Dodici chilometri …e incontrare il mondo

Dodici chilometri ........... .....e incontrare il mondoErano anni che non utilizzavo l’autocorriera per spostarmi da casa a Bergamo. Vivo a soli dodici chilometri dal capoluogo di provincia, il percorso è breve ma la densità abitativa che caratterizza questa zona, la fa assomigliare ad una...
Scritto da: Dino Chiappini 2
dodici chilometri ...e incontrare il mondo
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
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Dodici chilometri …..

…E incontrare il mondo

Erano anni che non utilizzavo l’autocorriera per spostarmi da casa a Bergamo. Vivo a soli dodici chilometri dal capoluogo di provincia, il percorso è breve ma la densità abitativa che caratterizza questa zona, la fa assomigliare ad una periferia metropolitana.

Anche le periferie dei comuni si sono allargate a dismisura e, spesso, nel totale disprezzo d’ogni logica urbanistica le municipalità hanno fatto a gara a collocare insediamenti produttivi e artigianali a macchia di leopardo. Risultato: totale trasfigurazione del paesaggio, una volta agricolo, accerchiamento dei centri storici e, ultimo dei mali, ma non il meno importante, sviluppo insostenibile ed esponenziale di una viabilità caotica. Tutti, allegramente, in vettura a quattro ruote; dalle mammine che accompagnano i pargoli a scuola, ai nonni pensionati baby pronti a far la fila all’Iper, prima ancora che quello apra. Se a questo aggiungete il forte pendolarismo, in una realtà tra le più industriose d’Europa, il gioco è fatto.

Ammetto che, il fermo della mia automobile, si è trasformato in un’occasione unica per una riflessione autocritica sulla mia condizione di forzato della quattro ruote.

Giovedì, perciò, con un pizzico di disagio, mi sono diretto alla fermata del pullman, rassegnato ai tempi che lo spostamento con il mezzo pubblico impone. ( per farla breve: dovendo raggiungere Calcinate e Mornico al Serio, sedi delle scuole nelle quali lavoro, sono costretto ad utilizzare due linee di trasporto, impiegando un tempo quattro volte superiore al necessario) Vi risparmio la descrizione della pensilina dove ho atteso il mezzo perché è in totale stato d’abbandono. Interessante invece, sottolineare, da subito, la differenza con i viaggi che ricordavo d’aver vissuto da studente, trenta e più anni prima, sulla stessa linea, quando organizzavamo scioperi del biglietto e blocchi dei pullman per rivendicare il diritto a viaggiare come persone e non stipati, come animali, su carri bestiame. Altri tempi! Forse è anche grazie a quelle lotte che, oggi, i mezzi sono aggiornati e moderni, dotati, alcuni, persino di dispositivi per agevolare l’imbarco dei diversamente abili. Pur presentando esternamente una condizione ottimale, all’interno, le vetture sono insozzate dai più svariati interventi dei giovani utilizzatori: sedili insudiciati, cartacce e resti di merendine consumate in viaggio; scritte più o meno creative lasciate in bianco su sedili malconci con il famigerato sbianchetto.

Non è un bello spettacolo insomma, e già al primo approccio, il viaggio sa tanto di fregatura annunciata visto poi l’euro e cinquanta da sborsare come pedaggio.

Con me, alla fermata, ad attendere il pullman, sono le otto e quaranta, pochi studenti ritardatari. Prima sorpresa invece, alcuni minuti dopo mi fanno compagnia: due ragazze africane, un ispanico elegante con tanto di valigetta ( sarà un testimone di Geova?) e una simpatica famigliola, otto individui, tutte femmine vestite nei bizzarri, almeno per me ,costumi indiani.

La comitiva è appena arrivata alla pensilina, occupandola letteralmente e colorandola che, in lontananza, spunta la sagoma della corriera. Trafelato ci raggiunge, mentre stiamo salendo, l’unico maschio adulto del gruppo indoeuropeo.

L’uomo, un giovanotto sicuramente di almeno un lustro più giovane del sottoscritto, si porta all’obliteratrice ( lui come cavolo la chiamerà?) e si timbra i suoi bei sei o sette biglietti.

Faccio due conti e scopro che il padre di famiglia, con il relativo seguito, per quel viaggio, ha dovuto investire una bella somma. Oltre sedici mila lire per la sola andata. Con quella prole a lui servirebbe un pulmino, non credo però che, con tutte quelle bocche da sfamare, per il momento, per lui ci siano alternative al mezzo pubblico. Prima considerazione impertinente.

Ma allora, questo via vai di stranieri, immigrati in cerca di lavoro, fortuna, e migliori condizioni di vita, un effetto positivo lo determina; risolleva le sorti della società autoguidovie italiane che di clienti autoctoni ormai non riesce più ad acchiapparne. Non posso esonerarmi dal mandare un pensiero maligno alla società autolinee che, non smettendo di speculare sui bisogni altrui, rastrella soldi da noi privati, chiedendo poi, anche sovvenzioni pubbliche per rinnovare il proprio parco macchine. Alla faccia del libero mercato e della concorrenza capitalistica. Anche in questo, quanto siamo lontani dall’Europa. Tutti aspiranti capitalisti, tutti liberisti, salvo poi aggrapparsi alle casse pubbliche al primo accenno di crisi. ( Fiat insegna) Siamo così lontani dall’Europa che, ieri sera, nella trasmissione di Gad Lerner “ L’infedele “ dedicata al tema dell’accoglienza e dell’integrazione ho provato nausea ascoltando l’intervento di Baget Bozzo. Il prete, in odore di nuova crociata contro l’Islam, spera di organizzare le truppe cattoliche contro l’invasione dei “nuovi infedeli” ? Chissà se il nostro amico capo famiglia che stamani viaggia con me ha seguito la puntata ieri sera. Lui forse se ne impipa di ste problemi, probabilmente la sua è un’altra religione, poi con quelle bocche da sfamare, tutti i giorni, non avrà certo il tempo per disperdere energie ascoltando i proclami di un prete anomalo.

Anch’io, come laico, penso si debbano lasciare queste contraddizioni a chi si preoccupa dell’egemonia religiosa, spesso a discapito della tutela vera degli individui e dei popoli. Il problema di sempre è promuovere benessere per tutti, non anatemi! Certo, nella trasmissione di Lerner, le famose tre religioni monoteiste non han fatto una bella figura, impegnate come sono a scontrarsi tentando ognuna di dimostrare all’altra, la propria purezza e giustezza, finendo, nei fatti, col lacerare e dividere tra loro i rispettivi fedeli sempre più disorientati. A Gerusalemme tutto questo è diventato quotidianità, “confronto” a suon di cannonate, esplosioni e ammazzamenti, con “ buona pace “ di chi si ostina a chiamarla la città di Dio.

A quando una città per l’uomo? Certo è che, stamani, su questo pullman, le divisioni religiose devono essere stridenti. Così uguali con il nostro bigliettino obliterato, sembriamo davvero cittadini del mondo. Guardando in viso ogni passeggero, scopri che, probabilmente, dietro ogni tratto somatico differente , si nascondono anche storie di uomini e donne che, nei loro rispettivi paesi di nascita, (qualcuno le chiama patrie), hanno ricevuto modelli culturali, religiosi e di vita, talmente diversi fra loro, da rendere questo viaggio la rappresentazione reale di un piccolo miracolo di civiltà e integrazione. ( quando si dice la forza delle obliteratrici) Bella fatica, direte voi, su un mezzo di trasporto, in un viaggio breve come quello, non servono di certo mediatori culturali per rendere vivibile e condivisibile uno spazio di vita transitorio.

Avete ragione, io però ho trovato curioso e intrigante questo “ luogo liberato “ dove ognuno, con il suo viaggio, può, in pochi chilometri, incontrare il mondo. Io stesso, passeggero ignaro e nuovo all’esperienza, quasi “uno straniero in patria” ho vissuto il senso del significato che hanno le parole accoglienza, ascolto, integrazione, convivenza. Come? Per prima cosa mettendo in gioco alcuni dei miei sensi più preziosi. Vi spiego perché ? Andiamo con ordine.

Gli odori.

Non avete mai provato ad orientare il vostro naso, dopo esser saliti su di un mezzo pubblico multietnico per captare la molteplicità di nuovi aromi, odori, a volte anche puzze , almeno così le percepisco io, che aleggiano su una corriera multietnica? Zenzero? Aglio? Odore di improbabili fritti o di cuscus, appena scodellato; spezie e aromi esotici mai avvicinati. Profumi d’Oriente degni di un mercatino esotico. Il tutto misto anche a fetori provenienti da abiti lavati poco e, sicuramente, non candeggiati, diremmo noi. Tutto ciò trasforma il vostro naso in un radar sensazionale. In un decodificatore di differenze. Se poi, insieme al naso, sintonizzate i vostri occhi, quelli vivono una vera e propria festa di colori, di forme, di linee e stili, come in un viaggio a Sammarcanda. Sì perché è negli abiti e nel vestire che le differenze spesso sono esaltate e rimarcate.

Tolto l’ispanico, che da buon montanaro andino ama vestire sobriamente, forse con abiti riciclati di foggia europea, dando decisamente di sé un’immagine ordinaria, quasi un segno della sua facile integrazione, ci sono le fogge strane e strambe delle altre etnie, almeno di quelle che viaggiano con me sul pullman. Foulard variopinti, sete e ricami, occhiali e berretti, trame e orditi, di tutto di più.

Ma di che ti meravigli direte voi, non vedi che ormai il villaggio globale è tra noi? Nessun problema ad accogliere il nuovo. Figuriamoci, riesco persino a digerire l’immagine della ragazzina che, seduta davanti a me ( è una pank?) veste calze di rete in scarponi borchiati, gonna di pelle e capelli rasati a zero con una simpatico codino colorato di rosso e un trucco agli occhi degno dei più originali geroglifici egiziani con gli immancabili anelli infilati qua e là. Lei ascolta musica in cuffia, isolandosi dal mondo. Decodificato il suo, vuoi che non possa elaborare nuovi messaggi? Il punto è un altro, però, e mi domando: “ la signora seduta in prima fila, con la testa coperta dal velo, è una studentessa islamica o una semplice badante, con i tempi che corrono qualcuno la vedrebbe persino come una potenziale terrorista. La signora avrà qualcosa da spartire con la coppia indiana che educatamente e silenziosamente occupa metà della corriera con la propria prole? Una cosa la stiamo già guadagnando almeno, i passeggeri indoeuropei sono così discreti che della loro presenza uno se n’accorge solo quando si alzano dai sedili per la fermata.

Che differenza con quelle comitive tumultuose di indigeni che, spesso, s’incontrano nelle città d’arte. Gruppi vocianti di uomini e donne impegnati a far baccano e a insudiciare marciapiedi e giardini alla faccia delle buone maniere. Di chi sto parlando? Dei mie/vostri connazionali capaci di commuoversi ascoltando l’inno di Mameli mentre il loro Bobby insozza il marciapiede pubblico con una cacata maleodorante.

E’ vero, c’è chi sa far di peggio. Ricordo ancora un’allucinante sequenza, nella bellissima piazza di San Giminiano, dove, una mammina inglese, avvicinatasi alla fontana, invitò il proprio cucciolo d’uomo a defecare e, con tutta tranquillità, ci regalò il bisognino maleodorante del proprio pargolo, allontanandosi poi, rapita dalle bellezze artistiche del luogo.

Sono certo che un asiatico difficilmente potrebbe regalarci simili sorprese, per la serie, non sempre negli scambi interculturali c’è da perderci.

Ma torniamo ai nostri cinque sensi.

Non vi ho ancora raccontato cosa hanno udito le mie orecchie durante il viaggio.

Non sono un esperto di idiomi stranieri, ho sempre frequentato con un certo disagio il tedesco e l’inglese, meglio con il francese, ma solo perché motivato dai lunghi periodi di vacanza vissuti in Provenza. La presenza sulla corriera di così tanti rappresentanti di gruppi linguistici, a me sconosciuti, ha non solo scatenato la mai fantasia, ma per alcuni momenti, quei dialoghi, quella miriade di suoni e parole nuovi, pareva volessero proiettarmi in un altrove, in una delle città invisibili di Calvino, ad Eufemia magari, la città in cui si scambia la memoria. Sì perché dovete sapere che….” A Eufemia si va non solo per vendere o per comprare ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati sui mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice come – “ lupo” , “ sorella”, “ tesoro nascosto”, “ battaglia”, “ scabbia”, “ amanti” – gli altri raccontano ognuno la propria storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio. Chissà quanti ricordi nelle teste dei miei compagni di viaggio.

Probabilmente tra alcuni mesi, questi nuovi cittadini italiani parleranno la nostra lingua, magari con l’inconfondibile inflessione dialettale e racconteranno così le loro storie che diverranno storie di storie, come a Eufemia.

Seconda considerazione impertinente.

Il tema è attualissimo e affascinante: sarà la globalizzazione a cancellare dalla faccia della terra le differenze linguistiche o saranno invece i nuovi localismi interetnici e multiculturali a reinventare le nostre città, i nostri comuni e quindi i nostri linguaggi? Al disordine creato dalla morte delle differenze, rappresentato dal dilagare dell’inglese per tutti, con la scomparsa di dialetti e culture, nasceranno nuovi stili comunicativi e codici capaci di rappresentare i popoli nelle loro diversità per una nuova armonia nella molteplicità? Già nel medioevo, nel rinascimento era accaduto che, con i viaggi, i pellegrinaggi, le guerre e le esplorazioni, le contaminazioni tra le culture e gli stili di vita dei popoli avevano dato origine a civiltà fiorenti, capaci non solo di tutelare le identità ma anche di promuovere scambi e relazioni tra gli individui e i popoli carichi di significati umani. Non so se stiamo vivendo un nuovo umanesimo o invece stiamo distruggendo le ultime libertà conquistate con l’esercizio secolare del libero arbitrio, della cittadinanza democratica e la libera circolazione delle conoscenze e delle culture. Da Guttemberg a Internet il passo è stato relativamente breve sulla linea del tempo.

Se vinceranno i vecchi e nuovi integralismi probabilmente l’umanità precipiterà in una nuova epoca buia di guerre e sofferenze. Vorrei essere ottimista guardando in viso ogni passeggero di questo piccolo mondo, in questo breve viaggio, ho il dubbio di aver capito che, probabilmente, la nuova epoca che ci attende sarà caratterizzata da grandi aspettative, accompagnate però da terribili tragedie frutto delle incomprensioni, delle guerre di religione, dei fondamentalismi, del ritorno di autoritarismi più o meno mascherati.

Pur frequentando l’ottimismo della ragione non riesco ad intravedere in questa fase storica sviluppi positivi per un’umanità che, affrancatasi da alcuni totalitarismi che hanno insanguinato il secolo scorso non riesce a percorrere nuove strade di pace e cooperazione. L’Umanità Nova, anelata in gioventù, rischia di diventare una chimera anche per le generazioni che vivranno la loro storia in questo primo secolo del terzo millennio. Mentre scrivo mancano pochi giorni alla risoluzione ONU per il conflitto Iracheno, spero d’essere smentito ma temo che, anche questa volta, la pace non ci sarà.

Sono trascorsi secoli da quando Marco Polo aveva organizzato quel suo fantastico viaggio per incontrare il mondo e i popoli d’oriente. Altri tempi, meno complessi, direte voi. Allora ogni avventura si trasformava in un’epopea che coinvolgeva popoli e nazioni. Paradossalmente, in epoche in cui la comunicazione mediatica non esisteva e volavano solo i piccioni viaggiatori, la gente s’incontrava di più e riusciva a sognare e costruire il proprio futuro. Alcune sera fa, a Radio radicale, ho ascoltato un bellissimo intervento al congresso del partito radicale trasnazionale tenutosi a Tirana. Era una radicale delle Molucche intervenuta per denunciare l’occupazione della sua terra da parte delle truppe Indonesiane e le torture e vessazioni alle quali sono sottoposti gli oppositori. Era lei che con le sue parole richiamava la bellezza di quell’abbraccio ( nella sua lingua Polo significa così) offerto dall’esploratore veneziano a tutti i popoli che pacificamente è riuscito ad incontrare e coinvolgere nei suoi progetti di libero scambio.

Veramente altri tempi. ( da noi i Poli più che attrarre o abbracciare stritolano le coscienze) A quel tempo i mercanti sostenevano viaggi impossibili per costruire le loro fortune e, pur speculando, in modo mercantile, sulle risorse che riuscivano a muovere e promuovere, coinvolgevano in queste loro esperienze uomini e donne assetati anche di conoscenza, avventura e libertà. I Cristoforo Colombo, i Magellano, I Vespucci non avrebbero mai immaginato che, a distanza di secoli dalle loro scoperte il mondo si sarebbe ritrovato più diviso. Qualcuno sostiene addirittura che già in quelle loro spedizioni ( Cristoforo : “ colui che porta Cristo” Colombo: “ lo spirito santo” ) vi erano i germi malsani del colonialismo e imperialismo ( culturale, religioso ed economico) che non smettono di imperversare anche ai giorni nostri. ( omaggio a Michelone “ Cristoforo Colombo non è mai esistito “ Varani editore ) Torniamo al torpedone, e ai compagni di viaggio di questo nostro 2002. Dietro di me, nell’ultima fila, una simpatica famigliola andina sta confabulando in spagnolo. L’oggetto della discussione, per le due donne, che in braccio portano due piccoli ben imbacuccati, è il lavoro. Da quel poco che riesco a capire, una si lamenta della propria condizione di domestica o badante, l’altra vuole convincerla a richiedere un giusto salario, pretendendo i sei euro all’ora che a suo avviso sono dovuti. Ovviamente non è il clima da sezione di sindacato di base che m’incuriosisce, ma la notevole differenza che esiste tra questo gruppo etnico e gli altri presenti sul pullman. Infatti, costoro, nel loro abbigliamento, non hanno nulla che farebbe pensare a degli immigrati appena arrivati. Gli adulti vestono capi sicuramente acquistati in un nostro supermercato, nulla di appariscente, nessuna concessione alla stravaganza, all’eccentricità e soprattutto alla spesa. I bambini però, sembrano portare capi decisamente più alla moda. Uno addirittura veste cappellino e guanti quasi in perfetta tenuta da sciatore. E’ evidente che, da buoni montanari hanno capito al volo come vanno da noi le cose e, in un autunno prematuramente freddo, come è il nostro, nessuna concessione alle mode facili. Solo dei gonzi come quelli che si vedono per strada, rannicchiati nelle spalle, infreddoliti possono indossare con queste temperature abiti leggeri, per seguire le mode, infischiandosene del freddo pungente. Quel loro discorrere appassionatamente, attorno ai problemi del lavoro e salariali, mi ha ricordato ancora una volta le mie lunghe conversazioni, quando ero studente, “politicamente impegnato”, con gli amici operai e impiegati che, ai miei tempi, utilizzavano, loro pure, un mezzo pubblico per raggiungere i luoghi di lavoro. Erano anni particolari, e, allora, di “ stranieri “ non se ne vedevano in giro. Le nostre fabbriche non avevano ancora programmato lo sfruttamento della manodopera extracomunitaria. I padroni di allora, quando erano in crisi, facevan fagotto e spostavano le loro aziende dove il mercato le rendeva più competitive. E’ accaduto così che, le fabbriche conciarie, insieme a molte di quelle tessili e manifatturiere, ultime le siderurgiche e metalmeccaniche se ne siano andate o al sud o in altri paesi dove vive una manodopera più malleabile e perché no ricattabile.

Oggi esistono aziende ormai decotte che non si sognerebbero mai d’andarsene. Il nuovo eldorado per loro è questa manodopera infinita, malpagata che si è riversata sul mercato grazie a quei popoli che bussano alla sponda del mediterraneo. Ecco allora che, là dove anni fa lavoravano solo bergamaschi e qualche meridionale, sono entrati in gran numero gli stranieri. Parlo delle imprese ad alto tasso di tossicità e inquinamento, con lavoro a rischio e malretribuito, quello che a detta dei benpensanti: “ gli italiani non vogliono più fare “.

Naturalmente i costi sociali per accogliere questa manodopera sono stati scaricati tutti sulla collettività e sugli stessi poveri cristi di immigrati. Voci come casa, istruzione, sanità sono andate perciò a gravare sul bilancio pubblico. Per la serie gli imprenditori hanno bisogno di manodopera dequalificata, che costi poco, non sia sindacalizzata e garantisca profitti, se questi immigrati poi vivono problemi quotidiani infiniti, i costi del loro “ inserimento “ quelli li deve pagare la collettività, a noi padroni il profitto deve o non deve essere garantito? Ora i partiti che prima inneggiavano all’accoglienza fanno i moderati e i pompieri, in nome di non si sa bene quale criterio di giustizia sociale e quelli nordisti, o che si definivano tali, sono impegnati al governo a gestire sanatorie impossibili per legittimare, nei fatti, tutto il contrario di quello che avevan sostenuto quando ce l’avevano con Roma ladrona. Evidentemente il potere logora anche chi ce l’ha, almeno nelle idee e nei programmi. Personalmente non sopporto la solidarietà pelosa di chi, in nome dell’accoglienza, specula sui bisogni di questa gente per risolvere solamente i propri problemi di piccola bottega, magari per accaparrarsi una badante in più o, come fanno certi, un lavoratore in nero, da spremere e poi gettare alle ortiche. Cose già viste direte voi. E’ vero, ma lasciate che dal sedile scomodo di questa corriera, visto che ne ho il tempo, io possa riflettere sulle discrepanze di un mondo popolato da uomini che sempre di più pare abbiano perso la bussola.

Mi chiedo, ma questa famigliola andina, quanto riuscirà a risparmiare per aiutare i propri cari rimasti in patria? Immagino pochissimo. Già è difficile per noi muoverci nella giungla del carovita e dei balzelli ministeriali; figuriamoci degli stranieri costretti a misurarsi quotidianamente con le emergenze che impone il “logorio della vita moderna “ (leggi spese sanitarie, scuola, affitti, etc etc) Capisco anche perché molti di loro frequentano ancora le linee pubbliche per i loro trasferimenti sobbarcandosi i relativi disagi. I costi, quelli almeno, non sono così condizionanti come la gestione di una vettura, seppur utilitaria. I cinque milioni all’anno ( minimo) per chi possiede un autoveicolo tra tasse, assicurazione e carburante è meglio investirli nel risparmio, magari da spedire ai propri parenti, meno fortunati, che nel paese natio vivono condizioni ancora più difficili.

Non viene solo dal trasporto, comunque, il salasso. Il problema dei problemi è la casa. Lo sanno bene i primi arrivati che, alcuni anni fa, erano torchiati e ricattati da speculatori senza scrupoli pronti, magari in nome dell’accoglienza, ad offrire loro alloggi malsani a costi elevatissimi. Oggi, domanda ed offerta hanno calmierato i costi, anche se, l’emergenza, nelle periferie degradate delle città permane e queste, guarda caso, sono prese d’assalto da popolazioni di stranieri, clandestini o meno, inguaiati da un problema che i responsabili della programmazione dei flussi e del mercato immobiliare pare non vogliano affrontare. Loro perciò si arrangiano, magari anche in otto o dodici in un bilocole. E’ per quello forse che, stamani, guardando dal finestrino della nostra corriera che entra in città, i quartieri sud di Bergamo mi ricordano la Londra che ho incontrato trenta anni fa, nel mio primo viaggio oltre Manica. Anche qui, come là, allora, gruppi di neri, gialli, indoeuropei, asiatici, slavi, arabi frequentano i negozi, i bar, le vie e le case. Sui marciapiedi incontri e vedi solo loro. Gli autoctoni, gli indigeni circolano solo nelle loro scatole di ferro motorizzate…“ come bisonti impazziti” Questa nuova umanità, questo groviglio di differenze, lo incontri soprattutto al mercato del lunedì. Mi raccontano di bancarelle oramai multietniche, con i marocchini, i primi arrivati tra noi, alcuni lustri fa, oggi più garantiti e, com’è nella loro tradizione, affermati ambulanti. Restano i nuovi precari, soprattutto africani, con le loro improbabili minibancarelle portatili al collo, sulle quali dispongono in bella vista i soliti accendini, magari prodotti abusivamente da aziende fantasma, spesso controllate dalla criminalità organizzata italiana. Notevolmente meno professionali degli asiatici che, quando arrivano, soprattutto nei periodi di festività, gestiscono veri e propri minibazar ambulanti, con giocattoli e ninnoli accattivanti che vanno dall’accendisigaro, che quasi fa tendenza, fino alla trottola o macchinina di plastica stampata con tanto di motorino, batteria e a volte addirittura ricarica. Loro sono sicuramente la punta di diamante silenziosa e avanzata di quest’umanità in cerca di spazio e reddito. Un commercio ancora troppo poco equo e solidale? Com’era accaduto ai primi marocchini che vendevano porta a porta i tappeti made in Valseriana, anche queste ultime ondate d’immigrati troveranno la loro sistemazione sul mercato? Per strada, purtroppo, per ora trovi un sacco di disperati che fanno accattonaggio. Sono quelli che ti mandano in crisi: se li premi finiranno con il pensare che da noi tutto è facile e i soldi te li regalano, se non allunghi neanche un soldo sei aggredito da un senso di colpa permanente. Ancora troppo pochi riescono a garantirsi il reddito con un lavoro. Stabile poi, non se ne parla nemmeno, visto che anche i giovani italiani sono ormai alle prese con il ricatto occupazionale offerto dal cosiddetto lavoro interinale.

Forse, me lo suggerisce il pessimismo della ragione, per garantire tutti questi aspiranti concittadini ci vorrebbe proprio una bella sterzata, anche nella politica dei redditi o, almeno, nella distribuzione della ricchezza ( leggi tasse e prelievi fiscali vari, spese per gli apparati politici, militari, statali e parastatali, ministeriali e affini ) se vogliamo far circolare risorse, lavoro e maggior benessere per tutti. Ci sta portando lontano questo breve viaggio. Pensare che, stamani, mentre raggiungevo la pensilina ero solo infastidito dal disagio per esser rimasto appiedato. Ora, invece, sono qui che guardo il mondo da un’altra visuale e da una prospettiva nuova. Lo esploro con uno sguardo più sensibile, lo interpreto, almeno cerco di farlo, un tentativo utile penso, almeno per chi come me vuole essere libero.

“La mappa non è il territorio” diceva qualcuno che sapeva guardare il mondo con il necessario disincanto. Ed io, allungando il mio sguardo oltre…ho visto e incontrato mappe di mappe, persone che mi hanno rimandato con la fantasia a luoghi remoti.

Uomini e donne che, nella loro concreta esistenza, mi coinvolgono e mi confondono facendomi scrivere nuove pagine della mia esistenza. Un viaggio che non mi sarei mai sognato di fare, trasportato da una banale corriera.

Sette anni fa quando a scuola, in un corso d’aggiornamento, con al centro il tema del viaggio: perdersi per ritrovarsi appunto, avevamo ricevuto dei preavvertimenti, da noi, in Istituto, stavano arrivando i primi gruppi di alunni stranieri. Allora sembrava già emergenza dover garantire ad Eli, alunno marocchino, non scolarizzato, il diritto ad essere accolto e, per noi docenti, il diritto dovere di potergli garantire un degno inserimento . Non è stato facile. Eli, non parlando la nostra lingua, chiedeva solo il giusto tempo per imparare ad imparare e noi, incapaci di comunicare con la parola dovevamo imparare a sintonizzarci con i suoi sorrisi, i suoi desideri più o meno manifesti, la sua ansia di apprendere che ogni giorno sapeva mettere in campo. Ricordo la battaglia giocata con l’amministrazione scolastica provinciale per ottenere ( allora non si chiamavano ancora mediatori culturali, brutto termine che non fa giustizia del lavoro svolto da chi è chiamato a ricoprire questo ruolo/ponte tra culture diverse) un’interprete e conseguentemente affermare per Eli e noi docenti il diritto al dialogo e alla reciproca comprensione.

“ Ma è possibile, sostenevo allora, che un artigiano, un libero professionista, un industriale possono avvalersi dell’interprete per operare transazioni economiche ed io, che ho a che fare con una persona sono condannato ad arrangiarmi?” A quando, affermavo, una società disposta ad investire sui percorsi formativi che dovrebbero produrre il cittadino di domani? Un interrogativo che, ancor oggi, a distanza d’anni cerca una risposta coerente. Oggi quell’alunno marocchino è un adulto emancipato, svolge una professione rispettabilissima dopo aver frequentato un istituto professionale. Non so se è anche un cittadino felice, glielo auguro, penso in ogni modo nel mio piccolo di aver contribuito con i miei colleghi ad affermare il suo diritto ad una cittadinanza consapevole. Tutti si stanno alzando, siamo prossimi alla fermata del capolinea.

Mi fermo e scendo. Lascio questo breve ma intenso viaggio.

Lo consiglio a tutti voi. Salire di tanto in tanto su di un mezzo di trasporto pubblico, aiuta; educa …ad incontrare il mondo…anche in dodici chilometri, se lo vivi con disincanto.

Dino Chiappini



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