed, closed, no visit!”.
Sono le cinque del pomeriggio, e dobbiamo ancora tornare all’albergo, prendere i voucher e i passaporti, tornare alla stazione di Shinjuku e trovare il JTB giusto per trasformare i voucher in Japan Rail Pass prima che chiuda.
Gambe in spalla e pedalare: sono a pezzi.
Riusciamo a fare tutto al pelo, infatti usciti noi, chiudono la serranda.
Ora possiamo affrontare la nostra terza cenetta. Il momento della cena é sempre un’incognita divertente e affascinante, sappiamo che ogni scelta sarà una sorpresa.
Questa sera ci affidiamo ai suggerimenti della guida di Massimo, che parla molto bene di un ristorante coreano, sempre a Shinjuku.
Si trova un po’ oltre la zona che abbiamo esplorato sin’ ora, ci dobbiamo inoltrare un po’ in Kabuki-cho, che, come da descrizione Lonely Planet, si rivela essere un quartierino bello arzillo, dove butta – dentro di tutti i colori abbordano Raffaele e Massimo, come se io nemmeno esistessi, proponendo il meglio della loro “merce”, ma dimmi te! Comunque non sono insistenti, deve esserci mercato in abbondanza. L’atmosfera sembra quasi giocosa, non perversa o viscida come capita di vedere dalle nostre parti in zone simili. Qui i cartelloni hard, spesso riproducono personaggi dei cartoni animati eccessivamente prosperosi, quasi ridicoli! E la fauna che ci circonda, butta – dentro a parte, é molto eterogenea, coppie di tutte le età, gruppi di ragazzi e ragazze in cerca di un ristorante o di un karaoke, insomma, si divertono tutti un sacco! Il ristorante non é facile da trovare, ma il primo ragazzo a cui chiediamo, lo conosce, che fortuna, e ci accompagna fino alla porta, mancava solo che ci offrisse la canonica tazza di tè! Quella ce la porta subito il cameriere, insieme a un menù incredibilmente bilingue.
La specialità é la carne da cucinare sulla griglia incorporata al tavolo, e così ci divertiamo a cucinare una carne sorprendentemente tenera e verdure varie, il tutto sotto l’occhio vigile e attento di una cameriera, che marca stretto il nostro Massimo alle prese con della pasta in brodo tutt’altro che facile da gestire! Visto che domani si parte e oggi é venerdì, ci concediamo una serata speciale, e da veri masochisti, ci infiliamo nuovamente nel caffè alla moda della prima sera, quello dove il caffè costa una cifra, ma dentro c’è tanta gente, e ciò depone a favore del locale, forse é solo il caffè che bisogna evitare?! Sabato 14.09.02 Il nostro treno parte verso le 10.30, arriveremo a Kyoto per le 13.00, caspita ma come facciamo a fare 525 Km in meno di 3 ore? Rail Pass in una mano, prenotazione posti nell’altra, ci accomodiamo sul treno più comodo e silenzioso che io abbia mai visto, lo Shinkansen Hikari, ma cosa sarà il famigerato Nozomi che non dobbiamo assolutamente prendere? Un siluro? Chi se ne importa, a me il nostro trenino piace un sacco, c’è tantissimo spazio per allungare le gambe, i sedili sono meglio di quelli degli aerei, e la velocità che raggiungiamo é tale che a un certo punto mi viene quasi da allacciare le cinture (che non ci sono).
Gli habitué sono attrezzati con pranzo al sacco, anzi, pranzo alla scatola. Sembra infatti che certi ristoranti o negozi di gastronomia in Giappone si siano specializzati nel confezionare piccoli capolavori da viaggio, in appositi vassoi suddivisi in piccole vaschette di sushi, sashimi, ramen e altro ancora.
Finalmente Kyoto! Qui deve essere tutto completamente diverso dalla Tokyo rumorosa, trafficata e cosmopolita che ci siamo lasciati alle spalle. Qui mi aspetto di trovare la poesia, e la delicatezza Giapponese, non solo nelle persone, ma anche nel paesaggio.
Intanto per cominciare ci sono solo 2 linee del metropolitana, e questo semplifica già le cose. C’è un fiume che taglia la città e questo é già un bel riferimento.
Non ci sono i grattacieli della megalopoli appena lasciata, qui la morfologia della città é omogenea, con edifici e case di pochi piani.
Troviamo l’albergo in un batter d’occhio, il signore alla reception é molto simpatico, continua a inchinarsi, e ci sorride quando gli confermiamo essere con il sig. “Laffaele”. Ci rispiega che per questa notte la camera é senza bagno, l’ofuro, ma al piano interrato c’é l’ofuro comune, donne e uomini separati naturalmente, infine ci mostra le stanze.
Prima quella di Massimo, poi la nostra, ma prima ancora di entrare, proprio mentre mi sto togliendo per l’ennesima volta le scarpe, sento Max:” Bello , ma dove ca… é il letto?” Cosa?, non c’è il lettofammi controllare: dov’è il letto? Niente scherzi, già non ho il bagno, ma almeno il letto …c’è un bel tavolino, basso, la teiera e l’immancabile tazza di tè, la TV, la cassaforte, I tatami sul pavimento, le finestre e i pannelli scorrevoli di carta di riso; insomma c’è tutto quello che volevo, ma manca il letto.
Il letto é arrotolato nell’armadio, ce lo mostra il sempre sorridente padrone di casa che deve aver intuito il nostro sgomento: “no wolly, no wolly”. Ma dovrò preparalo io o ci pensano loro? Boh! Vedremo.
Affamati cerchiamo la nostra avventura gastronomica giornaliera, e la troviamo sotto le gallerie commerciali lungo il fiume Kamo-gawa e tra la Sanjo-dori e la Shjo-dori, due stradoni che definiscono un po’il centro di Kyoto.
Pasta alla griglia! Il tavolo é costituito da una grossa piastra scaldata da sotto al tavolo da un fornello a gas, insomma ogni tavolo é una piccola cucina, sul quale vengono versati tre tipi di spaghetti di pasta, soba o ramen, condita con pezzi di carne, gamberetti, verdure, e altro ancora.
Il tutto sfrigola allegramente davanti a noi, e assaggiare dal mucchietto di Raffaele e Massimo é un invito a nozze. Buono e conviviale questo pranzetto, sulla guida scopro che si chiama Okonomiyki, e che noi abbiamo assaggiato tre tipi di yaki-soba, buono a sapersi Quind, iniziamo a passeggiare sotto queste arcate, o gallerie coperte. Penso che ci troviamo nella zona commerciale di Kyoto, lungo le strade principali che circondano questo quadrato di viuzze, ci sono altri negozi e centri commerciali, all’interno del quadrato si trovano negozietti di suvenirs, vestiti moderni e tradizionali, tavole calde, ristoranti, alimentari, pasticcerie e, immancabili e numerosissime, le sale da gioco e da Pachinko, qui forse ancora più grandi e rumorose che a Tokyo! Raffaele e Massimo sono attratti dal gioco che sembra andare per la maggiore da queste parti, il tamburello, come lo chiameremo. Ce ne sono di diversi tipi, il più complicato é una vera e propria batteria, con pedali, piatti e cinque tamburi, il più modesto e alla nostra portata é un semplice tamburo. In dotazione attaccate a una cordicella le due bacchettine e sullo schermo dei pallini che appaiono seguendo il ritmo di una improbabile musica pop, sfidano il giocatore a mantenere il ritmo battendo sui tamburi. Sento che prima o poi ci giocheranno! Da parte mia non sono al di sopra di tutte le tentazioni, ci sono quelle macchinette con la pinza da manovrare e con la quale acchiappare dei pupazzetti che mi attirano….
Comunque Kyoto ha troppe sale di Pachinko e altrettante pasticcerie. Ce n’è una che é uno spettacolo, con una macchina in vetrina che mostra la fabbricazione dei biscotti. Alla base tutti questi dolci consistono in un involucro che sembra pasta tipo pancake, che racchiude un ripieno di pasta di castagne, oppure pasta di mele, o cannella, o altri ingredienti la cui origine resta a noi sconosciuta, visto che le descrizioni sono sempre tutte in giapponese.
Oltre il ponte, incamminandoci verso il Yasaka Shrine (tempio), lungo la Shijo Dori, incontriamo edifici vecchi, a due tre piani, il cui piano terreno ospita negozi tipici di tè, dolci, e verdure. Ci sono dei negozi veramente bizzarri, intanto per cominciare le bancarelle sono fatte da vasche di pietra piene di ghiaccio, su cui si trovano piatti di alghe fresche o sottovuoto, tuberi di ignota specie, peperoncini, erbette, il tutto può essere acquistato dopo avere assaggiato il prodotto esposto su appositi piattini.
Raggiungiamo Yasaka Shrine, anche qui come al tempio visto a Tokyo la gente si reca a pregare la divinità a cui il tempio é dedicato.
Queste costruzioni si trovano quasi sempre all’interno di un giardino o di un cortile recintato, e si raggiungono percorrendo i viali e sentieri all’interno del giardino, spesso passando davanti ad altre costruzione più piccole, immagino templi votivi, dedicati a divinità minori, o pagode all’interno delle quali non so cosa si celi.
Il tempio o santuario é un edificio ad un solo piano, rialzato di qualche gradino rispetto al suolo. Sul davanti spesso la sala per i fedeli é aperta, non ci sono pareti o porte da attraversare e una volta su questa terrazza coperta, al di là di un recinto o una grata in ferro, si trovano gli oggetti di culto, la statua della divinità e un forte odore di incenso.
Non ho mai visto vetri alle pareti di questi templi. Un enorme tetto in paglia o in tegole bombate e scure protegge la struttura che é sempre in legno e spesso é pitturata di un rosso vivo, a volte addirittura arancione, forse la scelta del colore é legata alla religione del tempio, buddista o scintoista, mi piacerebbe saperne di più, ma al momento mi accontento di guardare e subire il fascino delle forme, dei colori, e della distribuzione armoniosa di questi edifici all’interno del loro spazio.
Appese allo spiovente del tetto, ci sono delle corde alla cui estremità c’è una campana.
Sembra che, per attirare l’attenzione della divinità alle proprie preghiere, si debba scuotere la corda e far suonare la campana, naturalmente non si suona la campana se prima non si getta un soldino nell’apposita urna, un po’ come facciamo noi quando accendiamo le candele in chiesa.
Nelle vicinanze del tempio ci sono casupole dove si vendono tavolette e bigliettini votivi, che poi bisogna affrancare su di un apposito telaio e pregare.
Sembra che i giapponesi preghino e chiedano fortuna o buona sorte un po’ per tutto, per un esame scolastico, per la salute, per essere fecondi, per avere una buona armonia di coppia. In fondo sono un po’ le stesse cose che chiediamo noi, chi non si é raccomandato al buon Dio prima di un esame? Io sì! Comunque anche oggi i nostri piedi gridano vendetta e rivendicano almeno un buon bagno, a già, il bagno.
Quando torniamo al ryokan sono talmente stanca che entrare in camera e trovare due vaporosi piumoni sopra a due morbidi materassi, futon, coincide con la massima felicità. Ci buttiamo sui nostri nuovi letti, e ci addormentiamo con la testa abbracciata a un cuscino che sembra pieno di riso, ed é comodissimo! La pennichella ci ha fatto bene, ora manca solo una doccia e poi siamo pronti per l’uscita serale.
I due ometti si accordano per andare a lavarsi nel bagno pubblico, e io…io li seguo, chi se ne importa, ho troppa voglia di rilassarmi, e sono pure un po’ curiosa di vedere come sono questi benedetti ofuro! Bello, non c’è nessuno, entro in una stanza calda e umida, dove una serie di docce all’altezza del ginocchio contornano una grande vasca quadrata. Come tradizione insegna, mi lavo accuratamente alle docce seduta su un basso sgabello e poi mi butto nella la vasca caldissima! Che bellezza, mi sa che domani ci torno a meno che il bagno in camera non sia altrettanto bello.
Puliti e profumati cerchiamo un degno ristoro, casualmente troviamo Pontocho-dori, che la mia guida descrive come uno dei centri della vita notturna di Kyoto.
È una stradina stretta, lungo i lati una serie di tipiche casette di legno su due piani nascondono ristoranti tipici uno più bello dell’altro. Attraverso le griglie di legno o le classiche tendine che sostituiscono le porte, intravediamo ambienti sobri e invitanti, non sappiamo deciderci, anche se siamo stanchi e affamati, la tiriamo per le lunghe, man mano che percorriamo la stradina, illuminata dalle lanterne e dagli immancabili neon, scopriamo angoli e locali uno più invitante dell’altro.
Arrivati all’altezza di un parco che divide a metà Pontocho dori, troviamo due personaggi che leggono la vita nelle mani di due curiosi clienti. Poi torniamo sui nostri passi e entriamo nel ristorante che ci é piaciuto di più, il nome non ce lo ricordiamo, ma dalla strada di intravedono 2 salette private, una già occupata da una coppia del posto che sta pasteggiando seduta sui tatami, cucinandosi non sappiamo quali delizie in un pentolino posto sul tavolo.
Entriamo e una vecchina in abiti tradizionali, forse una geisha, ci accoglie con l’immancabile sorriso, ci invita a togliere le scarpe, e ci introduce nella saletta ancora libera che avevamo visto da fuori.
Dopo averci servito il nostro tè quotidiano, ci porge il menù in Giapponese.
uno scambio di sguardi molto intensi tra di noi fa sì che la signora capisca, e sostituisca il menù con 4 foto, che ben raffigurano le specialità della casa. Il pentolino intravisto é un “must”, le verdure sono su tutte le foto uguali, il tofu e il riso pure, ma quello che cambia é la carne, proviamo due tipi di carne diversa, e ci prepariamo a gustare quello che deve essere un Sukiaky e un altro Okonomiyaki, ma questa volta a base di pezzetti di carne e verdure fresche! Man mano che la tavola si imbandisce, cresce la nostra curiosità e il mal di gambe! Perplessi, ma rincuorati, vediamo che la nostra geisha si accomoda a tavola con noi e inizia a cucinare, che ci voglia mostrare come si fa? Sì, con una maestria tutta giapponese, intingola nella salsa di soia le fette di carne, le verdure, e anche il tofu…siamo stregati, il tofu é lo scoglio maggiore, le mie bacchette lo distruggono sistematicamente, invece guarda lei come se lo gira e rigira, fino a mettermelo nel piatto! Sarò in grado di fare altrettanto fino alla bocca? La signora é davvero gentile, ma il galateo orientale é tutto al contrario rispetto al nostro, infatti mi serve sempre alla fine.
Cena deliziosa e delicata, siamo incantati.
Prima di tornare in albergo, ci buttiamo nella vita notturna di Kyoto. Massimo ha letto che alla sera lungo le due strade principali, i giovani rampanti sfoggiano look alla “Tony Manero” e macchine truccate e rumorosissime, intasando ancora di più il traffico! Tutto vero! Le macchine dei bulli locali sono delle monovolume, ma dimmi te, l’ha appena comprata mio fratello che ha messo su famiglia! Qui invece la monovolume fa tendenza tra i giovani! Poi Raffaele e Massimo danno spettacolo sfidandosi ai tamburelli, l’avevo detto io, e un gruppo di locali si fa quattro risate alle loro spalle! Mentre io cerco di capire cosa ci sia di così divertente nel farsi migliaia di foto adesive. Le ragazzine giapponesi ne vanno pazze, e fanno la fila fuori dai box per foto istantanee con sfondo dei Pokemon.
Domenica 15.09.02 Tempo marrano, oggi é tutto fosco, fa fresco e io sono stanchissima, anzi sono a pezzi, ma propongo lo stesso un po’ di storia della città, iniziando con la visita al castello Nijo (Nijo-jo), la prima residenza ufficiale dello Shogun Tokugawa Ieyasu.
Non siamo gli unici a voler visitare il castello, ci sono tanti turisti giapponesi, ma anche diverse comitive straniere e scolaresche americane, inglesi, o forse australiane.
Il castello é costituito in realtà da due edifici, detti Ninomaru Palace e Honmaru Palace, tutto l’insieme é recintato da un largo fossato e da una massiccia muraglia, l’ingresso costa 600 yen, accettabile, e prevede la visita del Ninomaru Palace, del giardino e eccezionalmente anche del Honmaru Palace, normalmente aperto solo per eventi speciali.
Varcata la prima muraglia, si sfila subito davanti alla casa delle 50 guardie, che controllavano l’ingresso e regolarizzavano i visitatori e i signori feudali che venivano a rendere omaggio allo Shogun.
Seguendo il sempre chiaro e obbligato percorso, passiamo anche il secondo cancello, e penetriamo nello spazio del Ninomaru Palace, il cui ingresso é nascosto da un sacco di gente intenta a togliere e metter le scarpe.
Lasciate le scarpe all’ingresso, seguiamo l’itinerario turistico lungo le sale del Ninomaru Palace. Non siamo in un castello come quelli che conosciamo in Europa, a parte il fossato e le mura difensive, il resto sembra più una splendida e enorme villa (3300 m2).
Tutto l’insieme si sviluppa su di un solo piano, rialzato da terra da uno zoccolo di tre gradini di altezza. Attorno un bellissimo giardino, con tanto di stagno e ponticelli.
L’interno é sobrio e organico, ogni zona é costituita da un padiglione a se, collegato agli altri da passerelle o da corridoi che corrono attorno ai padiglioni, tutti più o meno di pianta quadrata, e suddivisi al loro interno dal modulo del tatami e dalle pareti scorrevoli, a volte di carta di riso, a volte decorate da dipinti.
Mi sembra di respirare aria del 2002, invece questo edificio é stato progettato e costruito nel 1603. Non ci sono mobili, solo i tatami sul pavimento e dipinti alle pareti, sulle porte scorrevoli e sul soffitto, finemente decorato e intarsiato. Potrebbe sembrare povero e disadorno per esser il Palazzo dello Shogun, non un tavolo, una sedia, o un armadio. Vorrei chiedere, sapere di più, macché qui é tutto scritto in giapponese, e né la mia guida né quella di Massimo alludono a questo dettaglio. Forse questo è lo stile di vita giapponese, un’architettura semplice ed elegante, funzionale ma ricercata, gli unici decori sono i dipinti del Michelangelo giapponese di turno, tale Kano Tan’yu, alle pareti.
Mi piacciono questi spazi, lievi differenze di livello in un’unica sala, definiscono la zona dove sedeva lo Shogun e quella dove si prostravano i signori feudali che venivano a trovarlo. Una differenza minima, ma sostanziale, amplificata dalla dimensione della grande sala.
Il pavimento in legno dei corridoi nasconde un meccanismo tale da produrre uno scricchiolio costante al passaggio delle persone, insomma, lo Shogun Tokugawa non aveva la coscienza molto pulita, e per non farsi mai sorprendere in casa propria, aveva ordinato la costruzione di questo marchingegno affinché nessuno potesse fargli una sorpresina alle spalle! Ritrovate le nostre scarpe, facciamo un giro del giardino, sempre seguendo l’itinerario obbligato: i giapponesi non lasciano tanta libertà di movimento al turista intraprendente.
Attraversiamo il cerchio di mura che cingono il Honmaru Palace, e sacchetto alla mano per custodirvi le nostre scarpe, entriamo anche in questa meraviglia architettonica.
Non ho capito bene quale sia la differenza tra i due palazzi e nemmeno i depliands in inglese ci aiutano, entrambe sono state residenze dello Shogun, costruite nello stesso periodo, la costruzione é simile, a parte una zona del palazzo che si erge su tre livelli.
Peccato che i corridoi di collegamento qui siano rivestiti in moquette, preferivo camminare sul legno scricchiolante del primo palazzo! La visita é lunga e quando emergiamo da questo tuffo nel passato ci ritroviamo nel contenuto caos di una domenica mattina a Kyoto.
Torniamo in zona centrale per un pranzo a base di sushi in un ristorante a bar tipico, dove tanto per cambiare o parli giapponese o indichi dalla vetrina cosa vuoi assaggiare.
Questo pranzo ha del coraggioso per davvero, ci piace il pesce crudo, il riso, il wasabi e la soia, ma oggi diversi pesci non sappiamo proprio a che famiglia appartengano, e una volta in bocca…beh, diciamo che potevamo evitare. Ma il cuoco davanti a noi ci scruta, e ci prepara una specie di fisarmonica con una zucchina in segno di simpatia. Come si fa a non finire tutto dopo un gesto tanto amichevole? La pausa pranzo mi ha rifocillata, e azzardo un itinerario proposto dalla Lonely Planet: bus nr.206 fino alla fermata Gojo-zaka, scarpinata verso il Tempio Kiyomizu.Dera, e poi passeggiata lungo stradine strette e affollate di pellegrini e turisti, fino a ritornare al tempio visto ieri sera.
Il tempio Kiyomizu.Dera, molto suggestivo, immerso in un bosco fitto, é costruito sulla pendenza della collina che cinge Kyoto, e poggia su centinaia di pilastri in legno massiccio. La guida avverte che l’atmosfera può essere un po’ commerciale e molto turistica, ma il complesso é talmente vasto e che quasi non ci facciamo caso.
Dal bosco, oltre una valletta, spuntano i due piani di una pagoda, il legno é scuro, ma gli intarsi e la forma armoniosa e svolazzante dei tetti donano alla costruzione un effetto vellutato. Anche gli altri edifici sono tutti scuri, da lontano sembrano enormi bestioni addormentati, avvicinandoti scopri la forma del tetto, una vela elegante posta sopra colonne intarsiate, e il profumo degli incensi é un alito caldo e soporifero.
Poi scendiamo, sembra di essere a Mont Saint Michel, le stradine medioevali, costellate di botteghe dei souvenirs….
Lunedì 16.09 Mattina presto, prendiamo il treno, ancora il bellissimo Hikari, e in un battibaleno, passando da Osaka e Kobe siamo a Himeji, cittadina che, se non fosse per Tadao Ando, manco avremmo preso in considerazione.
Però il caso vuole che proprio qui l’arch Ando abbia costruito il museo dei bambini, l’osservatorio e il museo della letteratura, in più a sorpresa scopriamo che c’é pure un castello.
Non credo siano molto abituati ai turisti occidentali, però grazie a una locandina con il prospetto del museo ci facciamo capire dal controllore dei biglietti del bus, che é splendido con il suo sorriso sdentato e ci apre le porte della comunicazione con la bigliettaia, scrivendo destinazione, nr. Del bus e orario su di un fortunoso pezzo di carta.
Che spettacolo, siamo nelle mani di questa gente, non sappiamo nemmeno se ha scritto per davvero Museo dei bambini sul questo scontrino sgualcito, però non c’è scelta, lui ci segue con lo sguardo, fino a che non ci decidiamo ad acquistare il biglietto, e poi ci indica le panchine dove aspettare il bus.
Preciso e puntuale, il bus parte alle ore 12.00, e sotto lo sguardo incuriosito di un esercito di ragazzini dai 3 anni ai 10, ci dirigiamo felici verso la tanto consultata (sui libri) opera di Ando.
L’aria oggi é particolarmente afosa, anzi proprio non si respira, e temo per il brutto effetto che faremo sulle nostre foto ricordo: tre pellegrini, sudati e pallidi, ma con lo sguardo estasiato! Naturalmente scendiamo alla fermata sbagliata, il guidatore del bus ha capito male, e pensa che prima vogliamo visitare l’osservatorio, pure di Ando, e ferma apposta per noi il bus! Vabbeh, tanto vale iniziare da qui, speriamo il museo non sia troppo lontano, il prossimo bus passe tra 1 ora e con questo caldo non abbiamo molta autonomia.
Ma porca m…l’osservatorio é tutto impacchettato stanno facendo dei lavori di risanamento alla facciata quindi addio foto.
Dentro ci sono tantissimi bimbi, e in più con il cielo giallo di nubi di afa non si vedrà può vedere neanche una stella…meglio seguire il sentiero che ci indica il simpatico e anglofono direttore del centro “five mintues walk, no wolly”.
Attraversiamo una foresta di bambù, molto bella, ci arrampichiamo per qualche metro sulla collina e poi eccoci arrivati: urla di bambini e macchine cariche di pargoli al fresco dell’aria condizionata, ci danno il benvenuto.
Il volume del museo visto da qui é un imponente e compatto blocco di cemento, rotto nel mezzo da una galleria o alto portico, che ne segnala l’ingresso.
Il volume si trova oltre una scalinata di specchi l’acqua, che culmina in cima alla collina. Bella l’idea di mantenere il visitatore a distanza, e obbligarlo a una passeggiata in salita per godere in tutta calma del paesaggio.
Raffaele mi guarda preoccupato, mi chiede se sto bene, perché il mio viso é paonazzo e lucido, tutto a chiazze,…Insomma poco bello nell’insieme. Tutto bene, fa solo un po’ caldo, vorrei tanto farmi una passeggiata a piedi nudi nella scalinata di acqua qui davanti. Il buon gusto me lo impedisce! Giriamo le spalle al museo vero e proprio, il piatto forte lo lasciamo alla fine, e percorriamo la passeggiata lungo la costa della montagna, sulla nostra destra un lungo muro in cemento armato liscio e omogeneo sembra la lama di una grossa mannaia che ha tagliato una fetta di montagna.
Un quadrato di colonne effimere, nel senso che non sostengono un bel niente, fa da snodo al percorso, e permette al muro di cambiare la sua direzione. In fondo a questo percorso troviamo un laboratorio per i lavoretti manuali, dove anche qui bambini e bambine laboriosi si cimentano nella creazione di cornici, burattini, e via dicendo. Simpatico! Torniamo sui nostri passi, e penetriamo nel museo vero e proprio: un labirinto di scale e corridoi all’aperto, collega le sale, la biblioteca, il teatro e le aule dove i bambini trovano tutto quello che possono desiderare per sbizzarrire la loro fantasia.
La mia faccia riprende pian piano il suo colore pallido standard, proprio quando ci tocca riprendere il bus per tornare in città, bella questa parentesi architettonica.
Ora però vogliamo tuffarci un po’ nel Giappone d’altri tempi, il castello che ho intravisto in fondo al viale della stazione sembra il casello delle fiabe.
Camminare ormai é un dettaglio per noi, e copriamo il chilometro lanciato che separa la stazione dal giardino del castello in men che non si dica.
I castello di Himeji (Himeji-jo) é molto diverso da quello visto ieri a Kyoto, innanzi tutto perché é più vecchio, qui si parla di 1500, e poi sembra una vera e propria fortezza, di 5 piani.
Prima di tutto bisogna varcare le varie cinte di difesa esterne su 4 livelli, quindi, tolte le scarpe che ci portiamo appresso nel solito sacchetto di plastica in dotazione, indossiamo delle ciabattine da suicidio (scivolosissime)e entriamo nel castello. Anche qui delle frecce rosse sul pavimento non lasciano spazio all’improvvisazione, la visita si fa come dicono loro, e le sale diventano sempre più piccole man mano che saliamo le strette e ripide scale di legno tra un piano e l’altro.
Ogni piano ospita una grande sala, e attorno ad essa corre il solito corridoio. Anche qui la sala é scomponibile in stanze più piccole grazie al sistema di pannelli scorrevoli in legno massiccio. Ci sono vetrine con armature da samurai, armi e fucili. Chi si barricava qui dentro lo faceva per difendersi da attacchi violenti e ben organizzati. Ci sono le feritoie a pavimento per gettare olio bollente sui nemici che incalzavano dal basso e porte talmente piccole e spesse che devo abbassare la testa per varcarle.
Quel che più ci piace é che tutta la struttura é in legno, e per rendere il castello resistente al fuoco, é stato rivestito di un intonaco di calce e terra, dipinta di bianco, che dona a questa fortezza, l’aria di una maestosa torta di panna.
Dall’alto del castello, c’è una bella vista sulla città e scorgiamo pure il museo della letteratura sempre dell’arch. Ando.
Scendiamo e prendiamo il bus che fa il giro del parco del castello, e passa vicino al nostro ultimo obbiettivo.
Purtroppo é troppo tardi il museo é chiuso, possiamo solo girovagare tra le geometrie dei muri di cemento e gli specchi d’acqua caratteristici dell’architettura di Tadao Ando.
La fortuna del turista fai da te ci assiste, e riusciamo a saltare sul bus che termina l’ultimo giro del parco, scendiamo alla stazione, e ci accomodiamo sul confortevole e puntualissimo Shinkansen che ci riporta a Kyoto.
Martedì 17.09.02 Ci sveglia una pioggia fitta e fastidiosa. Il nostro ryokan é ben organizzato, e mentre stiamo per uscire sotto l’acqua, ci forniscono di tre begli ombrelli.
Dobbiamo andare di nuovo al TIC, per decidere come proseguire il viaggio.
Ci sono un mucchio di turisti qui, alcuni addirittura parlano giapponese, li guardo con ammirazione e anche un po’ di invidia! Per fortuna la signora addetta alla informazioni è contenta di parlare inglese, e ci sfodera pure tre parole in italiano:” vicino alla stazione”, e brava ! Non sappiamo bene che pesci pigliare, vorremmo andare al sud, nel Kyushu, dove ci sono le fonti termali più famose e suggestive, ma vorremmo anche visitare lo Shikoku, dove c’è un famoso percorso di 88 templi…vorremmo visitare un po’ l’entroterra, magari che sia pure zona termale, dove rilassarci e scoprire il fascino degli Onsen (bagni termali). Non abbiamo le idee molto chiare e ogni volta che buttiamo lì una proposta lei parte in quarta per trovare il percorso migliore per raggiungere il posto che le indichiamo, tra cui ci sono pure le trovate pellegrine…come la visita degli 88 Templi, che a giudicare dalla sua faccia e dall’inclinazione della testa e della voce, deduciamo essere una gita un po’ impegnativa e fuori dal comune.
Alla fine decidiamo, e lei ci aiuta a prenotare una camera a Koyasan, dove si dorme nei monasteri buddisti, e una notte a Nikko, a nord di Tokyo, dove ci sono Onsen, natura e meravigliosi templi, quindi torneremo a Tokyo.
Liberati dal pensiero di come proseguire il viaggio e dove dormire per le prossime due notti, prendiamo il bus per andare fuori Kyoto, dove si trova lo splendido tempio d’oro Kinkaku-ji, e l’altrettanto famoso giardino zen del Ryoan-ji.
Non vediamo turisti simili a noi sul bus e questo rende difficile, vedi impossibile scoprire quale sia la fermata giusta, la mia Lonely dice di scendere alla fermata Kinkaku-ji, ma malgrado il ligio conducente comunichi sempre al microfono il nome della prossima fermata, non riusciamo a capire che caspita stia dicendo…un sant’ uomo capisce il nostro dramma, e ci chiede in un inglese famigliare dove vogliamo andare, ci indicherà lui la fermata! Le nostre preoccupazioni erano naturalmente infondate, alla fermata ci sono altri turisti che aspettano, e il nome della fermata é scritta pure nel nostro alfabeto.
Percorriamo un lungo viale dove due operai, di cui uno occidentale, pettinano con cura i sassi del selciato, così che noi si cerca di camminare con la massima leggerezza per rispetto del loro lavoro, nobile e eterno.
Superata la tappa del biglietto, si apre ai nostri occhi uno scorcio da cartolina: oltre lo stagno chiazzato di fiori di loto, un gioiello d’oro e legno si specchia negli scampoli d’acqua verde del laghetto, la cui forma e dimensione ancora una volta sembra rispecchiare l’immaginario universale del lago delle fiabe. Ma come fanno?! Normalmente sono curiosa da morire di entrare in ogni edificio, o almeno di sbirciare da una fessura per vedere l’interno di qualsiasi casa…ma qui é strano, é talmente piacevole gustarsi il quadro perfetto dall’esterno, che non mi ci avvicino neppure alla costruzione dorata, mi pare forse impossibile che dentro si possa celare qualcosa di più bello di quanto mi si offra da questo punto di vista…sbaglierò? E chi lo sa, tanto c’è una bella staccionata di bambù che esplicita il divieto ad avvicinarsi! Bello pure il parco, rilassante, anche se pioviggina e il sole non può disegnare le ombre sui muschi, e le foglie non possono giocare con la luce.
Abbandonato il parco del tempio, ci incamminiamo verso il tempio del giardino zen, 20 minuti a piedi ci avevano detto, tsé, dopo i primi 10 minuti…pausa pranzo in un simpatico ristorante con specialità di Ramen e Soba (spaghettini), seduti per terra, e con il tè in mano.
Dopo altri venti minuti, arriviamo al Ryoan-ji, dove, immerso in un grande parco-giardino lussureggiante e ombroso scopriamo l’architettura del tempio, che anche in questo caso sembra una bellissima villa, che, bassa e sinuosa, snoda i sui padiglioni e le sue stanze tra le piante secolari di questo bosco.
Ed é proprio uscendo da un padiglione, lungo la passerella corridoio che accompagna nelle stanze attigue, che si trova il famoso e suggestivo giardino zen “secco”, ovvero un paesaggio in miniatura fatto solo di 15 grosse pietre posate su cucuzzoli si erbetta che sembrano emergere dal mare di sassolini bianchi pettinati da abili rastrelli, in un area di trenta per dieci metri. Un rettangolo cosmico? Boh c’é tanta gente seduta sui gradini del portico-passerella, ferma a fissare questo paesaggio di cui non si conosce il creatore né la data esatta di creazione, né il suo significato Sarà suggestione sarà quel che vuoi, ma mi sono seduta pure io a contemplare l’insieme…ognuno vi può scoprire il significato più consono… Domani lasceremo Kyoto e mi dispiace, perché ci sono ancora un mucchio di cose che mi sono segnata sulla guida e che vorrei visitare…ma abbiamo solo 14 giorni e noi abbiamo già superato la fatidica data che segna la metà delle vacanze, e bisogna operare delle scelte… 18.09.02 Lasciamo Kyoto per raggiungere i monasteri di Koyasan.
Non so cosa, oltre alla curiosità, ci abbia spinto a questa avventura, in fondo non siamo buddisti, né scintoisti, né amanti della natura o della montagna in particolare…quel che é certo é che desideravamo vedere da vicino e conoscere un po’ meglio la vita e la filosofia dei monaci, la religione buddista esercita comunque un fascino tutto particolare su di noi.
Sarà questo spirito gentile, e forte al contempo, che abbiamo conosciuto attraverso i libri, i film e i documentari, ma anche attraverso la storia e la figura del Dalai Lama, saranno tutte queste cose insieme, fatto sta che questi monaci ci incuriosiscono.
Raggiungere Koyasan é abbastanza laborioso, a Osaka dobbiamo lasciare il comodo Shiknansen e cercare la stazione Namba, da dove parte il trenino per Gokurakubashi, che già per il nome meritiamo un premio per averlo trovato, da lì, prendiamo una funicolare, mooolto in pendenza e quindi proseguiamo con un bus fino al paese di Koyasan, Siamo in montagna, e l’aria é frizzante, anzi fa freddo! Troviamo in nostro shukubo, o monastero dove possono alloggiare i turisti, in fondo al paese! Via le scarpe e facciamo il nostro ingresso.
Non ci sono molti monaci in questo monastero, l’unico che incontriamo per fortuna parla due parole di inglese e sa del nostro arrivo. Cortesemente ma senza troppa convinzione ci mostra la stanza. Lo seguiamo in un dedalo di corridoi, che costeggiano la grande sala del refettorio, poi la sala del tempio, la riconoscerei anche a occhi chiusi, il profumo di incensi che ne esce invade le mie narici di prepotenza, poi un passerella in salita, poi a destra, a sinistra, uno scorcio sul giardino, e infine eccoci di fronte alla porticina della nostra camera, che é grande, composta di un atrio, un soggiorno e una stanza.
Tutti i locali si aprono su di un delizioso giardino giapponese, con il solito stagno e il ponte rosso.
I monaci non badano molto alla forma, le stanze sono pulite, ma non troppo, e il bagno emana un lezzo poco spirituale…ma lo scoglio maggiore é il freddo e l’umidità dei materassi e dei piumoni.
Scopriamo che l’unica fonte di calore della suite é il vaso del WC…eh sì il sacro sedere dei monaci si appoggia su di un’asse riscaldata! Il monaco ci serve il tè, e ci invita a completare il guest book…Pochi i turisti occidentali, molto pochi a dire il vero, scopriamo che ci sono venuti anche due svizzeri di Lucerna qui! Molti irlandesi, e tedeschi…strano melange, chissà che vorrà dire? Beh ora ho scritto anche i nostri nomi, ai posteri scoprire perché siamo venuti fin quassù Il monaco aggiunge poche e calibrate parole, invitandoci alla puntualità per la cena, alle 17.30 e per la colazione alle 6.30…….Chi ha avuto l’idea di dormire dai monaci? Non é vero, siamo contenti e divertiti, chissà cosa ci propina lo chef: sappiamo che qui tutti sono vegetariani, e la mia guida decanta la cucina vegetariana giapponese.
Mai visitati tanti templi in mezza giornata…iniziamo col fare una passeggiata nel Cimitero Buddista Okuno-in, immerso in una foresta di pini e cedri altissimi, lungo un sentiero lastricato e costeggiato da alti e vecchi cipressi. Per fortuna c’é un bel sole, ed é mezzogiorno invece che mezzanotte, l’atmosfera potrebbe essere decisamente diversa! centinaia di tombe tappezzano il sottobosco, come funghi minerali, scolpiti con ologrammi antichissimi, a noi sempre e ancora incomprensibili.
La pigrizia e il fresco della foresta ci fanno tornare sui nostri passi, senza poter vedere il Toro-do (sala delle lanterne) che custodisce centinaia di candele, di cui due, si crede, stiano bruciando ininterrottamente da più di 900 anni. La mia guida assicura essere l’edificio principe del cimitero, ove ogni buddista desidera possa essere conservato anche solo uno dei propri capelli, per assicurarsi l’attenzione del Buddah futuro al suo ritorno sulla terra.
Dall’altra parte della cittadina di Koyasan c’è il centro dei templi maggiori. Percorriamo l’unica strada principale e passiamo davanti a numerosi templi e shukubo, fino a raggiungere il tempio Kongobu-ji, che ospita il più grande giardino di pietra del Giappone, molto suggestivo, ma l’impatto e decisamente inferiore rispetto al suo fratello di Kyoto, piccolo ma concentrato..
Poco distante c’è un altro recinto di templi, sempre immersi nel bosco e nella calma…ma il tempo vola sono già le 17.00 e i monaci mangiano tra poco! Beh dopo le cosmopolite Tokyo e Kyoto questo tuffo nella natura e nella vita monacale un po’ ci scombussola, ma siamo in ballo e balliamo fino al nostro shukubo, che naturalmente é rimasto dall’altra parte del villaggio.
Ci accolgono molti più monaci di prima, la fame fa quaranta a quest’ora tra i monaci, e infatti c’è trambusto e movimento. Ci individuano subito, capirai! E un monaco paffuto e pelato ci accompagna in una saletta attigua alla sala del refettorio, ma chiusa dalle pareti scorrevoli. Che delusione, e noi che speravamo di condividere la cena con loro.
Ci sono già due tavolini bassi a testa sul pavimento, imbanditi da piattini e ciotole coperchiate, che nascondono pietanze misteriose e profumate. La composizione è come al solito molto elegante e sobria, ci sdraiamo letteralmente davanti ai nostri tavolini, con la curiosità e il sollievo dipinti sul volto…tutto sommato se fossimo stati insieme ai monaci avremmo dovuto mantenere una posizione più giapponese e decisamente più scomoda.
Le scodelle sono l’inno all’indecifrabile, a parte il riso e il tè, il resto si lascia scoprire solo attraverso le nostre espressioni.
Io provo il tempura di verdure, che mi pare il più riconoscibile, non male… Massimo si butta su quella che verrà battezzata come “la spugna”…beh c’é di meglio.
Raffaele assaggia quello che chiamiamo affettuosamente “il pacchettino”, una foglia di non si sa cosa, avvolta con tanto di fiocchetto attorno a qualcosa di veramente difficile da apprezzare.
Nella zuppa galleggiano caramelline rosa e verdi insapori.
Il dessert sfida il più coraggioso: melanzana fredda con marmellata acida, gelatina trasparente con sciroppo d’acero? Beh, é dura, ci diciamo che bisogna onorare sempre la tavola del monaco, e ci concediamo di lasciare solo una pietanza intonsa, a scelta.
La notte a Koyosan é tranquilla, cioè non c’è niente da fare, chiaramente si dovrebbe meditare, noi invece ne approfittiamo per dormirci su.
19.09.02 Ci sveglia il gong, mattinieri per forza, affrontiamo con onore la colazione, degno seguito della cena, e riprendiamo il cammino in senso inverso per Osaka, con la magra consolazione di aver dormito in un tempio riscaldato da un asse del gabinetto.
Osaka é ancor più caotica di Tokyo, questo é quello che sapevo di questa città. Beh un po’ di caos non ci farà male, dopo tutta la contemplazione di ieri. Ci concediamo una mezza giornata per visitare la magnifica cappella e chiesa Ibaraki di Tadao Ando…ma dai! I lucernesi sono passati anche da qui, lo testimonia il libro delle firme! Poi entriamo in Osaka e visitiamo altri edifici di Ando nel centro della città.
Infine riprendiamo il nostro Shinkansen per sfrecciare verso Tokyo e poi a nord, verso le montagne, anzi sulle montagne, a Nikko, dove, sono convinta, mi potrò rilassare in un bellissimo Ryokan con Onsen (bagno termale), come descritto dalla signora del TIC di Kyoto.
BIDONE clamoroso! Questo Ryokan é il peggio del peggio, sporco e freddo, peggio del monastero, e di Onsen non c’é ombra! Orrore e delusione! 20.09.02 Dopo una nottata passata e grattarmi come una matta, con la sensazione di avere una colonia di zecche e pulci che festeggiavano il mio arrivo nel loro letto e malgrado oggi splenda un sole magnifico e la temperatura sia notevolmente aumentata, l’umore é sotto le suole delle scarpe, e non ho voglia di parlare con nessuno, tanto meno di visitare la città di Nikko…gli ometti tacciono, guardandomi preoccupati. Devo controllarmi, mica é colpa loro se ci sono le pulci…ma porca m…mi ero talmente sognata un bagno termale e un po’ di relax! Vediamo cosa si può fare in questo posto, c’è il TIC pure qui…ma cosa vedono le mie pupille, su di un prospetto c’è la foto dei miei sogni, una vasca di pietra piena di acqua bollente e biancastra…le fonti di acqua sulfurea! Ah ma allora ci sono! L’albergo descritto sul catalogo é splendido, ideale per la mia giornata di relax tanto agognata. I ragazzi sono più tiepidi, speravano in un ritorno precipitoso a Tokyo, ma non hanno il cuore di dirmi di no e così prenotiamo la notte nell’albergo termale, alle 15.00 passerà a prenderci lo shuttle dell’hotel, per portarci in alta montagna, sulle rive di un lago dal nome difficile Chuzenji-Ko! E vai! Nikko ora si tinge di rosa ai miei occhi, la tensione si allenta e presto il fianco agli sfottò dei ragazzi, che mi imitano mentre mi gratto e tengo il broncio a causa di due pulci! Ma sì, li lascio dire, ‘sta volta me lo merito! Mi tuffo quindi nella lettura della mia Lonely e riprendo il ruolo di cicerone, incamminandoci verso il bosco in cima alla strada alle pendici della montagna, oltre il fiume (a sinistra il bel ponte simbolo di Nikko é purtroppo impacchettato per restauri), dove inizia il parco che racchiude i templi.
I templi qui sono veramente notevoli immersi in un fitto bosco, illuminati dai raggi del sole che ne esaltano i colori e le architetture, riccamente decorate con complicati intarsi dorati.
Le porte che caratterizzano l’ingresso alla zona antistante il tempio, spesso posto in cima a una lunga e maestosa scalinata, sono impressionanti, sfarzose, e fiancheggiate dai soliti dei del vento e del tuono.
Ci sono un sacco di scolaresche, famiglie e comitive di pensionati, qualche turista occidentale, con i quali scambiare complici sorrisi, anche se abbiamo notato molti occidentali integratissimi nella realtà giapponese, che lavorando qui hanno imparato la lingua e le abitudini del posto.
Scoprire queste persone fa a dire il vero un certo effetto, poiché se ci si ferma all’aspetto esteriore e alla comune abitudine del mangiare con forchetta e coltello, sedere sulle sedie e indossare le scarpe soprattutto a casa degli altri, incontrare gente simile a noi per questi aspetti e scoprire che si comportano e parlano del tutto naturalmente alla maniera giapponese, apre gli occhi e conferma ancora una volta quanto l’uomo possa smentire se stesso, e adattarsi a tutto, per essere ovunque cittadino del proprio mondo, fatto di amici, passioni, risate, abbracci e lavoro, uguali ovunque nel mondo.
I templi sono tanti e veramente ricchissimi, vorrei visitarli tutti, anche se dopo un po’ mi paiono tutti uguali, e poi Max inizia a dare segni di insofferenza, non so se é più allergico ai templi, alla folla di persone, o al rito delle scarpe…così per il mio bene, accorcio le visite e mi accontento di uno sguardo dall’esterno.
Dopo un pranzetto fugace, ci presentiamo al TIC in attesa di essere raccattati dal pulmino che ci porterà all’albergo.
Ed infatti alle tre in punto sbuca un pulmino con a bordo due silenziose giapponesi, una come tradizione vuole, dorme per tutto il tragitto, l’altra osserva con attenzione il cranio del conducente, sguardo fisso e assente…che stia già rilassandosi con qualche pratica zen a noi sconosciuta? Il pulmino si inerpica per una strada tutta tornanti, seguendo una teoria di macchine e camion.
In cima al passo c’è un bel laghetto con tanto di pedalò a forma di cigno e elicottero.
Siamo capitati in un paese turistico ma in chiusura di stagione. Tutti I locali che d’estate potrebbero essere l’attrattiva notturna del luogo stanno chiudendo o sono già chiusi. I pedalò galleggiano stancamente in riva al lago, altri meno fortunati sono già stati posteggiati per l’inverno sui pontili: aria di fine stagione.
Mi sento un po’ responsabile….E dire che Max ama la città e il caos! Mi viene anche un po’ da ridere, ma guarda tu dove siamo finiti, nel Giappone più improbabile.
Ancora un paio di curve dentro al bosco ed ecco l’albergo…da fuori non mi incanta, dentro nemmeno…ma il receptionist ci viene incontro raggiante e reverente, quasi non considera le due fanciulle in trance da risveglio, penso proprio che siamo una rara apparizione per la stagione e il luogo.
Ci mostrano la stanza, Japanese Style “of course”. Che meraviglia, é grandissima, li conto, sono almeno 18 tatami, c’é un tavolino al centro, basso naturalmente, due schienali fungono da sedia e ai lati una specie di sgabello stretto deve servire come poggia gomito.
La signorina che ci accompagna é dolcissima, timida come una marmotta, parla inglese, ma si vergogna, cerchiamo di capire cosa voglia dirci, per non fare gaffes! Ci mostra l’armadio: ci sono due kimoni, da indossare per andare all’onsen, e due paia di calze con l’alluce indipendente, ma bisogna mettere anche queste per andare all’onsen? Non lo riusciamo a capire, e sulla guida non se ne parla, mettiamole, magari fa freddo.
Chiedo:” ma sotto al kimono ci si mette il costume o no?” No, no, no, sotto al Kimono niente.
Poi ci porta le ciabattine e infine si ritira a marcia indietro, tra un inchino e l’altro.
Pronti partenza…via, io il costumino lo metto lo stesso, Max e Lele fanno troppo ridere in kimono con calze bianche e zoccolette…pure le cameriere che incontriamo ammiccano…mi sa che le calzette non bisogna metterle! Uomini a sinistra, donne a destra, ci vediamo dopo! Entro nella zona degli spogliatoi, ma voglio vedere se c’è già qualcuno. Infatti una signora si sta già ripulendo dalla testa a piedi, decisamente senza costume!, e ve bene, bando ai pudori! La sala é rettangolare, il pavimento rivestito di lastre di pietra grigia non é freddo come penso, ma piacevolmente tiepido. Nella prima metà della sala due pareti sono occupate da docce basse con tanto di specchio, saponi e shampoo. Mi servo di uno sgabello e di un secchiello di bambù come vedo fare dalla signora, che non mi degna di una sguardo, per sedermi davanti a una doccia e iniziare la fase lavaggio.
Tradizione vuole che ci si lavi veramente bene prima di fare il bagno, ma soprattutto che ci si risciacqui altrettanto bene, per non contaminare o alterare l’acqua in cui tutti si immergono. Faccio del mio meglio, ma ho troppa voglia di immergermi nella vasca! Infatti l’altra metà della sala è occupata interamente da una vasca quadrata, molto giapponese, definita su due lati da grandi vetrate un po’ appannate che si aprono sul bosco circostante, l’acqua sulfurea é fumante e biancastra, un po’ puzzolente, e non permette di vedere il fondo, che é subito lì a mezzo metro di profondità.
Mi godo la sensazione di essere grande quanto la vasca, infatti l’acqua é talmente calda che perdo la sensazione del mio corpo e mi fondo con il liquido della piscina. Che bellezza! Ma dove va la signora, nuda come un verme apre la porta e esce in giardino!? Fammi dare un’occhiata…ma guarda che sorpresa, ci sono delle scale che portano a una terrazza naturale proprio sotto la vetrata da cui sto sbirciando, e sotto un portico in legno anch’esso molto giapponese, c’è un’altra vasca ancora più fumante di quella dove mi trovo…bello, ci vado pure io! Rilassata da questa oasi nel verde, e con la pelle liscia come il sedere di un neonato, mi riavvolgo nel mio kimono e torno in camera per un pisolino.
La cena é la somma di tutte le meraviglie sin qui provate. Una nouvelle cuisine nippon che decidiamo di innaffiare anche con una bottiglia di vino.
Tutto a posto, tranne il fatto che gli altri ospiti sono ancora avvolti nei kimoni, e che i nostri jeans buoni sono del tutto fuori luogo! 21.09.02 Lasciato il magico Onsen tra i boschi e le montagne, iniziamo il lungo ritorno a Tokyo. Tra un treno e una metropolitana raggiungiamo finalmente la Tokyo Station. Ma il TIC oggi é chiuso, e quindi ci dobbiamo arrabattare alla meglio per trovare un albergo. Optiamo per il quartiere di Roppongi, stasera vogliamo provare l’ebbrezza della vita notturna nipponica verace, e Roppongi, lo dice la lonely, é il posto giusto! Trovato un albergo…stridente il contrasto con le stanze del mio Onsen, ci facciamo un giretto.
Il quartiere é popolato da molti occidentali, americani, inglesi e via discorrendo.
Ci dirigiamo verso la Tokyo Tower, ma con la ferma intenzione di non salirci…la mia lonely la taccia come gran bidone, e visti i buoni consigli fin qui elargiti, decidiamo di fidarci.
Torniamo verso Roppongi e risparmiamo yen per le follie della notte! E infatti appena si fa scuro, le luci si accendono in un carosello di scritte, e immagini al neon, la musica evade dai locali e si ferma sulla soglia e le strade si popolano di una densa e variopinta massa di persone, neri, gialli, bianchi, e le lingue si mescolano in una bebele orientale, anche se qui tutti sembrano capirsi: una bionda valchiria scambia dolci parole giapponesi attaccata al suo natel futuristico, un ragazzo dai capelli color fuoco e gli occhi a mandorla risponde al saluto dell’amico gaijin, con un bel “see you later!”, e sulla folla spiccano alti watussi, che con la faccia scura e un sacco di denti in bocca dominano la situazione, e invitano tutti a entrare nei loro locali. Boh, ma dove siamo? I bar sono strapieni di gente raccolta in gruppi eterogenei, e la cameriera australiana che si occupa di noi balla ride, canta e parla tutte le lingue del mondo, ma si ostina a parlarci in giapponese.
Più la notte incalza, più le strade si riempiono, e molte sono le proposte indecenti che abili e belle giovani imbacuccate in caldi piumini lunghi fino al polpaccio, fanno ai miei due cavalieri.
L’alcool scorre generoso in Giappone, ma in particolare al sabato sera in questa zona.
Le prime vittime sfilano lungo i marciapiedi con l’aria felice e incosciente, fiduciosi e ciechi, scortati e sorretti da fedeli amici, sobri?. Non ho mai visto sbronze epiche come quelle che si prendono da queste parti! Il top é questo signore, che viene letteralmente trascinato verso un pietoso taxi da un collega e dalla presunta moglie, che con aria rassegnata si apre un varco tra la felice e festosa fiumana di gente.
Fra prostitute e butta dentro, ragazzini psichedelici e gaijin, manager ubriachi e turisti fai da te, questa é Roppongi al sabato sera, decisamente un altro Giappone rispetto a quanto visto sin’ ora! 22.09.02 Visto che il mercato del pesce é uno spettacolo per mattinieri, ripieghiamo sul Ameya-yokocho Arcade a Ueno, un fitto reticolo di stradine e bancarelle dove il pesce fresco si vende spalla spalla con il ben noto tè verde e spezie misteriose.
Nel pomeriggio, nel quartiere chic già visitato nei primi giorni, ci attira la lunga e discontinua facciata di vecchie abitazioni, troppo fatiscenti per trovarsi in questo quartiere, dove marmo, vetro e cemento sono anch’essi all’ultimo grido.
Il contrasto é forte, ma quel che più interessa sono le strane statue che si affacciano ai balconi, gli striscioni, e le luci colorate che illuminano le stanze: dentro deve succedere qualcosa di interessante.
Mi infilo in un portone e al secondo piano un tappeto di scarpe sul pianerottolo e la porta aperta sono un chiaro segno! Un bel ragazzo di nero vestito e con ampi pantaloni da samurai mi sorride e mi invita a entrare, la sua performance inizia tra cinque minuti, “plego entlale”. I ragazzi mi aspettano di sotto…li corro a chiamare! Nel mini appartamento ci sono una trentina di ragazzi, naturalmente siamo gli unici gaijin e tutti ci guardano con una certa curiosità.
Il mio amico farà una performance, ma non sappiamo di cosa.
Distribuisce tra il pubblico una decina di carillon, ne dà uno anche a me: che ci dovrò fare? Un audace ragazzo sfodera e rispolvera il suo inglese e mi spiega che la performance sarà una danza sui rumori della strada, infatti le finestre sono aperte, e sui rumori che produrrà il pubblico, cioè noi, il carillon lo dovrò caricare e deporre ovunque nella stanza, ma solo al momento giusto! Quando? Per sicurezza lo carico già… La danza inizia, lui, con movimenti sinuosi e languidi riempie ogni vuoto nella stanza, danza sul silenzio e sui rumori di fondo poi corre fuori, in mezzo alla strada, urla, cerca una reazione tra i passanti…poi rieccolo tra di noi, il ragazzo audace mi dà il segnale per il carillon……noooo che figura, il mio carillon si é incastrato, porca m….. L’ho rotto! Poi un timido plig plong e quindi ricomincia a suonare, e vai funziona ancora! Alla fine c’é il rinfresco, una tazza di tè e patatine a volontà. Il mio interprete ci spiega che le case occupate fanno parte di un vecchio quartiere che verrà presto demolito, per lasciare spazio all’estro creativo del ben noto Tadao Ando. Peccato, questa atmosfera bohemien dava un tocco speciale a questo quartiere. Lo spettacolo é stato ampiamente documentato da foto digitali e filmino, come nelle migliori tradizioni! E alla fine mentre ce ne stiamo per andare, il danzatore folle ci chiede un commento da dietro la telecamera, poi ci fa un bell’inchino e ci congeda.
Fuori ha iniziato a piovere che dio la manda, e si é fatto già buio.
23.09.02 Tokyo capitale del Giappone, ma anche degli ultimi ritrovati nel campo della tecnologia, il tutto si riassume nella Electric City, ovvero una zona popolata da PC, radio, TV con schermi ultrapiatti, telefoni, videogiochi, macchine fotografiche digitali, telecamere, frigo, ventilatori, e quant’altro.
Io mi annoio un po’, tanto da noi queste cose non funzionano ancora…però é vero che é affascinante vedere quanto sono all’avanguardia qui, da noi certe trovate le abbiamo viste solo nei film di James Bond! La nostra ultima cena invece voglio ricordarmela bene! vorremmo ritrovare il ristorante coreano di Shinjuku. Ma gira gira ci siamo persi, però troviamo sulla nostra strada la porta di un altro ristorante, scendiamo le scale e invece di sentirci chiusi e oppressi in uno scantinato, ci sembra di essere arrivati in un giardino.
Sono riusciti a creare una laghetto artificiale, con tanto di ruscello con pesci rossi in uno scantianto.
Ogni tavolo si trova in una stanza le cui pareti in carta di riso sono mobili e con la loro disposizione ingannano l’occhio, lasciandoti credere che oltre il foglio di riso ci sia un giardino.
Kitsch? Certo un poco sì, ma divertente e confortevole, basta crederci, e l’atmosfera zen e relax entra negli occhi, e pervade la mente, i profumi inebriano l’olfatto, e la cortesia della bella ragazza in abiti tradizionali che si prende cura di noi dall’inizio alla fine della cena completano il quadretto.
24.09.03 sveglia all’alba, il viaggio per arrivare all’aeroporto non é facile e nemmeno corto, ma riusciamo a destreggiarci tra metrò e treni vari.
La sala d’aspetto é decisamente più affollata rispetto alla partenza, e una fila ordinata e senza fine é già davanti alla porta di imbarco. Ma ci staremo tutti? Mistero della fisica, ma ci siamo stati tutti, pure il bimbetto rompi…dietro di me! Sarò retorica, ma il Giappone mi ha affascinato. Questo spuntino di oriente non ha fatto altro che mettermi l’acquolina in bocca, ebbene sì, mi piacerebbe tornare, perché chissà quante sensazioni e emozioni serba ancora questa lingua di terra alla deriva tra la Russia e l’America.
Mi ha conquistato con le forti tradizioni e la folle corsa verso il futuro.
Mi ha deliziato con l’elegante e raffinata cucina dei sapori nuovi e delicati.
Mi ha intrigata questa lingua sconosciuta.
Mi hanno divertito i giapponesi cortesi e timidi.
Mi hanno sbalordito le assordanti sale da gioco e da pachinko.
Mi ha stupito la disarmante e scanzonata industria del sesso, e mi ha affascinato l’architettura antica e moderna, essenziale, sobria e confortevole…