I paesi del tufo
Nel parco naurale della Valle del Treia, dopo un saliscendi di tornanti, all’improvviso ci troviamo di fronte Calcata, suggestivo borgo medievale ancorato ad una rupe tufacea che si erge sulla ripida e verdeggiante vallata. Ancora una volta muri e rocce si fondono, l’uno prosecuzione dell’altro. La suggestione di questo paese, nato dal tufo e fatto di tufo, è davvero incredibile e la sua fragilità mi fa ricordare certe costruzioni di sabbia che si consumano e si disfano al giungere di un’onda più lunga. Abbandonato dai suoi originari abitanti per i frequenti crolli, prima dell’ultima guerra, fu poi gradualmente ripopolato da artisti che attratti dal suo fascino, vi aprirono atelier di pittura e botteghe artigiane. Cuore del paese è la piazzetta centrale gremita da turisti, ma il luogo è ricco di stradette caratteristiche, di angoli suggestivi e di impressionanti scorci sui ripidi burroni. Nell’azzurro terso della giornata primaverile Civita di Bagnoregio appare come un miraggio, aggrappata ad una torre di tufo in un paesaggio di aspri calanchi.
La vidi per la prima volta, dieci anni fa, drammaticamente sospesa nel grigio plumbeo di un cielo carico d’acqua, avvolta in un’atmosfera d’irreale apocalisse e mi colpì profondamente. Il lugubre ponte di ferro su pilastri di cemento, unico accesso e legame tra il paese e il mondo, i tormentati calanchi, avvolti dalle nuvole basse, gli antichi ruderi, le pareti mozzate di case e palazzi, i precipizi su cui si affacciano suscitarono in me una forte emozione e il desiderio di tornare.
Attraversare quel ponte, che sostituì il vecchio crollato negli anni cinquanta, significa entrare nella storia di epoche lontane. Abitata fin dall’età etrusca ne conserva la struttura, mentre le strade sono di età romana, i palazzi medioevali e rinascimentali.
Qui sembra che la natura si sia accanita costantemente attraverso il lento ma inesorabile lavorio dell’acqua che mentre altrove è vita qui diventa rovina. I torrenti Chiaro e Torbido le hanno scavato tutto intorno profonde gole, mentre l’acqua piovana cadendo si è portata via la terra delle pendici, corrodendo metro dopo metro il cono argilloso su cui poggia.
Il vento poi ha completato l’opera spazzando e levigando le sue pareti. Perfino vari terremoti l’hanno scossa, e quello del 1764 ha provocato il primo inarrestabile esodo. Ma dove non è arrivata la natura ci ha pensato l’uomo, lasciandola morire con l’incuria e l’ignoranza e oggi, per ironia della sorte, orde di turisti vengono a vedere quella che i cartelli segnaletici indicano come “la città che muore”. Forse è proprio il senso di precarietà, di decadenza, di fine imminente a suscitare una sorta di interesse e curiosità morbosa? Varcata la porta d’accesso Civita si offre in tutta la sua bellezza. Gli interventi di recupero degli ultimi anni, sebbene ci sia ancora molto da fare, hanno salvato dal degrado molte case, riportandole agli antichi splendori. La Piazza San Donato, cuore del borgo, forse antico foro romano, conserva davanti al sagrato una doppia fila di colonne mozzate che ne accrescono il fascino, mentre sulle finestre delle case, sulle scale e sui piccoli poggioli è tutta una fioritura.
Gli scorci suggestivi sono molti e, nonostante l’afflusso dei turisti, gironzolando per le stradine, si trovano angoli appartati e tranquilli dove gustarsi il panorama sui calanchi e la vallata. Con lo sguardo perso verso queste tormentate e profonde pieghe della terra che creano una sorta di paesaggio metafisico intorno a questo strano paese, mi abbandono al flusso del mio pensiero. Mentre ripercorro il ponte sospeso nel vuoto, guardando le frotte di turisti in arrivo, penso che Civita dovrà affrontare l’ennesima sfida, forse la più difficile e subdola della sua storia, quella contro la speculazione e il consumismo che, privandola della sua identità storico- culturale, la potrà trasformerà in una sorta di fenomeno da baraccone ad uso esclusivamente turistico. Ci vorrebbe forse un miracolo perché un turismo becero non la guasti. Ma non è forse un miracolo che Civita non sia già stata spazzata via dalla furia della natura? O quella umana è forse peggiore? Con questi pensieri che mi frullano per la testa, si riprende la via di casa.