Dal divano al Monte Bianco

Anche un non alpinista può arrivare in cima! Ecco come.
Scritto da: smarcell
dal divano al monte bianco
Partenza il: 17/07/2008
Ritorno il: 20/07/2008
Viaggiatori: 3
Spesa: 500 €
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C’e’ un momento della vita, tipicamente dopo i quarant’anni, caratterizzato da un evento speciale. All’inizio sembra una giornata come tante, ma sara’ destinata a segnare una svolta. Si entra in un negozio, in un bar, in un locale o in un qualunque altro luogo pubblico, e, cosi’ come lo si e’ fatto migliaia di altre volte in passato, ci si rivolge al ragazzo/a che ci troviamo di fronte con uno scontato “ciao” e questo disgraziato, che dio lo fulmini, ci risponde con un ossequioso “buongiorno”, che e’ peggio di una coltellata alla schiena. Come “buongiorno !”. Io ti dico “ciao”, e tu mi rispondi “buongiorno” ? Mai nessuno della mia eta’ mi ha detto “buongiorno” prima d’ora. Perche’ io e te abbiamo praticamente la stessa eta’, oddio, ho fatto la maturita’ che saranno vent’anni, forse qualcuno in piu’, ma cosa vuoi che sia, sono quasi tuo coetaneo, mi SENTO tuo coetaneo, ti dico “ciao” e tu mi rispondi “buongiorno” ? “. Come se mi vedessi anziano ? Come se FOSSI anziano ?

Di fronte a questa terribile presa di coscienza i quarantenni reagiscono nei modi piu’ disparati (e disperati). C’e’ chi si compra i jeans a vita bassa con l’intento di far vedere le mutande, chi si iscrive a un corso di salsa e merengue pur avendo la scioltezza e l’eleganza di uno stegosauro, sperando di rimorchiare qualche separata, e chi, come me, decide che gli piace la montagna e contatta una guida alpina, quando fino ad allora di fare le scale a piedi non se ne parlava neanche. Tutto questo con l’intento di mostrare a se se stessi e al resto del mondo che se non si e’ piu’ giovani, si e’ almeno giovanili.

Questo e’ il resoconto della salita alla cima del Monte Bianco. Non un’escursione sul Monte Bianco, attorno al Monte Bianco, o nella zona del Monte Bianco, ma proprio la salita alla vetta, 4810 metri. Pero’ non e’ il racconto di un alpinista o di un montanaro, di uno che e’ cresciuto a grappa e piccozza, ma e’ la storia di un cittadino qualunque, uno che ai vari trekking, climbing, rafting e canoeing aveva sempre preferito il meno avventuroso divaning. Il quale cittadino, come colto da un raptus improvviso, una o due volte l’anno abbandona le pantofole e il telecomando e per un paio di giorni si ammazza di fatica, sudore e freddo per scalare una cima alpina.

Il Monte Bianco, 4810 metri, e’ un simbolo. Arrivare in cima non e’ tecnicamente difficile, se si sceglie la strada giusta (altrimenti, parliamone, non farebbe per me), ma nonostante questo rappresenta LA montagna. E’ la montagna piu’ alta d’Europa, anche se adesso molti danno questo primato al Monte Elbrus, 5621 metri, che sta nella Russia Caucasica, perche’ hanno deciso che la Russia Caucasica e’ Europa. Pero’ il Monte Bianco rimane la montagna dove e’ nato l’alpinismo moderno, la cima che se uno dice “ho scalato il Monte Bianco” tutti ti diranno “eh, ma dai, non ci credo !”. Perche’ se dici che hai scalato la parete nord delle Grand Jorasses”, o la Cresta del Lyskamm ” fai colpo solo nella ristretta cerchia degli alpinisti. Invece il Monte Bianco lo puoi rivendere per fare colpo con chiunque: il benzinaio, il fornaio, il postino, la badante, tutti ti guarderanno con stupore e ammirazione.

Partenza da Bologna: siamo io e Andrea, una guida alpina che conosco gia’, e con la quale ho salito altre facili cime delle Alpi, e Antonella, che incontro per la prima volta al momento della partenza. Anche lei post-quarantenne, anche a lei devono aver detto “buongiorno” senza preavviso. La meta e’ la cima del Monte Bianco, passando per la “via normale”. La via normale e’ tipicamente il percorso piu’ semplice per arrivare alla cima di una montagna. Per fare una analogia, la via normale per arrivare al mio appartamento e’ l’ascensore. In alternativa ci sarebbero le scale, o la grondaia, o passare attraverso i balconi, in scala crescente di difficolta’. In montagna e’ la stessa cosa. Per arrivare il cima al Monte Bianco si puo’ scegliere la via normale, che e’ relativamente semplice dal punto di vista tecnico, (non sempre la via normale e’ per forza facile, ma nel caso del Monte Bianco lo e’ abbastanza) o complicarsi la vita quanto si vuole, senza limite alle perversioni. Nel caso del Monte Bianco ci sono almeno tre vie normali diverse. Quella dal versante italiano, e le due dal versante francese. Nessuna di queste, per inciso, fu seguita dai primi scalatori. Noi seguiremo la via che passa dal rifugio Gouter, considerata la via normale “classica”. La nostra guida ha grande esperienza, e e’ stato sulla cima del Monte Bianco gia’ una quarantina di volte.

La scampagnata si articolera’ in questo modo. Partenza da Bologna giovedi’ pomeriggio, e pernottamento a Chamonix, in resort 5 stelle per alpinisti. Venerdi’ giornata di acclimatamento: si prende la funivia del Monte Bianco e si arriva alla Aiguille du Midi, 3800 metri, e da li si scorazza per tutto il giorno sul ghiacciaio. In serata di nuovo a Chamonix, di nuovo nella suite reale per alpinisti. Sabato si sale al rifugio Gouter, a quota 3800 metri, e si dorme, o per lo meno ci si prova. Domenica mattina sveglia a ore vietate dalla convenzione di Ginevra, salita alla cima, discesa fino a valle, ritorno alla macchina, 6 ore di autostrada, e per cena siamo di nuovo a Bologna, freschi e riposati, pronti per una notte in discoteca.

Arriviamo in serata alla gite d’etape, la lussuosa suite frequentata dagli alpinisti dove passeremo le prossime due notti. Albergo economico, ruspante ma pulito: in realta’ un ottimo indirizzo. L’unico problema e’ che si dorme con chi capita, nel senso che non era possibile prenotare stanze personali. Io e Andrea siamo in una stanza assieme a un terzo, che pero’ non c’e’. Ha lasciato li tutta la sua roba, ma non c’e’ in stanza. O e’ da qualche parte in montagna, spero per lui al chiuso di un rifugio, o e’ a gozzovigliare da qualche parte dell’Alta Savoia. Antonella invece divide la stanza con un olandese. Uomo. Le auguriamo la buona notte salutandola con occhiatine ammiccanti e battutine da caserma. Lei, ricambiando la buona notte, ha come uno spasmo al dito medio della mano destra.

Colazione alla gite d’etape: marmellata, pane, cereali, yogurt, te, succo di frutta, e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Regola numero uno in montagna: le diete si dimenticano, e eventualmente si riprendono quando si ritorna a casa. Mi imbottisco di carboidrati. Prendiamo la funivia per l’Aguille du Midi: sono due tronconi, che da Chamonix, 1200 metri, ci portano a 3800 metri. A Chamonix fa caldo, ma su in alto saremo sugli zero gradi. Alla partenza anche molti turisti, tutti in maniche corte, e molti dei quali, come unica protezione per il freddo, una felpetta sotto braccio, o addirittura quelle tute cerate che certi sfoggiano alla spesa all’ipercoop il sabato pomeriggio, del genere “young and casual”. Per certa gente il fatto che a 4000 metri fa MOLTO freddo, anche se alla partenza c’e’ il sole e ci sono 25 gradi, e’ una estrapolazione mentale troppo ardita.

Arriviamo su, e la meta’ dei turisti si fionda al bar, perche’ scopre che “cazzo, fa un freddo porco!”, e quella nuvoletta innocente che si vedeva dal basso quassu’ e’ l’involucro di una cella frigorifera. Si passa attraverso un tunnel, alla fine del quale c’e’ un cartello con un perentorio simbolo di divieto, con sotto scritto: “attenzione, da qui in poi solo per alpinisti ! “. Vacca boia ! Qui si vede la differenza fra il turistello con le scarpe da barca e la Lacoste e l’uomo vero ! Ci bardiamo per scendere sul ghiacciaio, sotto gli sguardi ammirati degli spettatori. Che in realta’ non ammirano un tubo, e al massimo sono curiosi, ma a me piace immaginarli ammirati. Mi sento come Neil Armstrong che si mette la tuta spaziale prima di salire sul Saturno V. Imbrago, ramponi, piccozza, e la guida ci lega a distanza di un metro l’uno dall’altro. Per scendere sul ghiacciano si va giu’ per una cresta di neve molto sottile, giusto lo spazio per mettere i piedi uno davanti all’altro (le indossatrici sarebbero avvantaggiate), e a tratti anche ripida. Di qua e di la c’e’ la neve, dura e compatta, in forte pendenza, e e’ fortemente sconsigliato cadere, se si vuole raccontare la cosa ai nipoti. Niente di cosi’ terribile, non fraintendiamoci, ma bisogna stare comunque attenti a dove si mettono i piedi, anche perche’ ci si incrocia con quelli che vengono su, e ci si deve mettere di lato per passare tutti quanti. Io sono davanti, Antonella in mezzo, e dietro la guida, che ci controlla e deve essere pronto ad arrestare una nostra eventuale caduta. Procedo cauto, con il fermo intento di non voler mettere alla prova questa sua abilita’.

Uno a questo punto potrebbe chiedersi: ma a cosa serve essere legati, se alla fine nessuno dei tre e’ legato a qualche punto fisso ? Domanda piu’ che legittima. Risposta: in molti casi non serve a niente, o puo’ addirittura essere peggio, perche’ se cade uno cadono tutti. Dipende da come si e’ legati, dal tipo di pendio, dalla propria esperienza, dall’esperienza del capocordata e degli altri membri della cordata e dalla loro capacita’ di arrestare una eventuale caduta. Nonostante tutti si leghino quando vanno su un ghiacciaio (si chiama “in conserva” questo modo di legarsi a vicenda, e di procedere senza un ancoraggio fisso), in certe occasioni una eventuale caduta di uno dei membri della cordata potrebbe essere fatale per tutti. La nostra guida infatti si incazza furiosamente quando vede quelli che sono legati male, tipo un gruppo di 6 persone che procede con 10 metri di corda fra l’uno e l’altro. Se cade il primo, prima che la corda si tenda e l’ultimo possa tentare di arrestare la caduta, quello sta gia’ viaggiando giu’ per il pendio con la velocita’ di un eurostar, con tutta la comitiva al seguito. Quindi e’ importante regolare la lunghezza della corda a seconda del pendio: piu’ e’ ripido, e piu’ bisogna legarsi vicini. Invece nei tratti poco pendenti e’ importante stare sufficientemente distanti perche’ se uno cade in un eventuale crepaccio nascosto sotto la neve, gli altri ne restano fuori e possono, in linea di principio, bloccarne la caduta. Ovviamente bisogna saper fare. Siccome a me di andare in montagna non me l’ha ordinato il dottore, ho deciso fin dall’inizio che quando ci vado lo faccio con una guida alpina, che mi da quel margine di sicurezza e tranquillita’ che mi permette di godermi la scampagnata. Non mi fido molto neanche degli “amici esperti”, e, per dirla tutta, nemmeno di quelli del CAI, all’interno del quale, oltre a gente veramente esperta, c’e’ anche chi l’alta montagna l’ha vista piu’ in fotografia che dal vivo. Di questo poi ne riparleremo piu’ avanti.

Scendiamo sul ghiacciaio e scorazziamo in lungo e in largo. Nel frattempo le nuvole se ne sono andate e la giornata si e’ fatta bellissima. Saliamo sulla Punta Lachenal, con un po’ di roccette nell’ultimo pezzo, per sgranchirci le zampe e abituarci alla quota e alla fatica. La cima, una delle tante cimette del massiccio del Monte Bianco, e’ larga giusto lo spazio per mettere i piedi. Non sarebbe un problema di per se, se dietro la cima, dall’altra parte rispetto a dove siamo saliti, non ci fosse almeno un centinaio di metri di strapiombo verticale. Mi faccio fotografare in piedi sulla famigerata cima. Sono legato alla guida, che e’ bene assicurata a una roccia, ma preferirei non cadere di sotto in ogni caso. Forse a causa di questa mia leggera apprensione nella foto mi viene un sorriso un po’ tirato, che sembro Ornella Vanoni dopo l’ultimo lifting. Nella discesa passiamo sotto un enorme seracco che pende dal Monte Tacul, grande come un gruppo di villette a schiera. Andrea ci dice che prima o poi verra’ giu’, anche se piu’ poi che prima, e di passare comunque veloci. Siccome non voglio assistere al lieto evento, obbedisco solerte.

Torniamo alla funivia: ridendo e scherzando abbiamo passato 6 o 7 ore sul ghiacciaio, a 3800 metri di quota, con un bel po’ di saliscendi: un ottimo allenamento, che dara’ i suoi frutti, assieme al week end precedente che ho passato con alcuni amici a scarpinare sui sentieri della Valpelline, a confine fra Italia e Svizzera. Il modo migliore per acclimatarsi alla quota infatti e’ quello di passare alcune ore in alto, e poi ritornare piu’ in basso per dormire. Il ritorno alla Aiguille du Midi sulla stessa cresta affilata della discesa e’ molto piu’ facile adesso, in salita. Discesa a valle, doccia e cena a base della “Assiette del montanaro”, un piatto che da solo sfamerebbe tutto il Gabon. Per domani prevedono bello, ma temporali in serata. Per domenica, giorno della conquista della vetta, sole pieno. Anche questa notte il nostro compagno di stanza non c’e’, ma la sua roba e’ tutta li.

Partiamo presto la mattina, dopo la solita colazione ipercalorica da minatori, per prendere prima una seggiovia e poi un treno a cremagliera che viene da Saint Gervais (noi saliamo all’ultima fermata prima del capolinea) che ci porta al Nide d’Aigle, a quota 2372 metri. Treno pieno di turisti, fra i quali non mancano naturalmente i giapponesi. Ci dice Andrea che i principali negozi di materiale da montagna di Chamoinix fanno gran parte del fatturato col Giappone, dove spediscono tonnellate di roba ordinata per corrispondenza.

Dall’arrivo del trenino si prende il sentiero che porta al rifugio Tete Rousse, 3167 metri. Fin qui ci arrivano tutti, anche le famigliole con bambini al seguito. Da li in poi proseguono solo quelli che vanno alla cima del Monte Bianco, o comunque gli alpinisti. La nostra meta per la notte, il rifugio Gouter, 3810 metri, appare in cima a uno sperone di roccia verticale. Da sotto non si capisce come faccia il sentiero ad arrivarci. Evito anche di guardarlo troppo, lassu’, perche’ mi appare mostruosamente distante. Mentre saliamo incontriamo un tipo che grida verso non si capisce dove: “vieni giu’, dai, non ti faccio niente !!!”. Stara’ parlando con la suocera ? No, parla con il cane, un beagle che lo guarda altezzoso da uno spunzone almeno 50 metri piu’ in alto. Il padrone ci spiega che il cane ha azzannato a tradimento il panino di un incauto turista, che lo aveva appoggiato sullo zaino, e si e’ preso un paio di scoppole (il cane, non il turista). Siccome e’ un tipo molto orgoglioso (sempre il cane) adesso fa l’offeso e non accenna a seguire il padrone. Risaliamo e il cane e’ ancora li. Pero’ si vede che sta per cedere, perche’ mentre il padrone lo chiama lui scuote la coda, che raspa i sassi del sentiero.

Subito dopo la Tete Rousse, che in realta’ tagliamo fuori senza fermarci, c’e’ un tratto che e’ tra i piu’ insidiosi dell’intero percorso. C’e’ da attraversare un nevaio che riempie un canalone, tagliandolo in piano. E’ il famigerato “couloir de Gouter”. Niente di che, a vederlo, se non fosse che questo nevaio e’ al sole, e e’ mattina piena, e il sole scioglie la neve su in alto, fra le rocce, e fa cadere le pietre lungo il nevaio (scarica, in gergo), e le pietre arrivano giu’ saltellando leggiadre a gran velocita’. Se un sasso del genere, anche piccolo come una noce, ti colpisce, rischi di non raccontarla, perche’ ha la violenza di un colpo di fucile. Bisogna quindi attraversare il nevaio molto velocemente. Il tratto rischioso e’ al massimo di 40 metri. La guida va avanti, e noi, legati a lui, aspettiamo, indossando il casco. Poi ci da il via e passiamo veloci, uno alla volta. Lo vedo decisamente concentrato, quasi teso, e penso a come avrei sottovalutato un rischio del genere se fossi stato da solo.

Da qui in poi ci sono quasi 500 metri di dislivello per arrivare al rifugio Gouter, che selezionano quelli che sono venuti per una scampagnata domenicale dagli alpinisti che andranno sulla cima. Il dislivello appare quasi verticale su uno sperone roccioso. In realta’ il sentiero e’ piu’ facile di quello che puo’ sembrare a un primo sguardo, ma c’e’ comunque da spolmonarsi, e bisogna a tratti usare le mani e aiutarsi con delle corde fisse. La guida ci lega per sicurezza. Il vantaggio di salire quasi verticalmente e’ che la distanza del rifugio cala a vista d’occhio. Ogni volta che alzo lo sguardo e’ decisamente piu’ vicino. Vabbe’, ognuno si consola come puo’. Verso le 13 e 30 il cielo si scurisce di brutto (prima era bellissimo), e si sentono dei tuoni: il temporale pomeridiano che prevedevano. La guida accelera il passo, perche’ se ci sono i tuoni vuol dire che ci sono anche i fulmini, e noi teniamo le mani su una corda di metallo. Non bisogna essere esperti di elettromagnetismo per comprendere i termini della questione. Procediamo a grandi falcate su per i pietroni e le rocce, aiutandoci con le mani nei tratti piu’ ripidi; chiedo di rallentare un momento perche’ ho la lingua di fuori, ma Andrea, inflessibile, mi risponde che e’ meglio arrivare stanchi ma arrivare, piuttosto che rimanere secchi sotto un fulmine, per cui niente soste o rallentamenti prima che il temporale in arrivo peggiori. Come dargli torto ? Stringo i denti, ricaccio in gola la lingua, e continuo a salire a passo di trotto. Arriviamo su che nevischia. Il rifugio e’ praticamente su una terrazza che si sporge sul baratro, quel baratro che abbiamo appena risalito, e che dall’alto sembra un precipizio verticale. Come si diceva alla fine dei temi delle elementari, sono stanco ma contento, e devo dire che tutto sommato non sono neanche cosi’ stanco, considerata la salita che ho appena fatto. Tie,’ beccati questa ! Vorrei vedere, quella tipa che mi ha dato del “lei” cosi’ all’improvviso, senza riflettere a che cosa avrebbe scatenato in me, come sarebbe adesso al posto mio !

Deposito gli scarponi e la piccozza all’ingresso, e scelgo le ciabatte. Infatti nei rifugi di alta montagna non e’ permesso entrare con gli scarponi, e il rifugio Gouter non viola questa regola. Quindi all’ ingresso sono disposte un tot di paia di ciabatte, che all’inizio sono probabilmente in ordine, perfettamente accoppiate, ma dopo che la gente comincia ad arrivare, e le sceglie come le donne le maglie al mercato, regna il caos totale. Ne consegue che se sei fortunato riesci a trovare due ciabatte non proprio uguali ma per lo meno simili. Se sei sfortunato, come nel mio caso, hai un 48 sul piede destro, e un 36 col tacco sul sinistro.

Il rifugio Gouter tiene alcune centinaia di alpinisti, e l’architetto che ha progettato le camerate deve essersi ispirato alla zona notte di Treblinka. Uno stanzone con due piani di tavolacce di legno senza soluzione di continuita’, sulle quali gia’ alle 3 di pomeriggio giacciono decine di corpi umani sponsorizzati dalle migliori marche di indumenti di montagna. Ogni tanto si affaccia dai loculi qualche faccia dall’aria sconvolta, coi capelli che non vedono un balsamo e un pettine da un bel po’. Mi sdraio anche io, per riposarmi prima della cena, che e’ a due turni, perche’ il rifugio e’ al completo. Il mio turno e’ il primo, alle 18 e 30, orario da policlinico. Nel frattempo le guide hanno un welcome drink solo per loro, in un prive’ che immagino di lusso estremo. Mi piacerebbe dormire ma non ci riesco: invidio quelli che in montagna si sdraiano su un tavolaccio e circondati da visi, odori e rumori di ogni tipo si addormentano in 10 secondi. Io mi rigiro di qua e di la per tutto il tempo, e mi addormento giusto mezz’ora prima dell’ora di cena. A cena mangio tutto quello che portano: minestra di verdura, spezzatino con patate e budino. Prendo la minestra tre volte, perche’ in alta quota fa bene ingerire liquidi. Poi fai pipi’ tutta notte, ma dicono che e’ fondamentale per acclimatarsi, e secondo me hanno ragione. Al tavolo si parlotta con un gruppo di un qualche CAI toscano. Anche loro per la prima volta verso la cima del Bianco, sono pero’ senza guida. La nostra guida dice che preferisce la via normale dal rifugio Gouter, quella che faremo, perche l’altra via, quella dal Rifugio Cosmique, anche se molto frequentata e sicuramente panoramica, implica attraversare due volte, all’andata e al ritorno, le pendici del Monte Tacul e passare in una zona piena di seracchi grandi come palazzi, che incombono ameni sul viandante. Seracchi che se si staccano e ti cadono addosso non la racconti di sicuro. Il gruppo del CAI minimizza: cosa vuoi che sia, non facciamo gli esagerati adesso ! Ci vanno tutti, cosa sara’ mai ! La nostra guida, quaranta volte sul Monte Bianco, dice che si, ci vanno tutti, ma lui non si fida lo stesso. I toscani fanno spallucce. Giusto un mese dopo moriranno 8 scalatori proprio su quei pendii, travolti dalla valagna causata dalla caduta di uno di quei seracchi. E neanche in pieno giorno, quando il sole scalda e il rischio e’ maggiore, ma in piena notte, alle 3 di mattina di una domenica di tempo bello stabile ! Anche se la fatalita’ e’ sempre in agguato, e non voglio imputare colpe a nessuno, ecco perche’ mi fido della mia guida alpina.

Lascio la borraccia al bancone della cucina per farmela riempire di te caldo la mattina, e vado a letto. Fuori nevischia, speriamo che le previsioni ci abbiano azzeccato, e che domani sia bello. Mi sistemo sul mio tavolaccio, nel mio sacco lenzuolo, sotto le coperte fornite dal rifugio, sicuramente fresche di lavanderia, con addosso una calzamaglia e una maglia che di giorno tengo sotto il pile. Sono le 8 di sera, e mi rendo conto che di dormire non se ne parla. In compenso nella camerata c’e’ chi gia’ russa di brutto. Se riescono a russare in queste condizioni, alle 8 di sera, mi chiedo cosa combinano a casa loro. Avranno quello del piano di sotto che sbatte tutta la notte sul soffitto col manico della scopa gridando “basta, lascia dormire un po’ anche noi !”. In compenso i 3 piatti di minestra e l’acqua che ho bevuto fanno il loro effetto e mi tocca alzarmi per andare in bagno. Al buio non ho voglia di vestirmi, per non fare casino, e vado in bagno cosi’ come sono, calzamaglia e maglia leggera, con la pila frontale in testa a fare luce. A questo punto il bagno del Rifugio Gouter merita una breve descrizione. Intanto e’ fuori del rifugio, per cui devo uscire all’aperto in tenuta primaverile quando fuori e’ tranquillamente sottozero, puntando tutto sulla velocita’, e questo gia’ da solo non e’ il massimo del comfort. Poi il bagno e’ quanto di piu’ orrido si possa immaginare. Le latrine (qualunque altro nome sarebbe decisamente un complimento esagerato) danno direttamente su una specie di dirupo; non c’e’ acqua, e l’ambiente e’ da uomini veri. Io non mi sogno neanche di entrare nella stanza delle turche, e approfitto del mio essere maschio per usare i cessi a muro, cercando di battere il record di Maiorca di trattenimento del respiro. E’ comunque incredibile come certa gente entri tranquillamente in quelle camere a gas in apparente tranquillita’. Forse hanno problemi olfattivi gravi, e hanno gia’ la visita prenotata dall’otorino. Ci manca solo che si portino da leggere la Gazzetta, dentro quel troiaio ! E e’ ancora piu’ incredibile, in realta’, come a certa gente non si otturi tutto alla sola idea di usufruire di simili cessi. Insomma, ci troviamo di fronte a individui con un equilibrio psicofisico invidiabile, e ad apparati gastrici coi contro-coglioni ! Chiusa la breve digressione tecnica. Comunque, causa l’eccesso di liquidi ingeriti, l’acclimatazione che favorisce la diuresi o quello che ti pare, mi devo alzare tre volte tra le 8 e mezzanotte. L’ultima volta, mentre corro veloce verso i cessi come Diabolik nella notte (in ciabatte pero’, una delle quali col tacco), guardo il cielo e vedo la luna e le stelle. Le nuvole sono scomparse: perfetto ! Lo sapevo che Meteo-Chamonix sa il fatto suo e se dice una cosa e’ quella. Ritorno nel loculo notte, mi rigiro un altro po’, attorcigliandomi nel sacco lenzuolo (la vista del cielo sereno mi ha svegliato ancora di piu’), e poi, inaspettatamente, miracolosamente, mi addormento.

Sveglia all’una e mezzo, perfettamente ristorato dall’ ora e mezzo di sonno. I 45 minuti che intercorrono fra la sveglia, la colazione, e la partenza per la salita alla cima del Monte Bianco, al Rifugio Gouter, sembrano la preparazione per lo sbarco in Normandia. Energumeni col coltello fra i denti che si vestono, fanno colazione, sollevano zaini, mettono scarponi, imbraghi, moschettoni. Si muovono in silenzio, concentratissimi, fra rumore di ferraglie, smadonnamenti in lingue sconosciute, una montagna di zaini mai vista, un delirio di scarponi, bastoncini e piccozze. Che tra l’altro l’80 % degli alpinisti porta lo stesso modello di scarponi, per cui devi inventarti un qualche trucco per distinguerli, e per impedire che qualcuno si metta i tuoi, perche’ poi dover salire il Monte Bianco con uno scarpone numero 39 quando di norma porti il 44 non e’ il massimo. Io, molto furbescamente, ho fatto un triplo nodo che lega assieme scarponi, piccozza e trave portante del rifugio, che mi avra’ pure aiutato a distinguerli dalla massa, ma che per scioglierlo, alle 2 di mattina e praticamente al buio, stramaledico schiere di beati in cielo,

Colazione in silenzio, con tutti i carboidrati e gli zuccheri possibili, te (il latte, dice la guida, in montagna e’ pesante da digerire, specialmente sotto sforzo, e io mi fido, non vorrei che le mie potenzialita’ risultassero penalizzate da una simile avventatezza !), borraccia di te caldo nello zaino, qualcosa da sgranocchiare a portata di mano in tasca, lampada frontale in testa, metto i ramponi, l’imbrago, ci leghiamo alla guida, che mi controlla il nodo a otto, l’unico che so fare senza pensarci troppo fra i nodi di montagna, e si parte. Sono le 2 e 30 del mattino. Nel mondo civile a quest’ora dormono, o, i piu’ mondani, vanno a letto, alcuni addirittura neanche da soli. Io mi trovo a 15 gradi sottozero, senza avere praticamente dormito, senza essermi lavato, a dover camminare in mezzo a un ghiacciaio. Da adesso, per arrivare in cima, ci sono 1000 metri di dislivello, e almeno 4 ore di cammino.

A questo punto bisogna rispondere alla domanda che sorge spontanea: ma chi cazzo me lo fa fare ? Risposta: non lo so. O meglio, una risposta ce l’ho, ma e’ complessa, e difficile da far capire agli altri. Secondo me andare in montagna, in alta montagna, e’ come il parto, come fare un figlio. Se ti siedi a un tavolo, con calma, e rifletti su perche’ lo vuoi fare, valutando la situazione da tutti i punti di vista, soppesando i pro e i contro, non riesci a trovare un motivo valido per farlo. Pero’ lo fai, e alla fine non ti ricordi neanche della fatica, delle stramaledizioni che hai sparato fra i denti, del freddo (se partorisci questo almeno non e’ un aspetto da tenere in conto), ma ti rimane solo il ricordo di qualcosa di bello. E perfino le cause delle esclamazioni a tema mistico-religioso che hai trattenuto fra i denti mentre sbuffavi per la fatica a -15 diventano parte di una fantastica esperienza che ricorderai con piacere e anche con una punta di orgoglio. E alla fine, misteri della psiche umana, addirittura lo rifai. E poi ci sono certi momenti che ti ripagano di tutto. Alcune sensazioni, delle emozioni quasi impalpabili che a cercare di spiegarle ti sentiresti dire: “beh, per queste stronzate ti sottoponi a questo martirio ?”. E su questo ci torneremo.

La partenza e’ sempre dura, e alle 2 di notte anche di piu’. In genere per le salite in alta montagna che avevo gia’ fatto ero partito verso le 4 o le 5 (che non e’ che sia tutto questo relax, comunque !). Devo abituarmi al ritmo del passo in salita, al freddo, all’aria rarefatta. So che non posso coprirmi troppo, perche’ poi comincerei a sudare, anche con -15, ma non posso neanche coprirmi troppo poco, perche’ poi avrei freddo. Nel buio la montagna e’ un serpentone di pile frontali a fare luce. Ne verrebbe fuori una foto fantastica, ma non e’ il momento. Siamo legati a un metro e mezzo l’uno dall’altro, la guida davanti, poi Antonella, e io per ultimo. Poco sopra il rifugio, in pieno ghiacciaio, troviamo alcune tende a igloo piantate sulla neve. Sono gli uomini veri, quelli per cui il Rifugio Gouter e’ troppo di lusso. Quelli che la mattina si lavano sulla neve a petto nudo, rotolandosi come gli orsi bianchi. Io sono modesto e mi accontento di essere un uomo a meta’.

Cerco di mantenere un passo costante, e di non fare mai movimenti bruschi o in piu’ del necessario, coordinando il respiro. E soprattutto cerco di non pensare troppo a quello che sto facendo, alla fatica, a quanto manca. Una volta lessi che Shane Gould, ex campionessa olimpica e primatista mondiale di nuoto, mentre macinava vasche in allenamento si raccontava in testa le favole. Io, onestamente, di raccontarmi Pollicino non ne ho voglia, anche perche’ so che lo farei mangiare subito dall’orco gia’ nelle prime battute, per cui uso il trucco di cantarmi in testa qualche canzone. Strofa, ritornello, seconda strofa, ritornello, assolo, inciso, ritornello, assolo finale, sbam sbadabam, applausi. Mi sparo in testa una versione da brivido di Sympathy for the Devil, con l’uuuuh uuuuh finale che non finisce piu’, e poi ci piazzo un capolavoro del Boss: Darkness on the Edge of Town, e senza rendermene conto sono gia’ 100 metri piu’ in alto. Sono concentrato sul ritmo del movimento dei miei piedi, uno passo dopo l’altro, e evito di guardare avanti. Cerco di mantenere il mio livello di energie costante, mangiucchiando ogni tanto qualche uvetta, o della frutta disidratata. Ho anche un paio di pozioni magiche, comprate in un negozio di articoli sportivi: carboidrati liquidi che si trasformano immediatamente in benzina per muscoli, ma che hanno un sapore decisamente schifoso, tipo sciroppo per la tosse, dolcissimo. Da ciucciare una goccia ogni tanto, immaginando di mangiarsi una fetta di culatello.

Attraversiamo un tratto quasi pianeggiante, anzi, per dirla tutta, addirittura in leggera discesa. Solo qualche anno fa, ci dice Andrea, era piatto, ma adesso, con la riduzione dello spessore del ghiaccio, si e’ creato un leggero avvallamento. Siamo alla Capanna Vallot, 4362 metri, e neanche me ne sono accorto. Oddio, un po’ me ne sono accorto, pero’ ho preso il ritmo giusto e per il momento sto decisamente bene. La Capanna Vallot e’ un rifugio non gestito, praticamente una costruzione sul ghiacciaio, che ha salvato innumerevoli vite di alpinisti colti dal maltempo e che non sarebbero riusciti a tornare al sicuro del rifugio. Perche’ in montagna, in una salita del genere, tutto sembra facile quando e’ bel tempo. Il rifugio e’ li e si vede, la cima e’ lassu e si vede, e vabbe’, uno potra’ al limite non farcela per la fatica, ma la strada da seguire e’ chiarissima, non ci sono strapiombi o pareti verticali, cosa mi potra’ mai succedere ? Alla peggio giro di 180 gradi e torno a casa. Vero. Pero’ se viene il maltempo, o anche solo una di quelle belle nebbie che giu’ da valle sono solo una nuvola che copre la cima, ma che quassu’, a 4500 metri, ti trasformano il mondo in un universo uniformemente bianco in cui non vedi a piu’ di 3 metri di distanza, con 20 gradi sottozero e con il nevischio che ti arriva addosso, sono cazzi. E se non hai il sangue freddo e l’esperienza necessari, e viene la notte, e non trovi piu’ il rifugio perche’ la traccia, cosi’ evidente e ovvia al sole, li in mezzo e’ scomparsa nel nulla e qualunque direzioni ti sembra quella buona, perche’ non c’e’ piu’ una direzione, l’allegra scampagnata, magari un po’ faticosa ma apparentemente priva di rischi, puo’ facilmente trasformarsi in tragedia. Molti alpinisti si sono trovati, negli anni, in queste condizioni, e la Capanna Vallot per loro e’ stata la differenza fra vivere o morire. E e’ inutile portarsi il GPS, che tanti sbandierano come se li mettesse al sicuro da qualunque rischio, se non lo si sa usare bene nelle condizioni in cui e’ necessario saperlo usare, perche’ un conto e’ usarlo nel giardino sotto casa, e un altro e’ usarlo con 20 sottozero, la neve che ti arriva sferzando negli occhi, il vento gelido, le mani che ti si congelano, e la strizza di rimetterci la pelle che ti ottenebra il cervello. Comunque oggi la giornata e’ perfetta, la luna illumina la notte, e le previsioni danno bello stabile. In ogni caso ecco un altro valido motivo per andare in alta montagna con una guida alpina e non con chi capita.

Davanti alla Capanna Vallot ci fermiamo cinque minuti per mangiare una barretta di cereali e bere un po’ di te. Io non ho la borraccia termica e il mio te, alla partenza bollente, adesso e’ un ottimo ice tea. Adesso il pendio e’ piu’ lieve, ma dopo un po’ si impenna di nuovo. Ascolto il rumore dei miei ramponi sulla neve dura. E’ un suono che mi piace, lo trovo rassicurante. Anche se le punte si conficcano solo per qualche millimetro so che terranno. Superiamo diverse cordate che si fermano a riprendere fiato lungo il pendio ripido. Un errore che tanti fanno, in montagna, e’ di tenere un passo che li obbliga a fermarsi spesso. Invece e’ molto meglio trovare un passo che ti permette di andare avanti fermandoti il meno possibile. Una, due soste al massimo, in tutta la salita. Perche’ se ti fermi perche’ hai bisogno di fermarti, vuol dire che stai andando al limite delle tue possibilita’, e in quel caso la sosta ti tira fuori tutta la stanchezza, e ripartire poi e’ ancora piu’ faticoso. Il sollievo che ti danno quei cinque minuti in cui stai fermo se ne va in un attimo appena riprendi a camminare, e ti senti in un attimo piu’ stanco di prima. Per non parlare di quelli che superano gli altri in salita e poi, dopo 5 minuti, li trovi che riprendono fiato piegati sulle ginocchia. Superare una cordata in salita accelerando per superarla, deviando dalla traccia, se non sei veramente allenato e’ uno sforzo sovrumano. La nostra andatura, non troppo veloce ma costante, ci permette di dosare le nostre forse e progredire senza soste inutili, e infatti stiamo andando alla grande.

Iniziamo la cresta che porta alla cima, che si chiama Cresta delle Bosses, mentre sta albeggiando. Le pile frontali le abbiamo spente gia’ da un po’. Quando mi arriva addosso il primo raggio di sole e’ un’emozione fortissima, e, giuro, mi si riempono gli occhi di lacrime. Siamo a 4500 metri, o forse piu’, e la montagna attorno a me diventa improvvisamente d’oro. Letteralmente d’oro, scintillante, con la luce radente a illuminare la neve ghiacciata dove non e’ mai passato nessuno. Ecco, solo questo momento, da solo, mi ripaga di tutta la fatica, del freddo, della sveglia a un’ora innominabile dopo una notte quasi insonne, dei cessi schifosi, del vicino di branda che russa e di tutto quello che, a mente fredda, mi farebbe dire “ma chi cazzo me lo fa fare”. “Questo” me lo fa fare, e in questo momento sono felice di essere qui, piuttosto che in un letto caldo giu’ in citta’.

La cresta sommitale e’ abbastanza affilata, e Andrea, la guida, ci ricorda di guardare sempre dove mettiamo i piedi. Sebbene uno debba veramente impegnarsi per cadere, una caduta non sarebbe proprio quello che ci vuole, perche’ la montagna, a destra e sinistra, va giu’ per centinaia di metri o forse piu’, aumentando di pendenza. Se ci fosse l’erba non sarebbe un problema, cadi ma ti fermi li, ma sul ghiaccio, se cadi e non ti fermi subito, nel giro di pochi metri ti trasformi in un siluro. Ormai pero’ ci siamo, la cresta diventa gradualmente meno ripida, e sento che si sta avvicinando la cima, anche se sto guardando solo i miei piedi. Sento la pendenza che diminuisce, e mi arriva una botta di adrenalina perche’ capisco che ormai ce l’ho fatta. Gli ultimi passi, e sopra di noi c’e’ solo il cielo. Ecco, l’emozione della vetta e’ questa: il pendio che da ripido ti accorgi che si addolcisce, e in pochi metri diventa piatto, e alzi la testa e sopra di te non c’e’ piu’ niente. Sono le 6 e 25 del mattino e sono in cima al Monte Bianco. Ci abbiamo impiegato poco meno di quattro ore: la nostra guida si complimenta con noi, dice che siamo un’ottima cordata. Io mi complimento con me stesso.

Sulla cima ci sono gia’ alcuni alpinisti, e altri ne arrivano. Sento parlare molte lingue diverse, alcuni felici, altri con la stanchezza che maschera la gioia, tutti fotografano e si fotografano, e girano i “dammi cinque” e le pacche sulle spalle. In una domenica d’estate, con il bel tempo, piu’ di un centinaio di persone arriva in cima al Monte Bianco, utilizzando principalmente le due vie normali francesi; non e’ quindi propriamente un luogo esclusivo. Mi aspettavo una cima larga, tipo panettone, perche’ da sotto sembra cosi’, e invece la cima e’ su una cresta stretta. Piatta ma stretta, lunga una ventina di metri e larga non piu’ di un paio. Tutto quello che c’e’ attorno e’ molto piu’ in basso. A sinistra c’e’ la Francia, e a destra l’Italia, e tutto quello che c’e’ attorno e’ molto piu’ in basso. Tra l’altro imparo che la cima del Monte Bianco e’ in realta’ completamente in Francia, e non sul confine Italia-Francia, perche’ e’ spostata dallo spartiacque di una decina di metri. Cosi’ i francesi possono a pieno titolo dire che il Monte Bianco e’ una montagna francese. Imparo anche che in passato, verso la fine dell’800, avevano costruito una stazione meteorologica sulla cima della montagna, che in pochi anni e’ stata distrutta dalle intemperie e ingoiata dal ghiacciaio. Complimenti a chi aveva pensato la cosa !

Ci facciamo le foto di rito, nelle quali vengo malissimo come sempre, con il mio cappello con paraorecchie ad alta gradazione erotica, e mentre inquadro attorno a me mi accorgo che il sole, ancora basso sull’orizzonte, proietta l’ombra della cima della montagna sulla foschia. Un’ombra proiettata nell’aria, proiettata non su una superficie, ma sul nulla. Una meraviglia. Un altro regalo della Natura, (con la maiuscola, se la merita veramente) a ricompensa della fatica, un capolavoro che nessun casalingo potra’ mai ammirare. Una cosa del genere l’avevo vista in una foto scattata dalla cima dell’ Everest. Qui siamo 4000 metri piu’ in basso, ma e’ lo stesso. Per me, in questo momento, e’ lo stesso.

Stiamo sulla cima non piu’ di dieci minuti. Avevo sognato di mandare sms ad alcuni amici: “saluti dalla cima del Monte Bianco”, ma non ho neanche la voglia di pescare il cellulare nello zaino per controllare se c’e’ campo. Infatti nonostante l’aria tersa, o forse proprio per l’aria tersa, e’ freddissimo. La temperatura sull’orologio-termometro-barometro-altimetro-tachimetro-mocadelcaffe’ di Andrea segna -13. Pero’ non c’e’ un filo di vento, che a questa quota e’ gia’ un successo. In realta’ Andrea ci spiega che non e’ poi cosi’ freddo per gli standard del luogo, anzi, e’ una giornata decisamente ottimale. Iniziamo a scendere, mentre il sole sale e l’aria si scalda. Questo e’ un momento che ti riempie di gioia: sai che sei stato in cima a una montagna, una “Signora” montagna, e che ce l’hai fatta, e adesso devi solo scendere, e puoi gustarti la meraviglia che hai attorno. E poi provo un sottile piacere sadico quando incontro gli alpinisti che stanno salendo, e li saluto con un deciso “buongiorno” (bonjour, visto che qui siamo in Francia) e loro mi rispondono con un rantolo soffocato, perche’ a 4800 metri il bonjour viene molto meglio in discesa che in salita. Tutta la cattiveria del cittadino-alpinista si manifesta in queste situazioni, e dentro di me ci godo a pensare: “io ho gia’ dato, adesso sono cazzi vostri !”.

Ci fermiamo ogni tanto a fare foto, a mangiucchiare qualcosa, o semplicemente a guardarci attorno. Adesso l’atmosfera e’molto rilassata. Incontriamo i toscani con i quali avevamo cenato, che sbuffano in salita: sono decisamente indietro, e rischiano di arrivare in cima tardi, troppo tardi per poter tornare indietro e prendere l’ultimo trenino a cremagliera per l’ultima seggiovia, per poter tornare a casa. Non li invidio decisamente, in questo momento.

Scendendo diventa caldo, sotto il sole, e ci togliamo un po’ di roba. Ho le mani in fiamme, dentro i guanti leggeri di windstopper. Quelli che salgono adesso rischiano perfino di sudare di brutto. Passiamo di nuovo davanti alla Capanna Vallot e rifacciamo il tratto che all’andata era in discesa, che adesso e’ in salita. Dopo la fatica della vetta, questo breve tratto in salita, saranno 50 metri di dislivello, per me e’ una vera mazzata alle gambe. Penso a Messner sullo Shisha Pagma quando, disceso dalla vetta, e resosi conto che il fratello non stava arrivando, e’ risalito. Pazzesco, io che adesso quasi schiatto per una salitella di 50 metri ! In poco tempo siamo di ritorno al Rifugio Gouter. Raccattiamo il sacco lenzuolo e le cose che avevamo lasciato e che non ci servivano per la salita, mangiamo l’ennesima barretta di cereali, e iniziamo la discesa lungo il precipizio roccioso lungo il quale avevo sputato l’anima in salita. Il nevischio della sera prima si e’ trasformato in ghiaccio, che ha reso scivolose le rocce, per cui mettiamo i ramponi. Due tipi, probabilmente dell’est europeo, iniziano a scendere senza ramponi. Una guida fa un urlo, e dice loro che sono pazzi, (accompagnando la frase con gesti inequivocabili) e che e’ molto pericoloso senza ramponi con quel ghiaccio. Loro alzano le spalle, si girano e riprendono a scendere. Tanto che gli frega a loro, se cadono di sotto ! Iniziamo a scendere anche noi, legati alla guida come due cocker, io davanti, Antonella in mezzo, e il padrone che ci tiene a guinzaglio da dietro. La discesa e’ faticosa quasi come la salita, e mi sembra eterna. Il terriccio fra le pietre, coperto di ghiaccio, nei tratti ripidi e’ scivolosissimo, ma le punte dei ramponi tengono bene. Raggiungiamo finalmente il famigerato nevaio dove scaricano le pietre. Passiamo velocemente, pur con le dovute precauzioni, e mettiamo definitivamente ramponi e imbrago nello zaino. Il mio zaino a questo punto e’ diventato un mostro ingestibile. All’andata tutto era sistemato con ordine, al ritorno e’ un vero troiaio. Anche qui si vede la differenza tra uno che gioca a fare l’alpinista e una guida alpina. Lo zaino di Andrea infatti mi fa invidia: e’ perfetto, non ha una bozza, una qualche protuberanza, un qualcosa che sporge o penzola, niente. E dentro ha molto piu’ roba che il mio: decine di metri di corda, chiodi da ghiaccio, rinvii, moschettoni, potrebbe esserci anche un cocomero, per quello che ne so. Il mio zaino invece sembra un capocollo gigante, strozzato dentro la corda.

Ci restano le ultime due ore di sentiero “normale” che ci portano alla stazione del trenino. A questo punto, con l’adrenalina che se ne e’ andata, a obiettivo raggiunto, e con la stanchezza nelle gambe, la discesa sulle pietre del sentiero la vivo come una tortura. Dovrebbero mettere dei tapis roulant, delle scale mobili, ad uso e consumo di chi ha i piedi marci per essersi fatto 10 ore di cammino. Infatti e’ quasi mezzogiorno, e ridendo e scherzando sono in giro dalle 2 di questa mattina, con al massimo mezz’ora di sosta in tutto.

Le caviglie gridano pieta’ sulle pietre instabili del sentiero. Per fortuna non ho vesciche (gli scarponi sono ottimi, non e’ un caso che tutti comprino questa marca e questo modello) e anche i calzettoni (fondamentale averne di buoni, adatti alla montagna, guai mettersene un paio di lana qualunque, o peggio che peggio i tubolari, che garantiscono le stimmate alla Padre Pio) ma quando potro’ liberare il piede sara’ comunque una gioia immensa (per me, per chi mi stara’ accanto forse un po’ meno, ma chi se ne fotte). Siamo quasi in fondo e mi sforzo di scendere il piu’ veloce e sciolto possibile, per non pesare sulle caviglie. Passiamo attraverso folle di turisti vocianti, e qualche stambecco stipendiato dalla pro-loco, che bruca indifferente a pochi metri dai bambini. Finalmente arrivati ! Sul trenino, in discesa, c’e’ una fauna di alpinisti da far paura. Roba che se andassero a fare il bagno tutti assieme produrrebbero una marea nera peggio della Exon Valdez. Anche io, nel mio piccolo, do il mio contributo al folklore locale.

Arriviamo alla macchina e ci rimettiamo gli abiti civili. Sono le 3 del pomeriggio, e sono “on-the-road” dalle 2 di questa mattina. A Chamonix e’ caldo, e posso mettermi i pantaloni corti e i sandali. Che goduria ! Una delle soddisfazioni della vita, dopo 12 ore di scarponi, ramponi, e camminata ininterrotta. Bella soddisfazione, qualcuno potrebbe dire ! Come darsi le martellate sui maroni e godere quando si sbaglia mira ! Lo so che non si puo’ capire. Mi siedo in macchina, sedile dietro. Per fortuna non devo guidare, perche’ dopo dieci minuti, mentre siamo sotto il traforo, sto gia’ per trapassare. Ho messo di nuovo i panni del cittadino, e riposto il costume da alpinista. Pero’ mentre mi addormento penso gia’ a dove lo usero’ la prossima volta.

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Dalla cima, l'ombra del Monte Bianco



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