Frisco, Las Vegas e i parchi dell’Ovest
Sabato 15 maggio.
Venezia – Roma – New York – Frisco. In due parole, un massacro. Ne sarà valsa la pena e lo rifaremmo ogni mese, ma alzarsi alle 4 del mattino e mettere piede in albergo alle 10 di sera con 9 ore di fuso indietro (27 ore) non è uno scherzo. Soprattutto, si arriva all’aeroporto di Newark e il più sembra fatto, superato l’oceano in 8 ore basta un volo interno e ci siamo… Già, con 5 ore di attesa e altre 6 di volo però! L’hotel è l’Holiday Inn Express, in zona porto turistico. Moderno, pulito, accogliente. Capiremo i giorni successivi cosa significa viaggiare facendo base in catene alberghiere. Le camere sono tutte simili, se non uguali. Con il vantaggio che tutto sommato si ha una percezione di stabilità pur nel furioso giro di hotel.
Domenica 16 maggio.
Ci svegliamo prestissimo, alle 6, che sarebbero le 15 per il nostro organismo. Dopo la colazione facciamo un primo giro nel porto, la giornata è splendida e la città ancora sonnacchiosa, Alcatraz si staglia nel cuore della baia, i chioschi dove mangiare granchi e astici appena pescati stanno alzando le serrande.
Decidiamo di affittare due bici, e diamo inizio ad una indimenticabile pedalata lungo la spiaggia, gli splendidi quartieri residenziali, l’ex presidio militare, il Golden Gate, le salite impossibili, tanto da spingere la bici a braccia, le discese travolgenti, i parchi, le strade a picco sul mare.
Dopo sei ore di vorticoso andirivieni, finiamo il pomeriggio con il primo (di molti) giro in cable car, il celebre tram a cremagliera che si inerpica sulle vie verticali di questa città a gobbe.
Torniamo in albergo per una doccia, mi adagio sul letto e… Crollo serenamente fino alla mattina dopo. Il mio fisico ha ceduto di schianto, e per colpa mia saltiamo pure la cena.
Lunedì 17 maggio.
Siamo ancora frastornati dal fuso orario, e fatichiamo a prendere ritmo, rispetto a ieri. Un po’ a piedi, un po’ in cable car, giriamo chinatown, la zona centrale attorno a union square, la city finanziaria, tutto sommato contenuta sia in larghezza che in altezza rispetto ad altre città americane.
A pranzo soddisfiamo la curiosità di addentare i panini imbottiti di granchio visti ieri ai chioschi del porto: costosetti, ma assolutamente deliziosi. Non saranno gli ultimi.
Di sicuro Frisco è città di grandi contrasti ambientali e architettonici nonostante le dimensioni non enormi. Tante città in una.
Finiamo di nuovo a girovagare in zona del porto, e dopo un po’ di acquisti chiudiamo la giornata cenando in un ristorantino, carino ma cibo non indimenticabile.
Martedì 18 maggio.
Affittiamo l’auto che ci accompagnerà nel resto del viaggio, una Pontiac rossa fiammante. Dopo 100 metri di cambio automatico sono carico di entusiasmo, e so per certo che la mia prossima auto non potrà prescindere da questo comfort.
Usciamo dalla città e ci dirigiamo verso sud, lungo l’oceano. Splendido. Il tempo continua ad esserci amico, e la strada fino a Santa Cruz è un vero sogno. Torniamo a San Francisco via Oakland, attraversando il Bay Bridge. Poi su e giù per la città, una giostra naturale. E ancora il Golden Gate, che ci porta a Sausalito, località di vacanza molto chic a due passi dalla città. Dove torniamo per goderci il tramonto immersi nel silenzio ventoso e inquietante delle colline di Twin Peaks, dominando la città sotto di noi.
La sera ceniamo ancora al porto, stavolta in un locale tipicamente americano, a suon di sandwich, coca e fritti vari.
Mercoledì 19 maggio.
Lasciamo la magica Frisco e proseguiamo verso Yosemite Park, nei monti ad est della città, nel cuore della California. Arriviamo a metà giornata e faremo in tempo a girarlo in auto. È molto bello, anche se le dolomiti non hanno nulla da invidiargli. A parte le gigantesche sequoie e il panorama a perdita d’occhio di cui si può godere da Glacier point, che vale da solo la visita dello Yosemite.
La sera dormiamo appena fuori il parco, in una camera con terrazzo sul torrente. Ceniamo in questo resort semplice ma molto carino, menù tipicamente a stelle e strisce: bistecca e patate.
Giovedì 20 maggio.
Ci alziamo molto presto, ci aspetta il trasferimento più lungo e vogliamo goderci il più possibile la meta del giorno, la Death Valley.
Alle 7 siamo in macchina, attraversiamo il parco per uscire dalla parte opposta a quella da cui siamo arrivati. Abeti, roccia, laghi, ancora la neve, un freddo consistente, natura lussureggiante.
Via via che scendiamo verso sud tutto cambia, km dopo km, e in poche ore siamo in pieno deserto. Incredibile.
La valle è attraversata da un’unica strada, fa molto caldo, ma in agosto sarebbe ben peggiore. Guidarci in mezzo, praticamente da soli, è un’esperienza indimenticabile. Camminare tra le dune, immergersi nei colori del deserto. Arrivare a Fornace Creek, che è di fatto un’oasi in cui è stato creato persino un campo da golf.
Ceneremo e dormiremo in uno dei due resort, non prima di un tuffo in piscina.
Venerdì 21 maggio.
La mattina la dedichiamo ancora alla scoperta della valle: Zabriskie point, la tavolozza degli artisti, il campo da golf del diavolo, badwater (86 m sotto il livello del mare). La fantasia “iuessei” nel dare i nomi è furba ma incisiva. E i colori, mamma mia i colori del deserto.
Il pomeriggio dirigiamo l’auto verso Las Vegas, entrando quindi in Nevada. Arriviamo assieme a un fiume d’auto, con un po’ di peripezie riusciamo ad entrare nell’albergo dove abbiamo prenotato due notti, il Luxor, la piramide egizia. L’imponenza e l’originalità della struttura non può lasciare indifferenti, anche se all’inizio non sapremmo dire se ci piace veramente. È troppo distante dai nostri canoni di bellezza.
Dopo una cena nel ristorante italiano dell’hotel, una pasta “american style”, facciamo un primo giro lungo lo Strip, il viale lungo 6 km lungo il quale sono stati costruiti i famosi hotel-casinò, o forse è più corretto definire casinò con annessi hotel, centri commerciali, teatri, divertimenti di ogni tipo. E soprattutto, ideati imitando contesti naturali o architettonici di varie parti del mondo: Venezia, Parigi, New York, il circo, il castello magico, l’isola dei pirati, e così via.
Realtà fatta di vere finzioni. Imitazioni esagerate, sfacciate. Il paradigma della sfida americana, nulla è impossibile, nulla non può essere ricreato in quella che siamo soliti definire “americanata”.
Sabato 22 maggio.
Passiamo l’intera giornata a girovagare tra gli “hotel”. Inutile descriverli quì, vanno visti punto e basta. Noi ci siamo giocati pochi dollari alle slot machine, ma dobbiamo ammettere che pur non essendo per nulla attratti dal gioco d’azzardo, in quel contesto la tentazione ti assale. Tutto è pensato per metterti a tuo agio, l’obiettivo vero è farti spendere al casinò.
La sera andiamo in autobus nella vecchia down town (un’ora e mezza nel traffico infernale), per vedere lo spettacolo di luci e suoni di Fremont Street. Da non perdere.
Alla fine, è una città dal fascino tentacolare. Sembra tutto falso ed eccessivo, talmente tanto da essere irresistibile…
Domenica 23 maggio.
Obiettivo Grand Canyon, in Arizona, passando per Hoover Dam, una diga sul Colorado River.
All’ingresso acquistiamo per 50 dollari la card valida anche nei successivi parchi nazionali (esclusa la Monument Valley, gestita autonomamente dai nativi).
Arrivati al South Rym, il versante più facilmente accessibile del canyon, lo spettacolo che ci si offre è travolgente, strabiliante. È difficile descrivere a parole la sensazione di grandezza, diremmo di onnipotenza che la natura ci ha regalato ammirando il Grand Canyon. Solo di fronte a lui, allungando lo sguardo ossequiosi verso l’orizzonte, e poi verso il letto di questa frattura della terra profonda un km e mezzo, si può tentare di capire cosa significa il mito che aleggia intorno a questa meraviglia. Nessuna foto, nessun filmato può riprodurlo veramente.
La sera cena fantastica in un locale molto “cow boy”. Fuori del parco c’è qualche hotel e qualche ristorante, poi il buio, e là in fondo la terra sfregiata.
Lunedì 24 maggio Trascorriamo l’intera giornata percorrendo tutto il tratto accessibile del Grand Canyon, verso est in auto, verso ovest con i bus navetta del parco. Ce la siamo impressa in modo indelebile nella memoria questa meraviglia della natura. Per chi lo desidera, è possibile scendere in fondo al canyon, 1,5 km di profondità ma 14 di sentiero, che appare ripidissimo. Si può fare a piedi o in groppa ai muli con guida, in ogni caso è vivamente consigliato dormire giù in campeggio, e risalire il giorno dopo a forze fresche. È anche possibile scendere lungo il Colorado River facendo rafting, partenza dalla diga di Lake Powell e la notte sosta lungo le rive del fiume.
Infine, c’è la nota opportunità di fare un giro “nel” canyon in elicottero o bimotore, sconsigliato ai deboli di stomaco.
Martedì 25 maggio Ci dirigiamo vero la Monument Valley, sempre in Arizona, entrando in zone di “riserve indiane”, in cui si nota immediatamente un certo degrado e povertà. Le strade sono però affascinanti, immerse in contesti brulli e quasi desertici.
Fatichiamo a riconoscere l’ingresso del parco, male segnalato dai nativi che l’hanno in gestione, anche se così in effetti mantiene la sua originale natura. Percorriamo in auto il percorso sterrato che si snoda tra i famosissimi picchi rocciosi color rosso ocra, così modellati dal vento e dalla pioggia, che rappresentano grazie ai film di John Wayne l’iconografia del mitico far west.
La sera ceniamo e dormiamo in uno dei 2-3 hotel di Kayenta, piccolo paesino vicino alla valley, provando un paio di menù locali veramente squisiti.
Mercoledì 26 maggio Trasferendoci verso Page, la cittadina nata con la costruzione della diga sul Colorado River che ha creato il lago Powell, dedichiamo un paio d’ore alla visita di un luogo meno conosciuto di altri ma da non perdere se ci si trova nei paraggi: l’Antilope Canyon. Ci si arriva con i furgoni scoperti guidati dai navajo, che fanno anche da guida. Si tratta di una spaccatura nella roccia, lunga poche centinaia di metri, ma assolutamente splendida grazie a curiosissimi effetti luce e colore creati dal sole che penetra negli spazi.
Lake Powell come detto è un lago artificiale, creato dalla diga in diversi anni attraverso il riempimento di quello che prima era un canyon. Meriterebbe di essere percorso in barca, dedicando un’intera giornata alla scoperta delle tante insenature naturali. Di sicuro l’atmosfera della zona è inquietante, soprattutto al tramonto, carico di foschia e irreale silenzio.
L’hotel, molto accogliente, offre un’ottima piscina, e siccome 10 giorni di corsa cominciano a farsi sentire, ci regaliamo un paio d’ore di assoluto relax. La sera cena in un locale tipico consigliato dalla Routard, molto cow boy, ma a parte l’atmosfera, nulla di memorabile.
Giovedì 27 maggio Per arrivare al Bryce Canyon, quindi risalendo ed entrando nello stato dello Utah, facciamo una deviazione verso lo Zion Park. La strada che lo percorre all’interno del parco è fatta con asfalto rossiccio, per rispettare i colori dominanti delle rocce circostanti. Arrivati al Visitor Center, ci si può inoltrare tra i monti solo con i bus navetta, che portano fino ai luoghi di ristoro da cui partono numerose passeggiate di varia difficoltà.
Ovviamente ci inoltriamo un po’ lungo il sentiero più facile e affollato, ma sufficiente per farci un’idea del parco.
La sera arriviamo alle porte del Bryce Canyon, dove c’è il nulla, a parte qualche hotel e negozio lungo la strada. Nessun bar, tutto il necessario si trova all’interno delle strutture alberghiere, arredate in uno stile far west che ricorda più Gardaland che i vecchi pionieri… Infatti anche la cena si consuma in una sorta di self service, anche se la qualità non è poi malaccio, tutto sommato.
Venerdì 28 maggio Dedichiamo tutta la giornata ad una meraviglia della natura inimmaginabile. Cosa abbiano potuto fare gli agenti atmosferici in millenni di paziente lavoro sulla roccia ha dell’incredibile. Una vallata di colonne, torri, pinnacoli fittissimi, di diverse tonalità del rosa e giallo, scolpiti con la maestria di uno scultore paziente e geniale.
Dai diversi view point è possibile inoltrarsi in passeggiate lungo i sentieri che scendono nel letto della valle, immergendosi in un teatro naturale ipnotizzante.
Giriamo anche un po’ i dintorni, trovando qua e là pochissimi centri abitati, ma la guida in quelle strade è sempre spettacolare.
Sabato 29 maggio Arriviamo a Salt Lake City verso l’una, e ci assale il dubbio che la città sia stata abbandonata e vi sia un’esercitazione atomica. È sabato, eppure in giro non c’è NESSUNO. Pochissime auto, praticamente nessun essere umano. E tutto chiuso. Lasciamo l’auto in un parcheggio con uno stranissimo sistema di pagamento. Siamo in pieno centro, ma troviamo aperto solo un fast food per mangiare qualcosa, gestito da un ragazzo messicano desideroso di socializzare con qualcuno diverso dai locali, ovvero i mormoni. Forse sta in questo l’anomala atmosfera della città.
Il pomeriggio un po’ (poco poco) si anima, ma sembra di stare a Dogville, e chi ha visto il (pur noioso) film capisce cosa intendiamo… la città perfetta, perfettina, apparentemente, ma dietro che c’è veramente? Salt Lake City si è sviluppata attorno al tempio della religione mormona. Tutti gli autoctoni si sentono in dovere di essere gentilissimi con i viandanti, ma c’è qualcosa di inquietante, fanno un sacco di domande, non capisci bene dove vogliano andare a parare. Senonchè ci sono gli addetti all’abbordaggio, al tentativo di conversione. Ma sono facilmente individuabili ed evitabili.
La sera stiamo nella zona olimpica (quì ci sono state le olimpiadi invernali del 2002, ora oggetto di gran scandalo per la conclamata corruzione dei membri del CIO che ne votarono l’assegnazione), l’unica un po’ vivace e piena di giovani. Ma l’inquietudine resta.
Dormiamo in un Motel 6 sulla strada per l’aeroporto: auto parcheggiata sotto la scala che porta alla camera, proprio come visto in decine di film.
Domenica 30 maggio Andiamo al lago salato, un posto lunare. Ci si arriva attraverso una diga che conduce ad un isolotto, l’acqua attorno è stagnante e puzzolente, l’elevata percentuale di sale ricopre la riva di schiuma. Qualcuno fa pure un mezzo bagno, noi proprio no. Percorriamo l’isola in auto, incrociando pure dei bisonti al pascolo libero, una bella emozione.
Torniamo verso la città, e la giriamo in lungo e in largo per provare a capirla. Ci sono vastissimi quartieri residenziali, con case grandi e bellissime, i cui giardini (tutti aperti e non recintati) sono perfetti, l’erba tagliata e verdissima, i fiori curatissimi. Troviamo anche un centro commerciale molto bello, ricavato in una vecchia fabbrica, e ora pieno di locali alla moda. Ecco un’altra faccia di quella che le guide dipingono come la meta più ambita per gli yuppies stanchi dei ritmi frenetici delle grandi metropoli, e alla ricerca di stili di vita “eco&tempo-compatibili”.
Il pomeriggio finiamo in un grande parco, pieno di giovani, neri, immigrati in giornata libera. Altra faccia ancora di Dogville.
Finisce così il nostro splendido viaggio nell’Ovest, la mattina dopo prendiamo l’aereo e via Chicago arriviamo a Milano e poi a Venezia. Stanchi ma entusiasti, e frastornati da quanto visto e vissuto. Eppure prontissimi a ripartire per gli States, come infatti avremmo fatto l’anno dopo.
Ciao a tutti Massimo e Diana