Il risveglio della città di marzapane

Mi svegliai che non era ancora giorno, ma da qualche parte in lontananza mi parve di sentire il crepitìo dell'elettricità statica che proveniva da un autoparlante di scarsa qualità. Ci fu silenzio di nuovo, poi all'improvviso una voce tonante si rovesciò sulla città immersa nel buio. Una seconda voce le fece eco, poi un'altra più lontana si...
Scritto da: Paola Cecchini
il risveglio della città di marzapane
Partenza il: 04/04/2006
Ritorno il: 16/04/2006
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
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Mi svegliai che non era ancora giorno, ma da qualche parte in lontananza mi parve di sentire il crepitìo dell’elettricità statica che proveniva da un autoparlante di scarsa qualità. Ci fu silenzio di nuovo, poi all’improvviso una voce tonante si rovesciò sulla città immersa nel buio. Una seconda voce le fece eco, poi un’altra più lontana si unì alle precedenti riempiendo l’immobilità del primo mattino. Ipnotizzata, mi alzai sul letto ascoltando l’incomprensibile salmodiare che scorreva per i quartieri della città addormentata; mi infilai un vestito e scesi in strada ad aspettare l’alba. L’aria cominciava ad assumere un lieve tepore, mentre una prima luce morbida filtrava inoltrandosi nella città al risveglio. Le ombre si stagliarono un po’ di più, poi magicamente, la foresta degli edifici torreggianti divenne sempre più chiara e distinguibile. Uno spettacolo inconsueto apparve dinanzi ai miei occhi: fu come se durante la notte fossi stata catapultata indietro nel tempo e mi fossi risvegliata nel mezzo di una fiaba della mia infanzia. Sana’a sembrava fatta di marzapane: era frutto del delirio di un pasticcere che con mille sachertorten aveva realizzato un capolavoro. I palazzi, assiepati uno accanto all’altro e irrorati da un’alba color lilla, erano infilzati qua e là da minareti a candelina: sembravano torrioni glassati al caramello, smerlettati di meringa, trapunti di bignè e inghirlandati di panna montata. Ogni facciata si fondeva con la successiva, mentre a migliaia le intelaiature imbiancate delle finestre irregolari, i fregi in bassorilievo “a zigzag” e i trafori in pietra correvano sulle superfici fino a diventare indistinti all’occhio e fondersi in lontananza nel colore marrone-giallastro dei monti oltre le mura cittadine. A prima vista l’assetto architettonico della città mi apparve compatto, ma ad una successiva osservazione scoprii il caos anziché l’ordine: le strutture erano analoghe ed allo stesso tempo uniche nel loro raggio d’ inaspettate variazioni sui tema. Sulla facciata di un edificio contai ventitré finestre: solo tre apparivano simili; le altre erano talmente difformi tra loro e collocate in modo cosi casuale che era impossibile determinare – almeno guardando da fuori – una loro precisa funzione e tantomeno stabilire dove finiva o iniziava un piano. Pareva che quei milioni di mattoni di fango e pietre tagliate a mano fossero stati disposti secondo l’estro del momento o della persona. Sporgevano discretamente tra gli edifici, le cupole morbide delle moschee ottomane simili a bianchi seni femminili. Guardandole, non potei fare a meno di sorridere considerando come l’austera fede islamica consentisse un’architettura religiosa cosi sensuale. Avevo davanti a me qualcosa di prezioso, di eterno, mai conosciuto: nessuno mi aveva detto quanto ciò potesse essere ammaliante. Ero impreparata a quell’incanto e colta di sorpresa, ne fui completamente sedotta.

Attraverso Bab-el-Yemen mi incamminai verso il suk dove tutto contribuì a mettermi di buon umore: le grida dei venditori di giornali, la folla dei bevitori del caffè, il suono dei campanelli degli animali, l’odore dei finimenti di cuoio e di merda d’asino, i mercanti assonnati che giacevano come odalische fumando il narghilè, tra i rintocchi assordanti dei fabbri. Sfoglie di pani dorati fumavano su alti bancali; sotto grandi ombrelloni giacevano mucchi di pomodori verdi e rossi, manghi gialli, cipolle rosate, patate dolci color ruggine. L’aria fresca del mattino era già impregnata di sapori e profumi. Mi fermai davanti ad un venditore di locuste: per mostrarmi come si mangiano, ne prese una, strappò le ali, le buttò via e si ficcò in bocca corpo e zampe. Volli assaggiarne una anch’io e fui sorpresa dal suo sapore di latte in polvere, affumicato e croccante. Attraverso la folla si fecero strada dei bambini che portavano in equilibrio sulla testa dei recipienti di terracotta molto caldi, pieni di fumante “saltah”: si proteggevano le mani con pezzi di cartone piegati per non scottarsi le dita. Attraversò il mercato una donna: lo “sharshaf” la copriva letteralmente dalla testa alle caviglie, ma era così sensibile al più piccolo soffio d’aria che ogni suo movimento si accresceva di grazia. Intuire la sua età, il suo stato sociale o la costituzione fisica é impossibile per un occhio non allenato, ma non per chi è abituato a farlo: il portamento di una persona, la pelle dei piedi e delle mani, la qualità dei tessuti indossati sono, secondo gli yemeniti, capaci di svelare qualsiasi segreto. La donna reggeva sul capo un braciere di carbonella, appoggiato ad un supporto conico alto circa mezzo metro: il tutto pareva un grande cappello che covava fuoco sopra tutti quei veli fieri. Il braciere lasciava dietro di se una scia di fumo bianco che sottolineava il suo cammino tra la folla, come fa il pennacchio di un vapore sul mare. Mi passò davanti una montagnola di carote putite di fresco: i raggi bassi del mattino le illuminavano da dietro con grande effetto conferendo loro una luminiscenza translucida. Avanzò nel viottolo una carriola piena di angurie verdi ammonticchiate come palle di cannone; poi ne sopraggiunse un’altra che ospitava mele rosse appena lustrate, locuste tostate ed alcune teste di vitello appena sgozzate. Mi sorpassò un taxi: il volante, lo specchietto retrovisore e la leva del cambio erano rivestiti di pelouche, mentre 1’interno era ricoperto da un linoleum a grandi fiori. Ai pannelli della porta erano appiccicate alcune immagini di donne non velate e con le braccia nude, in aperto contrasto con le cartoline attaccate al cruscotto raffiguranti scene della vita di Maometto. Una fila di donne dagli occhi d’antracite entrò infine nel suk: il loro profumo, il “bakhour”, mi riempì il naso. Lo conoscevo gia: simile all’incenso ed alla mirra, è una mistura finemente granulare in color marrone chiaro, proveniente da Aden e dall’India. Viene bruciata sulla carbonella in un piccolo recipiente di ceramica che va collocato sotto un telaio conico di canna alto oltre un metro; le tuniche femminili vengono calzate sopra questa scheletratura e le nuvolette di fumo profumato impregnano in ogni parte il tessuto e vi permangono per ore. Sorrisi tra me rientrando in hotel e ripensando ad un detto locale: “Nello Yemen non si arriva mai a sapere come si sono svolti i fatti; esistono molte e troppe versioni tra cui scegliere. Le motivazioni variano, ma il mistero resta la costante”. Paola Cecchini Sana’a, 10 aprile 2006



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