Il risveglio della città di marzapane
Attraverso Bab-el-Yemen mi incamminai verso il suk dove tutto contribuì a mettermi di buon umore: le grida dei venditori di giornali, la folla dei bevitori del caffè, il suono dei campanelli degli animali, l’odore dei finimenti di cuoio e di merda d’asino, i mercanti assonnati che giacevano come odalische fumando il narghilè, tra i rintocchi assordanti dei fabbri. Sfoglie di pani dorati fumavano su alti bancali; sotto grandi ombrelloni giacevano mucchi di pomodori verdi e rossi, manghi gialli, cipolle rosate, patate dolci color ruggine. L’aria fresca del mattino era già impregnata di sapori e profumi. Mi fermai davanti ad un venditore di locuste: per mostrarmi come si mangiano, ne prese una, strappò le ali, le buttò via e si ficcò in bocca corpo e zampe. Volli assaggiarne una anch’io e fui sorpresa dal suo sapore di latte in polvere, affumicato e croccante. Attraverso la folla si fecero strada dei bambini che portavano in equilibrio sulla testa dei recipienti di terracotta molto caldi, pieni di fumante “saltah”: si proteggevano le mani con pezzi di cartone piegati per non scottarsi le dita. Attraversò il mercato una donna: lo “sharshaf” la copriva letteralmente dalla testa alle caviglie, ma era così sensibile al più piccolo soffio d’aria che ogni suo movimento si accresceva di grazia. Intuire la sua età, il suo stato sociale o la costituzione fisica é impossibile per un occhio non allenato, ma non per chi è abituato a farlo: il portamento di una persona, la pelle dei piedi e delle mani, la qualità dei tessuti indossati sono, secondo gli yemeniti, capaci di svelare qualsiasi segreto. La donna reggeva sul capo un braciere di carbonella, appoggiato ad un supporto conico alto circa mezzo metro: il tutto pareva un grande cappello che covava fuoco sopra tutti quei veli fieri. Il braciere lasciava dietro di se una scia di fumo bianco che sottolineava il suo cammino tra la folla, come fa il pennacchio di un vapore sul mare. Mi passò davanti una montagnola di carote putite di fresco: i raggi bassi del mattino le illuminavano da dietro con grande effetto conferendo loro una luminiscenza translucida. Avanzò nel viottolo una carriola piena di angurie verdi ammonticchiate come palle di cannone; poi ne sopraggiunse un’altra che ospitava mele rosse appena lustrate, locuste tostate ed alcune teste di vitello appena sgozzate. Mi sorpassò un taxi: il volante, lo specchietto retrovisore e la leva del cambio erano rivestiti di pelouche, mentre 1’interno era ricoperto da un linoleum a grandi fiori. Ai pannelli della porta erano appiccicate alcune immagini di donne non velate e con le braccia nude, in aperto contrasto con le cartoline attaccate al cruscotto raffiguranti scene della vita di Maometto. Una fila di donne dagli occhi d’antracite entrò infine nel suk: il loro profumo, il “bakhour”, mi riempì il naso. Lo conoscevo gia: simile all’incenso ed alla mirra, è una mistura finemente granulare in color marrone chiaro, proveniente da Aden e dall’India. Viene bruciata sulla carbonella in un piccolo recipiente di ceramica che va collocato sotto un telaio conico di canna alto oltre un metro; le tuniche femminili vengono calzate sopra questa scheletratura e le nuvolette di fumo profumato impregnano in ogni parte il tessuto e vi permangono per ore. Sorrisi tra me rientrando in hotel e ripensando ad un detto locale: “Nello Yemen non si arriva mai a sapere come si sono svolti i fatti; esistono molte e troppe versioni tra cui scegliere. Le motivazioni variano, ma il mistero resta la costante”. Paola Cecchini Sana’a, 10 aprile 2006