Cambogia, mica male
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Il volo con Singapore Airlines è perfetto, buon trattamento, poltrone abbastanza comode e spaziose, due menu sui quali scegliere i propri pasti. Durante il volo logicamente non sono riuscita a dormire e allora mi sono vista tre film.
13 gennaio
Dopo quasi 12 ore di volo atterriamo a Singapore: non ne potevamo più! Ma ci aspettano ancora un’ora e quaranta minuti prima di arrivare a Phom Penh, capitale della Cambogia, nel cui aeroporto ci aspetta la nostra guida, Yavong, molto molto gentile, quasi imbarazzante. E’ un personaggio strano, assomiglia a un cartone animato, con le orecchie a sventola stile jumbo, di una cortesia incredibile, si profonde in inchini e mi inibisce quasi. Ha 50 anni portati benissimo, è dinoccolato e ciarliero, simpatico. Il suo nome è lunghissimo ma è abbreviato in Yavong o meglio ancora Vong, più sbrigativo.
Ci conduce al nostro albergo – il Sunway, in centro, vicino al Wat Phnom – dove scaricheremo i bagagli consumeremo il lunch, e, stanchi morti per non aver dormito niente – ci darà appuntamento alle 14,30 per la prima visita della città.
Fa molto caldo, caldissimo, direi. Il nostro autista si chiama Cheng ed è originario della provincia di Takeo, anche lui fa parte dell’agenzia Diethelm (la stessa agenzia della Birmania) e viaggiamo su una Toyota Camry con aria condizionata a stecca.
Ci rechiamo dapprima al Monumento all’Indipendenza (dalla Francia nel 1953) poi al Museo Archeologico con notevoli sculture khmer. Ci aspetta infine il Palazzo Reale – che è a lutto per la morte del re Norodon Sihanouk che è deceduto in ottobre e che cremeranno a fine gennaio, mi pare, e tumuleranno a febbraio – e la splendida Pagoda d’Argento, bellissima col pavimento in piastrelle pesantissime e statue d’oro con pietre preziose nonché diamanti.
Non sto veramente in piedi per la stanchezza e con sei ore di fuso orario in più abbiamo sul groppone la bellezza di 34 ore di veglia! Vacillo quindi notevolmente sentendo le spiegazioni di Vong che peraltro parla un buon italiano.
Il Wat Phnom è l’unica collina della città sulla quale si erge la pagoda dedicata ai quattro budda scoperti nel 1373 da Madame Penh, e sulla quale si erge anche la statua di questa venerabile signora. Per accedere al Wat si percorre un’ampia scalinata sormontata da leoni e naga. C’è n’é uno enorme, costruito in bambù, per festeggiare il capodanno. I cambogiani festeggeranno tra poco anche il capodanno cinese e quello khmer in aprile.
Terminate le visite torniamo in albergo dove ci facciamo una sacrosanta doccia e un riposino in quanto alle 19,30 ci portano a cena in un famoso ristorante, il Malis, tempio della cucina khmer, elegantissimo e raffinato ma dove non apprezzo per niente né l’amoc di pesce né la zuppa. Si salva solo il dolce. La cucina khmer è piena di salsa di pesce, lemon grass (citronella) e zenzero che io ho già cominciato a detestare. Pazienza.
A nanna alle 20,15, stravolti, domattina sveglia presto per la prima escursione.
14 gennaio
Sveglia alle 6, colazione buonissima con frutta strepitosa e dolcini vari, e poi partenza per Takeo, provincia del sud al confine col Viet Nam. Dapprima percorriamo il tragitto in auto poi prendiamo una barca per attraversare i canali e arrivare poi sulla collina di Pnom Da, con magnifico tempio pre angkoriano. Dalla collina si vedono le risaie del Viet Nam. I canali sono in secca, cioè non ricoprono le risaie per cui i pescatori ora hanno piantato delle tende o delle costruzioni in bambù sulla terra non bagnata e vivono di pesca e riso, hanno una vita miserissima ma sulle loro “case” spunta l’antenna della tv che va a batteria.
Continuiamo la visita al Phnom Chisor, salendo 223 gradini, visitiamo il Tonle Bati e il Ta Prohn, pranziamo dalle parte di Angkor Borey con cibo khmer che non è neppure malvagio a parte la zuppa col lemon grass e colma di aglio fritto (come mi spiega Vong).
Torniamo in hotel, rapida doccia e cena in hotel. Questo grande hotel di proprietà malese ha un ottimo servizio a buffet, peccato che non comprenda cibo occidentale, ci salviamo coi noodles anche se piccantissimi.
In questo albergo ci sono moltissimi soldati americani che vi soggiornano: siamo proprio di fronte all’ambasciata americana e ogni camera ha segnato sul soffitto la posizione della Mecca.
Dopo cena presto a nanna, siamo stravolti.
15 gennaio
Sveglia alle 5,30 (ma sono vacanze? ☺) e buonissima colazione. Dopo colazione usciamo dalla camera con le valigie perchè dopo le varie escursioni ci avvieremo verso Siem Reap. Uscendo carichi di due valigie e due trolley ci scontriamo quasi con un gigantesco soldato yankee che stava uscendo dalla sua camera, e gentilmente ci afferra le valigie e ce le porta fin dentro l’ascensore e poi fuori nella hall. Gli chiedo se è da tanto che è in Cambogia e mi risponde che sono due settimane, è qui per addestrare le truppe cambogiane. Ci salutiamo cordialmente.
Uscendo dalla città ci facciamo indicare l’ambasciata francese che fu teatro degli adii strazianti con l’arrivo dei khmer rossi da parte dei rifugiati. Era successo che gli occidentali si erano rifugiati in ambasciata chi con le mogli o i mariti o gli amici o i servitori cambogiani e i k.r. diedero l’ordine di far uscire tutti i cambogiani altrimenti gli occidentali sarebbero stati uccisi. Così marito e moglie, amici, servitori si dovettero separare sapendo che quelli che uscivano sarebbero andati incontro a morte certa. Quest’episodio è raccontato nel film “Urla del silenzio” ed è purtroppo verissimo.
Partiamo per Kompong Thon ma prima ci fermiamo a Skuon la cui specialità sono i ragni fritti! Vong ci dice che non ne ha più mangiato da quando morivano di fame con i khmer rossi. Pranziamo in un ristorante sul lago – siamo sulla strada per Siem Reap – dove il maiale allo zenzero mi procura non pochi guai di stomaco, uffa…
Nelle campagne le case sono costruite nella tipica architettura khmer sioè a palafitta. Le più abbienti hanno pali in ceento ch sono altri anche 4/5 metri per contenere i carri e altre cose, e il piano superiore è fatto in legno o muraura e sono molto graziose. Le più povere sono fatte di palma intrecciata e sono rialzate dal terreno di mezzo metro, a volte hanno il tetto in lamiera. Molte non hanno luce elettrica e quasi nessuna acqua che vanno a prendere al pozzo o nei canali. Vong ci dice che il grande problema della gente è avere acqua pulita.
Continuamo la visita di Sambor Prei Kuk situato a 35 km a nord est di Kompong Thom, visitiano l’antica capitale Chenla con 100 templi pre angkoriani, ci fermiamo poi al Nana Bridge a 40 km da Siem Reap e finalmente alle 16 siamo in hotel il Tara Angkor, dove ci accoglie Caterina, la concierge, una ragazza italiana molto simpatica e disponibile che lavora in Cambogia da 6 mesi con il suo ragazzo canadese. Ci danno una camera molto carina, bel bagno e, alleluia, il ristorante prevede cibo occidentale. Evviva! ho tempo, oltre alla doccia, di prendermi una pastiglia contro la nausea e il dolore di stomaco per cui stasera cenerò leggero ma non avrò problemi di nessuna sorta.
Qui Vong ci lascia e ci affida ad un’altra guida – che tra l’altro è suo cugino – di nome Chheng. che ha 63 anni e che ci parlerà anche lui dell’esperienza subita con i khmer rossi. Il nostro nuovo driver è anche lui di un villaggio della provincia di Takeo, confine Viet Nam, come Cheng, e si chiama Souanè, ha 26 anni ed è sposato da sei mesi. Ha le unghie delle mani lunghissime, come una donna…
Che bella dormita…
16 gennaio
Sveglia alle 6 e ottima colazione: frutta fantastica, anguria, papaia, ananas, mango dolcissimo, dragun fruit e tanti dolci e partenza per l’antica capitale della Cambogia con i monumenti di Roulos. Visitiamo il Preah Ko e il Bakong, molto belli entrambi.
Torniamo abbastanza presto in hotel per cui abbiamo il tempo di farci un bel bagno nella bella piscina e starcene un’oretta su un comodo lettino.
Pranzo in hotel e poi gita in barca sul Tonle Sap per vedere i villaggi galleggianti e i pescatori che pescano immersi nell’acqua sino alle ascelle.
Torniamo in hotel per rimetterci in ordine e andiamo a cena in un ristorante locale, il Viroth’s che la Loneley Planet definisce “sofisticato ristorante all’aperto dove la cucina khmer incontra il design balinese” in effetti è molto carino e mangio persino bene!
17 gennaio
Sveglia alle 6 e buonissima colazione.
Partiamo per la porta sud del Bayon, tempio fantastico con 54 torri decorate con 200 sorridenti facce di Avolokitesvara, il Baphuon, la Terrazza degli Elefanti, la Terrazza del Re Lebbroso e ci facciamo uno splendido giro in elefante!
Il Bayon è veramente magnifico, fa parte del complesso di Angkor Thom ovvero la città fortificata e colpisce immediatamente per le sue cinque porte. E’ racchiuso in un muro altro 8 metri e lungo 12 km! Ma la cosa straordinaria del Bayon sono tutti quei visi sorridenti di Avalokitshavara, voluta dal mitico Jayavarman VII. Il Bayon è ricco di corridoi, ripide scale, ma sono soprattutto le 54 guglie in un certo stile tipo gotico ornate da 216 giganteschi volti dal sorriso gelido che ricordano il celebre sovrano. Queste enormi teste ti guardano da ogni angolo, trasmettendo un’immagine di potere e controllo e da qualsiasi punto si guardi, si riesce sempre a vedere una decina di volti!
Al centro del Bayon ragazze in costumi colorati si fanno fotografare con noi.
Torniamo in hotel per il pranzo e poi ripartiamo per la visita del Preah Khan costruito sempre dal mitico re Jayavarman VII che forse è stato il più grande sovrano della Cambogia , visitiamo il Neak Pean, il Ta Som, il Srah Srang ed è tutto uno scendere e un salire per ripidissime scale in legno o altissimi gradini in pietra per cui da oggi avrò un dolore tremendo alla schiena e alla gamba sinistra sofferente per osteofiti, pazienza, ne vale comunque la pena.
Saliamo sul tempio a cinque torri di Preah Rup la cui torre centrale rappresenta il Monte Meru, ovvero il Nirvana, e Chhen mi dice che per salire al Nirvana ci vuole tanta fatica: quanto è vero! e da una delle sue torri assistiamo al tramonto sulla giungla: bellissimo! Siamo in tantissimi: americani, inglesi, qualche tedesco, qualche spagnolo, francesi e tantissimi orientali: malesi, filippini, cinesi e giapponesi.
In mattinata un gruppetto di cinesi ci ha coinvolto in varie foto dove il più gettonato è stato Mario!
Ceniamo al Bopha Angkor Restaurant che non è malvagio, anche se la salsa di pesce e il lemon grass sono onnipresenti.
18 gennaio
oggi ci aspetta l’alba sull’Angkor Wat: sveglia alle 4,30.
Chheng ci viene a prendere alle 5 e con l’auto ci porta al Wat, per fortuna arriviamo presto e riusciamo a sederci – tutto nel buio con la luce delle torce – al bordo del fossato reale pieno di ninfee e attendiamo il chiarore che illumina l’Angkor Wat: strepitoso!
Un gruppo di coreani (ho chiesto a Cheeng perchè per me gli orientali sono quasi tutti eguali) faceva un casino terribile, sembrava proprio di assistere ad un film di tipo giapponese in quanto a urla e suoni gutturali.
Anche l’Angkor Wat è un tempio montagna, cioè una riproduzione in miniatura dell’universo. La torre centrale rappresenta il Monte Meru, coronato da vette minori circondate a loro volta dai continenti, cioè i cortili sottostanti e dagli oceani, il fossato. Il naga a sette teste è quindi un ponte arcobaleno simbolico con il quale l’uomo raggiungerà la dimora degli dei.
Il fossato è largo 190 metri e forma un gigantesco rettangolo di 1,5 per 1,3 km! Impressionante davvero. E poi è tutto un sussieguirsi di bassorilievi che rappresentano battaglie, eserciti, paradiso e inferno, il mare di latte, ecc.ecc. Fantastico.
Ritorno in hotel per la colazione e poi di corsa ad ammirare questo splendido monumento, enorme, impressionante, bellissimo.
Di solito pranziamo in hotel ma bisogna dire che il Tara Angkor ci dà soddisfazione, in quanto comprende menù più occidentale e riusciamo a mangiare bene senza ustionarci le papille gustative.
Nel pomeriggio ci aspettano il Preah Viear e il Ta Prohm tutto immerso in una fitta vegetazione che lo avvolge completamente strangolandolo con le sue radici. Il fascino è incredibile.
Abbiamo anche il tempo di visitare una fabbrica di foglie di palma e di sapone più varie spezie e che contribuisce a togliere i ragazzi dalla strada per poi tornare in albergo, farci la doccia ed andare ad assistere, durante la cena, ad uno spettacolo di danze Apsara, che sono le danzatrici celesti. Il ristorante è il Fou Nam ed è gestito da un francese. Ci servono un antipasto di rolls crudi e cotti con salse varie, mangiabili, due zuppe: una di pesce con raviolone, buona e un’altra molto gelatinosa che non ho il coraggio di terminare, l’immancabile amoc di pesce (cioè pesce cotto in foglie di banana con il solito lemon grass e salsa di pesce fermentata) e un buonissimo dolce francese con sorbetto.
Ogni portata è inframezzata da varie danze, i ballerini sono molto giovani e bravi, e da quello che ho capito fanno parte del complesso teatrale che è a fianco dell’hotel.
Col va e vieni dall’albergo al ristorante e viceversa parliamo sempre in inglese con Souanè e mi accorgo, ad un certo punto che invece di journey gli dico trip… speriamo capisca bene!
Dopo cena rientro in hotel e nanna.
19 gennaio
Stamattina ci avviamo verso il Phnom Kulen National Park dopo la solita splendida colazione. Abbiamo deciso di andare in questa zona un po’ isolata e non turistica. E infatti mano a mano che la strada si inerpica su per le montagne tutto cambia. A parte il fatto che percorriamo un buon tratto di strada sterrata con bricchi e fossi non male, finiamo poi su una stradina asfaltata che sale e sale e che si inoltra in territorio che ancora nel 1992 era controllato dai khmer rossi.
I villaggi sono miserrimi, ma la gente cordiale, anche se certe facce di anziani mi fanno venire in mente le bieche facce da k.r.
Intanto Chheng ci racconta che lui è nativo di un villaggio vicino a Siem Reap, ma che quando era giovane era andato a Phnom Penh a studiare. Allora c’erano i matrimoni combinati, tra i quali anche il suo (ma lui si dice favorevole a ciò) e suo padre, temendo per il figlio visto l’avvicinarsi dell’esercito di Pol Pot, influenzò il figlio sul fatto di lasciare gli studi e di sposarsi per non essere arruolato a forza nei khmer rossi. Chheng seguì il consiglio paterno ed era al villaggio da un solo mese quando entrarono i k.r. A lui chiesero molte notizie sulla sua vita e sul fatto che fosse andato a studiare, ma lui faceva il finto tonto e rispondeva sempre, a qualsiasi domanda “non so” e anche sul fatto degli studi diceva di non avere fatto nessun progresso.
Chheng ha l’abitudine di camminare e guardare le persone a testa bassa e io mi sono fatta l’idea che questa abitudine l’abbia presa proprio per essere deferente verso i k.r. e non mostrare nessuna arroganza. Terribile!
Ci racconta che lui e la sua famiglia furono spostati verso nord di 30 km e costretti a scavare un canale profondo 12 metri, che avevano pochissimo da mangiare perchè era più facile controllare uomini in condizioni gracili che non potevano ribellarsi. Dopo un anno furono spostati ancora più a nord e iniziarono a scavare altri canali. Lui cercava sempre di evitare qualsiasi guaio anche perchè aveva un figlio di due anni che ora è diventato medico.
Ci racconta che una sua zia ha perso 8 persone appartenenti al suo nucleo famigliare e che la moglie è l’unica sopravvissuta della sua famiglia di 10 persone.
Ha due figli e tre figlie, nonché 5 nipotini e mezzo, perchè il sesto arriverà a fine febbraio. E’ molto orgoglioso del figlio medico in quanto, ci dice, la sanità in Cambogia non funziona ed avere un figlio medico è una garanzia.
Arriviamo pertanto in pieno territorio khmer rosso: dapprima visitiamo un fiume sacro tutto scolpito a linga e poi delle bellissime cascate. Anche qui è tutto un saliscendi su scalinate e passerelle.
Infine ci aspetta una pagoda con un grande budda sdraiato e anche qui scalini a non finire, stavolta scalzi.
Chhen ci spiega che tutti i khmer rossi sono entrati a far parte dell’esercito governativo.
Per pranzo mangiamo tipico cibo khmer che non ci dispiace affatto, a parte una salsa della quale non si capisce il contenuto e già godiamo pensando che stasera in hotel mangeremo western!
Dopo pranzo ci rechiamo al Beng Mealea, tempio nascosto nella giungla e circondato da un imponente fossato di 1,2 km per 900 metri. E’ davvero affascinante e speciale poiché stante il perdurare della sua prigionia nella giungla, più qualcosa che emerge dalla boscaglia in un trionfo di pietre sulla natura, vi sono enormi massi ammassati e la torre centrale è crollata del tutto ma è davvero un’esperienza – come dice la L.P. – alla Indiana Jones.
Prima di entrare anche qui un cartello ci spiega che questa zona è stata sminata (con l’aiuto della Germania). Da qualche parte abbiamo anche visto un campo di sminatori…
Nonostante tutte queste pietre sconnesse, scale e quant’altro un corteo nuziale – mi pare americano – attraversa il tutto, con sposa e damigelle (tutte vestite di azzurro come le cravatte degli uomini) con le scarpe col tacco in mano! Le immortaliamo.
Tornati in hotel ci coglie un’amara sorpresa: il menù a buffet è chiuso e ci aspetta una cena tipica khmer nell’altro ristorante dell’albergo! Disperazione!
20 gennaio
Sveglia tardi, oggi, 6,45 e stante la delusione della sera prima stamattina mi faccio preparare uova e bacon! Segue poi la solita buona frutta.
Oggi partiamo da Siem Reap (che vuol dire siamesi sconfitti) e ci dirigiamo verso Battambang, ai confini con la Thailandia… anche questa è stata zona dei khmer rossi fino al 1998.
Salutiamo la gentile Caterina e con armi e bagagli ci avviamo alla nostra nuova meta. Ma prima visitiamo una fabbrica che produce seta insieme ad una coppia di francesi, lui spassosissimo, e Mario ha il coraggio di assaggiare le larve bollite dei bachi che i cambogiani reputano molto buone.
Arriviamo poi a Battambang e prendiamo alloggio al Bambu Hotel, gestito da un inglese. E’ una guest house molto carina, con 16 splendide camere tutte in legno e amplissima vetrata che d sul giardino. Aria condizionata, ventilatore a pale, grande bagno con un piccolo linga (si sa, porta fortuna bagnarlo e bagnarsi con l’acqua che è diventata benedetta, ma non lo faccio). C’è anche una bella piscina ma non abbiamo proprio in tempo per approfittarne.
A pranzo ci portano in un ristorante il Gold Night, che è veramente infame, ma pazienza. Mangiamo il minimo indispensabile.
Nel pomeriggio però ci aspetta una bella sorpresa, il bamboo train che è davvero molto divertente e dove incrociamo due treni che vengono verso di noi per cui gli addetti smontano i carrelli dalle rotaie, facciamo passare gli altri convogli e proseguiamo la nostra corsa. Sono 6 km di corsa folle nel vento, meno male che tre cuscini attutiscono gli impatti con le giunte! I binari sono tutti storti…
All’arrivo alla stazione chiacchiero, un po’ in inglese, un po’ in italiano e un po’ in khmer con una signora dal bel sorriso che mi vende due bellissimi scialli artigianali in seta ed una bimba fantastica mi regala un braccialetto intrecciato di foglie di palma!
Torniamo in hotel e abbiamo una sorpresa piacevolissima: stasera abbiamo cena francese! Wow!
Veramente sarebbe più una cena da montagna che da paese caldo ma come non esserne lieti? Si mangia all’aperto, in terrazza, e c’è davvero fresco. Comunque da quando siamo qui io la sera, dopo la doccia, invece di profumarmi mi cospargo di Autan tropicale! Ci servono pistacchi salati come aperitivo, baguette fritta nel burro con rosmarino e aglio, zuppa di cipolle, salsiccia di Tolosa con purè e una favolosa mousse al cioccolato. Grandioso! Sazi e soddisfatti ce ne andiamo a dormire anche se io per la verità non dormirò molto in preda a grandi dolori di schiena e gamba.
21 gennaio
Dopo un’ottima colazione con croissant e frutta (mi sembrava di aver perso la chiave della camera e invece l’avevo infilata nei pantaloni!) partiamo per Phnom Penh alle 8 e per quasi 300 kilometri si attraversano villaggi e strade trafficate.
Visitiamo le cave di Pursat, facciamo però tappa a un altro villaggio galleggiante e arriviamo fino al lago Tonle Sap dalle parti di Ko Ker, pranziamo a Kampong Chhnang al ristorante 98 che è davvero una piccola tragedia, ma pazienza. Ci spingiamo in aperta campagna per andare a visitare una pottery e una gentile signora incinta di sette mesi mi regala tanti sorrisi e io compro qualcosa tanto per non fare solamente elemosina e finalmente arriviamo nella capitale dove, al Sunway hotel, ci aspetta Vong che ci accoglie con mille sorrisi e noi pure. Quando parla Vong ogni tanto interloquisce dicendo “vedi quella costruzione? Mica male eh? L’Italia? Mica male eh?” è davvero simpatico. “Italia molto cara rispetto a Cambogia, mica male eh?”
Poiché è la seconda volta che alloggiamo qui. Ci assegnano una camera ultra favolosa che è un appartamento vero e proprio: ingresso con armadio scorrevole nel quale troviamo ciabatte e accappatoi (come sempre, veramente) asse da stiro e cassetta di sicurezza (ad ususal). Grande bagno con al centro il lavabo con tutti gli oggetti da toiletta, a sinistra water e grandissima doccia e a destra grande vasca. Poi c’è il salotto – sala da pranzo con angolo cottura e tutto l’occorrente per farsi il te e il caffè (ma questo anche negli altri hotel) e poi – grande vetrata – e al di là un king size bad più un queen bad con tavolino e poltrona, scrivania, tv, grande vetrata che dà sul terrazzo pieno di palme, tavolino e sedie! Bellissimo.
Invece di riposarci, lasciate le valigie in camera, usciamo e prendiamo un tuk tuk e per un’ora ci facciamo scarrozzare per la città, ma prima ci siamo fatti portare alla Pharmacie de la Gare per prendere le mie pastiglie contro il mal di schiena! 4 pastiglie effervescenti eguali alle mie 1 dollaro! Evviva, così avrò meno male. Ero partita convinta di averne per tutti i giorni e invece me ne mancavano tre o quattro per cui ora sono tranquilla.
La città è tutta in lutto per Sihanuk, oggi hanno fatto le prove per la gran cerimonia ed è tutto un fermento di monaci e monache nonché tanta gente che è sdraiata davanti al palazzo reale.
Tornati in hotel rapida doccia e cena, e – meraviglia – riuscirò a mangiare molto bene perchè mi farò dare i noodles solo con salsa di soia e pollo ed eviterò zuppe colme di aglio e chili. Benissimo! Terminerò il pasto con pane, burro, frutta e dolci.
L’indomani mattina ci aspetta la partenza per l’Italia, ma prima la dura prova del liceo dove torturavano le persone e i campi di sterminio.
22 gennaio
Stamattina si dorme: sveglia alle 6,45! Ottima colazione e poi alle 7,45 siamo già con Vong e Cheng sulla Toyota per andare al liceo Tuol Sleng Museum.
Entriamo nel cortile, Vong ci fa sedere su una panchina nel parco antistante gli edifici e ci racconta ciò che è successo, cioè che la Cambogia è ora un piccolo Paese di 180.000 kmq, ma una volta l’impero Khmer comprendeva gran parte del Laos, della Thailandia e della parte sud del Viet Nam, compresi Saigon e tutto il delta del Mekong. Dopo il disfacimento dell’impero e varie guerre con Thailandia e Viet Nam la Cambogia fu colonizzata dai francesi nel 1863. A loro favore bisogna però dire che costrinsero i tailandesi a restituire tutto il territorio che si erano annessi con la forza e che comprendeva Angkor e le sue bellezze.
La Francia, si sa, costituì l’Indocina, che comprendeva il Laos, il Viet Nam e, appunto, la Cambogia. Dopo le vicissitudini della seconda guerra mondiale la Cambogia ottenne l’indipendenza nel 1953, quindi un anno prima di Bien Dien Phu.
Negli anni seguenti la Cambogia attraversò un periodo di instabilità e di guerre con il coinvolgimento nel conflitto vietnamita in quanto gli americani cominciarono i bombardamenti sul suo territorio senza avere neanche dichiarato un qualsiasi stato di guerra contro lo stesso Paese. Poi subentrarono il colpo di stato di Lon Nol (pro americani), la guerra civile, il regime di terrore dei Khmer Rouge, l’invasione vietnamita (che erano stati duramente attaccati dai khmer rossi) e la conseguente liberazione dal regno del terrore. Nel 1993 ci sono state elezioni democratiche sotto l’egida dell’Onu ed attualmente il Paese ha una monarchia parlamentare basata su un sistema democratico multipartitico e una nuova Costituzione. Da allora al governo siedono quasi tutti ex membri dei k,r, dissidenti con Pol Pot, filovietnamiti e in Viet Nam rifugiatesi.
Molto controversa è la figura del vecchio re Norodon Sihanuk che, come ci dice Vong, è ancora molto amato dai vecchi cambogiani e che è stato protagonista della storia del suo paese, attraversato da tanti anni di guerra civile culminata, nel 1975 dall’entrata dei Khmer rossi nella capitale.
Come ci spiega Vong i khmer rossi dapprima vennero reclutati nelle campagne dove i contadini affamati e scontenti covavano rabbia e odio verso il governo di Lon Nol. L’intento di Pol Pot, il capo dei k.r. era quello di distruggere tutto ciò che c’era di vecchio e conosciuto e costituire un paese nuovo partendo da zero e la sua materia prima erano proprio i contadini scontenti, analfabeti e plasmabili, e infatti questi furono proprio le sue truppe più fedeli.
Dalle campagna, dalle montagne, dalle periferie, i k.r. strinsero sempre più il cerchio verso la capitale e – quando vi arrivarono il 17 aprile 1975 – furono accolti da liberatori in quanto i cambogiani pensavano che la guerra civile finalmente sarebbe cessata. Invece i k.r. iniziarono a uccidere gli ufficiali del vecchio governo e ad deportare i cittadini di Phnom Penh nelle campagne. Avevano suddiviso la capitale in quattro zone e chi era a nord veniva deportato a nord, indipendentemente da dove risiedeva e dal suo nucleo familiare. Così le famiglie si persero di vista e difficilmente si ritrovarono. In 48 ore una città di 2 milioni di abitanti fu svuotata e smembrata.
Iniziò così un periodo di “rieducazione” dell’intera nazione. Ci ha spiegato tutto ciò molto bene Vong nell’ultimo giorno della nostra presenza a Phnom Penh, durante la visita al Liceo Tuol Sleng che era diventato il famigerato S.21, dove venivano torturati e uccisi i prigionieri.
Ma chi era Pol Pot? Si chiamava Saloth Sar, ma assunse il nome che lo ha contraddistinto da “Politique Potentiel“ (politico potenziale). Nacque in una famiglia benestante e fu mandato a studiare a Parigi dove si innamorò del marxismo e in particolar modo delle teorie di Mao Tse Tung e della rivoluzione cinese che per lui assunse connotati irreversibili e tragici. Tornato in patria fu tra i fondatori del partito rivoluzionario del popolo Khmer e iniziò la guerra civile. Aveva il consenso della Cina e del Viet Nam e, successivamente, a Vietnam liberato, anche della Cia. Anni dopo si scontrò direttamente con Ho Chi Minh che non voleva un suo intervento armato in Cambogia e da allora covò un odio feroce contro i vietnamiti che lo portò anche a far uccidere molti dei suoi collaboratori cioè quelli che non la pensavano come lui ed erano filo vietnamiti. Alcuni di loro, per salvarsi la vita, si rifugiarono appunto in Viet Nam e lì rimasero fino alla costituzione di un nuovo governo. Aiutando peraltro l’esercito vietnamita.
Partendo dall’”Anno Zero” – 1975 – Pol Pot iniziò quindi con il suo folle disegno di fare tabula rasa di ciò che era stato e quindi ogni pretesto era buono per arrestare qualcuno ed ammazzarlo. Fu così che nel Paese morirono ufficiali, insegnanti, medici, artisti, politici, insomma tutta quella classe dirigente e intellettuale che dovrebbe costituire la spina dorsale di un Paese. Il liceo Tuol Sleng fu teatro di questi orrori – e non fu l’unico, purtroppo – e poi sorsero i killing fields – i campi di sterminio dove chi era sopravvissuto ad uno/due mesi di torture veniva finito e dove venivano sepolti in fosse comuni. Si calcola che quasi 3 milioni di persone morirono in quattro anni di terrore che ebbe fine il 6 gennaio 1979 quando i vietnamiti, stanchi delle incursioni e uccisioni nel loro territorio, invasero la Cambogia e presero Phnom Penh. I vietnamiti rimasero in Cambogia sino al gennaio 1989 e successivamente sotto l’egida dell’ONU vi furono le elezioni nel 1993 ma i k.r. non si arresero e Pol Pot radunò alcune truppe ai confini con la Thailandia da dove continuò a combattere. Al riguardo dei vietnamiti Vong mi ha risposto “meglio loro dei khmer rossi”. Pol Pot fu aiutato dalla Thailandia e anche dagli USA e anche se il paese era stato liberato c’erano ancora zone che subivano l’influenza nefasta dei k.r. come la zona a est – confine tailandese – e la provincia di Kampong Thom – luogo natale di Pol Pot. I combattimenti durarono sino al 1997 e in special modo vennero minati vasti territori. Pol Pot morì nel 1998 in circostanze non ben chiarite e fu subito cremato per evitare che il governo allora presente potesse visionare il corpo.
Di fronte a noi, nel vasto prato con alberi di frangipani 14 tombe bianche. Sono i cadaveri ritrovati nelle loro celle quando sono arrivati i vietnamiti. Uno dei cadaveri era di una donna ma è stato impossibile identificarli perchè troppo decomposti. Prima di scappare i k.r. li hanno cosparsi – per estremo disprezzo – con escrementi.
Il primo grande edificio sulla sinistra era riservato ai prigionieri importanti: ex ministri, politici, intellettuali di spicco. In ogni camera un letto in ferro, un bugliolo e catene.
Nel secondo edificio c’erano i prigionieri comuni. All’inizio vi sono un sacco di fotografie. I k.r. avevano l’abitudine di fotografare le loro vittime prima e dopo le torture. Inimmaginabile, atroce, non ho parole, e non avevo neanche il coraggio di guardarle tutte. La disperazione negli occhi delle persone fotografate è impressionante.
Mi fermo davanti ad una foto dove 3 o 4 bambini sono intenti a scavare un canale e dico a Vong “ma anche i bambini?” e lui mi dà una risposta che mi agghiaccia: “ero uno di loro”. Ci racconta che è stato preso prigioniero quando aveva 12 anni e portato a scavare canali. Ogni bambino doveva scavare 2 metri cubi di terra al giorno (gli adulti 4) e se non ci riusciva la prima volta doveva fare autocritica di fronte a tutti. Se succedeva una seconda volta la critica gli veniva fatta dal capo del campo. Una terza non c’era…
Vong ci dice che vorrebbe dimenticare e guardare solo al futuro ma non sempre ci riesce, specialmente di notte ha spesso degli incubi. Poi però pensa che ora ha un buon lavoro, che ha tre figli – uno studia architettura, uno elettrotecnica e la bimba “dovrà” fare il medico anche se è la principessa della famiglia – una macchina e una casa per cui è stato molto fortunato, ma a volte gli incubi lo perseguitano.
Ci domanda e si domanda: ma perchè i governi del mondo che sapevano non hanno fatto nulla? Per troppi anni siamo stati dimenticati dal mondo. Non abbiamo la risposta, purtroppo. Vong dichiara che non ha nessuna fiducia nella giustizia internazionale, che l’Onu non serve a nulla. Come dargli torto?
Non ho parole, ho la gola stretta e mi sudano le mani. Mario dice che lui non riesce ancora a dimenticare quello che i fascisti hanno fatto alla sua famiglia.
In questo liceo, chiamato S.21, sono stati imprigionati nel 1975 154 persone, nel ’76 2.250, nel ’77 2.350 e nel 1978 5.765. Sopravvissuti 7.
Ai piani superiori altre celle, negli altri edifici, strumenti di tortura, quadri che un pittore lì internato e sopravvissuto ha eseguito, sale dove si possono vedere filmati, case degli aguzzini che lì vivevano con le loro famiglie, bambini compresi… un orrore senza fine. Il famigerato capo del campo, il terribile Duch è stato condannato all’ergastolo.
Mi viene in mente il libro di Terzani dove ci sono due capitoli dedicati a questo campo dal titolo “sento ancora le urla nella notte”…
Tra i regolamenti del S.21 c’era anche quello di non parlare troppo forte e di non gridare durante le torture (anche elettrochoc) che venivano fatte tutti i giorni per cui un prigioniero al massimo durava due mesi, veniva “nutrito” con due tazze di acqua di riso e qualche granello dello stesso al giorno… voglio uscire, mi manca l’aria.
Ci sono varie cartine con l’indicazione di dove erano dislocati in tutta la Cambogia i vari S.21 e gli altri killing fields, c’è una cartina del Paese tutta costituita da teschi
A lato nel giardino c’è il signor Chum Mey, uno dei sette sopravvissuti e nel biglietto che mi consegna c’è scritto Victim in Toul Sleng Prison – Victims Association of Democratic Kampuchea. Non ho il coraggio di prendere il libro che mi porge, non voglio leggerlo, ma gli lascio un’offerta e mi sprofondo in inchini a mani giunte: merita grandissimo rispetto.
Partiamo per Choeun Ek, cioè un killing field, a 16 km a sud di Phnom Penh. Qui le persone che erano state torturate al S.21 e non erano morte venivano trasportate di notte e qui finite nei modi più svariati: a colpi di pala, di vanga, con la gola tagliata da foglie dure di palma (sempre per risparmiare pallottole). I bambini piccoli venivano sbatacchiati con la testa contro il tronco di un grande albero…
Ci sono più di 149 fosse comuni e uno stupa di vetro contiene più di 8.000 teschi divisi per sesso ed età. Ovunque per il campo ci sono frammenti di ossa umane, piccoli ritagli di stoffa…
Tanta gente come noi passa in un silenzio impressionante in questo campo pieno di alberi e pace, così come passava impietrita, irrigidita attraverso le stanze del Tuol Sleng Museum,. Bevo copiosamente dalla mia bottiglia perchè ho la gola che arde.
Usciamo, finalmente, è stato terribile. Mi viene in mente Mautahausen, ed è un’esperienza che sconvolge.
Per stemperare l’emozione Vong ci porta al Mercato Russo e lì ci perdiamo tra le bancarelle e facciamo ancora gli ultimi acquisti.
Torniamo in albergo, ci facciamo la doccia e andiamo a pranzo, non ricordo cos’ho mangiato. Alle 14 siamo giù nella hall con le valigie e Vong alle 15 ci viene a prendere per accompagnarci in aeroporto dove ci lascerà dopo tanti tanti saluti e inchini.
Il volo per Singapore parte in orario, atterriamo e andiamo un po’ a gironzolare tra i vari negozi e poi all’ora stabilita ci imbarchiamo: l’aereo è pieno di occidentali che arrivano da varie parti del sud est asiatico e da qualche orientale. È un Boing 777 che dopo Milano atterrerà a Barcellona.
Durante il volo solite cene, soliti film (Hot springs in inglese e Prenom in francese) e finalmente il 23 gennaio 2013 alle 5,55 di mattino siamo a Malpensa: fuori ci sono -3 gradi ed è nevicato.
Geliamo dal freddo, imbocchiamo l’autostrada piena di neve e nebbia dopo aver recuperato la nostra macchina (che aveva le portiere sigillate dal gelo) e ce ne andiamo a casa, felici di rivedere i ragazzi.