Dove anche la Coca Cola parla thailandese

Sono appena sceso dal volo che mi ha portato a Bangkok e, dopo aver raccolto i miei bagagli, m'incammino verso l'aerostazione dei voli nazionali, ho tempo, il mio aereo partirà solamente tra qualche ora. Sono le sei del mattino, nel tunnel di collegamento le porte aperte sull'esterno fanno entrare l'aria calda ed afosa della strada. Decido di...
Scritto da: Giorgio Nastri
dove anche la coca cola parla thailandese
Partenza il: 18/01/2000
Ritorno il: 19/02/2000
Viaggiatori: fino a 6
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Sono appena sceso dal volo che mi ha portato a Bangkok e, dopo aver raccolto i miei bagagli, m’incammino verso l’aerostazione dei voli nazionali, ho tempo, il mio aereo partirà solamente tra qualche ora. Sono le sei del mattino, nel tunnel di collegamento le porte aperte sull’esterno fanno entrare l’aria calda ed afosa della strada. Decido di iniziare la mia prima giornata thailandese facendo colazione alla maniera locale, una ciotola di zuppa “kuaytiaw naam” ed un caffè al self service che ha appena aperto. Non è la prima volta che vengo da queste parti, e pian piano gli odori mi riportano alla mente sensazioni già conosciute. Questa volta però qualcosa di diverso c’è, ho con me Giulia, mia figlia di appena 15 mesi. Per lei è tutto nuovo, il volo, il Paese, l’atmosfera. A volte mi chiedo quali siano le sue sensazioni, cosa penserà, cosa ricorderà di questo suo primo viaggio intercontinentale. Per il momento dorme nel passeggino, ho finito il mio caffè ed ho tempo per una sigaretta dopo molte ore d’astinenza a causa del “non smoking flight”. Ci avviamo verso i voli nazionali, abbiamo ancora quasi mille chilometri di volo ed una settantina da percorrere in auto prima di arrivare ad un buon letto che mi faccia dimenticare la scomoda poltroncina dell’aereo. Mi trovo ad invidiare Giulia, pacificamente rilassata sospinta da sua madre, mentre io ancora assonnato spingo il carrello ingombro di valigie. Con il passare dei minuti la pallida alba della capitale lascia spazio ad un sole come sempre velato dallo smog; uscendo dall’aeroporto per l’ennesima sigaretta, l’impatto è notevole, il traffico comincia ad essere intenso, così come i rumori e gli odori che mi raggiungono. Mi trovo ad osservare il serpente multicolore di mezzi che si dirigono verso il centro, per i loro occupanti sarà l’inizio di una nuova giornata, magari uguale a tutte le altre, mentre per me quello è l’inizio di un lungo periodo di vacanza, lontano dall’ufficio e dallo stress relativo. E’ ora di avviarci, l’aereo è già al suo posto, una breve sosta giusto per regolare gli orologi e per dare la colazione a Giulia, che nel frattempo si è svegliata ed ora si guarda attorno con aria stupita. Attratta più dal colore delle vesti che dal loro significato e trattenuta a stento dalla mamma, segue un gruppo di monaci buddhisti che si avviano verso uno dei gates; prima di imbarcarsi alcuni di loro tirano fuori dalle pieghe della veste arancione il telefono cellulare per spegnerlo. Un gesto comune che quasi tutti coloro che viaggiano ormai sono soliti compiere, ma vederlo fare da un monaco me lo fa sembrare strano, un po’ anacronistico .., forse è per il fatto che nella nostra mente di occidentali siamo soliti immaginare i monaci buddhisti sempre intenti nello studio dei sacri testi oppure impegnati a raccogliere le offerte con la loro ciotola. In effetti, perché dovrebbero rinunciare alle comodità della vita civile? Ne hanno anche loro il diritto. Eppure quel semplice gesto continua ad attrarre i miei pensieri, a farmi riflettere su quanto, e con quale velocità, il nuovo soppianti il vecchio, proprio qui dove la definizione di “paese a due velocità” è quanto mai azzeccata. Sull’aereo ho ancora il tempo di riposare un poco, almeno fisicamente. Un decollo, un atterraggio, un altro decollo e l’atterraggio finale. L’aereo della Thai ci porterà a Phitsanulok e quindi alla nostra meta, Lampang. Stiamo andando verso nord, a circa 100 chilometri dalla più conosciuta Chiang Mai; sotto di noi la metropoli lascia il posto alle risaie, in questa stagione dovrebbero essere secche e, invece, noto grandi chiazze rettangolari che riflettono il cielo, quest’anno le piogge sono state abbondanti e c’è acqua a sufficienza per fare un secondo ed utile raccolto. L’aereo inizia la sua discesa verso la nostra meta, abbiamo appena superato una piccola catena montuosa, un fiume attraversa la città ed intorno ad esso il verde è più intenso sfumando nel giallo man mano che lo sguardo si allontana dalla superficie liquida. L’aeroporto di Lampang ci accoglie sotto un sole accecante; ricordo che in uno dei miei primi viaggi mi fece più l’impressione di un campo di volo con la sua unica e breve pista delimitata da un basso fabbricato sul quale sventolava una manica a vento. Adesso è stato ampliato ed attrezzato, anche se destinato a vedere sempre due soli aerei al giorno. Scesi dall’aereo, attraversiamo rapidamente il tratto di pista che ci separa dall’uscita, è caldo, ma senza l’afa della capitale. Intravedo alcune persone che ci guardano attraverso una rete di recinzione, gli anni passati erano molto di più, segno che l’arrivo dell’aereo non è più tanto un evento. Nella hall non ci sono molte persone, qualcuno mostra il nome di un hotel, altri si dirigono verso coloro che sono arrivati, individuano la persona attesa che salutano immediatamente con il classico mezzo inchino a mani giunte. Quanto è diverso dall’Italia, tra i parenti non ci sono gli abbracci, le urla di gioia o tutto quello cui siamo abituati, loro si salutano con un eleganza quasi distaccata, e ciò vale anche per noi, assenti da un paio di anni, e per nostra figlia che vedono per la prima volta. I primi tempi, nella mia posizione di “farang”, pensavo che ciò fosse una mancanza di amore, niente di più sbagliato … È semmai rispetto e tradizione. Basta guardare gli occhi delle persone per rendersene conto, hanno la stessa luce che si vede in quelli di ogni persona che in una qualsiasi parte del mondo ritrova i suoi cari venuti da lontano. Capisco che oggi per la famiglia di mia moglie è una giornata speciale, sono venuti tutti, i fratelli, i genitori ed alcuni nipoti; tutti per dare il primo saluto alla nuova arrivata e, naturalmente, per rivedere noi. Ci stipiamo nel cassone del pick up lasciando il posto in cabina a mia moglie ad alla piccola ed iniziamo l’ultima ora di viaggio. Mi siedo in fondo ad una delle due panche che fungono da sedili e mi concentro nell’individuare i cambiamenti dall’ultima mia visita; loro non sono cambiati per nulla, qualche bambino è più grande, ma gli adulti sono esattamente come me li ricordavo, non un capello bianco in più. La città fa da conferma, il mercato, la scuola, le case; la sensazione che qui il tempo si sia fermato si fa sempre più forte. Lampang è il classico capoluogo di una zona rurale, nei suoi mercati si riversano i prodotti delle zone circostanti, costituisce il nodo principale della rete stradale e ferroviaria della zona, da pochissimo tempo hanno fatto la loro comparsa i primi, ma ben forniti, ipermercati di stile occidentale frequentati per lo più da giovani e da persone di ceto sociale medio-alto, mentre la rimanente popolazione preferisce ancora tradizionalmente fare gli acquisti nei vecchi mercati dove la carne viene ancora venduta sui banchi di legno e dove la frutta in vendita è accatastata per terra. Potremmo quasi definirla una città di frontiera dove il nuovo cancella molto lentamente il vecchio, dove le Mercedes convivono con i calessi, dove scintillanti e moderni edifici sorgono accanto alle vecchie case in teak. La struttura viaria è abbastanza caotica, simbolo tipico di un agglomerato urbano cresciuto troppo in fretta e senza regole; il traffico è abbastanza intenso ed un gran numero di pick up si muovono nelle strette strade cittadine che un “senno del poi” ha cercato di rendere più agevoli istituendo improbabili sensi unici. E’ mezzogiorno passato ed i marciapiedi sono gremiti di persone, frotte di studenti nelle loro divise approfittano della pausa del pranzo per fare qualche acquisto, sono facilmente riconoscibili, le ragazzine con la loro camicetta bianca con le iniziali ricamate in blu, la gonna blu lunga oltre le ginocchia, le calzette bianche e le sobrie scarpette nere, i maschi con una divisa simile ai boys scout, camicia, pantaloncini e calzettoni kaki, scarpe nere ed, elemento comune a tutti, una cartella di pelle nera. Mi viene spontaneo pensare agli studenti di casa nostra, quelli con i capelli al gel, i giubbotti sgargianti o rigorosamente neri, gli zaini appariscenti; li rivedo chiaramente sciamare vociando all’uscita dei nostri istituti, ottenendo spesso sguardi di disapprovazione dalle persone più anziane. Qui niente di tutto ciò, sono ordinati, puliti e tranquilli, parlano tra loro, ma a voce talmente bassa che anche allungando le orecchie si fatica a sentirli; equiparati nelle loro identità, nel loro orgoglio di nuove generazioni il ricco, con la divisa fresca di bucato si confonde vicino al povero il cui abito mostra alcuni sapienti lavori di sartoria per adattarlo allo sviluppo del corpo. Innanzi alla scuola non ci sono semafori, ma alcuni studenti più grandicelli sono muniti di lunghi bastoni sormontati da un gagliardetto rosso; come le sbarre di un passaggio a livello vengono abbassati per interrompere il flusso dei veicoli e permettere il sicuro attraversamento della strada, le auto si fermano ordinatamente, nessun suono di clacson, nessuna manovra azzardata per aggirare in fretta l’ostacolo.

Il nostro pick up si avvia verso la periferia passando davanti all’ospedale, grande e ben curato assomiglia ad un alveare dove le infermiere, come api bianche e celesti, si avvicendano nel cambio del turno. Man mano che ci allontaniamo dal centro le case si fanno più rade, nella periferia le case si riducono ad una discontinua fila ai lati della strada, il cemento lascia il posto al legno, i campi coltivati si affacciano lungo la rimodernata Route 1053 che, dritta come un fuso, attraversa la pianura verso le colline che s’intravedono attraverso l’aria opaca del meriggio. Qualche anno fa la strada era molto più piccola ed in parte sterrata, bisognava viaggiare con un fazzoletto davanti alla bocca per non fare il pieno di polvere, ora le corsie sono raddoppiate, la polvere quasi sparita e il nostro mezzo procede spedito con qualche prodezza del conducente nell’affrontare le curve. La strada inizia a salire, superiamo alcuni songthaew carichi di persone e di merci, questi mezzi sono una sorta di piccoli taxi collettivi che si affiancano ai meno frequenti, ma ugualmente malridotti, bus a lunga percorrenza, probabilmente il loro costruttore aveva in mente un diverso utilizzo, ma l’ingegno dei proprietari li ha trasformati in veicoli capaci di portare anche una quindicina di persone sistemate su tre panche longitudinali poste nel cassone coperto da un tetto in lamiera e plastica su cui trovano posto tutte le merci che sono state acquistate in città. Finalmente la pianura ha lasciato il posto alla montagna, prima di arrivare a casa dovremo superare una piccola catena montuosa intorno ai 300 metri di altezza; se in Thailandia sapessero costruire le gallerie, il viaggio si dimezzerebbe, ma le gallerie sono una prerogativa degli italiani e quindi qui, al massimo, sono capaci di limare un picco con la dinamite. La strada s’inerpica lungo le pendici, superiamo grossi camion Hino adibiti al trasporto del legname, la temperatura si fa un po’ più fresca pur mantenendosi a livelli da Ferragosto. Superiamo la sommità e cominciamo ad intravedere la pianura successiva, il fiume che l’attraversa è ancora pieno e si allarga formando un piccolo lago frastagliato. Il primo villaggio che incontriamo si chiama Huai Luang e costituisce l’occasione per far riposare un po’ il motore del nostro mezzo, approfittiamo della sosta per fare spesa ad un mercato lungo la strada; quest’anno il raccolto di frutta è stato abbondante e facciamo quindi provvista di ananas enormi, di dolci mang-khut dall’aspetto simile ad una mela con l’interno che ricorda un’arancia, di mango maturi da mangiare insieme al riso dolce. Io ho già individuato il mio pranzo, sticky rice arrostito nelle canne di bambù ed un grosso pesce gatto alla brace; qui non conoscono il pane che viene quindi sostituito, con successo, dallo sticky rice o riso glutinoso, una qualità di riso particolare, disponibile sia bianco, che nero o rosso; a causa dell’elevata quantità di glutine contenuta in esso viene lasciato in ammollo per una notte e quindi cotto al vapore, ottenendo quindi un pane di riso che può essere consumato così oppure addolcito con il latte di cocco o cotto nuovamente in molti modi con l’aggiunta di svariati ingredienti; esso costituisce la base per molti piatti, si conserva per diversi giorni a temperatura ambiente ed in ogni casa non manca mai, pronto per ogni occasione. Il pesce gatto o “plaa duk”, invece, è di recente introduzione sulle tavole dei thailandesi; si afferma che sia stato studiato dal Re in persona , il quale ha effettuato per primo gli esperimenti di allevamento. La caratteristica di questo pesce è quella di resistere in pochissima acqua o, addirittura, fango, adatto quindi ad essere allevato nelle risaie come compendio al raccolto. L’aspetto non rivela la bontà delle sue carni; viscido e scuro esternamente, ha una carne saporita, nutriente e quasi priva di spine. I pesci stanno ancora cuocendo su un improvvisato barbecue ricavato da un fusto metallico segato a metà, il fumo ristagna sotto la tettoia del mercato e l’odore di legna bruciata e di carne arrostita funziona da veicolo pubblicitario, richiamando gli acquirenti; i pesci, infilzati su piccoli spiedi di bambù, vengono sapientemente rigirati e quindi consegnati ai clienti incartati in foglie di banano, qui più a buon mercato della carta. Fatta la spesa, soprattutto per non presentarsi a mani vuote agli altri membri della famiglia, percorriamo l’ultima manciata di chilometri arrivando quindi a destinazione. Dopo due anni di assenza rivedo Chae Hom, a prima vista direi che non è cambiato niente, lì l’ospedale, là la scuola, la banca, l’ufficio postale; non ci sono né alberghi né bar, giusto un piccolo ristorante per lo più utilizzato dai locali per qualche ricorrenza importante. Distrattamente guardo il display del mio cellulare e, con sorpresa, mi accorgo che la copertura è al massimo e viene visualizzato il nome del paese. La scritta che sto leggendo è per me l’unica comprensibile, tutto il resto, segnali stradali, insegne, cartelloni pubblicitari è scritto in caratteri thai. Sopra l’ingresso del ristorante noto una grande insegna luminosa bianca e rossa con una strana scritta, gli svolazzi della grafia mi fanno pensare a qualcosa di noto … Ma certo, ora la riconosco … È la pubblicità della Coca Cola. Poco più avanti un colossale cartello posto a lato della strada mostra il viso accigliato di Sua Maestà Re Bhumibol, ecco è laggiù, vicino all’ultima curva. Il Mitsubishi rallenta ed imbocca una stretta stradina sterrata tra due file di case, alcune galline corrono velocemente fuori della strada seguite da uno stuolo di pulcini, abbarbicati ad uno steccato alcuni bambini dagli occhi vispi e scuri ci guardano divertiti e lanciano alcune incomprensibili frasi verso i genitori che stanno in casa. Il mezzo si ferma in uno stretto cortile, un po’ goffamente salto giù dal cassone cercando di riattivare le mie gambe inchiodate da circa un’ora in una scomoda posizione. Vedo diverse persone venirci incontro; alcune le riconosco, altre no. I bambini sono i più solerti e si richiamano con voci garrule, non so la loro lingua, ma intuisco il significato di quella frase ricorrente: “I farangs sono arrivati !”. Il breve sonno ristoratore non ha cancellato del tutto i postumi del viaggio, sono disteso nel mio letto “da occidentale” e guardo, senza metterle a fuoco, le travi del soffitto; penso … Come in un flashback mi ritornano alla mente le immagini iniziali di Apocalypse Now di Coppola, dove il protagonista stava nella mia stessa posizione e, in un dormiveglia agitato, identificava le pale del ventilatore in quelle di un minaccioso elicottero gunship. Il velo della sonnolenza pian piano si solleva e, resomi conto di dove sono, mi soffermo ad osservare i particolari che mi circondano. Fa uno strano effetto rivedere dopo alcuni anni un luogo famigliare, notare che il tempo non ha cancellato completamente il tuo precedente passaggio. Il mio vecchio accappatoio è appeso dietro la porta, alcuni boarding passes usati sono appoggiati in bell’ordine su di un ripiano, segno che qualcuno ha riordinato la stanza, ma che non ha saputo interpretare il significato di quei vecchi ed ormai inutili foglietti sgualciti. La stanza è più’ grande di prima, Moon, mia moglie, aveva scritto a suo fratello di adeguarla per far posto alla nuova arrivata; ampliare una stanza per noi significa rivoluzionare per un certo periodo la vita famigliare, convivere con polvere e calcinacci, fare largo ad operai che immancabilmente lasceranno un disordine indescrivibile; qui è diverso, è bastato spostare una parete di legno, togliere e impiantare quattro chiodi e tutto è a posto. La nostra casa è abbastanza nuova, costruita otto anni fa poco prima che io e Moon facessimo la nostra prima conoscenza reciproca. E’ una tipica casa thai, anche se alcuni particolari denunciano la sua recente costruzione; è stata costruita nel giardino della casa paterna e quindi a pochissimi metri dalle abitazioni dei parenti. Come quasi la totalità delle abitazioni circostanti è su due piani, di cui il piano terra è composto da un colonnato aperto sotto di cui trovano riparo motorini, attrezzi agricoli e legna da ardere. Contrariamente alle case più vecchie nelle quali la struttura è completamente lignea, qui la voglia di modernizzare, ed il costo del legname, hanno fatto sì che la struttura portante sia stata realizzata in cemento armato le cui dimensioni mostrano l’evidente assenza di un ingegnere. Il piano superiore, dal pavimento al tetto, è interamente in teak. Verso la strada si affaccia un patio sollevato da terra di circa un metro e mezzo. Elemento tipico delle case locali, questa struttura, o meglio le due colonne che lo sorreggono, è l’indicatore della ricchezza del proprietario; il tetto di questa parte della casa infatti è sostenuto da due tronchi di teak massiccio il cui diametro e la sua lavorazione variano da casa a casa, piccoli ed irregolari nelle abitazioni più povere, enormi e finemente intarsiati in quelle più ricche; la nostra è una via di mezzo, il legno ha un diametro di ben oltre il mezzo metro, ma la sua superficie è levigata e senza fregi ornamentali. Da questa parte della casa si accede, salendo qualche gradino, alla “living room”. Elemento comune a tutte le case della zona è la loro struttura interna; non esiste la tipica suddivisione in vani delle case occidentali, qui un unico e grande locale svolge molteplici funzioni, ora cucina, ora sala da pranzo, ora soggiorno; il pavimento, costituito anch’esso da assi di legno, non è mai su di un unico piano, ma presenta sempre un dislivello centrale che costituisce un luogo ove sedersi. Eccettuato qualche piccolo armadio o cassapanca, non esistono mobili. Il desco famigliare thailandese è, tradizionalmente, costituito da una stuoia dove viene servito il cibo, i commensali siedono a lato direttamente sul pavimento, questo comportamento rende quindi superfluo l’utilizzo di tavoli e sedie, mentre la sobrietà, e talvolta la povertà, rendono superflue le poltrone ed i divani. Direttamente sull’ambiente principale si aprono le porte delle “camere da letto”. Tipicamente queste sono costituite da ambienti piccolissimi dove, sormontati dall’immancabile zanzariera, alcuni bassi materassini di fibra vegetale costituiscono il giaciglio. La nostra casa è stata in parte adattata ai nostri usi occidentali, il soggiorno è in parte occupato da tavolo e sedie; una delle due camere da letto, più grande del solito, contiene un letto fatto costruire appositamente da un artigiano locale prendendo spunto da una foto di un giornale italiano, un ventilatore a soffitto rende l’aria più fresca, un lettino più piccolo è dedicato al riposo di Giulia. Nella parte posteriore del fabbricato il cemento sostituisce il legno, su un piccolo terrazzino si affaccia la minuscola cucina ed un piccolo bagno; il pavimento è piastrellato ed il tetto è in Eternit, una breve scala porta al cortile. Il bagno e la cucina sono due elementi innovativi, nelle vecchie case, infatti, questi due “accessori” non sempre sono presenti; la cucina di solito è inglobata nell’ambiente principale ed è semplicemente costituita da un braciere in materiale refrattario sul quale vengono cotte tutte le pietanze; il bagno sovente è fuori, non molto lontano dalla casa, non sempre dotato di acqua corrente e spesso costituito da una fossa che, quando piena, viene sostituita da un altra ricavata poco lontano. La modernizzazione ha indubbiamente portato qualche miglioria, hanno fatto la loro comparsa le fosse settiche Imhof, le piccole autoclavi pompano l’acqua dai pozzi alle case, le bombole di gas hanno fatto la loro comparsa nelle cucine. Ad un crocevia della strada, in mezzo al piccolo nucleo di case, una vecchia pompa a mano giace ormai pressoché inutilizzata, eppure non è passato molto tempo da quando i bimbi venivano qui ad attingere l’acqua per portarla sulle loro fragili spalle fino alla loro casa. Ho ascoltato diverse volte dalla voce di mia moglie la descrizione della vita qui una ventina di anni fa, il viaggio breve, ma faticoso, per prendere l’acqua, le lunghe camminate per raggiungere la campagna dove raccogliere i pochi frutti della terra, la lunga permanenza nelle risaie con l’acqua alle ginocchia, i tetti di paglia squassati dal monsone estivo, il buio della notte interrotto solamente dai flebili bagliori di un fuoco o di una candela. Cose lontane, lontane da me, lontane dalla mia vita di pasciuto farang, lontane persino dai ricordi che mia madre mi ha tramandato dell’Italia di inizio secolo. Cose vicine ora, che, mentre il sole sparisce dietro le montagne, me ne sto qui ad oziare pensando al rapido mutare delle cose. Fuori si sono accese le luci al neon che illuminano la strada, non sento più le voci dei bambini, i grilli e le rane incominciano le loro chiacchiere notturne, la notte si avvicina a grandi passi. L’acqua fredda cancella sonno e pensieri, butto da una parte i pantaloni lunghi, le calze ed il resto del mio abbigliamento invernale, la sera è fresca come da noi a settembre, ma vengo da un clima ben più freddo quindi mi bastano un paio di pantaloncini ed una maglietta. Nel cortile alcune persone sono accovacciate per terra attorno ad un fuoco, Moon cerca di raccontare in poche frasi due anni di novità, l’arrivo della bambina, la scomparsa di mia madre, la nostra vita a diecimila chilometri di distanza. Gli altri ascoltano attenti, ponendo ogni tanto qualche domanda, come bambini intorno alla maestra. Mi avvicino in silenzio, non voglio disturbare la conversazione, qualcuno si volge verso di me, un sorriso e l’attenzione ritorna sulla “maestra”, capisco che sta parlando di usi diversi, di comodità della nostra vita di tutti i giorni, sua madre la guarda perplessa, quasi stupita per questa figlia ora vicina fisicamente e lontana anni luce per quanto riguarda la mentalità. Tem, questo il nome della madre, è di corporatura minuta, ha il viso rugoso ed i capelli grigi, gli occhi rivelano un’età non troppo avanzata, il fisico, seppur ancora privo di acciacchi, rivela una vita dura passata ad allevare figli e bestiame. Un vecchio detto Thai recita che “la donna deve essere come le zampe posteriori di un elefante, deve seguire e sorreggere”, in effetti la posizione sociale femminile, almeno fino a qualche anno fa, non era delle migliori ed i costumi locali imponevano rigide regole; nei miei primi viaggi nella Thailandia rurale mi sono chiesto spesso come mai le donne che svolgono attività all’aria aperta escano da casa di solito coperte da capo a piedi; ora so il perché, la tradizione pretende che la donna sia poco abbronzata in quanto il suo posto è di regola la casa, quindi una donna abbronzata è sinonimo di scarsa permanenza in casa, e pertanto di scarsa cura del nido famigliare. Per gli uomini vale, ovviamente, il contrario, un uomo non abbronzato è, nella tradizione, sintomo di una persona oziosa, pigra e che non contribuisce abbastanza ad alimentare la famiglia con il proprio lavoro. Ora tutto ciò vale molto meno, già la generazione attuale ha portato una ventata di nuovo nei costumi sociali, la prossima generazione, quella degli studenti che ho visto a Lampang, probabilmente spazzerà via buona parte del divario tra noi e loro. Una cosa, ne sono sicuro, rimarrà immutata … Il rispetto per gli altri e, in particolare, per le persone anziane; in Thailandia non ho mai sentito parlare di case di riposo ed ospizi, e, quando ne parlo, mia moglie inorridisce al solo pensiero. La famiglia rurale thailandese è sostanzialmente patriarcale, cosa peraltro comune a molte civiltà contadine, dove il padre, pur senza ricoprire il ruolo esasperato di padre-padrone, ha una certa autorità per tutta la vita. Quest’autorità deriva dall’effettiva, incontestabile e vitale funzione di mantenimento economico, sia ciò consista in uno stipendio, sia in un raccolto di riso. Insomma, una sorta di riconoscimento per essersi rimboccato le maniche ed aver piegato la schiena. Cerco ancora di immaginarmi come doveva essere la vita quando Pat, mio suocero, aveva la mia età; parliamo di quasi quarant’anni orsono. Osservo il vecchio e mi faccio raccontare dal suo aspetto i ricordi di una vita; in gioventù doveva essere un bell’uomo, alto e snello, poi la dura vita contadina, la micidiale coltivazione del riso, le fatiche per portare di che vivere a casa ne hanno alterato la figura; i piedi sono callosi e sulle gambe sono ancora visibili fin sotto le ginocchia gli inequivocabili segni della lunga permanenza nell’acqua e nel fango, la schiena è ora curva, il volto abbronzato da anni di sole è solcato da rughe che mi ricordano un campo arato, i capelli sono candidi e spettinati, le mani sono grandi e sciupate. Lo sguardo però è ancora attento e fiero, osserva i presenti come a voler controllare la situazione, a voler affermare che è lui il patriarca. Quasi a conferma dei miei pensieri, il Vecchio si alza, il racconto di mia moglie si interrompe, è ora di cena, le donne si avviano a preparare la cena per i mariti ed i figli. Raramente mangio insieme con gli altri, all’inizio ci ho provato, poi i miei gusti differenti e, soprattutto, l’impossibilità di rimanere seduto alla loro maniera mi hanno fornito una comoda scusa per evitare questo rito, anche se tutte le volte mi sembra di arrecare quasi un’offesa al loro mondo. Ricordo ancora la prima volta che venni da queste parti, nelle vesti di fidanzato in visita alla famiglia della donna amata; pur preventivamente avvertito, mi stupii non poco quando gli uomini della famiglia si sedettero in cerchio sulla stuoia ed iniziarono a pranzare, serviti rispettivamente dalla propria donna, al termine il padre si alzò seguito dagli altri commensali uscendo per sedersi vicino al fuoco per chiacchierare, fumarsi un’artigianale sigaretta o masticare una foglia di betel, fu solo a quel momento che le donne poterono pranzare a loro volta, magari accontentandosi di ciò che era rimasto. Col passare degli anni, anche mia moglie non ha più conservato questa abitudine, le rispettive attività giornaliere hanno fatto sì che, come per tutti, il pranzo e la cena siano diventati momenti aggreganti dove, meglio che in altri, c’è la possibilità di parlarsi e sentirsi una famiglia. Questa è però una sera diversa, la voglia di sedersi in mezzo ai genitori è troppo forte, in fin dei conti il marito può per una volta stare da solo, la piccola ha già ricevuto la sua razione di pappa ed ora sta allegramente mangiucchiando una banana piccola e dolce. Vengo lasciato solo a badare a Giulia, che parte all’esplorazione della casa per lei nuova. Dal terrazzo della cucina posso chiaramente vedere all’interno della casa paterna, sono tutti seduti, lo sticky rice accompagnato da strane verdure al vapore e dal piccantissimo “naam phrik num” costituisce il piatto forte della serata. Tiro fuori dalla valigia una confezione di caffè italiano, rispolvero la moka che avevo lasciato qui in una precedente visita, l’aroma del caffè si mescola con il profumo della campagna che una leggera brezza porta fino a me. In Italia ora sono le due pomeridiane, i miei colleghi avranno finito la pausa del pranzo e si appresteranno a riprendere il lavoro, io, invece, sono qui ed ho davanti a me un lungo periodo di vacanza, in particolar modo mi aspettano una decina di giorni di “dolce far niente” in questo luogo fuori dal mondo. Mi sale alla mente un detto americano che, in questo momento, mi si adatta alla perfezione: “no hurry, no worry, no phone, no boss”. Giulia si è addormentata, anche qualcun altro è già sparito e presto tutti andranno a dormire; non ho ancora sonno, ma capisco che mi devo adeguare soprattutto per non cadere nella spirale del “jet lag”. Fumo l’ultima sigaretta della giornata mentre il cane di casa si accoccola in fondo alla scala. Chiudo la porta alle mie spalle e spengo la luce. La finestra è priva di tende e la luce del mattino mi ferisce gli occhi. Una vocina mi sta chiamando ripetutamente “Papaa, papaa …”. Giulia si è arrampicata sul lettone ed adesso saltella vicino a me. Guardo l’orologio … Diavolo! … Sono solo le sette e mezzo eppure i rumori che provengono dalla strada mi fanno capire che le attività giornaliere sono già riprese. Moon arriva con alcuni involucri di foglie di banano, so già cosa contengono, è la mia colazione: riso bollito nel latte di cocco e cotto al vapore nelle foglie insieme con una gustosa crema “sangkha yaa”. Giulia ed io spazzoliamo bene il tutto, aggiungo per me un caffè nero e fumante mentre Moon fa colazione alla maniera locale, pesce in salsa piccante e verdura appena scottata. L’aria frizzante del mattino ed il caffè mi hanno dato la carica, con la solita curiosità dei primi giorni scendo in strada. Alcune donne stanno facendo spesa presso una sorta di negozio a lato della strada. Non so se negozio sia il termine corretto, in realtà è una bassa costruzione di legno e cemento, da una parte, nascosta a fatica da una logora tenda, una piccola camera senza finestre ospita un pagliericcio abbastanza grande da contenere tre o quattro persone; l’ampio vano centrale contiene alcuni tavolini in pietra con relative panche, le finestre di questo vano si aprono verso l’esterno in maniera singolare, le ante sono orizzontali e non simmetriche, l’anta inferiore ribaltandosi in fuori forma un banco di vendita, mentre l’anta superiore, alzata e mantenuta in posizione con l’ausilio di un bastone, forma una tettoia spiovente che ripara dagli agenti atmosferici. L’ultima parte della costruzione è la cucina dove già dal primo mattino il “tom yam”, una specie di brodo di carne, bolle in alcuni grossi pentoloni. Sui “banchi di vendita” sono esposte verdure, uova, carne cruda ed altri cibi. Dal soffitto pendono file di sacchettini di biscotti, piccole bustine di detersivo, caramelle. Le donne che avevo visto prima stanno concentrando la loro attenzione su un vassoio metallico coperto da foglie di banano che contiene qualcosa di colore bianco. In brevissimo tempo il contenuto viene diviso tra le clienti, vedo passare di mano cifre consistenti per quel tipo di negozio, cinquanta .. Cento bath, le acquirenti se ne vanno con aria soddisfatta con il loro pacchettino verde chiuso da un pezzettino di bambù. Moon è al mio fianco e, mescolando inglese e thai, esclama “mot eggs !”. Avrebbe dovuto dire ant eggs, in altre parole uova di formica …, una prelibatezza per gli abitanti della Thailandia settentrionale. In giro ci sono solo donne e persone anziane, i bambini sono a scuola, gli uomini nei campi. Un uomo passa guidando un gruppetto di quattro bufali d’acqua, sono diversi dai bufali nostrani, hanno la pelle coriacea come quella di un rinoceronte, il corpo enorme sorretto da zampe esili se paragonate alla corporatura, pazienti e docili vengono sospinti dal loro padrone verso le risaie allagate dove staranno tutto il giorno mangiando l’erba inutile che cresce insieme al riso. Vorrei andare in casa a prendere la Nikon armata di pellicola in bianco e nero per fare qualche istantanea, ma mia moglie mi richiama all’ordine, prima che il sole diventi insopportabile dobbiamo andare a Chae Hom per sbrigare alcuni affari e comprare qualche cosa da mangiare. La nostra casa dista dal centro del paese circa tre chilometri, distanza che si dimezza se si taglia per i campi. Mi sistemo alla guida del pick up spostando completamente indietro il sedile evidentemente inadatto al mio metro e ottantacinque, devo ricordarmi di stare “dalla parte sbagliata della strada”, vale a dire a sinistra, il motore si avvia trasmettendo tutte le sue vibrazioni ed incertezze all’intero veicolo, partiamo. Chae Hom ci viene incontro con le sue case quasi tutte uguali, noto solo ora che alcune case di legno sono state demolite per far posto a nuove costruzioni in cemento. Ne avevo sentito parlare. Poiché il governo ha bloccato per dieci anni il taglio del teak, il relativo prezzo è andato alle stelle. Alcuni intraprendenti commercianti di legname hanno avuto la bella idea di girare per le zone rurali proponendo lo scambio casa di legno contro casa di cemento; ovvero io ti compro tutto il legname della tua casa ed in cambio ti costruisco, al suo posto, una casa nuova in muratura, e molti hanno accettato. La vecchia strada che attraversa il paese è abbastanza stretta, per questo motivo è stata costruita una sorta di circonvallazione che salta l’abitato. Su questa nuova strada si stanno concentrando gli edifici pubblici. Ospedale, catasto, motorizzazione, comune, sono tutti nuovi e funzionali. Lungo la strada interna sono rimasti solo i negozi, che si affacciano da entrambi i lati della strada, la banca ed il mercato. Già il mercato …, in Thailandia è possibile, almeno fino a quando non saranno stati fagocitati dai nascenti mega centri commerciali, misurare l’importanza di un luogo dalla grandezza e dall’affollamento del mercato locale. Qui a Chae Hom, invece, il mercato può trarre in inganno. Non è molto grande, eppure il paese è il punto di riferimento per una vasta area rurale. Qualche banco di frutta e verdura, altri di pollame e carne dove i venditori si affannano a scacciare le mosche sventolando piccole canne di bambù con attaccato un sacchetto di plastica; da un carretto riparato da un vecchio ombrellone una donna vende ciotole di “saku”, perle di tapioca con latte di cocco e zucchero di palma, e granite ottenute piallando una barra di ghiaccio con un rudimentale strumento. In realtà questo è solo il mercato diurno, quello destinato ai soli abitanti del paese. Quello grande, dove fanno acquisti tutti i proprietari della miriade di negozietti sparsi nei piccoli villaggi, durante il giorno è chiuso. Per venire incontro alle necessità dei negozi e, soprattutto, per evitare che la merce deperisca velocemente sotto il sole, il mercato principale inizia la sua attività nel cuore della notte per chiudere i battenti prima delle sette del mattino. Qui non ci sono ancora i grandi banchi frigo cui noi siamo abituati, la merce è venduta all’aperto, occorre quindi una buona e collaudata organizzazione per evitare di buttarne via buona parte; per questo rigidi accordi sanciscono turni a rotazione nella macellazione del bestiame così come nel raccolto della verdura. Non deve esserci un surplus pena la saturazione del mercato e quindi perdite per tutti. Mi soffermo ad osservare i negozi del centro, mi ricordano vecchie e sbiadite fotografie della drogheria che mio nonno aveva nei primi anni del secolo. Casse di sapone e scatole di latta con il coperchio in vetro piene di biscotti, sacchi di zucchero sfuso e scatole di chiodi sono disordinatamente disposte nell’ampio locale ricavato dal porticato dell’abitazione sovrastante; alcuni prodotti, ormai da noi obsoleti ed introvabili, mi riportano alla mente immagini della mia infanzia. Dobbiamo acquistare quanto necessario alla nostra vita quotidiana e, tra l’altro, la carta igienica. Con mia sorpresa mi accorgo che è considerata un articolo da signori, è venduta a rotoli singoli per la bella cifra di yii-sip bath, venti bath ovvero mille lire.

Con svariati sacchetti facciamo ritorno a casa, il sole è allo zenit ed all’ombra si sta meglio. Un “maphrao” ghiacciato, in altre parole una noce di cocco, come aperitivo mi mette in pace con il mondo ed è gradita anche da Giulia che ne beve avidamente il succo fresco e dolce. Dai campi sono ormai ritornati tutti, il lavoro della giornata è pressoché finito visto che il caldo renderebbe insopportabile continuare. Laggiù nelle risaie assolate sono rimasti i bufali legati ad una pietra con una lunga corda. Sembrano insensibili al caldo, continuano tranquilli a mangiare l’erba a loro destinata separandola delicatamente dai germogli del riso che ormai svettano sopra l’acqua fangosa. Ovviamente non tutti lavorano nei campi e per gli altri le attività, sebbene all’ombra, fervono ancora. Dal “negozio” vicino a casa un profumo invitante richiama la mia attenzione, mi avvicino, la donna sta tagliando con un grosso coltellaccio alcuni polli su un pesante e rudimentale tagliere evidentemente ricavato da una fetta di tronco d’albero, il marito infilza i piccoli pezzi su spiedini di bambù a loro volta sapientemente preparati da un vecchio armato di una sorta di machete. La donna non si preoccupa di togliere le ossa o di separare le varie parti dei polli, qui non si deve buttare nulla, quindi gli spiedi sono composti a casaccio fino a che sul tagliere non rimane più nulla. A questo punto gli spiedini vengono passati nella salsa di soia e quindi gettati in una padella wok colma d’olio bollente. Capisco dai rapidi movimenti delle persone che il tempo a loro disposizione è limitato, guardo l’orologio che segna le dodici e trenta passate. Incuriosito, chiedo lumi a Moon che mi spiega che tutto deve essere pronto prima della una, in modo da consentire di andare a vendere il cibo all’uscita della scuola superiore ad un paio di chilometri da qui; costituiranno il pranzo per molti studenti e, venduti a cinque bath l’uno, un discreto introito per il venditore. Anche in questo caso la mia mente corre sulle ali della fantasia, immagino la faccia dei nostri ragazzi se, al posto della focaccina o della merenda, si vedessero proporre spiedini di pollo alla soia o sacchettini di polpette di maiale lessate; mi viene da chiedermi quale sia l’alimento più giusto ed appropriato … Certo bisogna considerare il clima, le abitudini, le regole …, mi accorgo di aver fame. Moon, intanto, si è seduta sotto la tettoia e sta dicendo qualcosa alla donna con il grembiule, mi siedo anch’io. Le chiedo cosa abbia ordinato. – “cha-om thawt”, verdura fritta in salsa di peperoncino – non fa per me, grazie; puoi ordinare per me qualcosa di non piccante? – puoi prendere dei “phat sii-yiw”, sono tagliolini di riso con maiale e verdure soffritti nella salsa di soia – ok, proviamoli – cosa vuoi da bere? – un “naam manao yen” – la limonata con i tagliolini non va bene! prendi solo acqua che è meglio Senza attendere il mio assenso, si rivolge alla padrona. – Pii, naam yen gheo som. La donna riempie due enormi bicchieri con scaglie di ghiaccio e tira fuori da una ghiacciaia una bottiglia d’acqua. Moon stappa la bottiglia, versa il liquido nei due bicchieri e me ne porge uno. Come già detto sono diversi anni che frequento la Thailandia, eppure l’istinto “da chioccia” di Moon non è cambiato. Quando la conobbi, lavorava in un piccolo ristorante di Lampang e rimase non poco sconcertata quando io, di transito in città e scarso conoscitore dei cibi locali, ordinai un menu a dir poco improbabile. Nel suo inglese scarso ed essenziale, mi spiegò con cura quali piatti e bevande era giusto abbinare, quali potevo mangiare e quali erano troppo distanti dai miei gusti occidentali. Probabilmente mi stregò quella sua dolce pazienza, complice il fatto che, allora, trovare a Lampang una persona che parlasse inglese era abbastanza difficile. Scendendo da Chiang Saen lungo la vecchia strada “sai kao”, dopo aver visitato le più conosciute località del nord, mi ritrovai a passare da Lampang; ritornai a cercarla e la convinsi a farmi da guida nella visita di quella cittadina così diversa dalle località turistiche che avevo fino a quel momento frequentato. Al termine dei pochi giorni a mia disposizione, facemmo visita alla sua famiglia. Vedo ancora la sorpresa della madre e lo sguardo di disapprovazione del padre quando ci videro arrivare, anche se erano abituati al carattere indipendente della figlia. A diciassette anni si era rifiutata di obbedire alle decisioni del padre che, come succedeva anche nelle famiglie patriarcali italiane di inizio secolo, aveva già pianificato la vita della figlia come aveva fatto precedentemente per le sorelle maggiori. Con decisione aveva abbandonato la famiglia ed il villaggio, trasferendosi nella vicina città per riprendere gli studi precocemente interrotti, al contempo lavorando nel ristorante in cambio di vitto, alloggio e di un misero salario. La sua decisione l’aveva portata, all’età di ventotto anni, ad essere considerata ormai fuori dall’età in cui una ragazza è pronta a prendere marito, radicando nella mente dei famigliari il pensiero che questa figlia sarebbe rimasta zitella. Seriamente preoccupati, i genitori vollero comunque provvedere a fornirle almeno i mezzi per una futura sussistenza, costruirono per lei la casa e le procurarono alcune terre, vicino al fiume, in modo da garantirle un buon raccolto di riso. Devo dire che l’inizio non fu dei migliori tanta era la diffidenza verso uno straniero venuto da lontano. La mia incapacità di dialogare con loro e la mia differenza di abitudini costituivano un muro invalicabile. Ricordo che spesso venivo lasciato per ore da solo, mentre Moon cercava di convincere la madre sulla decisione ormai presa, il padre, con il suo orgoglio ferito, rifiutava ogni colloquio. Alla fine i vecchi dovettero cedere alla determinazione di noi giovani. Il periodo che seguì non fu meno difficile, le usanze locali impongono, infatti, che la promessa sposa possa uscire da casa solo accompagnata dalla madre o da una sorella maggiore e, a quel tempo, per fare una telefonata “overseas” occorreva percorrere una sessantina di chilometri prima di arrivare ad un centro di telecomunicazioni in grado di offrire un collegamento intercontinentale. Dopo dieci mesi, tre viaggi, quindici telefonate ed un numero imprecisato di lettere finalmente ci sposammo e Moon si trasferì definitivamente in Italia. Ricordo ancora le ultime raccomandazioni dei genitori a me rivolte per tramite di un maestro locale che conosceva un po’ di inglese: non farle mancare il riso e, se puoi, non la picchiare ! Ormai sono passati quasi sette anni, la constatazione del benessere della figlia e, soprattutto, la nascita dell’erede hanno abbattuto quel muro che ci separava, continuo a non capire completamente la loro lingua, ma ormai posso considerarmi a pieno titolo parte della famiglia. Il piatto che all’improvviso mi viene posto davanti ed il profumo che da esso si sprigiona dissolvono i miei pensieri richiamandomi alla realtà. I tagliolini hanno il tipico colore marroncino conferitogli alla salsa di soia, la carne di maiale, sapientemente e finemente tritata, è miscelata a bianco dell’uovo, alcuni fagiolini di un verde vivace danno una nota di colore alla portata. Con buona volontà, ma con scarso allenamento, inizio ad usare le bacchette. Con la sua tipica premura, Moon mi procura una ben più comoda forchetta. Una caratteristica saliente della cucina thailandese consiste nel saper presentare i cibi, è difficile imbattersi in un piatto che non soddisfi lo sguardo. Eppure, ancora una volta, il gusto supera l’estetica. “Aroy !”, squisito ! Approfittiamo del momento di tranquillità per programmare il pomeriggio; ci sarebbe da andare a far visita alla cugina che abita in fondo alla strada, alla zia che è poche case più avanti, e poi ci sarebbe un altra cugina ed un altra zia. Arriviamo comunque alla conclusione che ora è troppo caldo per muoversi, possiamo andare verso le quattro e mezza, quando la brezza serale rende l’aria più fresca. Abbiamo quindi il tempo per un riposino pomeridiano. Mi volto verso Giulia, come per chiederle il suo parere e capisco al volo che approva la nostra scelta. Lei sta già riposando. La strada che passa davanti alla nostra casa corre per circa un chilometro delimitata ai suoi lati da case quasi tutte uguali, molte strette traverse suddividono le case in piccoli gruppi, solitamente appartenenti ad elementi di una stessa famiglia. Parte dai campi di riso a sud dell’abitato e termina a nord con l’ingresso del vasto cortile della scuola elementare, che la domenica si trasforma in un ben fornito mercato rionale. Percorsa solamente dagli abitanti di questo sobborgo chiamato Vichenakhon, è una strada secondaria che fino a due anni fa era in terra battuta ed, ad ogni passaggio di una moto, le case si riempivano di una polvere finissima e giallastra; ora è stata completamente pavimentata con lastroni di cemento, dono “disinteressato” di un cementificio che, a pochi chilometri da Chae Hom, stona facendo emergere la grigia mole delle sue strutture dalla foresta verde e rigogliosa. Il traffico è estremamente limitato, costituito praticamente da soli motocicli e qualche sporadico furgoncino adibito al commercio ambulante. La casa della cugina di Moon verso cui siamo diretti è oltre la scuola, laggiù dove la strada piega a sinistra restringendosi ancora. Oltrepassiamo la scuola con le sue bandiere che sventolano pigramente nella flebile brezza, una casa più grande e diversa dalle altre richiama la mia attenzione, sulla sua sommità è posta una croce. E’ una chiesa cattolica. Piccola e pulita, mi ricorda quelle piccole chiesette di campagna che speso è possibile incontrare nei nostri più piccoli e remoti paesini. Un thailandese di mezza età sta affiggendo alcuni fogli in una bacheca posta vicino all’ingresso. Cordialmente, mi saluta in un ottimo inglese. Mi presento brevemente, gli dico che vengo dall’Italia e che anch’io sono cattolico, anche se raramente frequento i luoghi di culto. Lui è il sacerdote della piccolissima comunità cattolica della zona, circa una trentina di persone sperse in questo universo buddhista. Mi spiega che, prima di prendere i voti, faceva il maestro elementare. Alla mia ovvia domanda circa la coabitazione di due religioni in un contesto sociale così piccolo, lui mi risponde semplicemente: – tua moglie è buddhista, eppure tu la ami e la rispetti. D’improvviso la mia domanda mi sembra quantomai sciocca. Mi spiega quanto sarebbe deleterio per l’intera comunità se un gruppo, grande o piccolo, si separasse per una differenza di fede. Qui ognuno ha bisogno dell’aiuto del suo vicino, indipendentemente dal suo credo. E poi le differenze, i comandamenti per intenderci, non sono così diversi. Entrambe le fedi sono fatte per guidare gli uomini lungo la retta via, per cui che motivo ci sarebbe per sentirsi diversi? Ascoltando le sue parole di saggio orientale più che di prelato, arrivo a pensare che, se molti preti di casa nostra fossero come lui, gli oratori sarebbero molto più frequentati. Promettendo di continuare successivamente e con più tempo a disposizione il nostro colloquio, lo saluto. Mentre mi allontano percepisco il suo sguardo, benevolo ed al contempo curioso, che mi segue. Avvicinandomi alla casa della cugina, un rumore ritmico attrae la mia attenzione. Colgo al volo la scusa per evitare di passare un’ulteriore ora ascoltando discorsi per me incomprensibili e contraccambiando la cortesia ed i complimenti del padrone di casa con altrettanti miei muti sorrisi che mi fanno assomigliare ad una persona affetta da paresi facciale. Mi avvio in direzione del rumore fino a vedere di cosa si tratta. Il piano terra di una casa è stato adibito a falegnameria ed il proprietario, armato di martello e scalpello è intento a lavorare intorno ad un tronco quasi grezzo. L’immancabile sorriso di circostanza, e più probabilmente il fatto che sono l’unico farang nel giro di qualche chilometro, mi fanno da passpartout e mi permettono di avvicinarmi ed osservare l’opera dell’artigiano. L’avevo definito falegname, ma ora lo definirei scultore; infatti, le sue realizzazioni consistono in aquile, draghi, pesci tropicali, bassorilievi e vasi di legno intarsiato. Qualche anno fa avrebbe realizzato le sue opere con il più prezioso teak, ma da quando il governo, al fine di salvaguardare il patrimonio forestale nazionale, ha proibito il taglio selvaggio degli alberi disciplinandolo severamente, ha dovuto ripiegare su legname diverso. Occorreva trovare un legno ugualmente bello e facile da reperire nei boschi che coprono i fianchi delle colline. La scelta è caduta su una pianta a noi occidentali nota per ben altri scopi: il tamarindo. Questa pianta nella zona è molto diffusa, cresce rapidamente senza bisogno di troppe cure; i suoi frutti vengono raccolti a maturazione incompleta per diventare ingrediente di pietanze agrodolci, oppure a maturazione completa per essere consumati direttamente o per preparare dolci di vario tipo. L’ingegno dell’artigiano, unito alla necessità, ha trovato un altro e più redditizio impiego di questa comune pianta; sebbene sia più tenera del teak, ha una caratteristica che la rende quasi unica, il suo legno è bicolore, biondo chiaro come l’abete e scuro rossiccio come il mogano. Sfruttando opportunamente questa bicromia, si riescono ad ottenere stupendi effetti che vengono poi esaltati con una vernice trasparente. Nel laboratorio stanno lavorando tre uomini, mentre due donne sono intente a lucidare alcuni pezzi già pronti. La bravura di questi artigiani può essere misurata osservando gli attrezzi usati, non scorgo, infatti, utensili elettrici e tutto viene lavorato manualmente con scalpelli, raspe, pialletti e cartavetrata. La manualità e l’esperienza di queste persone è fantastica, senza soste le schegge di legno saltano via dal pezzo in lavorazione che lentamente viene come plasmato dall’artigiano, riconosco già la testa dell’aquila ricavata in una zona dove il legno è chiaro, il suo corpo nascerà invece di colore bruno ottenendo alla fine un simulacro di aquila marina molto simile a quelle che si vedono al tramonto librarsi attorno al promontorio di Laem Promthep sull’isola di Phuket. Anche questa che sta per nascere compirà il suo volo, dapprima a bordo di uno sgangherato furgone fino ai mercati turistici di Chiang Mai, Bangkok o Phuket, e quindi a bordo di un moderno aereo di linea verso una casa europea o americana. Nel frattempo Moon e Giulia mi hanno raggiunto, una delle donne che erano intente alla finitura si alza e si avvicina a noi. Della conversazione in Kam Muang, il dialetto del nord, capisco solo il ricorrente “ah pan bath”, in pratica cinquemila bath, mi chiedo a cosa si stano riferendo. Moon m’invita a seguire la donna all’interno della casa. Contrariamente al detto “il calzolaio ha le scarpe rotte, devo constatare che questa casa è decisamente diversa dalle altre, tanto che se fosse in Italia potrebbe venire scambiata per un’esposizione di un mobilificio. Tavoli, sedie, cassapanche, credenze bellissime, tutte rigorosamente in legno massiccio. Le essenze del teak, del tamarindo e del mango sono state sapientemente lavorate per formare un arredamento degno di una casa principesca; un tavolo rotondo ha la superficie finemente intarsiata raffigurante scene rurali, una spessa lastra di cristallo che lo ricopre aggiunge una luce particolare al bassorilievo, sedie dal peso enorme, sono ricavate da blocchi di teak e scolpite in modo che le zampe e lo schienale raffigurino un elefante, ad una parete è appeso con robusti chiodi un intarsio di almeno due metri, in un angolo una cassapanca mi richiama alla mente la struttura della mitica barca reale. Mia moglie mi spiega che i cinquemila bath, parenti di poco più di duecentocinquantamila lire, sono il prezzo dell’intero salotto, composto dal tavolo e dalle sedie elefantiache. La tentazione, considerato il rapporto qualità prezzo, è forte, ma una breve considerazione sulle difficoltà dell’importazione mi fa desistere dall’affare. Per non dispiacere alla padrona di casa e, pensando a graditi omaggi per gli amici rimasti in Italia, ci accontentiamo di alcuni vasi di legno di tamarindo di misura utile per essere stivati nelle Samsonite. E’ ormai l’imbrunire, e quindi è anche ora di rientrare a casa per preparare la cena e la pappa serale di Giulia. Facciamo, quindi, ritorno incontrando lo sguardo di disapprovazione della madre di Moon, perplessa su quanto acquistato per i regali agli amici. Questa sera ceniamo tutti insieme, io, Moon e Giulia, gli altri componenti della famiglia, vista l’ora per la loro abitudine tarda, hanno già cenato. Moon taglia finemente della carne di bufalo e la fa soffriggere nella salsa di soia alle ostriche insieme a semi di sesamo, è un piatto semplice e veloce che spesso prepariamo anche in Italia, sostituendo più comodamente il bufalo con il carpaccio di manzo del supermercato; la carne si mangia accompagnata da buon riso thai cotto al vapore e l’insieme costituisce un piatto unico valido in molte occasioni. Mentre sorseggio il caffè della moka, Moon raduna madre e sorelle ed inizia un rito che si ripete ogni volta che veniamo qui “a casa”. Ogni volta, come nel libro di Sciascia “Gli zii di Sicilia”, anche noi ci comportiamo, e veniamo considerati, alla stregua di quegli italiani che, emigrati in America nei primi anni del Novecento, erano ritornati in visita ai parenti nel primo dopoguerra portando in dono cose obsolete ed usate, ma utilissime per coloro che faticavano non poco per uscire da un lungo e triste periodo. Non avevo notato cosa mia moglie aveva infilato nelle valigie, avevo solo intuito dal peso che dovevano essere stracolme, contrariamente alle mie raccomandazioni di lasciare posto per eventuali e sicuri acquisti. Ora rimango stupito nel vedere quanti vestiti sia riuscita a stivarci dentro, indumenti miei e suoi che non mettiamo più da tempo immemorabile. Personalmente sono contrario a questo genere di .. Regali, ma osservando l’espressione dei presenti, devo costatare che sono graditi. Certo ci sarà da lavorare con forbici, ago e filo soprattutto per gli ex-miei abiti, visto che le mie misure da farang di più un metro ed ottanta per novanta chili di peso mal si adattano alla corporatura quasi sempre esile degli uomini della famiglia, però saranno comunque utili. Un paio di camicette per la sorella, una giacca pesante per la madre anziana, qualche paio di miei jeans vecchi … Di qualche chilo per il fratello. E’ paradossale pensare che, in un paese dove per noi i vestiti sono pressoché regalati, delle persone possano accettare cose che altrimenti avrebbero concluso la loro esistenza andando al macero oppure, più semplicemente, nel bidone dell’immondizia. Eppure uno degli aspetti caratteristici di questo popolo, e soprattutto della sua parte contadina, consiste nella parsimonia e nel non buttare via nulla che possa venire utile in futuro, probabile retaggio di anni, se non di secoli, di estrema povertà. Ad esempio, quando si viene invitati a pranzo in una casa thai, indipendentemente dallo status sociale ed economico, è dovere dell’anfitrione preoccuparsi al fine che l’ospite non rimanga senza cibo, pertanto vengono preparate molte più portate di quelle normalmente richieste dal numero e dall’appetito dei convitati, con l’ovvio risultato che qualche pietanza sarà destinata a non essere completamente consumata. Orbene, è difficile vedere buttati via questi avanzi, che, opportunamente conservati, costituiranno cibo per il padrone di casa e per la sua famiglia, ma solamente quando gli ospiti se ne saranno andati. Così è con i vestiti, ovviamente escludendo le famiglie di ceto sociale elevato. Gli abiti si buttano solo quando sono inutilizzabili completamente, un paio di pantaloni “buoni”, quando saranno lisi andranno bene per andare in campagna, la giacca “della domenica” diventerà quella di tutti i giorni. Cose inusuali per noi consumatori occidentali, di indubbia normalità per il contadino locale. Mentre la mia mente pullula di pensieri, le donne se ne vanno, ognuna con la sua quota di “regali”; il buio della notte ha preso il posto dell’ultimo barlume del tramonto, un gruppetto di persone, accovacciate come soli gli orientali sanno stare, chiacchierano in strada, radunate intorno ad un piccolo fuoco. Ho tempo per l’ultima cicca e raggiungo Moon che nel frattempo si è unita al gruppetto. L’aria della sera è fresca e fa un certo piacere sentire il calore del fuoco, specialmente quando si indossa, come me in questo momento, solamente pantaloncini e maglietta. Il fumo che si sprigiona dalla legna ardente fa spostare i presenti secondo la direzione della brezza serale. E’ come una lenta danza intorno al fuoco, con i presenti che pian piano si spostano rimanendo accucciati. Non capisco una parola, ma noto che mia moglie si è calata nuovamente nel ruolo di narratrice. Ogni tanto mi guarda, come a chiedere un mio parere, poi, di fronte al mio silenzio, mi rivolge qualche domanda per confermare cose che anche lei conosce. Non sarebbe corretto se una signora, anche se moglie di un farang, ignorasse la presenza del marito. Osservo le corte lingue di fuoco alzarsi dai pezzi di legna ormai consumati, mentre sto all’erta per captare un possibile pianto della piccola che ormai dorme tranquillamente nella casa vicina. Mentre rientriamo a casa, proviamo a buttare giù un programma per i prossimi giorni; Moon vorrebbe stare vicino ai suoi – Dobbiamo sbrigare certi affari, poi c’è da prendere accordi per far riverniciare la casa e … Poi non siamo ancora andati a trovare quel mio cugino che abita in quel villaggio a circa dieci chilometri a nord … La capisco, in fin dei conti un anno passato lontano e’ lungo, i giorni a nostra disposizione si stanno esaurendo in breve tempo, e non sappiamo quanto tempo passerà prima di una nostra ulteriore visita. Pur considerando tutto ciò, cerco di ritagliare qualche occasione per soddisfare il mio spirito da turista. In fin dei conti ci sono diversi posti vicini che non ho ancora visitato. – Potremmo andare a vedere le cascate di Wang Nua ed al pomeriggio andare in città a fare qualche acquisto. – Bisogna chiedere prima a mio fratello la disponibilità della macchina … – Teniamo comunque presente che dobbiamo anche andare in banca e poi in Comune.. – In banca possiamo andarci dopodomani con la moto – Si, brava … E Giulia dove la mettiamo? – Già … Non voglio lasciarla sola .. – Bah! Dormi ora, domani mattina vedremo .. L’importante è non svegliarsi troppo tardi, per arrivare a Wang Nua ci vorrà più’ di un ora – Esagerato! E con queste parole, Moon spegne la luce. Il sole che entra dalle finestre non schermate mi invita ad abbandonare il comodo materasso di fibra di cocco, alcune voci provenienti dall’esterno mi indicano che per molti la giornata è già iniziata. Con gli occhi ancora annebbiati dal sonno esco sul terrazzino della cucina, l’aria fresca del mattino scaccia l’ultimo torpore, l’acqua fredda della doccia fa il resto, lavando via il sonno e rendendomi pronto per la nuova giornata. Qui in campagna, contrariamente alla Thailandia del sud, l’escursione termica giornaliera è notevole, per cui al mattino presto si apprezza facilmente il tepore di un maglioncino; ne indosso uno mentre penso al successivo da farsi. La colazione, oggi, è costituita da un paio di “ro-ti sapalot”, una specie di crêpes dolci ottenute da una sfoglia finissima tirata ad arte e cotta su di una piastra rovente, prima che sia diventata croccante viene piegata a fagotto e riempita di frutta fresca e di un uovo; a cottura ultimata, il tutto viene addolcito con latte condensato e zucchero. Un concentrato di calorie che costituisce un vero toccasana per la linea! Il gusto amaro del caffè’ compensa l’eccessiva dolcezza dei ro-ti. Decidiamo di passare prima dagli uffici comunali e poi di dirigersi verso Wang Nua, per cui prendiamo a prestito il Mitsubishi e, dopo aver fatto salire altri componenti della famiglia ed un paio di amici, ci avviamo verso Chae Hom passando per la piccola strada che attraversa i campi. Nelle risaie la gente è già al lavoro, alcuni uomini preparano il terreno con macchine agricole, le donne, riconoscibili dal largo cappello di paglia e dalle camicie a maniche lunghe, si preoccupano di piantare il riso o di pulire le risaie già allagate dalle erbe indesiderate; alcuni capanni fatti di frasche costituiscono il punto di ristoro ed il necessario riparo per il sole che, fra qualche ora, renderà arduo il lavoro nei campi. Sbrigati gli affari urgenti, riportati a casa i passeggeri e dopo aver fatto il pieno al pick up, proseguiamo lungo la Route 1053 che, dopo aver lasciato alle sue spalle l’abitato di Chae Hom, in un susseguirsi di dolci saliscendi raggiunge, dopo poco più di una sessantina chilometri, la Route 118 che collega le città di Chiang mai e Chiang Rai. La strada non è molto frequentata, in quanto il traffico che da Lampang va verso nord ormai è praticamente ormai canalizzato nelle due nuove express ways che collegano il capoluogo con Chiang Mai e Chiang Rai. Nonostante che il bilancio statale non sia a livelli eccelsi, la vecchia strada à stata quasi completamente rifatta ed ora è il regno indisturbato delle poche vetture e dei songthaew locali, di pochi trucks e degli autobus che coprono la linea Lampang – Phayao – Chiang Rai. Questi bus colpiscono immediatamente gli occhi di noi occidentali, richiamandoci alla memoria le vecchie immagini dei nostri torpedoni “anni ’60”. La carrozzeria tondeggiante di colore azzurro è arricchita fino all’inverosimile di parti cromate, il tetto e’ sormontato da un capace portapacchi su cui vengono stivate le merci più ingombranti, all’interno stretti sedili con cinque posti per ogni fila, ventilatori a soffitto e l’immancabile ghirlanda di fiori a contornare il piccolo altarino buddhista posto vicino al conducente. Questi mezzi, che qui da noi non andrebbero bene neppure per lo sfasciacarrozze, arrancano lungo le salite per poi lanciarsi in discese mozzafiato rallentati solo dal freno motore. Non hanno un orario ben preciso, rallentati come sono da frequenti guasti e dal tempo necessario per sbarcare ed imbarcare le merci. Quando arrivano in prossimità di un paese o di un nucleo abitato, l’autista si preoccupa di strombazzare a lungo così da avvertire gli eventuali utenti del suo prossimo arrivo, il bigliettaio si sporge dalle porte senza sportello gridando la destinazione della corsa per poi dare all’autista, dopo aver imbarcato gli eventuali passeggeri, il segnale di partenza. Facendo sudare il vecchio motore del pick up ne superiamo uno, la campagna piatta ha lasciato il posto a dolci e basse colline, attraversiamo alcuni piccolissimi centri abitati, lungo la strada sono esposti cumuli di sacchi di iuta pieni di carbone di legna, l’aria porta fino a noi l’odore delle carbonaie mescolato alla fragranza della terra coltivata. Spesso i fianchi delle colline sono ricoperti di aranci, dove l’abbondanza di acqua lo consente, altrimenti gli alberi di teak o di tamarindo la fanno da padroni. Supero un uomo anziano che, in piedi sui pedali, spinge il suo samlor, una specie di triciclo, carico fino all’inverosimile di sacchi di carbone. A circa quaranta chilometri da Chae Hom, poco dopo il bivio che porta al Wang Nua Falls National Park, la strada si fa più stretta e tortuosa. In breve arriviamo sul crinale della catena montuosa che divide la provincia di Lampang da quella di Phayao. A tratti posso scorgere in lontananza il vasto lago, mentre la boscaglia si fa più rada e di un verde meno intenso. Phayao ci accoglie con la strana atmosfera del turismo locale, diverse auto con la targa di Bangkok sono ferme in riva al lago, piccole comitive di thailandesi con vocianti bambini sono intente a scattare fotografie con alle spalle la distesa acquea. Il sole rende roventi le lamiere dell’auto e l’aria condizionata riesce a malapena a stemperare il calore, vista l’ora decidiamo di fare una visita al grande Wat che si affaccia sul lago; una schiera di giovani monaci arancioni è china sui libri all’ombra del porticato che corre tutt’intorno al tempio, un monaco anziano dalla veste color ocra, gira tra i banchi con aria inquisitoria. L’interno del wat ci accoglie con quella tipica frescura che solo i templi, le chiese o i monasteri sanno concedere, l’aria è impregnata dal profumo dell’incenso e dei fiori. Moon, dopo una breve preghiera, raccoglie un barattolo di legno pieno di bastoncini, inizia ad agitarlo tenendolo con le mani giunte, un suono ritmico riempie le navate; un bastoncino esce dal barattolo, Moon legge il numero in cifre thai che vi è scritto sopra e prende da un cassetto, contrassegnato dallo stesso numero, un piccolo foglietto giallo. Nel foglietto si predice un probabile futuro e tutto ciò che, nel male o nel bene, influenzerà il tempo a venire. Una specie di oroscopo, ma che rispecchia l’importanza della superstizione nella mente del Thailandese medio. Nelle mie prime esperienze di viaggio in Thailandia mi ero sempre chiesto cosa fossero quegli strani monili che molti portano al collo. Gli avevo visti in grande quantità al mercato degli amuleti di Bangkok, gli avevo visti sulle bancarelle che circondano molti Wat, avevo addirittura visto in molte gioiellerie piccoli e talvolta preziosi contenitori per queste piccole icone. Frequentando maggiormente il paese, e soprattutto con il mio ingresso in una famiglia locale, ho capito che, nell’immaginario collettivo, la loro funzione e’ quella di proteggere il proprietario da molti inconvenienti; ovviamente non sono tutti uguali ed ogni tipo ha attributi specifici; a prima vista si differiscono tra loro per la fattura e per il materiale utilizzato per la realizzazione: possono essere di forma rettangolare o triangolare, ma più sovente di forma ogivale, possono essere realizzati in pietra lavorata (quelli più costosi), in terracotta o utilizzando una specie di gesso mescolato a terre coloranti. Come per ogni medicina, ciascun tipo di questi amuleti ha uno specifico campo di applicazione: vi sono quelli che rendono il portatore immune dalle avversità della vita, fortunato con l’altro sesso, abilissimo negli affari e via così fino ad arrivare a improbabili proprietà come diventare immuni ai colpi d’arma da fuoco, immuni ai morsi dei serpenti più velenosi o … Onnipotenti. Difficilmente l’amuleto farà diventare il proprietario un vero Superman, ma l’importante è crederci. Moon sta leggendo il suo oroscopo e, dalla sua espressione, deduco che la predizione non sia delle più chiare ed esaurienti. E’ ora di pranzo e la mia proposta di cercare un ristorante vicino al lago viene accettata prontamente. Scegliamo un ristorante proprio sulla sponda del lago, è abbastanza grande ed i tavoli sono all’ombra di alcuni cannicci, un buon numero di ventilatori rendono l’atmosfera più che accettabile, una nutrita schiera di acquari contribuisce a rendere interessante lo scarno arredamento. La qualità del cibo non e’ pessima, anche se in alcuni ristoranti di Chiang Mai ho trovato di meglio. Quasi tutti i piatti sono a base di pesce proveniente dalle ricche acque del lago. Attraverso la foschia che lo ricopre riesco a vedere, anche se con un po’ di immaginazione, alcune barche sulle quali i pescatori sono alle prese con le reti. Moon non ha organizzato a caso questa gita a Phayao, il suo scopo e’ quello di rintracciare alcuni suoi conoscenti che non vede da quasi quindici anni. Vaghiamo quindi con l’auto per le vie della cittadina alla ricerca di una casa, di un volto o di un particolare conosciuto. Purtroppo, mentre l’atmosfera è rimasta la stessa, quindici anni hanno profondamente cambiato la fisionomia dei quartieri e delle strade; difficile raccapezzarsi avendo in mente solo una vecchia e sbiadita immagine. Moon ricorda che i suoi amici lavoravano in banca … Già, ma quale?; a quei tempi ce n’era uno o due mentre, sino a qualche anno fa e come in ogni altro centro thailandese, si è assistito ad un proliferare incontrollato delle filiali dei maggiori istituti di credito, erano gli anni del boom economico, quando la valuta locale veniva scambiata a 25 contro un dollaro statunitense, quando occorrevano ben 75 lire italiane per un Bath. Poi venne la crisi delle “Tigri Asiatiche”, il fallimento di molte banche causato dalla spregiudicatezza e dalla mancanza di lungimiranza dei loro amministratori. Un duro colpo per quel ceto medio che si era formato in pochi anni di sviluppo e che avrebbe visto svanire in un attimo tutte le sue speranze ed i suoi progetti. Ricordo abbastanza bene il periodo, era l’inverno del ’98 ed a Bangkok i colletti bianchi che si erano ritrovati in un attimo senza lavoro organizzavano aste improvvisate per vendere alla meno peggio tutti quei beni di lusso che avevano comprato a credito, riponendo una vana fiducia nell’espansione dell’economia del Paese. Vendevano tutto, con le lacrime agli occhi; Mercedes luccicanti, villette alla periferia della capitale, suppellettili in stile occidentale, televisori giapponesi e pacchiani quanto costosi soprammobili. Sotto gli occhi quasi indifferenti della classe contadina, rimasta esclusa fin dall’inizio, a causa del suo decentramento e della scarsa istruzione della maggior parte dei suoi componenti, dalla fulminea espansione economica, cose e proprietà passavano di mano, fagocitati dalla classe dei ricchi, dei militari e dei politici che, grazie a forti appoggi esteri ed a evidenti malversazioni, era riuscita a galleggiare sull’agitato mare della crisi ed ora, così come un pescatore issa a bordo le sue prede indifferente della loro sorte, faceva ottimi affari sulla pelle dei connazionali meno fortunati. Considerato che la nostra ricerca si sta rivelando infruttuosa, decidiamo di rientrare a Lampang percorrendo l’express way. Il traffico del pomeriggio è abbastanza sostenuto, ma l’arteria, anche se in parte è ancora un cantiere, lo smaltisce abbastanza bene. Superiamo un camion che trasporta un elefante sul cassone; lungo il tragitto incontriamo diversi carichi di questo tipo, sono diretti anche loro a Lampang dove, fra pochi giorni, avrà inizio l’annuale Elephant Fair. La strada segue la conformazione del territorio, snodandosi lungo una lunga e stretta valle; attraversiamo diversi villaggi, molti dei quali sono stati letteralmente divisi in due dal nastro d’asfalto; campagne e foreste, montagne e pianure si alternano attraverso i finestrini del Mitsubishi. Un cartello stradale verde, simile a quelli delle nostre autostrade, c’informa che mancano 14 chilometri a Lampang, il sole è ormai basso ed a tratti scompare dietro la cima delle montagne. Prendiamo una scorciatoia che ci consentirà di evitare il centro cittadino, ritrovandoci lungo la strada che risale verso nord in direzione di Chae Hom. Ormai sta facendo buio, io e Moon siamo un po’ stanchi mentre Giulia sta dormendo, decidiamo di comprare qualcosa di pronto per la cena. Intravedo un mercato rionale ancora in attività, rallento e fermo l’auto in uno spiazzo sterrato. Dal mercato si levano diverse piccole colonne di fumo, un misto di profumi pervade l’aria, gruppi di ragazzini si rincorrono vociando. Dopo poco Moon ritorna con alcuni cartocci fumanti, pollo alla brace, anatra e spiedini di maiale; il profumo del cibo riempie in pochi secondi il piccolo abitacolo, mi accorgo di aver fame e pigio sull’acceleratore per arrivare in fretta. Moon intuisce al volo la situazione e mi porge un bastoncino di bambù dove sono infilzati diversi piccoli hot dog cotti alla brace, mentre mangiamo il nostro antipasto la strada comincia a scendere, ancora poche curve e dovremmo vedere le luci di Chae Hom. I giorni si susseguono uno dietro l’altro come i grani di un rosario. Alcuni passano in fretta, soprattutto quando andiamo in giro a vedere i luoghi più interessanti della zona; dopo Wang Nua e Phayao è stata la volta di un paio di piccoli parchi naturali, di un tempio in mezzo alle risaie e di un lungo trekking sulla montagna che sovrasta la piana di Chae Hom; altri giorni sembrano non avere mai fine, sono quelli in cui si sta a casa, dove io non ho nulla da fare se non dedicarmi completamente alla lettura di qualche buon libro che ho portato dall’Italia. Solitamente, a casa, non ho il tempo di leggere molto, se non riviste specializzate o qualche quotidiano; qui invece ho tutto il tempo che voglio ed ho quasi paura di leggere il libro troppo in fretta, di arrivare alla fine senza che la giornata sia a sua volta terminata. In un momento d’ozio, mi ritrovo a fare una delle cose che normalmente non faccio mai: sdraiato sul comodo materasso in fibra di cocco, mi sorprendo a scrivere sulla tastiera del mio cellulare un messaggio SMS destinato a qualche mio collega d’ufficio o a qualche amico. Mi trovo mentalmente a canticchiare una canzone di Jovannotti, “Ombelico del Mondo”, pensando a quanto si adatti a questo luogo. Siamo ormai agli sgoccioli della nostra permanenza. La sorella di Moon rientra in casa con la cesta della biancheria pulita, accende il ferro da stiro e comincia a stirare la biancheria su una, per noi farang, stranissima asse da stiro. Questa ha una fattura simile alle nostre, ma molto più piccola. Elemento di maggiore differenza è la sua altezza da terra: circa 20 centimetri! In Thailandia, infatti, le donne quando stirano non stanno in piedi, bensì stanno accoccolate a terra con le gambe incrociate sotto il corpo. Un modo innaturale per noi, quanto consueto per loro abituate a quella posizione fin da piccole sia durante i pasti, sia durante le preghiere. Mia moglie mi sta chiamando, vuole andare ad un piccolo tempio che sovrasta l’abitato di Chae Hom. Stringendosi ben bene partiamo a bordo del Suzuki Crystal 100 di Moon e dopo pochi minuti arriviamo ai piedi di una ripida scalinata dove due “Naga” di pietra stanno a guardia dell’ingresso al tempio; mi carico Giulia sulle spalle e cominciamo la breve, ma faticosa salita. Il tempio buddhista è piccolo e per niente paragonabile a quelli più noti di Bangkok o di Chiang mai, però è molto curato con dei bellissimi e variopinti affreschi che narrano la vita di Siddharta Gautama Buddha. L’interno del tempio ci accoglie con la sua frescura, un paio di monaci sono impegnati nelle loro quotidiane meditazioni, mentre un terzo è più prosaicamente indaffarato nella pulizia del tempio. Moon si dirige verso la dorata statua di Buddha, dopo aver preso da un tavolo alcuni boccioli di fiori di loto ed alcuni bastoncini d’incenso. In ginocchio di fronte all’altare, si inchina più volte, porge a mani giunte i fiori, accende l’incenso ed infila i bastoncini in una grossa coppa. Il buddhismo theravada non prevede giorni particolari di culto, è il singolo che, quando ne sente la necessità, si rivolge all’Illuminato onorando il Triratma ovvero le Tre Gemme: offre fiori ed incenso per il Buddha, recita il Dhamma, l’insegnamento, e porge offerte di generi alimentari al Sangha, la comunità dei monaci. Mentre osservo queste pratiche religiose così differenti da quelle al cui la mia tradizione cattolica mi ha abituato fin da piccolo, Giulia cammina lungo il perimetro interno del tempio, in silenzio osservando cose e disegni di cui sicuramente non capisce l’importanza, ma che, non so per quale motivo, la inducono a non far echeggiare fra le sacre mura la sua garrula voce. Oggi è l’ultimo giorno della nostra permanenza a Chae Hom, bisogna fare le valigie e salutare parenti ed amici. Come sempre mia suocera si preoccupa di rifornire la figlia d’ogni sorta di spezie, essenziali per la cucina Thai e pressoché introvabili in Italia. Per fortuna che le valigie sono abbastanza vuote ed i contenitori ermetici trovano posto nelle Samsonite. Controllo ancora una volta i documenti di viaggio, i passaporti e tutto quello che mi potrebbe creare problemi nel caso in cui lo dimenticassi qui. Ci attendono dieci giorni di relax al mare ed il mio stato d’animo è combattuto tra la felice immagine di un luogo più turistico ed un certo dispiacere per il distacco da queste persone che hanno dato il massimo per farmi sentire ancora una volta a mio agio in un mondo così distante dal mio. Domani ci aspetta un viaggio abbastanza lungo, un ora di auto, tre di aereo ed un’altra mezz’ora di auto prima di arrivare al nostro albergo a Phuket. Conviene sbrigarsi e preparare tutto in tempo, chiudo le valigie lasciando fuori solo i vestiti per l’indomani. Un fastidioso beep-beep mi fa uscire dal torpore dell’ultimo sonno, guardo il soffitto focalizzando l’ambiente, non mi rendo conto immediatamente della provenienza di quel suono pungente. Mano a mano che la nebbia del sonno si dirada capisco che quel suono tecnologico mi sta dicendo che è giunta l’ora di abbandonare questo sperduto quanto tranquillo angolo di mondo, è giunta l’ora di ritornare alla civiltà. La casa è deserta e su di una sedia qualcuno ha appoggiato alcuni miei vestiti puliti, non vedo i bagagli. La cucina è in perfetto ordine con la caffettiera pronta, basta accendere il gas. Sto giusto finendo di lavarmi quando sento il rauco richiamo della moka che si spande nell’aria insieme al profumo del caffè. Mentre sorseggio il caldo liquido nero, osservo la moka e mentalmente mi ritrovo quasi a salutarla: ciao amica mia, ci vedremo l’anno prossimo, se tutto andrà per il verso giusto. Dal terrazzino noto che il pick up è già posteggiato davanti alla porta di casa e che i nostri bagagli sono già a bordo. Moon sta parlando con la madre che, ad un certo punto, si leva di tasca un nastro fatto artigianalmente con cotone naturale. La donna divide il nastro in due parti, mentre recita una preghiera cantilenante; ne pone una parte intorno ad un polso della figlia e l’altra intorno al polso della nipote. Ho già visto altre volte questi gesti, è il saluto di commiato, l’augurio di un felice rientro ed, al contempo, un invito a non dimenticare. La sorella di Moon ed una nipote hanno già preso posto sulle panche nel cassone del pick up, mentre il fratello si è già posto alla guida ed ha già avviato il motore. Salutiamo i due vecchi che, come sempre, non verranno ad accompagnarci all’aeroporto, rimarranno a casa e probabilmente ricominceranno a contare i giorni che li separano da un nuovo ritorno della figlia lontana. Il Mitsubishi sobbalza mentre acquista velocità, guardo la casa, le persone che ci salutano con la mano, il cane che pare voglia salutarci anche lui. Ad un tratto il tutto sparisce inghiottito dalla prima curva. L’aereo è già pronto sulla pista anche se manca quasi un’ora alla partenza. Alcuni monaci con tanto di valigetta ventiquattrore sono seduti nella sala di attesa, un gruppo di militari si stringe attorno ad una probabile autorità dirigendosi verso la VIP Lounge. Consegno i bagagli e ritiro le carte d’imbarco; il nostro aereo parte alle 12.30 ed abbiamo tutto il tempo di fare uno spuntino, raggiungo Moon che e’ rimasta fuori con Giulia. Al primo sguardo mi accorgo che il suo volto, incastonato tra i lunghi capelli neri, è rigato dalle lacrime; comprendo che ogni commento sarebbe inutile, prendo con me Giulia che guarda la mamma con aria interrogativa. Moon ci raggiunge poco dopo al ristorante, il leggero trucco e’ ritornato perfetto, ora solo lo sguardo rivela una malcelata tristezza. Comincio a parlare della nostra prossima destinazione, a chiedere se qualcosa sarà cambiato da quando, circa due anni prima, visitammo Phuket per l’ultima volta; se tutto andrà bene questa sera potremo cenare in riva al mare, magari al Patong Seafood dove le ostriche sono buonissime e le aragoste enormi. Moon continua a cincischiare con la forchetta, mentre Giulia gira allegramente intorno ai tavoli attirando gli sguardi divertiti degli altri presenti. La voce dell’altoparlante annuncia il nostro volo. Mi sistemo nel sedile vicino ad un finestrino, il tempo di allacciarmi la cintura e già l’aereo inizia a rullare sulla breve pista; man mano che si alza lo sguardo riesce a catturare un’area sempre più vasta perdendone però i dettagli. Penso ai due vecchi che sono rimasti nella casa di teak, ai bimbi che si ricorrono nel cortile, al fuoco serale, alle notti rotte dal gracidio delle rane, al fresco profumo di legno della nostra casa. E’ passato poco, pochissimo tempo eppure, come le immagini che si dissolvono oltre il finestrino dell’aereo, i ricordi perdono lentamente nitidezza, lasciando il posto alle nuove immagini che parlano di mare e sole. Laggiù, oltre la curva dell’orizzonte.



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