Arizona e California on the road
Indice dei contenuti
Abbiamo prima di tutto steso un itinerario di massima tra tutti i luoghi che volevamo visitare, studiando le tappe in modo da ottimizzare tempi e distanze. Avendo come obiettivo principale il giro dell’Arizona ne è uscito un tour circolare con partenza e arrivo nello stesso posto. Ci siamo messi alla ricerca dei voli con l’idea di ridefinire poi le tappe una volta fissato l’aeroporto di arrivo e partenza.
Voli: i voli sono stati scelti in base alla convenienza di prezzo, orari (con priorità alle opzioni di partenza alla sera da Milano verso un luogo di transito europeo da cui ripartire la mattina presto alla volta degli USA), aeroporto di arrivo. Nonostante ci siamo mossi con un po’ di ritardo, prenotando circa un mese e mezzo prima della partenza, abbiamo trovato una buona offerta con arrivo e ripartenza da Phoenix, combinando parecchie opzioni di scali.
Auto a noleggio: prenotata da casa con Alamo, tramite Autoeurope (circa 750€ per 24 giorni). Abbiamo prenotato un’auto del tipo Intermedio, con cambio automatico, climatizzatore, chilometraggio illimitato e annullamento franchigia. Ritiro e riconsegna all’aeroporto di Phoenix. Al ritiro il gentilissimo operatore di Alamo ci ha proposto un’assicurazione supplementare di circa 135€ totali per coprire i costi di eventuale assistenza lungo la strada. Considerando che la chiamata di un carro attrezzi sarebbe costata molto di più abbiamo accettato la proposta.
Alloggi: una volta ridefinite per bene le tappe abbiamo prenotato da casa tutti gli alloggi, scegliendo in base a prezzo, qualità, distanza dal luogo definito di arrivo di ogni tappa, presenza o meno della colazione. Intorno alle città e lungo le strade principali non è difficile trovare posto a buon prezzo in una delle grandi catene di motel, principalmente sfruttando le offerte del sito Booking. Più ardua la ricerca nei paesi più piccoli e soprattutto nelle zone poco abitate e in prossimità dei parchi: qui la disponibilità è poca e i prezzi sensibilmente più alti. A tutti i prezzi proposti vanno aggiunte le tasse (di soggiorno, statali e locali) e sulle conferme di Booking abbiamo sempre trovato l’indicazione percentuale delle tasse da aggiungere e se ci sarebbero state ulteriori tasse locali non quantificabili.
Nel dettaglio abbiamo pernottato come segue:
– Phoenix: stanza in affitto in casa privata tramite Airbnb per la prima notte e stanza in motel American Best Value Inn per l’ultima notte (circa 55€ più tasse).
– Sedona: Days Inn (una notte, circa xx€, più tasse)
– Flagstaff: Travelodge (una notte, circa 55€ più tasse)
– Gallup: Red Roof Inn (una notte, circa 50€ più tasse)
– Mexican Hat: San Juan Inn (una notte, circa 100€)
– Big Water: High Desert Lodge (una notte, circa 100€)
– Bellemont (Flagstaff): Days Inn (una notte, circa 55€ più tasse)
– Ash Fork: Ash Fork Inn (due notti, circa 30€ a notte, più tasse)
– Lake Havasu City: Windsor Inn (una notte, circa 40€ più tasse)
– Las Vegas: Stratosphere Hotel & Casino (una notte, circa 35€ più tasse)
– Beatty: Motel 6 (una notte, circa 70€ più tasse)
– Lindsay: Super 8 Olive Tree (una notte, circa 55€ più tasse)
– Reedley: Reedley Inn (una notte, circa 45€)
– Bakersfield: Vagabond Inn South (una note, circa 35€ più tasse)
– Los Angeles: Value Inn Hollywood (tre notti, circa 75€ a note più tasse)
– San Diego: Rodeway Inn (una notte, circa 70€ più tasse)
– Gila Bend: Yucca Motel (una notte, circa 60€)
– Tucson: Ramada Tucson East (due notti, circa 50€ a notte più tasse)
Altri documenti da avere prima della partenza:
– ESTA: si ottiene piuttosto velocemente compilando il form sull’apposito sito web e pagando online con carta di credito.
– Patente internazionale: si ottiene dalla Motorizzazione in circa 15 giorni dopo aver presentato la domanda.
– Assicurazione: abbiamo scelto Worldnomads con copertura, oltre che sanitaria, degli imprevisti di viaggio.
Considerazioni generali sugli USA:
– tutti i prezzi che si leggono (dal supermercato ai ristoranti, etc.) sono sempre tasse escluse (ove non specificato)
– consigliamo di pagare sempre ove possibile con carta di credito. Noi siamo partiti senza dollari cartacei e abbiamo prelevato un paio di volte dai bancomat delle banche (non degli ATM degli esercizi che hanno commissioni ben più sfavorevoli) usando i contanti solo quando necessario oppure per piccoli importi.
– in tutti i posti di ristorazione dove è previsto un servizio (anche minimo) ai tavoli e tacitamente obbligatoria la mancia (è gradito almeno il 10% dell’ammontare totale, meglio stare verso il 20%): pagando con carta di credito la ricevuta da firmare prevede già, oltre al totale dell’ordinato più le tasse, una riga “Tip” dove aggiungere manualmente la mancia che si desidera lasciare e quindi il totale di quanto verrà scalato dalla carta; con i contanti basta aggiungere al conto la mancia che si vuole devolvere.
– guidare: detto della Patente internazionale (anche se non mi è ancora chiaro se sia davvero obbligatoria o no… una volta me l’hanno chiesta, un’altra hanno voluto solo l’originale italiana), guidare negli USA mi è sembrato piuttosto semplice. Per chi è abituato a zigzagare nelle nostre città non è un problema muoversi in quegli spazi enormi e oltre un poco di traffico (scorrevole e soprattutto ordinato) sulle freeways di Los Angeles e San Diego non abbiamo mai avuto modo di snervarci come ad esempio sulle tangenziali milanesi. Fondamentalmente il codice della strada è simile al nostro, i segnali sono chiari, ripetuti e univoci, non si può sbagliare e una volta capiti i cartelli e quelle poche regole diverse che ci sono, si può andare spediti e tranquilli (occhio ai limiti!). Ricordarsi solo che i pedoni sono sacri, è buona norma fermarsi ben prima delle strisce e anche dove ci sono persone che attraversano fuori dalle strisce, e che la guida negli USA è rilassata (anche se abbiamo notato delle eccezioni), non sono capite o concepite le isterie che si vedono da noi (colpi di clacson ai semafori, lampeggiamento ossessivo con gli abbaglianti per chiedere strada, ecc.).
Capitolo rifornimento: la benzina si fa sempre self service, ma è necessario prepagare alla cassa quanto ci si vuole rifornire. Nel caso che si raggiunga il pieno con meno soldi di quanto prepagato, si torna alla cassa e ci si fa dare il resto. Rispetto che in Italia la benzina costa molto meno, in Arizona abbiamo trovato una media di circa 2.30 dollari al gallone (circa 0,6€ al litro), in California è più cara, in alcuni distributori si è sfiorato 1€ al litro. Ovviamente nelle zone più isolate e soprattutto vicino ai grandi parchi il prezzo aumenta sensibilmente. Consigliamo di fare sempre il pieno prima di lasciare le città e di considerare il percorso che si intende fare: fuori dalle grandi arterie di comunicazione è possibile non trovare un benzinaio per decine di miglia.
– visita ai Parchi: ogni parco in genere è a pagamento (anche se non abbiamo trovato sempre all’ingresso la capannina dei ranger) e se si prevede di girarne almeno tre o più è conveniente fare il Pass annuale da 80$ che permette l’ingresso a un veicolo e ai suoi occupanti. Sono compresi i Parchi Nazionali e i National Monuments, per i parchi statali e altre riserve conviene verificare sui relativi siti se rientrano nel servizio. I parchi gestiti dalle comunità indiane (Monument Valley, Antelope Canyon, etc.) si pagano a parte. Il Pass è possibile acquistarlo online, ma la tessera magnetica deve essere spedita a casa del sottoscrivente per cui bisogna prevedere di farlo con buon anticipo sulla partenza. Più semplice richiederlo al primo centro visitatori o ufficio turistico che si incontra e che sia abilitato al rilascio dei Pass. Sul sito del National Park Service si trova l’elenco di tutti gli uffici. Noi l’abbiamo preso al centro visitatori di Sedona, poiché ci serviva per girare all’interno del Red Rock State Park.
Giorno 1 – 5 Agosto: arrivo a Phoenix
Partiamo da Malpensa il 4/8 sera con il volo British Airways delle 22.00 direzione Londra Heathrow, dove avevamo pensato di passare la notte cercando di riposare alla meglio. Nota: l’idea era di spostarci subito al terminal da dove sarebbe partito il volo per gli USA la mattina dopo ma ci siamo scontrati con il fatto che dopo le 23.00 i bus e il treno di collegamento interno all’aeroporto non circolano più e non c’è modo di spostarsi a piedi per cui siamo rimasti confinati al terminal di arrivo. All’alba ci mettiamo in moto verso il terminal giusto e partiamo con il volo American Airlines delle 08.40 alla volta Chicago dove arriviamo poco prima di mezzogiorno.
Il tempo di sbrigare le formalità doganali e di uno spuntino, poi cambiamo terminal e prendiamo il volo American Airlines che finalmente ci porta a Phoenix, dove atterriamo alle 16.30 circa di venerdì 5/8.
L’aeroporto di Phoenix è molto vicino a Downtown e in fase di atterraggio si passa a bassa quota sulla città, sfiorando i grandi edifici del centro. Dall’alto appare una grande e ordinata distesa di quartieri residenziali all’apparenza tutti uguali, composti da una miriade di piccole case piatte, interrotti dal gruppetto compatto dei palazzoni di Downtown. Ai bordi della città si alzano dei gruppi montuosi che contornano la vallata.
Recuperiamo i bagagli e prendiamo la navetta gratuita che ci porta agli uffici degli autonoleggi. Fa molto caldo, più di quello che avevamo immaginato, anche se l’umidità relativa è più sopportabile di quella delle afose giornate padane. Prendiamo possesso della nostra nuova Toyota Corolla e ci mettiamo in marcia per un giro di ricognizione nella vicina Downtown. Complici la stanchezza del viaggio e il fatto che in Arizona non è in vigore l’ora legale e alle 19.30 il sole comincia a tramontare (a differenza degli altri stati sullo stesso fuso e delle riserve indiane, cosa che per un paio di giorni ci ha fatto saltare avanti e indietro nel tempo), ci concediamo una passeggiata esplorativa molto breve e mangiamo un boccone al Tilted Kilt Pub. Nonostante sia venerdì sera non troviamo molta gente in giro e il centro città (ammesso e non concesso che si possa identificare il centro di Phoenix con Downtown) è piuttosto spento.
Dopo la cena riprendiamo l’auto e iniziamo a muoverci su autostrade e vialoni cittadini per raggiungere Glendale, sobborgo residenziale a nord di Phoenix, dove ci aspetta il nostro host di Airbnb presso cui abbiamo affittato la stanza per la notte.
Giorno 2 – 6 Agosto: Glendale – Arcosanti – Sedona (150 miglia – 240 km)
Sveglia all’alba, un po’ per il fuso che si fa sentire e un po’ perché la sera prima siamo crollati a letto abbastanza presto e alle 08.00 siamo già in auto diretti verso nord. Giriamo tra gli isolati nella periferia nord di Phoenix alla ricerca di un supermercato e un locale dove fare colazione. E’ sabato mattina e le persone in giro si contano sulle dita di una mano. Ci fermiamo al WinCo Food, catena di enormi supermercati, dove curiosiamo tra le corsie (ogni cosa negli USA è mastodontica rispetto alle nostre confezioni) e compriamo acqua, snack vari e soprattutto la foam box ossia lo scatolone in polistirolo che giornalmente rifornito di ghiaccio (con le “bag of ice” che si trovano nei supermarket oppure tramite le macchine del ghiaccio presenti in quasi tutti gli hotel) è diventato il nostro frigo da viaggio per tutta la vacanza.
La prima sosta del viaggio l’abbiamo fatta a Lake Pleasant (voto 6), bacino artificiale a poco meno di mezz’ora di auto creato per gli sport nautici, la pesca e rilassanti picnic lungo le numerose calette (per i milanesi possiamo paragonarlo a un enorme Idroscalo…ma con il deserto intorno). Entriamo al Pleasant Harbour Marina (6$ ingresso per veicolo per la giornata) con l’idea di fare un primo breve trail lungo uno dei promontori che si affacciano sul lago. Tuttavia fa molto caldo e la zona della marina non ci ha emozionato molto, il porticciolo è un grossolano insieme di pontili con una copertura tipo capannone e stona decisamente con l’ambiente naturale. Saliamo solo sulla collinetta più vicina per guardare dall’alto il paesaggio e scattare qualche foto: si vedono molti barchini a motore solcare le acque e poco più mentre in lontananza la riva opposta sembra essere più tranquilla e incontaminata.
Ripartiamo e prendiamo la I-17 in direzione nord. Subito notiamo il cambio di paesaggio, dalla piana arida della zona di Phoenix si passa a un ambiente montuoso e frastagliato che porta al Mogollon Rim e agli altipiani del nord dell’Arizona. In circa un’ora raggiungiamo la località di Arcosanti (voto 6), visionario progetto di un architetto italiano che tra gli anni ’60 e ’70 ha ideato e iniziato a costruire questo esperimento di città ecosostenibile con l’edificazione di strutture futuristiche (la leggenda narra che G. Lucas ne abbia tratto ispirazione per gli ambienti di Star Wars). Dall’uscita dell’autostrada Arcosanti si raggiunge tramite una strada non asfaltata, ma percorribile a tutte le auto, di un paio di km che finisce al parcheggio visitatori. La nostra visita è stata abbastanza deludente, le strutture rimangono nascoste alla vista e ci si accede solo con il tour guidato. Dal parcheggio si può entrare nel centro visitatori e nel caffè, ma di fatto non siamo riusciti a vedere nulla per cui ci rimettiamo subito in marcia.
Da Arcosanti torniamo indietro sulla I-17 per poche miglia e poi usciamo sulla Highway 69 in direzione della città di Prescott. Data la mancanza di tempo e la distanza decidiamo di sacrificare la visita a Prescott e all’altezza del villaggio di Prescott Valley deviamo sulla Fain Road che, attraversando una verde vallata, ci porta sulla Highway 89A, splendida strada panoramica delle Mingus Mountains che ci condurrà fino a Sedona. Altro cambio di paesaggio che qui diventa decisamente montano e arrivati in cima al valico un paio di punti panoramici con parcheggio per l’auto, ma non ben indicati in anticipo, ci fanno intravedere in lontananza la distesa di rocce rosse dell’area di Sedona. Poco sotto il valico attraversiamo la vecchia città di minatori di Jerome, abbarbicata sul pendio e con tutti gli edifici rimasti allo stato originale. Purtroppo c’è parecchia gente e non troviamo uno straccio di parcheggio lungo la via, per cui decidiamo di saltare la visita per non perdere troppo tempo e scendere a Cottonwood, dove ci siamo fermati per un ottimo pranzo da Pepe’s Cafe. Da Cottonwood a Sedona la 89A ci fa attraversare la Verde Valley mentre i grandi roccioni rossi del Red Rock State Park si fanno più vicini e imponenti.
Sedona (voto 9) è una bella cittadina turistica con un’ottima posizione in mezzo al Red Rock State Park a circa 1500 metri di altezza e un bel clima (la sera fa freschino). Ci sono hotel di lusso e ristoranti e la possibilità di praticare diverse attività sportive e fare escursioni (organizzate e non); inoltre Sedona è una delle capitali della New Age, si ritiene che il terreno su cui sorge emani energia e ci sono alcuni punti in cui questa esce sotto forma di magnetismi detti Vortici (ovviamente invisibili, ma è stato carino andarne a caccia). In tutta la zona di Sedona è richiesto il Red Rock Pass (5$ al giorno per veicolo), ma è valido anche il Pass annuale del NPS. Il primo impatto con la città non è stato a dir la verità entusiasmante, sarà stato anche il sabato pomeriggio, ma nella zona di Uptown siamo rimasti bloccati per quasi un’ora nel traffico. Riusciamo a raggiungere il centro visitatori e acquistare il nostro Pass annuale “America the Beautiful”, dopodiché usciamo dalla città e raggiungiamo la zona del Boynton Canyon, dove facciamo la nostra prima escursione salendo in cima alla Doe Mountain, un’altura con la cima piatta da cui si ha una favolosa vista su tutta la zona. Il trail diretto verso la cima non è molto lungo (0,7 miglia) e nel complesso è tranquillo ma presenta qualche passaggio tra le rocce in cui fare attenzione. Avremmo voluto fare un’altra passeggiata e salire al Boynton Vortex, ma siamo arrivati ormai quasi al tramonto e decidiamo di fare il check in al nostro motel e poi uscire per la cena.
La zona del Boynton Canyon è ricca di sentieri e oltre alla Doe Mountain avevamo fatto un pensiero sui trail di Fay Canyon, Boynton Vortex e di quello che porta al Devil’s Bridge… ma sarà per il prossimo viaggio da queste parti.
Giorno 3 – 7 Agosto: Sedona – Sunset Crater & Wupatki NM – Flagstaff (125 miglia – 200 km)
La tappa più corta di tutto il viaggio ma non per questo meno emozionante. Ci svegliamo ancora una volta di buon’ora, rapida colazione al motel e siamo in marcia. Abbiamo dedicato la mattina alla visita di altre aree intorno a Sedona: dalla 89A siamo tornati indietro di poche miglia per incrociare la Red Rock Loop Road che scende verso il fiume Oak Creek con l’idea di fermarci brevemente presso la zona campeggio di Crescent Moon per una passeggiata lungo il fiume e godere dei colori delle rocce rosse che si riflettono nell’acqua. I 10$ richiesti per l’ingresso (supplementari al pass richiesto per il Red Rock State Park e al pass annuale dei parchi) ci fanno desistere così torniamo verso Sedona, fermandoci in un paio di punti panoramici da cui si vedono bene le formazioni rocciose della vallata oltre il fiume, la Cathedral Rock e il Castle Rock che visiteremo più tardi nella mattina. Una volta tornati a Sedona poco prima del centro cittadino deviamo a destra sulla Airport Road per fermarci sulle rocce dell’Airport Mesa che dominano l’aeroporto. In particolare saliamo sulla formazione rocciosa alla cui sommità si trova uno dei vortici di energia. Non abbiamo percepito alcuna vibrazione magnetica, ma la vista da sopra è eccezionale: da un lato Sedona e il rosso massiccio che la sovrasta, dall’altro la valle dell’Oak Creek con le formazioni rocciose dalle curiose forme (Bell Rock, Courthouse Rock, Snoopy Rock, etc.). Oltre al Vortice nella zona di Airport Mesa è possibile fare l’escursione lungo un bel sentiero che corre intorno all’aeroporto. Noi non ci siamo cimentati ma abbiamo ripreso l’auto per andare lungo la strada 179 verso il villaggio di Oak Creek (dall’altra parte del fiume rispetto a Sedona) e fermarci per l’escursione sul sentiero che gira intorno a due bellissime rocce, la Bell Rock (sede di un altro dei Vortici) e la Courthouse Rock. Il sentiero in loop con partenza e arrivo al parcheggio è abbastanza lungo, circa 6 miglia, con la possibilità di deviare e prendere una non facile ascesa diretta alla Bell Rock. Noi siamo arrivati fino a questo punto di incrocio tra i due sentieri e siamo tornati indietro: è stata una gran bella passeggiata in mezzo alla terra rossa da cui si ha una diversa prospettiva di questi roccioni. Secondo noi, ed è una cosa che abbiamo notato più volte durante il viaggio, queste bellezze naturali “rendono” di più se osservate a distanza piuttosto che da troppo vicino. Iniziamo a risalire la valle e ci spostiamo verso la Cathedral Rock (anche qui è possibile trovare un Vortice), dove non ci avventuriamo lungo il sentiero e restiamo ad osservarla dal parcheggio. La sosta successiva è stata alla Chapel of the Holy Cross, cappella cattolica dalla forma trapezoidale incastrata tra le rocce; consigliamo di lasciare l’auto sulla strada prima del parcheggio per evitare una noiosa coda e farsi il breve tratto di salita a piedi (circa 5 minuti, niente di impegnativo). Dalla piazzetta di ingresso, più che la cappella abbiamo trovato molto piacevole la vista panoramica sulla valle e le ormai note rocce che abbiamo visitato. In più l’avvicinarsi di un nuvolone temporalesco ha reso la visuale ancora più spettacolare.
Lasciamo a malincuore Sedona e il Red Rock State Park e riprendiamo la 89A verso nord entrando nella scenic way dell’Oak Creek Canyon, dove la strada costeggia per circa 15 miglia il torrente all’interno di una stretta valle boscosa. Ci sono diversi punti picnic e di campeggio dove fermarsi: tuttavia, a causa della gran folla della domenica i Rangers sono soliti sbarrare gli ingressi ai parcheggi al completo. Purtroppo abbiamo trovato l’accesso negato al Grasshopper Point, punto panoramico sulla valle di Sedona, e soprattutto allo Slide Rock State Park, un’area dove le rive del torrente sono formate da rocce rosse levigate e scivolose ed è possibile fare il bagno.
Proseguiamo e arriviamo in fondo al canyon dove si innalza la scarpata del Mogollon Rim. Qui si può vedere la sorgente da cui sgorga il torrente Oak Creek proprio dove partono i pochi tornanti che terminano al punto panoramico sulla cima del Mogollon Rim a 2100 metri e dove inizia il vasto altopiano del nord dell’Arizona. Ci fermiamo quindi all’Oak Creek Vista per osservare il canyon dall’alto e proseguiamo poi verso Flagstaff (voto 7) graziosa cittadina dal vecchio fascino western, ma ben modernizzata, centro universitario e soprattutto centro di passaggio quasi obbligato tra i quattro punti dello stato, all’incrocio tra la I-40 e la I-17. Sopra l’altopiano il paesaggio cambia radicalmente e ora siamo circondati da boschi di pini, la qual cosa ci ricorda che siamo a una buona altitudine. Ci fermiamo brevemente a Flagstaff per mangiare un boccone al volo da Panda Express (una specie di McDonald’s di cibo cinese… insomma, non è stato certo il pasto migliore della vacanza) e poi proseguiamo di nuovo sulla 89A per raggiungere i parchi di Sunset Crater NM (voto 8) e Wupatki NM (voto 8), il cui ingresso sud sulla strada 395 è segnalato con largo anticipo. Lungo la 89A, verso ovest, si notano le cime del San Francisco Peaks, le montagne più alte dell’Arizona che sfiorano i 4000 mt, adatte a escursioni e sport invernali. I parchi di Sunset Crater e Wupatki sono allo stesso tempo così vicini tra loro ed estremamente diversi. Il primo passa attraverso un vecchio campo vulcanico spento dove spicca appunto il Sunset Crater con i suoi favolosi colori e le colate laviche millenarie annesse, mentre il Wupatki National Monument è costituito da una serie di insediamenti e rovine indiane. Dopo poche miglia dalla deviazione sulla 395 raggiungiamo il centro visitatori dove registriamo il nostro accesso esibendo il nostro pass annuale America The Beautiful e facciamo un breve giro nella piccola area museo.
Riprendiamo quindi la Loop Road, fermandoci a tutti i punti panoramici indicati. In particolare segnaliamo la possibilità di lasciare l’auto e seguire il sentiero che porta in cima al Lenox Crater oppure il Bonito Lava Flow che passa dentro la colata lavica ai piedi del Sunset Crater. Noi abbiamo scelto quest’ultimo, si completa in circa 40-45 minuti, e permette di osservare da vicino gli effetti della lava sul terreno e sulla vegetazione. Non è consentito invece salire lungo il Sunset Crater a causa dei fianchi cedevoli. Nel tratto tra i due parchi la 395 prosegue offrendo cambi di paesaggio, dal bosco del Sunset Crater si passa a un pianoro più arido e visuali suggestive, come lo scorcio di deserto dipinto che si scorge in lontananza. Subito dopo l’ingresso al Wupatki NM prendiamo la deviazione sulla destra verso le rovine del Wukoki Pueblo: si tratta di un edificio costruito sulla cima piatta di una formazione rocciosa e isolato in mezzo alla piana desertica. Siamo ormai quasi al tramonto e quando raggiungiamo il centro visitatori del Wupatki NM questo è ormai chiuso, ma per fortuna l’accesso alle rovine del pueblo non è sbarrato e riusciamo a visitarlo. In più il sole basso ci offre una luce che rende gli edifici in pietra rossa molto suggestivi. Consigliamo quindi senza esitazione di programmare la vostra visita nel tardo pomeriggio. Saltiamo invece la sosta al Box Canyon e usciamo dal parco dall’ingresso nord sempre sulla 89A poco dopo il tramonto. In poco meno di un’ora siamo di nuovo a Flagstaff, facciamo il check-in al nostro motel, ceniamo alla birreria Flagstaff Brewing Company e passeggiamo brevemente per il centro.
Giorno 4 – 8 Agosto: Flagstaff – Holbrook – Petrified Forest NP – Gallup (210 miglia – 336 km)
Dopo la sveglia veloce colazione a Flagstaff al Wildflower Bread Company e poi via di corsa verso ovest sulla I-40 che ripercorre il vecchio tracciato della Route 66. La giornata di oggi è dedicata quasi interamente alla visita del parco della Foresta Pietrificata e del Deserto Dipinto. In poco più di un’ora raggiungiamo la città di Holbrook (voto 7,5) che sorge sulla Historic Route 66 e sul fiume Little Colorado. Holbrook è un antico anteposto di frontiera e poi centro di transito sulla Route 66 che mantiene i vecchi edifici in stile anni ’50 e ospita diversi motel, tra cui spicca il Wigwam Village Motel, le cui camere sono una riproduzione delle tende dei nativi americani. Una chicca per i cinefili: troverete riferimenti precisi a questo motel nel cartone animato della Pixar “Cars”.
Dal centro di Holbrook prendiamo verso sud l’Apache Avenue e poco dopo il ponte sul fiume Little Colorado giriamo a sinistra sulla strada 180 che scorrendo isolata per circa 20 miglia in mezzo ai campi ci porta all’ingresso sud del Petrified Forest NP (voto 9). Il parco ha la peculiarità di comprendere una vasta concentrazione di legno pietrificato e una zona del Painted Desert, a cui vanno aggiunti alcuni siti archeologici e l’esposizione di fossili nel museo del centro visitatori. Il legno pietrificato è legno fossile la cui materia organica è stata sostituita da minerali in un lento processo avvenuto ere geologiche fa. La loro bellezza sta nei colori che la struttura del legno prende in base ai minerali che l’hanno riempita. Dalla deviazione sulla strada 180 verso l’ingresso sud incontriamo subito un’area di sosta con un paio di negozi di souvenir pieni tra le altre cose di pezzi più o meno grandi di legno pietrificato e dopo circa un miglio si arriva alla stazione di entrata dove si paga il biglietto di ingresso (10$ con validità 7 giorni) o si esibisce il Pass. Il parco si attraversa su un’unica strada, la Petrified Forest Road, da cui partono le deviazioni per raggiungere i siti da visitare. Entrando dall’ingresso sud si incontra prima il centro visitatori al cui interno si trova un piccolo museo con resti fossili di piante e animali e alle cui spalle si estende la Rainbow Forest. Giusto dietro il museo si trova il Giant Log, un sentiero che passa in mezzo a centinaia di esempi di legno pietrificato dai colori bellissimi mentre poco più a nord lungo la strada si trova la via per Long Logs Trail Log, un sentiero circolare di circa 1,6 miglia che noi però non abbiamo fatto, dove si possono vedere tronchi molto grandi. Proseguendo verso nord incontriamo la Crystal Forest, altro luogo pieno di tronchi pietrificati in mezzo a rocce dagli strati grigio, blu e viola, visitabile lungo un breve trail di poco più di 1 km (0,75 miglia), la Jasper Forest, una grande distesa di tronchi sparsi in una valle ampia e desolata sul lato ovest della strada, osservabile dall’alto da un overlook (ma senza possibilità di escursioni) e l’Agata Bridge, un lungo tronco completo e disteso sul letto di un ruscello (con un ormai necessario rinforzo in cemento per evitare cedimenti che lo rende però poco attraente). Poco più avanti si arriva al luogo per noi più spettacolare di questa prima parte di parco, la Blue Mesa. Una strada a senso unico di circa 4 miglia, la Blue Mesa Scenic Road, conduce sulla cima di un’altura blu e grigia con alcuni punti panoramici su cui affacciarsi e vedere oltre al legno pietrificato gli effetti dell’erosione e della stratificazione del terreno. Dalla cima parte un bellissimo sentiero di circa 1 miglio che si butta giù in picchiata dalla mesa e passa in mezzo alle colline di bentonite bluastra e legno pietrificato. La visita alla Blue Mesa ci ha lasciato splendidamente meravigliati e allo stesso tempo ci ha tolto molte energie fisiche e mentali al punto che abbiamo deciso di attraversare il resto del parco più velocemente. Andando avanti abbiamo incontrato The Theepees, altre colline colorate di origine vulcanica, la Newspaper Rock, una serie di massi con diverse incisioni rupestri osservabili con i telescopi dal balcone panoramico soprastante e il Puerco Pueblo, dove però non ci siamo fermati, che in pratica chiude la parte del parco della foresta pietrificata. La strada continua attraversando la ferrovia, la I-40 (non è possibile entrare in autostrada da questo punto) e il tratto della vecchia Route 66, al cui incrocio ci si può fermare a fare simpatiche foto a una vecchia auto arrugginita e al lungo filare dei pali dell’elettricità che ancora oggi segnala l’antico percorso della Route 66. Da qui in poi si entra nel Painted Desert vero e proprio. Purtroppo eravamo un po’ stanchi e l’abbiamo passato senza soffermarci troppo ma è una parte del parco che merita grande attenzione per la bellezza del paesaggio. Questa zona del deserto dipinto è formata da terreno e colline multicolore dove bianco e grigio si alternano a varie sfumature di rosso. La strada disegna all’incirca una semicirconferenza lungo la quale si può fare sosta a diversi punti panoramici, ognuno con la sua visuale caratteristica. Tra Tawa Point e Kachina Point si snoda un sentiero, il Painted Desert Rim Trail, di circa 1 miglio a/r che non abbiamo però percorso.
Usciamo dal parco dall’ingresso nord e riprendiamo la I-40 in direzione ovest verso Gallup, nel New Mexico, dove arriviamo poco prima del tramonto.
Giorno 5 – 9 Agosto: Gallup – Window Rock – Canyon de Chelly NM – 4 Corners Monument – Mexican Hat (320 miglia – 510 km)
Tappona molto lunga ma soprattutto ricca di luoghi visitati e carica di sensazioni. Sveglia di buon’ora, colazione al solito rapida in motel e via per un giro esplorativo di Gallup (voto 7) che la sera prima abbiamo solo attraversato alla ricerca di un posto per la cena. Gallup è un’altra vecchia cittadina di transito sulla Route 66 dove la strada e la ferrovia scorrono dritte, vicine e parallele e il paese si è quindi sviluppato in lunghezza accanto a loro (abbiamo contato quasi 10 miglia per attraversarlo tutto). Il tratto lungo la Historic Route 66 è una sconfinata serie di motel e locali, tra cui spicca El Rancho Hotel and Motel, che ricorda l’epoca hollywoodiana di Gallup come luogo di appoggio strategico per le riprese di film western e dove soggiornarono molti attori famosi. In quello che dovrebbe essere il centro città, così come a Holbrook, sono ben conservati gli edifici in stile anni ’50 e si trovano numerosi negozi di artigianato indiano.
Siamo infatti ai margini della riserva Navajo (Navajo Nation) nella quale entriamo subito dopo aver lasciato Gallup prendendo la strada 491 e deviando poi sulla 264 per raggiungere, una volta rientrati in Arizona, Window Rock (voto 8) dopo circa 30 miglia. Window Rock, sulla Indian Route 12, è la capitale della comunità Navajo, contiene vari uffici amministrativi costruiti al riparo di grosse e lisce formazioni rocciose, tra cui spicca quella nominata appunto Window Rock, all’interno del Tribal Park & Veteran’s Memorial. La caratteristica della Window Rock è quella di avere un grosso buco al centro, una suggestiva finestra dalla forma quasi circolare scavata nella montagna… da cui il nome al villaggio.
Dopo questa interessante visita ci rimettiamo in marcia sulla 264 verso est e all’altezza dell’Hubbel Trading Post (sito di transito storico che non abbiamo visitato per mancanza di tempo) si devia sulla Highway 191 verso nord e in circa 30 miglia arriviamo al villaggio di Chinle e all’ingresso del Canyon de Chelly National Monument (voto 9). Lungo la Highway 191 il paesaggio cambia nuovamente e si passa attraverso un’ampia vallata dalla vegetazione bassa e arida, punteggiata qua e là di fattorie e allevamenti. Il Canyon de Chelly è costituito da due rami principali che formano una specie di Y: a nord il Canyon del Muerto e a sud il Canyon de Chelly vero e proprio. Dovendo poi proseguire verso nord abbiamo visitato per primo il ramo sud, andando dritti fino al fondo per poi tornare indietro e fermarci presso tutti i punti panoramici… e sapendo dalle letture informative fatte durante la pianificazione del viaggio che la parte più spettacolare del canyon è proprio l’ultima sosta in fondo al ramo sud. Mai scelta fu più azzeccata! Prendiamo quindi la South Rim (Indian Route 7) e dopo circa 15 miglia arriviamo alla deviazione per lo Spider Rock Overlook, giusto nel punto in cui la strada, che prosegue a sud verso Window Rock, diventa sterrata. Altre 4 miglia circa e si arriva al parcheggio da dove parte il passaggio pedonale che porta al punto panoramico. La vista che ci appare è di rara bellezza: pareti di arenaria a strapiombo che poi declinano verso il terreno nella forma tipica delle butte e disegnano un percorso il cui fondo sembra un tappeto verde dovuto a una vegetazione che non ti aspetti da queste parti e al cui centro si innalzano due stretti pinnacoli gemelli che sembrano fare da spartiacque tra le ramificazioni del canyon. Oltre alla bellezza geologica almeno altre due cose ci hanno molto colpito: il forte contrasto tra i colori (il verde del fondo, il rosso scuro delle rocce e il blu del cielo) e il silenzio riempito solo dal fischio del vento che scorre nel canyon. Nel fondo del canyon si può scorgere il fiume Chinle Wash e di tanto in tanto, ma vanno cercati, vecchi insediamenti degli antichi indiani anasazi, incastonati direttamente nelle pareti rocciose e sotto ampie arcate e caverne naturali. Percorrendo a ritroso la South Rim ci siamo fermati agli altri punti panoramici dove si possono osservare altri lati del canyon: Face Rock, a circa 1 miglio da Spider Rock, sempre sulla Spider Rock Overlook Road, Sliding House, White House, Junction, il punto in cui si diramano i due canyon, Tsegi e Tunnel. A questo punto siamo ritornati al visitor center e da qui si prende il North Rim (Indian Route 64) che scorre tangente al canyon per circa 30 miglia. Sulla North Rim ci sono solo tre punti panoramici e noi abbiamo visitato solo il primo, l’Antelope House Overlook, dove con un trail sopra l’altopiano roccioso si toccano punti che offrono viste molto suggestive. Gli ultimi due punti, Massacre Cave Overlook e Mummy Cave Overlook, abbiamo deciso di saltarli e tirare dritto fino alla prossima sosta. In fondo la giornata si prospetta ancora molto lunga.
Proseguiamo sulla Indian Route 64 fino al termine del canyon, presso la città di Tsaile, dove svoltiamo a sinistra sulla Indian Route 12. Notiamo un’anomalia nel paesaggio, un edificio esagonale a vetri che c’entra ben poco con l’ambiente in cui si trova e che scopriamo essere un college esclusivo. Dopo circa 10 miglia incontriamo il villaggio di Lukachukai dove prendiamo a destra la Indian Route 13 verso Red Valley. Davanti a noi si staglia come un muro una cresta rocciosa dalle forme lisce e levigate dietro la quale si innalzano i monti Chuska. La strada ci porta giusto lì in mezzo ed entrare tra queste pareti rossastre è stato molto spettacolare. Subito si inizia a salire con una pendenza importante (un occhio sempre alla temperatura del motore!) e in poche miglia arriviamo sulla sommità della catena montuosa al Buffalo Pass, dove si può accostare l’auto a bordo strada (purtroppo l’area di sosta è sulla corsia che va verso sud, c’è da fare attenzione alla manovra anche perché si è stretti tra due curve) e godere del panorama sulla vallata sottostante. Davanti a noi si apre la Red Valley, dal terreno rossiccio punteggiato da bassa vegetazione, e in mezzo alla piana si staglia prepotente la Shiprock Pinnacle (voto 9), un monolite scuro (si tratta dei resti di un vulcano eroso) e dalla forma maestosa e sinistra con le sue guglie affilate. Non facciamo fatica a credere che per i navajo sia un luogo sacro. Dal Buffalo Pass la strada si butta letteralmente in picchiata in mezzo al bosco (notiamo un cerbiatto che bruca lungo il ciglio) per sbucare sul lungo rettilineo che attraversa la Red Valley per poi curvare a destra. Qui rientriamo nel New Mexico e iniziamo il giro che per un paio d’ore ci porta a saltare qua e là tra 4 stati diversi. Seguiamo la Indian Route 13 fino al suo termine all’incrocio con la highway 491 dove svoltiamo a sinistra verso nord e dove tocchiamo il punto più ravvicinato alla Shiprock: in pratica gli stiamo girando intorno, il che ci permette di vederla quasi a 360 gradi. Dopo poche miglia si incontra l’abitato indiano di Shiprock (appunto), sorto sulle rive del fiume San Juan che ci accompagnerà fino al termine della giornata, e qui giriamo a sinistra sulla Highway 64 in direzione ovest. Notiamo un’altra anomalia: il villaggio di Shiprock ci appare come una disordinata distesa di case prefabbricate bianche e povere, ma in fondo al paese troviamo una costruzione nuova, moderna e mantenuta in perfetto ordine, con i campi sportivi all’esterno: è la High School, altro indizio che ci fa capire il peso del sistema scolastico negli USA.
Percorriamo la Highway 64 e, con un occhio sempre rivolto alla Shiprock, rientriamo in Arizona e quasi subito giriamo a destra sulla Highway 160 che ci riporta dopo poche miglia in New Mexico e al Four Corners Monument (voto 6,5), un’installazione costruita sul punto d’intersezione fra Colorado, Utah, New Mexico e Arizona. Il monumento sorge in un’area desertica senza nulla di speciale intorno. Per dirla tutta l’abbiamo visitato per la valenza simbolica e il fatto di trovarsi contemporaneamente in quattro posti diversi. E’ gestito dai navajo e non fa parte del circolo dei parchi nazionali, per cui l’ingresso è a pagamento (5$ a persona dai 6 anni in su, solo contanti). Four Corners è semplicemente un quadrato di cemento diviso lungo le diagonali in 4 spicchi all’interno (teoricamente) di ogni stato. Al centro una placca metallica segna il punto di incrocio dei quattro confini e, mettendosi in paziente coda, è possibile fare e farsi fare foto divertenti. Ai lati della piattaforma si trovano delle bancarelle di souvenir e artigianato indiano. Vale una breve sosta per qualche foto simpatica.
Ritorniamo sulla Highway 160 che ci porta subito al confine con il Colorado e, dopo una deviazione a sinistra sulla strada 41 che ci fa entrare nello Utah, cambia denominazione in 162 e ci porta all’ultimo cambio di stato per oggi. La 162 scorre lungo la valle del fiume San Juan, è ormai tardo pomeriggio e ci godiamo i colori con i raggi del sole basso che si riflettono sul terreno desertico e sulle rocce delle alture circostanti. Superiamo i paesi di Montezuma Creek e Bluff, dove non ci fermiamo per mancanza di tempo, e proseguiamo verso ovest. A circa 7 miglia da Bluff la strada attraversa in discesa il Comb Ridge, un lunghissimo crinale dalla forma a pettine. Purtroppo non è possibile la sosta una volta scesi dal valico ma siamo riusciti a fermarci più avanti per fare delle foto. A questo punto la strada gira verso sud-ovest e iniziano ad apparire le prime guglie di roccia rossa. Stiamo passando di fianco alla Valley of the Gods che visiteremo il giorno successivo e a un certo punto dopo una curva notiamo con grande meraviglia nella penombra in lontananza delle rocce dalla forma familiare, la Monument Valley! Arriviamo poco dopo il tramonto al villaggio di Mexican Hat, chiamato così per una formazione rocciosa dei dintorni a forma di sombrero, ed è un peccato perché sarebbe stato spettacolare godere del calare del sole sulla gola formata dal fiume San Juan. Pertanto ci accontentiamo (si fa per dire) delle splendide luci del crepuscolo. Per la notte abbiamo prenotato, con largo anticipo (non c’è molta disponibilità di alloggi in quest’area), una stanza al San Juan Inn, splendido motel stretto tra il fiume e una parete di arenaria rossissima (circa 110$ per notte), dotato tra l’altro di un ottimo ristorante.
Giorno 6 – 10 Agosto: Mexican Hat – Muley Point – Valley of the Gods – Monument Valley – Big Water (235 miglia – 380 km)
Questa giornata si potrebbe a prima vista riassumere con le due parole Monument e Valley, uno dei principali oggetti del desiderio del nostro viaggio su cui abbiamo giustamente concentrato questa tappa. In realtà abbiamo dedicato mezza giornata alla visita di una zona vicina e meno frequentata e conosciuta, ma altrettanto spettacolare. Da Mexican Hat torniamo indietro sulla Highway 163 per una manciata di miglia e giriamo a sinistra sulla strada 261, che percorre la vallata e che sembra andare a sbattere contro il dirupo dritto e rosso della Cedar Mesa. Subito sulla sinistra c’è la deviazione per il Goosenecks State Park, una zona dove il fiume San Juan ha scavato un canyon con profonde anse che hanno la forma appunto di un collo d’oca e più avanti sulla destra la deviazione sullo sterrato della Valley of the Gods. Ignoriamo le deviazioni e proseguiamo dritto fin sotto il dirupo. Qui la strada diventa sterrata e inizia il tratto denominato Moki Dugway (voto 8,5), spettacolare tratto panoramico di 3 miglia totalmente in sterrato, scavata lungo il bordo della mesa, che con una serie di stretti tornanti e una pendenza media di oltre il 10% porta in cima, superando i circa 400 metri di dislivello. Il Moki Dugway si può percorrere tranquillamente con un’auto non 4WD, lo sterrato è buono in ghiaia e sabbia, sufficientemente largo per il transito di due veicoli con qualche restringimento nelle curve, ma attenzione che non esiste alcun parapetto. Si percorre in circa 10 minuti andando tranquillamente a 15-20 miglia all’ora. Poco prima della cima si può parcheggiare in uno spiazzo da cui si gode della vista panoramica della Valley of Gods. Oltre il Moki Dugway la strada torna a essere asfaltata e prosegue verso l’interno dello Utah ma noi subito sulla sinistra prendiamo la deviazione, sempre sullo sterrato, che in 6 miglia porta al Muley Point (voto 9) sul bordo della Cedar Mesa da cui si ha un’ineguagliabile vista sulla valle del fiume San Juan, i Goosenecks (che abbiamo quindi visto dall’alto, saltando la visita diretta sui bordi) e in lontananza sulla Monument Valley. Il tutto con un baratro di oltre 300 metri davanti alla punta dei piedi e la possibilità di avere il silenzio e lo spazio tutto per noi dato il bassissimo afflusso di persone su queste strade.
Torniamo indietro scendendo dal Moki Dugway e prendiamo la svolta per la Valley of the Gods (voto 9). Non conoscendo le condizioni dello sterrato non eravamo del tutto sicuri di fare questa visita per cui ci siamo inoltrati pian piano con l’idea di tornare indietro se la strada fosse stata difficoltosa da percorrere. Invece abbiamo concluso tranquillamente tutte le 17 miglia del loop in poco più di un’ora, la pavimentazione è abbastanza buona e come per il Moki Dugway basta usare prudenza e andare piano (non oltre le 20 miglia all’ora). La Valley of the Gods ricorda la Monument Valley per le forme e il colore delle conformazioni rocciose erose dal vento e dall’acqua. La strada segue il costone della Cedar Mesa passando in mezzo alle spettacolari rocce per poi girare verso est e ritornare sulla Highway 163, a nord rispetto alla deviazione sulla 261 che abbiamo preso in precedenza. La Valley of the Gods non è un parco controllato, non si paga per l’ingresso e non ha limitazioni alla visita: ci si può fermare liberamente, percorrere tratti a piedi fuori dal perimetro della strada (non ci sono sentieri segnati) e anche campeggiare ma bisogna essere indipendenti in tutto, non esistono aree attrezzate e ranger che girano in perlustrazione cui chiedere aiuto in caso di bisogno. Si è spesso isolati, abbiamo incontrato solo altre quattro auto lungo tutto il percorso.
Ripercorriamo il tratto della Highway 163 fino a Mexican Hat, fermandoci a guardare la roccia sombrero con il chiaro del giorno; ci sarebbe un trail intorno alla Mexican Hat Rock ma per mancanza di tempo non l’abbiamo percorso. Ripassiamo quindi dal villaggio, superiamo il ponte sul fiume San Juan e finalmente ci dirigiamo alla Monument Valley (voto 9,5). Approcciare la Valley dal lato dello Utah è sicuramente più emozionante e spettacolare che arrivarci dall’Arizona e vale la pena organizzare il giro in questo senso. Infatti è sulla Highway 163 che a un certo punto si sbuca da un tratto in salita e davanti appare (come in migliaia di foto, disegni, poster e film già visti) la strada lunga e diritta in discesa, che sembra finire ingoiata dai noti pinnacoli e torri di roccia sullo sfondo. E’ il punto dove tutti si fermano per le foto (si può tranquillamente sostare con l’auto a bordo strada) aspettando il momento in cui la strada è libera. La visuale è nota anche per la scena di “Forrest Gump” in cui il protagonista si ferma dopo mesi di corsa dicendo “Sono un po’ stanchino…” e ovviamente tutti, noi compresi, si prestano a mimare la scena per una foto ricordo. Ci siamo quindi inoltrati nel tratto in discesa di cui sopra: superate le prime formazioni rocciose al confine tra Utah e Arizona abbiamo preso la deviazione a sinistra verso il parco, in corrispondenza delle casupole che formano l’abitato di Oljato (impossibile sbagliare, è l’unica strada e le indicazioni sono abbondanti e ben visibili), che termina al parcheggio del visitor center, subito dopo lo stop per il pagamento dell’ingresso (20$ per veicolo fino a quattro occupanti, se in maggior numero c’è un extra 6$ per i passeggeri eccedenti). La Monument Valley è gestita dalla comunità Navajo e non rientra nel circolo dei parchi nazionali e quindi non è inclusa in nessuna promozione o pass. Dal visitor center parte la Valley Drive da percorrere con la propria auto, un percorso circolare che tocca tutti i punti principali della valle ma che è limitata a questi: non è infatti permessa l’esplorazione di altre zone più nascoste e neanche allontanarsi troppo dalla strada per fare un’escursione nei pressi delle rocce. La strada è dissestata, non esistono tratti asfaltati e in alcuni punti è poco piacevole per i grandi sbalzi e buche sul fondo sabbioso, ma come fatto in precedenza è percorribile con prudenza e bassa velocità. La Valley Drive tocca una decina di punti panoramici a partire dai famosissimi tre roccioni monolitici The Mittens and Merrick’s Butte, per passare al John Ford’s Point con la sua visuale da film western (folla di turisti permettendo) e finire alle “finestre” panoramiche dove l’orizzonte si perde a vista d’occhio. Nel mezzo si passa vicino ad altri monoliti e pinnacoli dalle forme inconfondibili. Oltre al tour in auto è possibile prenotare presso le guide Navajo tour guidati in jeep e a cavallo che portano a esplorare le zone più interne e isolate. Ci siamo ripromessi di tornare alla Monument Valley per uno di questi tour guidati e perché è uno di quei luoghi che non vorresti mai finire di visitare.
La Valley Drive rimane nascosta dietro la grande Mitchell Mesa e per questo è in parte riparata dalle intemperie. Tornando verso la parte iniziale, più aperta, abbiamo notato un aumento sensibile del vento e parecchie nuvole sabbiose che si alzavano. Ma una volta usciti ci siamo trovati in mezzo a una spettacolare tempesta di sabbia, l’aria intorno a noi è diventata tutta di colore giallo scuro, la visibilità si è ridotta quasi a zero e sterpi e arbusti ci volavano davanti. Passata la tempesta abbiamo iniziato la lunga traversata di quasi 150 miglia che ci porta a Big Water, sempre nello Utah, ma dal lato del Glen Canyon, dove abbiamo prenotato la stanza per la notte. Abbiamo seguito la Highway 163 verso sud fino al suo termine a Kayenta, quindi la highway 160 verso ovest per una quarantina di miglia e poi svolta a destra sulla strada 98 che ci ha portato a Page, con la sua enorme centrale elettrica. Da Page ci siamo diretti alla diga sul Glen Canyon sulla Highway 89 e da qui, dopo aver riattraversato il confine Arizona-Utah, a Big Water, una manciata di case in mezzo al deserto in una vallata chiusa da favolose colline rocciose. Torneremo a visitare anche questa zona in un prossimo viaggio.
Giorno 7 – 11 Agosto: Big Water – Antelope Canyon – Horseshoe Bend – Bellemont (220 miglia – 350 km)
Ci svegliamo all’alba, più di un’ora prima del previsto… per un errore nel puntare la sveglia, nello Utah è in vigore l’ora legale e si è un’ora in anticipo rispetto all’Arizona. Poco male, ne approfittiamo per usufruire della lavanderia del motel, dopodiché ci mettiamo in marcia verso Page e da lì ai due slot dell’Antelope Canyon. Lungo la strada ci fermiamo un bellissimo punto panoramico, il Wahweap overlook, da cui si ha un’ottima vista dall’alto del Lake Powell, in particolare della Wahweap Bay con la sua marina e dell’enorme Antelope Island. Ci fermiamo a Page per colazione e spesa e poi ci siamo diretti poco fuori città per la visita all’Antelope Canyon.
L’Antelope Canyon, come la Monument Valley, è gestita dalla comunità navajo che offre diverse compagnie che organizzano i tour guidati. Non rientra nel giro dei parchi nazionali e non è possibile accedervi se non tramite uno dei tour guidati, gli indiani sono giustamente molto gelosi dei loro possedimenti. Ci sono due Antelope Canyon, che sono le due parti visitabili dello stesso canyon: l’Upper Antelope Canyon (voto 9), più a monte rispetto al Lake Powell e la più nota e visitata e il Lower Antelope Canyon (voto 9), più stretta e, si legge, meno congestionata della prima (anche se a noi è sembrato l’opposto). I tour guidati hanno partenze a orari prefissati e un numero chiuso di partecipanti, è possibile andare in uno degli uffici delle compagnie (in città a Page o, meglio, direttamente sul posto) e “sperare” di trovare posto in una delle fasce orarie, oppure come abbiamo fatto e come consigliamo di fare si può tranquillamente prenotare online da casa, con il vantaggio di poter scegliere l’orario preferito. La spettacolarità dell’Antelope Canyon è anche nei giochi di luce che si formano quando i raggi del sole entrano nella fessura del canyon e colpiscono le rocce, cosa che accade solo nelle ore centrali, dalle 11 alle 15 (e ovviamente con cielo sereno). I tour guidati che rientrano in questa fascia oraria sono quelli con più richieste e hanno un costo maggiorato rispetto agli altri orari. Prenotando con buon anticipo abbiamo preso il tour standard (c’è anche una versione apposita per i fotografi, a numero ridotto e con la possibilità di portare cavalletti e altro che nei tour standard non sono ammessi) delle 12.30 per l’Upper Antelope Canyon (tramite la compagnia Adventurous Antelope Canyon, 52$ a persona) e quello delle 16.30 per il Lower Antelope Canyon (tramite la Dixie Ellis, 20$ a persona).
Arriviamo alla registrazione per la visita all’Upper Antelope Canyon circa un’ora prima dell’inizio (si paga al momento, solo contanti; bisogna prevedere una mancia extra per la guida, consigliata e apprezzata, ma non obbligatoria) e attendiamo la partenza, puntuale, con le guide che ci dividono su alcuni jepponi fuoristrada. L’ingresso al canyon si raggiunge in circa 10 minuti tra un breve tratto su strada e la traversata della parte sabbiosa aperta del canyon che termina contro una parete rocciosa al cui centro si apre la fessura da cui entriamo a piedi. Sul “piazzale” davanti all’ingresso tutti i veicoli delle varie compagnie di tour guidati sono parcheggiati in file rigorosamente ordinate. Si entra a gruppi, mantenendo una minima distanza tra uno e l’altro. L’interno è un canalone piuttosto stretto, tutto a livello del suolo, tortuoso e alto, dal fondo sabbioso e da cui filtra luce dalla fessura in cima, ma è tutto di una bellezza mai vista…le pareti di roccia, il modo in cui sono erose e levigate e ovviamente le diverse sfumature di colore che prendono a seconda di come sono illuminate. In alcuni punti il fascio di raggi del sole è perfettamente visibile come fosse un proiettore e la guida ci lascia scivolare dentro un pugno di sabbia creando un effetto magico. Si percorre un piccolo tratto per volta e ci si ferma in tutti i punti particolari del canyon, vuoi per le forme delle pareti rocciose, vuoi per il modo in cui la luce entra. A ogni sosta la guida spiega la caratteristica del punto in cui ci troviamo e ci indica il punto esatto dove fotografare e spesso ci scatta direttamente le foto. La differenza tra la qualità delle foto scattate dalla guida o fatte da noi sotto la sua indicazione e la miriade di scatti fatti di nostra iniziativa è impressionante, è davvero difficile trovare il punto e la luce giusti per delle foto apprezzabili. Il canyon è lungo circa 200 metri che si percorrono in una mezz’oretta, e conduce all’aperto dall’altro lato dell’edificio roccioso dove è scavato. Da qui si torna a ritroso all’ingresso e poi di nuovo con la jeep al punto di ritrovo, per un totale di quasi 2 ore dal momento in cui viene fatto l’appello e la suddivisione dei gruppi.
Per la visita al lato Lower del canyon il discorso è lo stesso, si arriva circa 45 minuti dell’orario di partenza, registrazione e pagamento (sempre solo contanti) all’ufficio in loco della compagnia scelta e attesa dell’avvio del tour. Per il Lower canyon non è previsto uno spostamento su mezzi, ma si percorre a piedi (sotto il sole, crema e cappellino altamente consigliati) il tratto di circa 250 metri che porta all’ingresso dello slot, mentre l’uscita è praticamente sul retro degli uffici. Il Lower Antelope canyon si trova sotto terra a differenza dell’Upper e vi si accede entrando in una stretta apertura e scendendo su una serie di ripide scalette di ferro ancorate alla roccia dai gradini strettissimi. La guida danno tutte le raccomandazioni del caso sulla prudenza da tenere e la discesa è piuttosto lenta, in fila indiana, a causa del numero di persone presenti: tutti i gruppi della stessa fascia oraria si raccolgono all’ingresso e abbiamo atteso quasi un quarto d’ora all’esterno prima di poter iniziare a scendere. Una volta giù… è un altro tuffo al cuore… meno luce filtrante e quindi più ombra e meno giochi di luce, ma la forma e la disposizione delle pareti di roccia è forse più spettacolare dell’Upper canyon. Questo slot è leggermente più lungo rispetto all’Upper canyon, ma più stretto, si passa in fila indiana e in un paio di punti addirittura con un piede per volta. Inoltre è molto più tortuoso e il percorso non è sempre semplicissimo, cosa che rende la visita più misteriosa e affascinante. I colori delle rocce invece li abbiamo trovati simili e come nella visita precedente la guida ci ha indicato i punti dove fare le foto migliori. Al termine del percorso si sbuca fuori dal terreno come le talpe, da un’altra stretta apertura e si ritorno al punto di ritrovo.
In conclusione, avendo la possibilità consigliamo di vedere entrambe le parti del canyon, anche se verso le fine della seconda visita arriva un po’ di stanchezza, sia fisica che mentale. L’ideale sarebbe fare le visite in due giorni distinti.
Riprendiamo l’auto e lasciamo l’Antelope Canyon e Page, prendendo la highway 89 in direzione sud. Ci fermiamo appena fuori città per vedere l’Horseshoe Bend (voto 8), nota e strafotografata ansa del fiume Colorado a forma appunto di ferro di cavallo. Dal parcheggio (molto affollato) parte il sentiero di circa un miglio che porta con una morbida discesa sui bordi della scarpata. Il panorama è bellissimo ed è proprio come si vede nelle foto. Purtroppo c’è una marea di gente e non è facile trovare un appostamento tranquillo sulle rocce. E in più il sole basso del tardo pomeriggio non è favorevole, è esattamente frontale alla vista e il riverbero dei raggi dà fastidio e rovina i colori di rocce e fiume. È preferibile visitare questo posto alla mattina con il sole alle spalle per avere una vista migliore.
Non ci fermiamo molto perché abbiamo ancora parecchia strada per arrivare al motel, in pratica quasi tutta la distanza da coprire oggi è nello spostamento finale a Bellemont. Ci prendiamo comunque il tempo di fare una deviazione all’altezza di Bitter Spring e risalire sulla 89A verso Marble Canyon per visitare il Navajo Bridge (voto 7,5) sulla gola del Colorado. Il ponte stradale è il punto di collegamento con la porzione di Arizona a nord del Grand Canyon (Arizona Strip) e l’accesso al bordo nord del canyon stesso (ma questa sarà un’altra storia futura), quello che si visita è il vecchio ponte oggi solo pedonale da cui si ha una bella vista sul fiume e sul Marble Canyon. Sull’altro lato si staglia il dirupo dei Vermilion Cliffs, ma ormai il sole è tramontato alle loro spalle e non riusciamo a vederne la bellezza.
Torniamo al punto di incrocio di Bitter Spring dove riprendiamo la highway 89 verso Flagstaff che raggiungiamo dopo quasi 2 ore e dove ci fermiamo per la cena al Galaxy Diner, carinissimo locale in stile anni 50, e da qui ci allunghiamo a Bellemont, circa 20 miglia a ovest di Flagstaff sulla I-40, dove abbiamo la stanza prenotata per la notte.
Giorno 8 – 12 Agosto: Bellemont – Coal Mine Canyon – Meteor Crater – Ash Fork (325 miglia – 520 km)
La giornata odierna avrebbe dovuto essere più tranquilla e riposante, in realtà è stata una lunga marcia in auto. Abbiamo voluto fortemente andare fino al Coal Mine Canyon (voto 9), un luogo fuori dagli usuali percorsi turistici, piuttosto isolato e lontano dai principali centri abitati, ma meravigliosamente bello. Da Bellemont sono circa 100 miglia da percorrere. Torniamo a Flagstaff con la I-40 e riprendiamo nuovamente la highway 89A in direzione nord, ripassando di nuovo davanti al Sunset Crater e Wupatki NM. Superiamo l’abitato di Cameron, nei pressi della deviazione per il varco est del Grand Canyon e più avanti prendiamo sulla destra la highway 160 che ci porta alla cittadina di Tuba City. Da qui abbiamo girato sulla 264 che scorrendo in mezzo al deserto e al territorio indiano ci ha condotto al Coal Mine Canyon. Il canyon non è assolutamente segnalato, né esiste una strada asfaltata di accesso. A un certo punto sul lato sinistro della strada si nota in lontananza un mulino a vento in mezzo ai campi e da qui bisogna cercare, sempre sulla sinistra, una deviazione che entra all’interno della recinzione che orla tutto il bordo della strada. Sembra di entrare in casa di qualcuno, anche perché in lontananza ci sono delle casupole e delle mucche al pascolo, il dubbio un po’ ci è rimasto, ma all’ingresso non è segnalato nulla. Appena oltre la recinzione l’asfalto cessa e la strada diventa sabbiosa. Prediamo il sentiero che costeggia la recinzione alla nostra destra e in un paio di minuti arriviamo in uno spiazzo ai bordi di una delle ramificazioni del canyon, con una meraviglia della natura che ci si apre davanti agli occhi: pareti rocciose con perfetti strati orizzontali (come fosse una torta) bianchi, rossi e grigi che contornano una stretta valle con all’interno pinnacoli colorati e formazioni simili a camini. Lontano si nota il punto in cui il canyon si apre e dietro appare il deserto dipinto punteggiato di rocce bianche e rosse. Cosa da non sottovalutare: siamo solo noi, le mucche e il silenzio. Torniamo sulla strada 264 e proseguiamo per un paio di miglia fino a un’altra deviazione sulla sinistra che porta a una strada, sempre sterrata, che, dopo aver attraversato una collina di sabbia blu, si insinua attraverso due grossi rami del canyon. Anche qui non c’è assolutamente nessuno, è possibile fermarsi liberamente in ogni punto e per quel che abbiamo potuto vedere proseguire fino alla fine del canyon. Noi siamo tornati indietro dopo circa 3 miglia, fermandoci in un paio di punti sul bordo del canyon, anche perché lo sterrato a un certo punto diventa molto sabbioso e una 4WD è necessaria per proseguire in tranquillità. Attenzione che in questa zona si è totalmente isolati e non c’è campo cellulare, in caso di bisogno si può solo tornare a piedi sulla strada principale.
Tornati sulla strada 264 continuiamo in direzione sud verso i villaggi Hopi di Third Mesa e Second Mesa, che avevamo in partenza pensato di visitare. Una volta arrivati decidiamo di tirare dritto, in prossimità di Second Mesa prendiamo la strada 87 in direzione sud, una strada lunga, dritta, ma incastonata in un paesaggio sempre misterioso e piacevole da attraversare, con curiose formazioni rocciose qua e là, così che anche questa grande macinata di miglia non ci è di peso. La strada 87 ci riporta sulla I-40 all’altezza di Winslow, che non visitiamo e poco prima si trovano un’altra parte panoramica di deserto dipinto e l‘Homolovi State Park con i suoi puebli indiani, che saltiamo a piè pari per mancanza di tempo. Dalla I-40 in direzione Flagstaff, dopo circa 20 miglia troviamo l’uscita che ci porta al Meteor Crater (voto 8), residuo dell’impatto terribile di un meteorite in tempi preistorici (ingresso 18$ a persona, noi abbiamo trovato dei buoni sconto da 2$ girando in internet). Dopo l’interessante visita al piccolo museo del centro visitatori, usciamo all’esterno per vedere il cratere. Solo il lato vicino al visitor center è visitabile e percorribile sulle apposite passerelle, che portano a un paio di balconi panoramici dotati di cannocchiali fissi e puntati su alcuni elementi di interesse. Niente da dire, siamo davanti a un gran bel buco nella terra, ma è solo guardando attraverso un telescopio una sagoma di astronauta a grandezza naturale, posta nel centro del cratere e non osservabile a occhio nudo, che si capisce l’enorme quantità di materiale spostata nell’impatto e si percepisce la reale grandezza del cratere, che è paragonabile a uno stadio con la capienza di 2 milioni di spettatori!
Siamo giunti al tramonto e terminiamo la visita. Ripartiamo sulla I-40 verso Flagstaff e poi, sempre verso ovest, fino a Ash Fork dove abbiamo la stanza prenotata per le prossime due notti.
Giorno 9 – 13 Agosto: Ash Fork – Grand Canyon NP – Ash Fork (240 miglia – 390 km)
Giornata tutta dedicata alla visita del Grand Canyon National Park (voto 9).
Partiamo abbastanza presto da Ash Fork per timore di trovare traffico e folla all’ingresso. Dalla I-40 in direzione est prendiamo l’uscita ben segnalata a Williams e inforchiamo la strada 64 verso nord. In poco meno di un’ora siamo all’ingresso sud del parco e contrariamente alle aspettative non troviamo coda al varco dei caselli dei ranger e soprattutto parcheggiamo comodissimi vicino al visitor center.
Decidiamo di visitare subito e per tutta la mattina il lato ovest del parco, che costeggia il bordo sud del canyon fino al punto di Hermit Rest ed è ben servito da un fitto numero di navette che collegano i vari punti panoramici e tornano in loop al Grand Canyon Village, mentre al pomeriggio prenderemo l’auto per visitare la parte ovest, più lunga e meno ricca di soste panoramiche, fino alla Desert View Watchtower, nel punto in cui il canyon si stringe e piega verso Marble Canyon, la diga del Glen Canyon e i posti che abbiamo visitato i giorni precedenti.
Partiamo dal Mather Point da cui subiamo lo splendido impatto con uno spettacolo della natura unico al mondo. Un paesaggio maestoso che sembra modellato da uno scultore e con colori da acquerello e che vorrebbe essere ammirato per ore. Purtroppo c’è da fare i conti con la numerosa e poco silenziosa compagnia, ma basta spostarsi lungo il Rim Trail, il sentiero che costeggia il bordo, per trovare dei punti più isolati. Abbiamo percorso circa il primo miglia circa a piedi, raggiungendo lo Yavapai Point e il villaggio. Da qui abbiamo alternato percorsi a piedi e in navetta per tutti gli altri punti panoramici fino alla capanna dell’Hermit Rest, oggi negozio di souvenir e bar, impiegando quasi 4 ore in tutto. Ogni punto panoramico dà una prospettiva e particolari diversi, ma allo stesso tempo è uguale agli altri tale è la grandezza del paesaggio che domina tutto il luogo.
Oltre Hermit Rest parte un lungo sentiero nei boschi e lungo il dirupo che scende al fiume Colorado e risale sull’altro versante, così come abbiamo notati altri due simili. Varrebbe la pena restare più giorni al parco e dedicarne almeno uno per percorrere un sentiero a/r al fiume.
Torniamo al visitor center con le navette e ripartiamo in auto sulla Desert View Drive, saltando la visita allo Yaki Point che richiederebbe un’altra navetta, e ci fermiamo lungo la strada ai pochi punti panoramici, fino al punto terminale del parco dove è possibile salire sulla Desert View Watchtower per una vista a 360° di tutto il canyon. Purtroppo arriviamo poco oltre 18.30, orario di chiusura della torre, e troviamo le scale già sbarrate. Peccato perché il panorama che si vede è notevole e dall’alto lo sarebbe ancora di più. Un’altra pecca è che il sole al tramonto da un riverbero fastidioso e sembra quasi che il canyon sia immerso nella foschia. Per una futura visita opteremo per il percorso inverso, in modo da non perdere la vista dalla Desert View Tower e avere il sole alle spalle il mattino e magari fermarci un paio di giorni per percorrere un trail fino al fiume.
Dopo quasi 9 ore lasciamo definitivamente il Grand Canyon dal varco est lungo la strada 64 e poco dopo incrociamo la gola del Little Colorado, che più a nord confluirà nel fiume principale, ma purtroppo il sole è già tramontato e non ci avventuriamo a visitarla. In prossimità di Cameron deviamo sulla highway 89 verso sud e ripassiamo per l’ultima volta da Flagstaff, prendendo la I-40 verso Ash Fork. Ci fermiamo a Williams per la cena al Rod’s Steakhouse e ne scopriamo il piccolo centro storico, ancora una volta fatto alla classica maniera dei paesi sorti sulla Route 66 e pieno di insegne luminose tutte rigorosamente a tema. Sembra di essere entrati in un episodio di Happy Days! Decidiamo di tornarci l’indomani mattina per una visita alla luce del sole.
Giorno 10 – 14 Agosto: Ash Fork – Route 66 (Williams – Seligman – Kingman) – Lake Havasu City (210 miglia – 340 km)
E’ il giorno della Route 66! Lasciamo Ash Fork per tornare a Williams (voto 8) dove facciamo colazione al Cruiser’s Route 66 Cafè e poi un giro a piedi lungo la piccola strip sulla Historic Route 66, fermandoci in un paio di gift shops dove avremmo voluto comprare quasi tutto. A Williams vediamo anche la pittoresca Grand Canyon Railway, la ferrovia che porta al Grand Canyon Village.
Da Williams la Route 66 si fonde con la I-40 che prendiamo in direzione ovest fino a Seligman (voto 8,5) dove c’è l’uscita per percorrere il lungo tratto della vecchia strada fino a Kingman (dove si incrocia di nuovo con l’autostrada). Seligman è un delizioso piccolo paese tutto affacciato sulla Route 66 ed è il più classico esempio di luogo che si è sviluppato e vive sulle fortune della leggendaria strada. Non offre molto, qualche negozio tipico pieno di cimeli come fosse un museo, qualche bar, ma è tutto mantenuto in perfetto stile anni ’50 e trasmette grande atmosfera. Soprattutto la cittadina ha saputo reinventarsi sfruttando il successo del cartone animato della Pixar “Cars”, facendosi identificare come la Radiator Springs ‘reale’: lungo il marciapiede si trovano le riproduzioni in grandezza naturale di alcuni personaggi del film, ovviamente gettonatissime attrazioni per farsi fare delle simpatiche foto.
Dopo Seligman la Route 66 prosegue attraversando un paesaggio arido con delle alture qua e là, la cosa bella è il fatto di esserci sopra. Saltiamo le Grand Canyon Caverns e attraversiamo il povero abitato di Peach Springs. Poco prima di Peach Springs si incontra una deviazione che porta nella riserva indiana degli Havasupai e da lì attraverso un lungo sentiero non carrozzabile alle cascate Havasu Falls: le abbiamo viste in foto e sembrano un vero paradiso terrestre, ma non raggiungibili in maniera comoda. Magari in un prossimo viaggio le prenderemo in considerazione.
Proseguendo si attraversano delle montagne e si incontra dopo una curva l’Hackberry General Store (voto 8,5), fantastico e fornitissimo emporio di cimeli e souvenir vari in un vecchio edificio recuperato. Fuori dal negozio c’è un tuffo nel passato con auto, pompe di benzina e i resti un’officina d’epoca. L’interno è un vero museo con il soffitto tappezzato di vecchie targhe di auto recuperate (che si trovano poi anche in vendita, ne abbiamo fatto una scorta!) e arredamento d’epoca.
Dall’Hackberry General Store la strada va in discesa fino a Kingman (voto 8) e la sensazione è di essere entrati in pieno deserto (il costante aumento della temperatura man mano che ci spostiamo verso ovest ci fornisce un altro indizio). Kingman è una città molto più grande di quelle incontrate lungo la strada, la parte moderna si estende per diverse miglia e il centro storico lo troviamo in fondo, dove la Route 66 piega verso sud per andare verso la California e dove parte la strada che va verso nord fino a Las Vegas. Kingman si presenta in modo meno pittoresco rispetto ai precedenti paesi visitati, anche se le strade principali del centro storico si offrono comunque a una piacevole passeggiata, caldo permettendo dato che siamo arrivati nel primo pomeriggio e si viaggiava tranquilli sui 40°C. E’ anche il capoluogo della contea di Mohave e ci sono gli edifici istituzionali, tra cui la bella e imponente Courthouse.
Lasciamo Kingman riprendendo la I-40 in direzione Los Angeles e attraversando un paesaggio desertico come finora non lo avevamo ancora incontrato: distese di ghiaia e sabbia con bassi arbusti e montagne aride intorno. Si potrebbe prendere la strada 10 per una visita al villaggio ‘western’ di Oatman, nel mezzo delle Black Mountains, un vecchio centro di minatori, ma la deviazione dal tragitto è lunga e tortuosa e lasciamo perdere. Dopo circa 40 miglia usciamo sulla strada 95 in direzione sud che in poco tempo ci porta a Lake Havasu City (voto 7), dove abbiamo deciso di passare la serata e la notte, anche per vedere qualcosa di diverso. La cittadina si presenta infatti come un luogo di villeggiatura più classico sulle rive dell’omonimo piccolo lago formato dal fiume Colorado. Non abbiamo però considerato di essere in una valle in pieno deserto che ci accoglie con un clima molto torrido e quasi insopportabile (alle 5 di pomeriggio si sono toccati circa 45°C) e soprattutto scopriamo che la città è semi deserta e che siamo ben fuori stagione. Il posto tutto sommato è abbastanza carino, la parte residenziale si distende per alcune miglia dalla riva del fiume verso l’interno, mentre la zona più turistica è a ridosso e sopra un isolotto, separato dalla terraferma da uno stretto canale e collegato ad essa dal London Bridge, l’attrazione del luogo, un vero ponte di Londra smontato pietra per pietra, spedito negli Stati Uniti e rimontato qui alla perfezione. Sull’isola, dal terreno decisamente arido, si susseguono campeggi e resort all’apparenza poco affollati di turisti in questo periodo. Dato il caldo insopportabile, ci mettiamo i costumi e dalla piccola e strettissima spiaggetta del Rotary Park (bel parco, molto ben tenuto) ci buttiamo nell’acqua del lago per un bagno rinfrescante…almeno in apparenza, l’acqua è un brodo caldo e il fondo sabbioso la rende torbida. Rientriamo quindi al motel per un ulteriore tuffo nella piscina e poi usciamo per la cena all’elegante Barley Bros Restaurant and Brewery.
Giorno 11 – 15 Agosto: Lake Havasu City – Las Vegas (170 miglia – 280 km)
Si va alla città del peccato! Ma prima di partire diamo un’altra occhiata a Lake Havasu City, in particolare al London Bridge e al piccolo quartiere ai suoi lati: si vedono il centro visitatori, bancarelle, bar e ristoranti, piccoli pontili da cui noleggiare una barca per in giro nel canale.
Lasciamo quindi la cittadina e ripercorriamo la strada 95 e la I-40 fino a Kingman, dove prendiamo la highway 93 che percorre una valle stretta da aride e scure montagne e ci porta al confine con il Nevada. Circa 20 miglia dopo Kingman prendiamo un’uscita a destra che ci porta alla città western di Chloride (voto 6,5), un vecchio villaggio di minatori dove sembra che il tempo si sia fermato, non proprio un paese fantasma perché le case sono abitate e si può vedere qualcuno in giro. Non avendo particolare fretta, una sosta veloce si fa volentieri.
Proseguiamo poi sulla highway 93 fino a raggiungere il confine Arizona-Nevada sul ponte che attraversa il fiume Colorado in prossimità della Hoover Dam (voto 6,5) che ci fermiamo a visitare. Subito dopo l’uscita per la diga troviamo sulla sinistra una deviazione che ci porta Lake Mead Overlook, un balcone panoramico sul Lake Mead, il lago artificiale formato dalla diga. Come per il lago Powell anche questo punto merita una sosta per la bella visuale che offre sul bacino, con le acque di un azzurro intenso a contrasto con il colore delle rocce e nel mezzo le punte di rocce sommerse che fanno da aride isolette. La visita alla diga non è stata altrettanto spettacolare, tante macchine, tanta gente e panorami che ci aspettavamo migliori. Tra le due abbiamo preferito la diga del Glen Canyon.
Percorriamo a questo punto le ultime miglia che ci separano da Las Vegas (voto 8,5) e accogliamo con piacere lo scorgersi in lontananza di palazzi e grattacieli di vetro e cemento, in fondo dopo dieci giorni tra deserti e parchi un po’ di buona urbanizzazione non guasta. Fermarsi a Las Vegas per mezza giornata è un po’ poco per godersi bene la città e un paio di giorni forse sono già sufficienti.
Ci fermiamo nella zona di Downtown per una passeggiata lungo la Fremont Street, la strada storica della città dove oggi si trova una grossa area pedonale coperta, una galleria, dove si susseguono locali, sale giochi in mille luci e colori e dove si incontrano i personaggi più strani, dalla coppia di sosia di Elvis ad attori di strada vari. Fa molto caldo, sempre oltre i 40 °C, e decidiamo di andare al nostro hotel, lo Stratosphere, dove passiamo il pomeriggio girando curiosamente nell’aera casinò e facendo un bagno nella piscina su uno dei terrazzi. Il vantaggio di pernottare allo Stratosphere è quello di avere incluso nel prezzo della camera l’ingresso alla torre panoramica, il punto più alto di Las Vegas da cui si domina tutta la piana dove la città si estende. Sfruttiamo questo plus per ammirare il tramonto dall’alto, il sole che sparisce dietro i monti che orlano la spianata e le luci della Strip, il viale nella zona sud della città dove sono concentrati tutti i grandi hotel-casinò, che piano piano vanno ad accendersi. Vista da qui Las Vegas occupa un’area enorme, ma eccetto la Strip e Downtown, è una distesa ordinata di bassi edifici che si perde all’orizzonte. Vicino al nostro sguardo, verso sud, riconosciamo le sagome di alcuni degli hotel più famosi che si vedono nelle foto o in televisione.
Potenzialmente una persona potrebbe non uscire mai dal proprio hotel, c’è tutto quello che serve, compresi negozi, cinema, teatro, fast food e servizi vari, per potersi solo dedicare al gioco. Ma noi non siamo molto interessati al gioco d’azzardo e preferiamo andare in giro a visitare i curiosi e pacchiani edifici che la Strip offre. Lasciamo l’auto al Planet Hollywood Hotel e Casinò, al centro del viale e con parcheggio gratuito anche ai visitatori. L’interno è un percorso pedonale in una fantastica ambientazione orientale con le facciate dei negozi che sembrano edifici di Istanbul e il soffitto dipinto come fosse il cielo reale. In successione, prima di rientrare in hotel, visitiamo il Bellagio, dove ci siamo fermati ad ammirare uno degli spettacoli delle fontane, con i getti d’acqua che si muovono a suon di musica, il Cesar Palace, il Paris e il Venetian, che all’esterno sembra piazza San Marco in piccolo e all’interno ha la stessa architettura del Cesar Palace, ma con gli edifici e i canali veneziani.
Purtroppo non siamo riusciti a visitare tutto quello che avevamo pensato, ma il tempo che abbiamo dedicato alla città è stato limitato. Può essere una valida scusa per un futuro passaggio da queste parti!
Giorno 12 – 16 Agosto: Las Vegas – Death Valley NP – Beatty (250 miglia – 400 km)
Ci aspetta un lungo viaggio in auto attraverso il deserto, obiettivo è la visita della Death Valley, uno dei luoghi più inospitali del mondo occidentale. Abbiamo pianificato di farla in due giornate, programmando scientemente i percorsi: nella giornata odierna la parte sud e l’indomani la parte nord per poi proseguire verso l’interno della California.
Prima di lasciare Las Vegas facciamo un ultimo giro in cima alla torre dello Stratosphere per vedere il panorama anche con la luce del giorno, ci fermiamo per la colazione da Eggs & I (dove manco a dirlo i piatti sono a base di uova) e facciamo scorta di acqua per l’attraversamento della Death Valley, anche noi abbiamo letto le storie e i numerosi avvertimenti sul non visitare il parco senza sufficienti riserve di liquidi.
Percorriamo in mezzo al deserto la strada 160 verso ovest per oltre 60 miglia fino alla città di Pahrump, dove facciamo benzina a un prezzo ancora sostenibile (oltre le stazioni di servizio sono rarissime e carissime) e dove prendiamo sulla sinistra la deviazione per la strada 372 (che diventerà la 178 dopo il passaggio di stato) e dopo poche miglia entriamo in California. Cambia anche il paesaggio che diventa ancora più brullo e spettrale, ma allo stesso tempo affascinante. Attraversando rilievi aspri e di terra scura arriviamo all’incrocio nel villaggio di Shoshone dove giriamo a destra sulla 127 e poi subito a sinistra sulla Jubilee Pass Road, la porta di ingresso alla Death Valley (voto 9) da sud. La Jubilee Pass Road è una bella strada panoramica che ci porta su e giù attraverso le montagne, passando dal Salsberry Pass e poi dal Jubilee Pass. Al termine della discesa da quest’ultimo si arriva ad Asfhord Junction e si imbocca a destra la Badwater Road, la strada che attraversa la Valle della Morte. Apparentemente sembra solo una lunga valle arida chiusa da alte e scoscese montagne rocciose, in realtà il luogo mentre lo si attraversa emana una strana e misteriosa atmosfera. Buona parte del fondo valle è occupato da un bacino di acqua salata che si trova sotto una crosta di sale e terra. Dall’auto si nota che il terreno non è ghiaioso, ma ha una strana conformazione e a volte lo si vede luccicare al sole, in più si possono osservare i miraggi all’orizzonte, piccole ombre che sembrano alberi e abitazioni che si muovono e cambiano forma. Scendendo e avventurandosi a piedi su questo fango indurito si può vedere che ogni tanto la crosta di sale è rotta e c’è davvero dell’acqua che spunta, con dei colori non usuali, dati crediamo dai minerali sciolti. A proposito, scendere dall’auto è stata un’emozione forte…un caldo mai provato che ti taglia le gambe dopo pochi attimi e un forte vento bollente che sembra strapparti la pelle di dosso.
Dopo circa 30 miglia dall’ingresso si raggiunge Badwater, il punto più basso dell’emisfero settentrionale terrestre, – 86 metri sul livello del mare. Qui lasciamo l’auto al parcheggio e bottiglie d’acqua alla mano ci avventuriamo per una passeggiata sulla bianca crosta di sale finché riusciamo a resistere al caldo (nei pressi di Badwater il termometro dell’auto ha toccato i 123 °F, circa 50,5 °C! Ed erano circa le 5 di pomeriggio). Notiamo qua e là delle buche scavate nel sale, probabilmente da altri turisti cercatori di acqua e un simpatico cartello sulla montagna a ridosso del bacino ci mostra dov’è l’elevazione zero a livello del mare.
Poco dopo Badwater sulla destra c’è la deviazione che porta al Natural Bridge Trail, un breve sentiero che conduce a un arco naturale in pietra, tuttavia dopo pochi metri di sterrato, molta ghiaia e qualche buca, abbiamo deciso di non rischiare danni all’auto e siamo tornati sulla strada principale. Subito dopo a sinistra abbiamo preso la deviazione per il Devil’s Golf Course (il campo da golf del diavolo!) che si raggiunge con un breve tratto piano di sterrato non problematico. Si tratta di una distesa irreale ed estremamente irregolare di terra mista sale, indurita e crepata dal caldo.
Più avanti sulla destra abbiamo preso l’Artist Drive, bella strada panoramica asfaltata a senso unico, un saliscendi unico con ripide cunette, che si inoltra in mezzo alle montagne e offre viste spettacolari di rocce colorate, tra cui l’Artist Palette, una tavolozza naturale di vari colori. Sembra davvero che qualcuno sia passato di lì a spennellare le rocce!
Saltiamo la visita ad alcuni canyon che si aprono in mezzo ai rilievi sulla destra, anche perché inizia ad avvicinarsi il tramonto, e arriviamo al punto di incrocio di Furnace Creek. Non andiamo al centro visitatori, ci torneremo l’indomani, e prendiamo la 190 sulla destra che porta all’ingresso est del parco a Death Valley Junction, fermandoci dopo poco al punto panoramico di Zabriskie Point, uno dei must della visita alla Death Valley. E’ un altro luogo “alieno” dove si possono osservare gli effetti dei terremoti e dell’erosione che fanno sembrare le rocce come fossero di spugna e gomma, un vero paesaggio lunare. Il sole che si sta avviando al tramonto questa volta è di aiuto, creando un effetto di luce spettacolare.
Lasciamo di fretta Zabriskie Point e lanciamo l’auto con buona velocità (per una volta eccedendo un pochino i limiti) per cercare di arrivare a Dante’s View prima del tramonto del sole. Dante’s View, altro must del parco, è un incredibile terrazza panoramica a circa 1700 metri sopra Badwater, in cima alle montagne che orlano la valle. Si raggiunge con una salita di circa 20 miglia, di cui le ultime due in forte pendenza, e sopra si apre un luogo da sogno con la vista che domina tutta la Valle della Morte. Siamo riusciti ad arrivare in tempo per vedere il sole scendere dietro le alte montagne del Panamint Range sull’altro lato della valle, godere del riflesso dei raggi e del colore blu/violaceo che il fondo valle assume all’imbrunire. Altro aspetto, la temperatura è sensibilmente più bassa che nella valle e una volta che il sole è tramontato fa quasi freschino!
Lasciamo a questo punto la Death Valley ormai avvolta nel buio e ci incamminiamo verso il motel dove abbiamo prenotato la stanza per la notte. Da Death Valley Junction prendiamo la strada 127 che ci riporta in Nevada (diventando la 373) fino al paese di Amargosa Valley, all’incrocio con la strada 95. Qui non abbiamo potuto non fermarci all’Area 51 Alien Travel Center, mitico emporio pieno di oggetti alieni, dove siamo usciti con un simpaticissimo alieno peluche verde che ci fa compagnia tutte le sere sul divano di casa. Sulla 95 abbiamo infine percorso le circa 30 miglia fino a Beatty dove avevamo la stanza prenotata.
In definitiva non si può dire che la Death Valley sia un luogo bello in assoluto, certo offre alcuni scenari spettacolari ed è un parco che copre un territorio enorme, ma è l’atmosfera surreale che si percepisce che la rende unica. Per visitarla per bene bisogna venire in un altro periodo dell’anno, quando il caldo non è così oppressivo da permettere qualche escursione a piedi. E soprattutto è meglio avere un’auto 4WD per affrontare le strade sterrate che portano ai luoghi più isolati.
Giorno 13 – 17 Agosto: Beatty – Death Valley NP – Lindsay (450 miglia – 720 km)
Secondo giorno nella Death Valley e poi un lunghissimo e anche stancante trasferimento attraverso la California, circumnavigando la Sierra Nevada a sud per finire nel bel mezzo della pianura della San Joaquin Valley.
Lungo il tragitto c’è stato spazio anche per una deviazione di quasi 100 km dalla strada principale per raggiungere un luogo simbolo cinematografico.
Si riparte da Beatty (voto 7), un altro villaggio nel deserto che sembra un posto dimenticato dai tempi. È un paese di transito, fondato da minatori, lungo la highway 95 che ha la fortuna di essere la porta di ingresso a nord-est per la Death Valley. Girando per le strade deserte si possono osservare edifici storici (nella hall del motel abbiamo trovato un opuscolo con un percorso guidato tra di essi) e fare una sosta per una foto al simpatico Atomic Inn, motel a sfondo extraterreste, con le sagome di compensato a forma di alieni che accolgono i viaggiatori all’ingresso. Appena fuori Beatty, lungo la strada 374 che conduce al parco, si trova la deviazione in salita sulla destra per la città fantasma di Rhyolite (voto 7). E’ un vero villaggio abbandonato, a ridosso delle miniere, e non restaurato per farne un’attrazione turistica, anche se secondo noi il fatto che sia stato lasciato intatto ne fa assolutamente un’attrazione. Si possono visitare i vari edifici, alcuni intatti, alcuni con qualche maceria, ma non all’interno per ovvi motivi di sicurezza. L’unico segno di vita, all’inizio del paese è una piccola baracca in legno che fa da museo con alcune esposizioni temporanee e moderne all’esterno.
Riprendiamo la strada 374 ripassando il confine con la California e valicando una catena montuosa rientriamo nel Death Valley National Park per visitarne la parte nord. Dalla Daylight Pass Road prendiamo la deviazione a sinistra verso Beatty Junction (non c’entra nulla con la Beatty del Nevada dove siamo partiti) e da lì sulla 190 fino a Furnace Creek, il centro del parco, una vera oasi con palme e vegetazione, dove sostiamo al centro visitatori. Oltre Furnace Creek si ritorna nella zona di Badwater e Zabriskie Point, noi invece ritorniamo indietro fermandoci brevemente all’Harmony Borax Works, i resti di una vecchia raffineria di borace. Subito dopo troviamo il Mustard Canyon che però non visitiamo. Anche oggi fa molto caldo, oltre 45°C e la giornata precedente ci ha un po’ sfiancato.
Proseguendo, ripassiamo da Beatty Junction e continuiamo a seguire la 190 verso Stowepipe Wells. Qui il paesaggio cambia, ci si addentra sempre di più in mezzo alle montagne e prime di Stowepipe Wells ci fermiamo in un paio di punti per fare delle piccole passeggiate sulle Mesquite Flat Dunes, vere dune di sabbia tipiche di un classico deserto, con polvere finissima, bianca, rami secchi e qualche arbusto che affiora qua e là.
Proseguiamo superando il villaggio di Stowepipe Wells e ci inoltriamo in mezzo alle catena del Panamint Range che valichiamo al Towne Pass. Da qui si passa su un tratto dritto e in discesa in una vallata sabbiosa, chiusa a nord dalle montagne e dove si vede in lontananza un’altra zona di dune, le Panamint Dunes, che sembra stiano arrampicandosi lungo il fianco della montagna. All’altro capo della valle superiamo l’abitato di Panamint Springs, in realtà vediamo una piccola stazione di rifornimento, un resort e le indicazioni per un’area di campeggio, e ricominciamo a salire attraverso altre montagne. Qui la strada, sempre ben asfaltata e mantenuta, è più tortuosa e ripida e ci porta al punto panoramico di Father Crowley che si affaccia su un canyon e in lontananza sulla vallata sabbiosa di Panamint, onestamente abbiamo visto visuali più spettacolari e significative.
E’ la nostra ultima sosta nella Death Valley. Da qui continuiamo ad attraversare la catena montuosa, passando in mezzo a un altro paesaggio desertico fino a quando troviamo la deviazione a sinistra per Olancha, uno stradone completamente rettilineo di circa 15 miglia e in discesa che porta sulla highway 395 che prendiamo in direzione sud verso Mohave, con il costone della Sierra Nevada alla nostra destra, percorrendola per circa 100 miglia. Nei pressi di Mohave avremmo dovuto deviare sulla statale 58 fino a Bakersfield e poi sulla 65 fino a Lindsay, dove abbiamo la stanza prenotata. Invece continuiamo dritto fino a Lancaster, cittadina ai piedi delle montagne che ci separano da Los Angeles e che non vediamo perché fuori dall’autostrada il navigatore ci porta su una dritta strada in mezzo alla campagna che seguiamo per circa 20 miglia fino ad arrivare davanti a una piccola chiesetta bianca in stile spagnoleggiante, la Two Pines Chappell. La chiesa è nota per essere la location delle riprese di “Kill Bill” e il fatto di esserci arrivati al tramonto fa molto atmosfera western.
Dopo un bel book fotografico e il sole ormai tramontato ritorniamo indietro fino a Mohave e da qui in circa due ore arriviamo a Lindsay, buon punto strategico vicino al Sequoia National Park.
Giorno 14 – 18 Agosto: Lindsay – Sequoia NP – Reedley (135 miglia – 220 km)
Giornata dedicata al parco delle Sequoie.
Da Lindsay andiamo a prendere la strada 198, Sierra Drive, che punta verso le montagne. Salendo ci saremmo aspettati di trovare un paesaggio più verde e alpino, invece la vegetazione è di un colore giallo paglia e soprattutto il caldo e l’afa si fanno ben sentire, con il risultato di una foschia diffusa che ci ha limitato le visuali panoramiche durante tutta la visita.
Lungo la strada abbiamo costeggiato brevemente il Lake Kaweah che però non ci ha impressionato molto e dopo un’altra decina di miglia arriviamo all’ingresso sud del Sequoia National Park (voto 7), con gli abituali “caselli” dei ranger dove mostriamo il nostro Pass e riceviamo informazioni, mappe e dépliant del parco. Poco dopo il centro visitatori incontriamo la Tunnel Rock, un grosso sassone liscio appoggiato da un lato su un’altra roccia e dall’altro al bordo della montagna che crea un simpatico arco dove si può passare sotto a piedi e anche salirci sopra, facendo attenzione a non scivolare. Ci scattiamo un paio di foto e poi proseguiamo lungo la strada che inizia a salire verso pendii che sembrano più verdi. Lungo il tragitto ci fermiamo per qualche minuto a inzuppare i piedi nel torrente in un punto dove una formazione di rocce offre la possibilità di camminarci e sedercisi sopra. Per ora di sequoie neanche l’ombra, siamo ancora troppo in basso, la foresta inizia molto più avanti. Seguiamo la strada per più di mezz’ora fino a quando si imbocca una lunga serie di tornanti che salgono su belli decisi e all’improvviso il paesaggio cambia, la vegetazione diventa più fitta e meno arida e iniziamo a notare sul costone poco sopra le nostre teste i primi alberoni dal fusto dritto e altissimo. In poco tempo ci troviamo nel bel mezzo di una foresta piuttosto fitta e imponente, dove ci sentiamo delle formichine. Sostiamo l’auto a bordo strada dove possibile e ci avviciniamo a un gruppo di sequoie per ‘annusarle’ da vicino: sono davvero enormi, maestose e solide, anche se la corteccia al tatto appare più morbida rispetto agli alberi nostrani. La particolare bellezza secondo noi sta nel fatto che i primi rami e le foglie inizino molto in alto, quasi alla fine del fusto, per cui la vista di questo immenso tronco dritto conferisce un’austerità e severità che non abbiamo mai riscontrato in una pianta…ma d’altronde si tratta di esseri vivente dall’età millenaria. Ci mettiamo in posa per delle foto, ma per prendere tutto l’albero in una foto bisogna stare abbastanza lontani e noi al suo confronto siamo davvero piccini.
Più avanti lungo la Generals Highway incontriamo sulla sinistra la deviazione per le Crystal Cave, grotte visitabile ricche di marmo e formazioni calcaree. Il cartello che le indica riporta però anche che le grotte si raggiungono dopo 45 minuti di auto e questo ci fa desistere dalla visita. Prendiamo dopo poco invece la deviazione a destra per il Moro Rock, un gigantesco monolite roccioso che domina dall’alto la valle e che si può osservare fin dall’inizio salendo da Three Rivers. Il Moro Rock è raggiungibile sia in auto cha attraverso un sentiero, noi siamo arrivati fin sotto con l’auto e poi abbiamo fatto il breve percorso attrezzato che porta in cima alla roccia. E’ un punto panoramico affascinante che offre una vista impareggiabile su tutta la vallata e sulla foresta di sequoie (forse l’unico punto dove si arriva a essere più alti di loro), purtroppo la densa foschia ci ha tolto molta parte delle vista. Poco più avanti troviamo il famoso Tunnel Log dove ci siamo fotografati la nostra macchina sotto il mini tunnel creato da una sequoia caduta. Bisogna mettersi in coda come all’autolavaggio e aspettare il proprio turno, ma la fila è scorrevole. Ancora più avanti questa deviazione finisce all’area picnic di Crescent Meadow dove noi non siamo andati tornando indietro sulla strada principale.
Proseguendo arriviamo in una decina di minuti a quella che è forse la vera attrazione del parco, il General Sherman Tree, la più grande pianta e il più grande essere vivente del pianeta. Lo si raggiunge con un altro breve sentiero che parte dal parcheggio. Di sicuro è impressionante, ma nel mezzo della foresta di sequoie gigante non è facile dire quale sia realmente la più grande di tutte, ma il General Sherman è ampiamente ben indicato e recintato, in più la folla di gente che lo circonda non permette di sbagliarsi. Nei pressi del Generale parte anche un sentiero di circa 2 miglia, il Congress Trail lungo il quale si passeggia in mezzo alla foresta. Noi eravamo a questo già abbastanza cotti e abbiamo ceduto il passo.
Dopo aver ripreso la macchina abbiamo proseguito lungo la strada principale fermandoci solo in un paio di punti panoramici, fino all’incrocio con la strada 180 presso il Grant Grove Village, dove inizia il Kings Canyon National Park, che costituisce un’unica entità con il Sequoia National Park. Nelle nostre intenzioni c’è di visitare l’indomani il Kings Canyon, facendo una o due camminate montane, così ci fermiamo all’inizio del parco dove il General Grant Tree, la seconda sequoia più grande del parco. Anche questa si raggiunge con un breve trail dal parcheggio e che permette allo stesso modo di girovagare tra le sequoie giganti. Il General Grant ci è sembrato più ‘in forma’ del suo compagno Sherman, forse anche perché più giovane e sicuramente perché è meglio osservabile dato il minor numero di persone assiepate al suo intorno.
Lasciamo a questo punto definitivamente il parco, uscendo dall’ingresso nord e seguiamo la Kings Canyon Road che ci porta in una lunga discesa nuovamente nella piana della San Joaquin Valley verso la cittadina di Reedley dove abbiamo la stanza prenotata per la notte.
Il Sequoia National Park non ci ha impressionato in maniera convincente. Da un lato arriviamo da luoghi e paesaggi favolosi che ammettono pochi rivali, dall’altro è comunque un parco monotematico. Di certo il paesaggio è bello e le sequoie sono cose impressionanti e non usuali, però dopo una giornata intera in mezzo alla loro foresta ne siamo usciti un po’ saturi.
Una nota anche sulla San Joaquin Valley che riusciamo a vedere con alla luce del giorno. Lo abbiamo trovato un ambiente in questa stagione poco ospitale e due cose ci hanno colpito maggiormente: l’afa impressionante, molto peggiore di quella che ci massacra a Milano nei giorni grigi di foschia, e un odore di frutta fermentata che si respira costantemente. Per il resto è una pianura monotona dove si alternano frutteti, campi coltivati, allevamenti e piccole cittadine tutte uguali, tagliate da strade dritte e poco trafficate. Ma sappiamo che il bello della California deve ancora venire.
Giorno 15 – 19 Agosto: Reedley – Parkfield – San Miguel – Bakersfield (280 miglia – 450 km)
Cambio di programma al volo per questa giornata. La foresta di sequoie è stata bella, ma non entusiasmante e non abbiamo avuto voglia di trascorrere un altro giorno intero sulle montagne. Per cui abbiamo abbandonato l’idea di tornare sulla strada del giorno precedente per addentrarci nel Kings Canyon e abbiamo cercato cartina alla mano qualcos’altro di alternativo da visitare. Purtroppo la costa è troppo lontana da dove siamo noi, considerando che per la sera abbiamo la stanza prenotata in quel di Bakersfield e abbiamo deciso di dirigerci verso le montagne che separano la San Joaquin Valley dall’oceano alla ricerca di qualche traccia della faglia di San Andreas.
Da una ricerca internet leggiamo dell’abitato di Parkfield, sorto in un punto dove la faglia è quasi allo scoperto e epicentro di forti terremoti che accadono quasi regolarmente ogni 20-25 anni e che però non fanno praticamente vittime data la scarsa quantità di popolazione (una ventina di abitanti) e di edifici presenti. Impostiamo il navigatore che ci conduce per quasi un’ora a zig zag tra vari stradoni in mezzo alla campagna fino a imboccare la strada 41 che seguiamo fino all’indicazione della deviazione per Parkfield, nei pressi dell’incrocio con la strada 46. Non lo sapevamo, ma sul posto abbiamo scoperto che questo incrocio è diventato famoso per un evento tragico.
La strada di circa 15 miglia per Parkfield, un piccolo centro di campagna in mezzo a una valle chiusa da dolci e modeste colline coperte da una secca vegetazione, non è asfaltata alla perfezione come le altre, ha delle buche, ma è comunque ben percorribile. Insieme a noi ci sono solo un furgone della FedEx che ci precede in lontananza (ci ha ricordato la scena finale del film Seven…) e qualche mandria di bovini scuri che pascola pigramente nei campi. Non raggiungiamo il centro dell’abitato che in realtà non riusciamo neanche a scorgere, abbiamo pensato che il paese fosse solo un insieme di fattorie e capannoni, ma ci fermiamo ai bordi del ponte che scavalca un piccolo torrente quasi in secca. Da un lato di questo ponte un cartello marrone indica che stiamo entrando sulla placca tettonica del Nord America, all’altro capo un uguale cartello indica invece l’inizio della placca tettonica del Pacifico. Nel mezzo, il letto del fiume fa presumibilmente parte della faglia anche se non se ne riescono a notare, per noi che non siamo geologi, segni evidenti.
Tornando sulla strada principale notiamo che sulla recinzione ai lati della 41 ci sono una bandiera americana, dei fiori appassiti e altri oggetti che ci fanno pensare a una commemorazione di qualcuno che ha perso la vita in quel punto. Avvicinandoci scopriamo che non si tratta di una commemorazione qualsiasi, ma quello è il punto esatto in cui è avvenuto l’incidente mortale di James Dean. Oltre alla bandiera e ai fiori notiamo occhiali da sole e reggiseni appesi alla recinzione e lettere dei fan. Dall’altro lato della strada, nei pressi dell’incrocio, notiamo poi un cartello su sfondo verde che ci conferma che questo è proprio il punto in cui ci fu lo scontro fatale, denominato ora James Dean Memorial Junction. Guardando meglio in effetti l’incrocio con la strada 46 è abbastanza pericoloso. Si tratta in pratica di un’immissione da sinistra di una strada nell’altra con tanto di curva.
Proseguiamo sulla 41 fino Paso Robles, grossa e apparentemente vivace cittadina della zona, dove prendiamo la highway 101 verso nord che in poche miglia ci porta all’abitato di San Miguel, decisamente più tranquillo, dove troviamo e visitiamo brevemente l’omonima missione. Si tratta di un classico edificio cattolico in stile latineggiante, che abbiamo scoperto essere stato gravemente danneggiata durante un terremoto nel 2003, con il giardino ben curato, un’intima cappelletta e un piccolo cimitero sul retro.
Per dirigerci verso Bakersfield abbiamo infine deciso di percorrere la strada 58 che attraversa i Carrizo Plains, una sorta di arido altopiano in mezzo a vari gruppi di colline dove la faglia è effettivamente allo scoperto. Le foto che si vedono in giro con la ripresa dall’alto di una grossa cicatrice in mezzo a una piana sono fatte in quest’area. Per raggiungere le zone indicate però è necessaria una lunga deviazione su strade non asfaltate e noi abbiamo preferito non abbandonare la via principale anche perché non avremmo avuto benzina sufficiente per fare altri percorsi. La zona che stiamo attraversando è parecchio isolata, abbiamo incontrato solo un paio di fattorie, e in effetti il primo distributore di carburante lo abbiamo trovato solo dopo più di 50 miglia. Tiriamo quindi diritti fino a Bakersfield dove passiamo la serata.
Giorno 16 – 20 Agosto: Bakersfield – Malibu – S.Monica – Los Angeles (190 miglia – 300 km)
Lasciamo Bakersfield di buon’ora e prendiamo la Interstate 5 verso sud che in circa due ore ci porta nell’area di Los Angeles con l’intento di visitare una parte della costa durante la giornata. Prima di arrivare nell’area metropolitana prendiamo la deviazione sulla Ronald Reagan Freeway che porta alla cittadina residenziale di Simi Valley, nell’omonima vallata. Il posto è incredibilmente tranquillo e non ha nulla di turistico, né particolare significato, però abbiamo trovato in rete l’indirizzo della casa che nel lontano 1982 è stata set del film Poltergeist e incuriositi ci siamo diretti lì. Simi Valley, sia per la vicinanza agli studi cinematografici, sia per il fatto che ai tempi era ancora in fase di sviluppo con molto spazio a disposizione per le troupe e relative apparecchiature, si è prestata spesso a fare da sfondo alle produzione del cinema e della tv. Ci siamo mossi con discrezione perché si tratta comunque di un’abitazione privata e abbiamo trovato un’elegante villa, sicuramente ristrutturata (abbiamo letto anche che è stata danneggiata da un terremoto) che ben poco ricorda quella del film se non per la forma del tetto.
Fatta questa brevissima visita ci siamo quindi diretti verso Malibu (voto 8) attraversando le colline puntellate di ville lussuose fino a incrociare la mitica Pacific Coast Highway, la strada che costeggia tutta la costa da San Francisco fino quasi a San Diego. Puntiamo subito le grandi spiagge della zona a ovest del promontorio di Point Dume, ma è sabato mattina e c’è parecchia gente che le ha prese d’assalto, rendendo difficile la ricerca di un parcheggio nelle vicinanze (e qui abbiamo notato per la prima volta il parcheggio selvaggio all’italiana a bordo strada, anche se è ben visibile il cartello di divieto). Vuoi per il fatto di non trovare posto lungo la strada e per il costo che abbiamo ritenuto non conveniente del parcheggio a pagamento (14$ per la giornata), abbiamo deciso di andare direttamente a Point Dume e da qui scendere a piedi. Trovato un posto per la macchina (gratis!) in una via secondaria tra le ville ci siamo avventurati sul breve sentiero sabbioso che porta in cima al promontorio, da cui si gode una bellissima vista: guardando l’oceano, verso sinistra si vede la stretta Dume Beach con la scogliera a ridosso e le ville a strapiombo su di essa, più in là l’abitato di Malibu con le tipiche palafitte in riva al mare e più avanti si vede la costa curvare per arrivare a Los Angeles, ma purtroppo la foschia ci impedisce di vedere oltre; incamminandosi verso destra si segue il bordo della scogliera e fino a scoprire davanti la Malibu Beach, anch’essa stretta e chiusa da un dritta scogliera, seguita dalla ben più ampia Zuma Beach, un panorama già visto in tv con le sue torrette dei guardaspiaggia e i salvagente rossi infilati nella sabbia. Sotto la scogliera, chiusa dalle pareti di roccia si trova la piccola spiaggia di Pirate’s Cove Beach, giusto una manciata di sabbia perennemente bagnata dalla risacca. Siamo quindi scesi dalla parte di Zuma Beach e dopo una breve sosta dove abbiamo potuto ammirare i ‘baywatchers’ reali siamo tornati all’auto, passando questa volta da dietro il promontorio, per metterci in marcia sulla Pacific Coast Highway verso Los Angeles. Malibu è una cittadina totalmente estesa in orizzontale lungo la costa, dato che le colline scendono praticamente fino al mare, ricorda in questo alcuni luoghi liguri, ci vogliono diverse miglia per attraversarla. Noi l’abbiamo fatto al sabato di primo pomeriggio sperimentando un intenso traffico che ci ha scortato fino a Santa Monica e abbiamo impiegato quasi un’ora a coprire queste circa 15 miglia, con una piccola sosta al Malibu Pier, niente di speciale, ma buono per vedere la città dal lato del mare: qui si vedono bene le case a palafitta sulla spiaggia e si scorgono sulle colline alcune ville. C’è un altro punto che sembra interessante di Malibu, ma dove non ci siamo fermati che è vicino alla foce del torrente: qui lo spazio lasciato dalle colline è più largo, ci sono edifici commerciali, bar e giardini e alla foce il torrente crea una piccola laguna con tanto di affollata spiaggia intorno.
Arriviamo così a Santa Monica (voto 8,5), una gran bella cittadina sul mare, elegante, ordinata e accogliente, protetta alle spalle da mamma L.A. e aperta davanti sull’oceano. In mezzo ai grandi edifici residenziali e agli hotel si aprono tante aree verdi e la sensazione che ci ha dato è di un luogo comunque a misura d’uomo nonostante abbia i connotati di un luogo di lusso e sia parte di una grandissima area metropolitana. Abbiamo fatto un po’ di fatica a parcheggiare, ma solo perché ci siamo intestarditi a volerlo cercare vicino al grande molo, incasinandoci senza saperlo con l’affollamento intorno alla Third Street Promenade, paradiso pedonale con una miriade di locali e negozi. E’ bastato spostarci poco più in là per lasciare l’auto senza problemi e in un posto comodo per raggiungere la spiaggia. La spiaggia è lunghissima e molto larga, con sabbia fine, costeggiata da un bel percorso ciclopedonale su cui si affaccia una lunga fila di hotel e locali. Dalla spiaggia si accede facilmente al Santa Monica Pier, il grande e caotico molo, famoso per il luna park ‘galleggiante’ con la ruota che lo identifica da lontano. Inutile menzionare la presenza di un’enorme folla non ci ha permesso di godercelo per bene, è stato faticoso anche riuscire a fare una foto sotto il cartello che indica il punto di arrivo finale della Route 66 (in realtà per i puristi, la fine della strada dovrebbe essere un po’ più all’interno rispetto al molo). Oltre al Pacific Park con le sue giostre, camminando sul molo si possono incontrare personaggi strani e artisti di strada (a noi è piaciuto molto un country-rocker vestito da Gesù) e solo verso la punta, dietro al bar, si trova un po’ di calma, in mezzo ai tanti pescatori che si dividono la ringhiera piazzando le loro canne da pesca in attesa della preda. Dal fondo del molo è anche bello starsene fermi a guardare l’oceano che sbatte continuamente onde verso la riva e alcuni piccoli surfisti che fanno pratica.
Dopo Santa Monica abbiamo deciso di scendere un poco lungo la costa fino a Venice Beach (voto 8), un posto davvero pittoresco che siamo riusciti a visitare al tramonto. La spiaggia è anche qui molto ampia e fine, ma non ci siamo addentrati, rimanendo sul front walk ornato di palme altissime. Abbiamo passeggiato nella zona centrale del lungomare, dove ci sono locali e negozi colorati di souvenir e tatuatori. Ci siamo soffermati ai bordi dello skate park dove una dozzina circa di skaters andavano su è giù con le loro tavole tentando acrobazie ed equilibrismi. Abbiamo notato con piacere anche un classico playground dove alcuni ragazzi si stavano sfidando a basket e la famosa Muscle Beach, senza però nessun culturista che si stava allenando. In giro poi abbiamo incontrato artisti di strada, alcuni tipi stravaganti e anche molti barboni e non ci siamo inoltrati nelle vie interne un po’ per stanchezza e un po’ anche per timore dei racconti che descrivono la zona come non molto sicura di sera.
Abbiamo quindi ripreso l’auto e ci siamo diretti verso il nostro motel a East Hollywood percorrendo i drittissimi viali di Venice Boulevard, Santa Monica Boulevard e Sunset Boulevard.
Giorno 17/18 – 21/22 Agosto: Los Angeles
Finalmente un paio di giorni stanziali, senza grandi spostamenti in auto, dedicati alla visita di Los Angeles (voto 8). Ci era stata raccontata da chi l’ha visitata prima di noi come una città bruttina, con poche attrazioni e pericolosa appena ci si prova ad addentrare nelle vie più interne. Anche se ne abbiamo visto solo una piccola parte a noi ha fatto l’effetto contrario e ci è spiaciuto averle potuto dedicare così poco tempo. Ci torneremo di sicuro per una visita più mirata.
La nostra visita non poteva che cominciare dalla Hollywood turistica, lungo la Walk of Fame che abbiamo percorso a piedi avanti e indietro. Tornati al motel abbiamo preso l’auto per attraversare tutta la Santa Monica Boulevard verso il quartiere di Westwood dove abbiamo visitato il Pierce Brothers Westwood Village Memorial Cemetery, un piccolo ed elegante cimitero rettangolare incastonato tra alti palazzi dove riposano alcuni personaggi famosi, tra cui spicca il loculo di Marylin Monroe, adornato con alcuni fiori e lettere dei fans. Gran parte delle tombe sono segnalate dalle lapidi poste in mezzo al prato, molte altre sono loculi inseriti in alcuni colombari, mentre una parte del cimitero è riservata a sepolture più eleganti.
Dopo la visita al cimitero siamo rimasti in zona per entrare a curiosare nel mondo dell’università di U.C.L.A., un piccolo villaggio con viali alberati e edifici in mattoni rossi, alcuni dall’architettura in stile classico italiano. Il campo da football contornato da tribune e la statua in onore di uno storico allenatore ci fanno capire l’importanza che viene data allo sport in ambito scolastico.
Terminiamo la prima giornata riattraversando di nuovo la città lungo la Sunset Boulevard per salire a goderci il tramonto dal Griffith Observatory, posto in cima alla collina che domina Hollywood. Non siamo però i soli ad avere avuto la stessa idea, la salita è intasata di auto e decidiamo di parcheggiare lungo la strada a più di un chilometro dall’ingresso dell’osservatorio. Ne vale la pena perché da sopra la vista è stupenda, da una parte tutta l’enorme distesa della città dove spiccano i grattacieli di downtown e si notano delle alture qua e là in lontananza, dall’altra le colline dove risalta la scritta ‘Hollywood’. Prima di rientrare al motel siamo andati nel quartiere Koreatown per cenare da Beer Belly, un locale che avevamo visto in tv qualche giorno prima in un programma (come se ne vedono sui nostri canali) dove si svolge una sorta di gara tra posti di ristorazione.
Il giorno successivo è principalmente dedicato alla visita agli studi cinematografici. Dopo un attento studio a casa su quale visitare la nostra scelta è caduta sui Warner Bros (voto 7) che si trovano a Burbank, poco a nord di Los Angeles, all’inizio della San Fernando Valley e dall’altro versante delle colline rispetto a Hollywood. Ci arriviamo transitando dalla cittadina di Glendale, dove ci fermiamo per una visita al Forest Lawn Memorial park, un enorme cimitero privato monumentale che si sviluppa su una collina. E’ diviso in alcuni mausolei dallo stile maestoso e quasi rinascimentale (in uno abbiamo trovato una sorta di mostra-presentazione dell’ultima cena di Leonardo) che si trovano in mezzo a prati curati alla perfezione e pieni di fiori. Ci sono sepolte molte celebrità tra cui Micheal Jackson, ma in pratica nessuna cappella o tomba privata è accessibile al pubblico e non è permesso scattare foto nei mausolei in cui si può girare.
Ci spostiamo così verso i Warner Bros studios dove arriviamo con buon anticipo sull’orario del nostro tour che abbiamo prenotato online da casa (48$ a testa l’ingresso). Si può parcheggiare tranquillamente lungo la strada a pochi minuti a piedi dall’entrata dove campeggiano le statue di Bugs Bunny e Duffy Duck. Poco più in lontananza si scorge la famosa torretta bianca con il logo della casa.
Usciti dagli studios abbiamo deciso di tornare in città percorrendo la strada panoramica di Mulholland Drive, che corre in cima alle colline di Hollywood e offre diverse soste panoramiche. In realtà la strada scorre per lo più sul versante della San Fernando Valley, della quale si hanno ottimi scorci, soprattutto bello quello sulla Universal City, mentre di punti panoramici su Los Angeles ce ne sono pochi. Percorriamo la Mulholland quasi fino in fondo e deviamo sulla Benedict Canyon Drive per scendere a Beverly Hills (voto 7).
Concludiamo la giornata con un’altra lunga attraversata della città fino a Downtown che non eravamo ancora riusciti a visitare. Purtroppo si sta facendo buio e non riusciamo a vedere molto, restiamo per lo più nell’area intorno allo Staples Center, il moderno palazzo dello sport (da emozione le statue di Abdul-Jabbar e Magic Johnson nel piazzale antistante l’ingresso). Da lontano vediamo il grattacielo della US Bank con il suo tetto cilindrico e la torre con il tetto triangolare del municipio. Per la cena abbiamo scelto Baby Blues BBQ, quindi carne, sul Santa Monica Boulevard.
Giorno 19 – 23 Agosto: Los Angeles – Newport Beach – La Jolla – San Diego (150 miglia – 240 km)
Lasciamo con un senso di malinconia Los Angeles, attraversando Downtown in auto per vederla alla luce del giorno e facendo una brevissima sosta davanti al Forum di Inglewood, tempio dei Lakers degli anni 80-90 che guardavo molto spesso in tv. Dopodiché prendiamo la I-110 una delle autostrade metropolitane che si vedono sempre nei film, dove a un certo punto mi accorgo di essere sulla sesta corsia di destra! Potrebbe dare l’impressione di essere all’interno di un caos tremendo, invece nonostante il traffico intenso si procede regolarmente in tutta tranquillità. Attraversiamo la zona di Long Beach, in lontananza si notano le immense strutture del porto industriale, e pian piano usciamo dalla zona metropolitana.
La prima sosta la facciamo a Newport Beach (voto 8), elegante centro turistico che si sviluppa intorno a una strettissima baia con al centro un isolotto, dove abbiamo passeggiato sul lungomare soffermandoci sul classico molo. Proseguiamo quindi lungo la Pacific Coast Highway, attraversando Laguna Beach e Dana Point, altri grossi centri marittimi che però non visitiamo. Ci fermiamo invece poco dopo a San Clemente (voto 7), località meno elegante e mondana rispetto a Newport Beach, ma più tranquilla e con uno stile vintage. Il paese si sviluppa sulle alture con i pendii che scivolano a ridosso della costa e per questo la spiaggia è più stretta che negli altri luoghi che abbiamo visto, ma è lo stesso pulita e ben usufruibile. Anche qui abbiamo fatto un giro lungo il molo, tra i pescatori locali, per guardare il paese dal mare. Sotto di noi alcuni gruppi di ragazzi attendevano a cavallo del proprio surf l’onda giusta.
Ripartiti da San Clemente ci siamo diretti a La Jolla (voto 7,5), località marittima a nord di San Diego, inserita in una riserva naturale e famosa per le spiagge e soprattutto per la Seal Rock, lo scoglio delle foche, che ospita decine di questi animali. La Jolla è un posto elegante e lo si vede subito dall’estetica piacevole delle case e alberghi che sono a ridosso della spiaggia. La spiaggia è abbastanza ampia e sabbiosa e tutt’intorno è circondata da molto verde, con fiori e palme. Più in là inizia il promontorio collinare che ha la sua punta nello scoglio delle foche. All’interno ci sono un sacco di locali, ristorante e negozi, mentre sulla costa rocciosa abbiamo potuto osservare la vita della comunità di foche, chi in acqua, chi appisolato sulla roccia e chi si rotolava sulla riva. E’ possibile scendere sulla piccola spiaggia accanto al promontorio roccioso e stare a pochi centimetri di distanza dagli animali, che probabilmente sono ormai abituati alla intrusione umana nella loro privacy.
Il sole è ormai tramontato e ci spostiamo quindi a San Diego (voto 8), dove prima di andare al motel, abbiamo fatto una passeggiato in centro, nel quartiere di Gaslamp e cenato da Rustic Root.
Giorno 20 – 24 Agosto: San Diego – Cabrillo NM – Gila Bend (320 miglia – 510 km)
Giornata dedicata alla visita di San Diego prima di un altro lungo trasferimento attraverso il deserto fino a tornare nel cuore dell’Arizona. Ci spostiamo subito verso la costa per passeggiare lungo la spiaggia. Attraversiamo la Mission Bay, passando anche di fianco al noto parco di Seaworld, e ci fermiamo con l’auto nel grande parcheggio del Mission Beach Park. La spiaggia di Mission Beach si trova su una stretta striscia di terra chiusa tra la baia, l’oceano e a sud il canale di accesso alla baia stessa. Tra la strada e la spiaggia scorre un bel sentiero ciclo-pedonale, l’Ocean Front Walk, su cui si affacciano negozi, bar e ristoranti. La Mission Beach è una lunga spiaggia sabbiosa, non molto larga, che finisce ai bordi del lungo molo che delinea il canale di accesso alla baia, adatta per fare una buona passeggiata sulla battigia. Non la ricorderemo per l’acqua del mare, torbida perché le onde smuovono la sabbia sul fondo, scura e fredda. Ma d’altronde siamo su un tratto di costa molto aperto e in riva all’oceano. E’ un buon posto invece per praticare surf da principianti. Dopo una passeggiata a piedi nudi sulla sabbia ci siamo spostati sull’altro lato del canale, all’inizio della penisola di Point Loma, dove si trova la Ocean Beach. Questa spiaggia fa angolo tra la foce del torrente San Diego River, costretta in un canale artificiale salmastro e un po’ sporco, e il lungo e stretto molo turistico dell’Ocean Beach Pier, con tanto di bar in cima, oltre il quale si innalza la parte rocciosa della penisola. E’ una spiaggia più stretta e piccola rispetto alla Mission Beach e non ci ha impressionato molto. Riprendiamo l’auto e attraversiamo il quartiere residenziale di Sunset Cliffs adagiato sulla pendice rocciosa della penisola e salendo attraverso le sue stradine ripide raggiungiamo la strada principale che corre in alto lungo la dorsale della penisola e termina all’ingresso del parco del Cabrillo National Monument (voto 7). L’ingresso al parco è compreso nel Pass Annuale “America the Beautiful”, in alternativa si pagano $10 per veicolo. Questa area protetta oltre a preservare l’ecosistema della punta meridionale della penisola di Point Loma funge anche da monumento commemorativo dell’approdo dell’esploratore portoghese Cabrillo a metà del XVI sec. nella baia di San Diego (a nostro avviso un poco ingeneroso nei confronti dei nativi). Il parco comprende il centro visitatori con un museo dedicato alle avventure dei conquistadores, vari punti panoramici, tra cui una piazzola dove spicca una grande statua in arenaria di Cabrillo, e nel punto più alto il faro di Point Loma, anch’esso visitabile come museo. E’ possibile seguire poi alcuni sentieri che scendono verso la riva e la punta della penisola, dove la bassa marea crea alcune piscine naturali tra gli scogli. L’aspetto più interessante del parco è il panorama che si gode: da una parte l’oceano e dall’altra la baia di San Diego con la penisola del Coronado, il porto e la base militare in primo piano e i grattacieli e la città a fare da sfondo. Vicino al faro c’è anche una zona riparata da vetri dove è possibile osservare, in inverno, le balenottere che passano al largo durante la loro migrazione verso i mari caldi di Baja California.
Tornando indietro dal Cabrillo NM verso la città ci siamo fermati al cimitero militare di Fort Rosecrans, a ridosso della base navale. Qui, su grandi lotti di erba tenuta in perfetto stato, sono disposte interminabili file di lapidi bianche tutte uguali, la cui vista è molto toccante e vale una breve sosta.
Rientrati a San Diego decidiamo di visitare nel tempo a disposizione i due quartieri di Old Town e Little Italy. L’Old Town rappresenta il quartiere storico ed è in realtà un parco statale (San Diego State Historic Park) dove è rappresenta una ricostruzione della vecchia città, sede del primo insediamento spagnolo. Visitare Old Town è come fare un passo indietro nel tempo, la ricostruzione ha fatto rivivere questo spicchio di vecchio west in salsa messicana. Si possono ammirare e visitare le tipiche case di mattoni cotti al sole (dette adobe) oltre agli edifici pubblici storici e tanti negozi di souvenir di tutti i tipi. Noi abbiamo trovato anche gente che circola con i costumi tradizionali dell’epoca. Little Italy, come si capisce dal nome, è un piccolo quartiere in stile italiano, moderno e apparentemente ristrutturato da poco. Gli edifici hanno dei bei muri colorati, lungo le poche strade si affacciano numerosi locali che offrono piatti e cibi tipici italiani. Noi abbiamo provato una piacevole pizza al trancio… anche se la pizza farcita con la lasagna di sicuro facciamo fatica a trovarla dalle nostre parti. Lungo i marciapiedi di Little Italy ci sono diverse fioriere e vasi e sui lampioni sono appesi dei poster che ritraggono personaggi famosi italo-americani.
Lasciamo a malincuore San Diego che ci è piaciuta davvero tanto con la promessa di tornarci per poterla visitare meglio, purtroppo in così poco tempo tante attrazioni non le abbiamo proprio sfiorate: lo zoo e il parco intorno, il lungomare, la penisola del Coronado, le spiagge a sud vicino al confine e altro ancora. Ci aspetta però un’altra lunga attraversata del deserto, ci rimettiamo quindi in auto e prendiamo la I-8 in direzione est. Finché abbiamo avuto la luce del sole comunque il tragitto è stato molto interessante per i diversi ambienti e paesaggi che si sono succeduti. Subito fuori dalla zona metropolitana abbiamo attraversato una catena montuosa dalla vegetazione via via sempre più scarna e arida fino a scomparire e lasciare spazio alle sole rocce. Addirittura in un punto sembrava che le montagne fossero solo dei grandi mucchi di massi tanto si presentavano frammentate in rocce. Durante la discesa poi ci siamo avvicinati al confine con il Messico riuscendo a scorgere in diversi punti il famoso “muro” che sembrava essere davvero a un passo. Dopo è iniziata una pianura di puro deserto che si presentava come una distesa di ghiaia con qualche piccolo arbusto secco qua e là. Avvicinandosi alla città di El Centro, contraltare della grande Mexicali che si trova al di là del confine, di colpo il deserto sparisce, sostituito da appezzamenti rettangolari coltivati. Allo stesso modo di come sono apparsi le coltivazioni cessano di colpo pochi chilometri dopo aver oltrepassato la cittadina, lasciando di nuovo spazio al deserto. Poco dopo, mentre ci avviciniamo al confine con l’Arizona, incontriamo l’enorme campo di dune di sabbia di Algodones che si alzano impressionanti di fianco alla strada. Il sole che sta iniziando a volgere al tramonto fa la sua parte creando un contrasto di ombre e luci da cartolina. Avevamo già studiato la possibilità di fermarci sulle dune presso l’area delle Buttercup Sand Dunes (voto 7,5), che si trovano appena fuori dall’autostrada. E’ una sorta di parco dove è possibile affittare i quad e divertirsi un po’ sulla sabbia. Di fronte alla stazione dei ranger si prende la stradina che va verso le dune e termina dopo poco in uno spiazzo rotondo dove iniziano le colline sabbiose. Anche questa volta siamo arrivati giusto in tempo per vedere il sole sparire da dietro i monti in lontananza e godere della luce del crepuscolo per fare un po’ di foto. Leggendo in internet abbiamo poi scoperto che queste dune sono state il set per la scena nel deserto de “Il ritorno dello Jedi” con tanto di nave realmente costruita e poi subito smontata al termine delle riprese. Il resto del viaggio lo facciamo con il buio e senza riuscire a vedere molto dell’ambiente che attraversiamo. Poco dopo il campo di dune di sabbia lasciamo definitivamente la California e rientriamo in l’Arizona in corrispondenza della grande città di Yuma, dove non ci fermiamo, e circa due ore dopo raggiungiamo l’abitato di Gila Bend dove abbiamo la stanza prenotata per la notte.
Giorno 21 – 25 Agosto: Gila Bend – Ajo – Organ Pipe NM – Tucson (240 miglia – 390 km)
In questa giornata abbiamo attraversato l’estremo sud dell’Arizona. Da Gila Bend, un manipolo di case povere distribuite lungo la strada 85, proseguiamo verso sud per circa 80 miglia fino al parco dell’Organ Pipe National Monument (voto 6,5) una riserva nata con l’interno di preservare una grande distesa di cactus a canna d’organo in questa zona desertica al confine con il Messico. Anche qui, avvicinandosi al confine incontriamo checkpoints e pattuglie della polizia doganale lungo la strada.
A metà tragitto verso il parco attraversiamo l’abitato di Ajo (voto 7,5) dove facciamo una breve sosta. Ajo sembra uno di quei villaggi dove ti aspetti di vedere le persone sedute con la testa tra le gambe e interamente coperta da un ampio sombrero mentre si riposano all’ombra di un muro bianco. Nel mezzo di una distesa di casupole e container la piazzetta centrale è piacevole e ordinata: un bel giardino alberato con un monumento commemorativo, circondato ai lati da edifici bassi con portici ad archi dove si trovano bar, ufficio postale, banca, libreria e uffici della camera di commercio locale. Dall’altro lato due chiese bianche che sembrano contrapporsi l’una all’altra e sono divise da una strada che finisce contro un elegante edificio amministrativo.
Dopo Ajo arriviamo all’incrocio della 85, che prosegue a sud verso il parco dell’Organ Pipe e il confine con il Messico con la strada 86 che invece va in direzione est fino a Tucson. Sull’incrocio sorge il piccolo abitato di Why, anche in questo caso poche casupole sparse, del quale notiamo l’area di servizio con il Why Not Travel Store. Da qui abbiamo percorso altre 20 miglia circa per arrivare all’ingresso dell’Organ Pipe NM che si trova subito dopo un checkpoint della polizia doganale, dove non veniamo fermati per i controlli. Il parco non è molto frequentato, al parcheggio del centro visitatori, qualche miglio più a sud, c’era solo la nostra macchina e in tutta la nostra permanenza abbiamo incontrato solo un altro veicolo di turisti. I ranger sono però molto accoglienti, noi siamo arrivati mentre stavano festeggiando il centenario del National Park Service e ci hanno offerto una fetta di torta. Il parco dell’Organ Pipe NM è costituito da due anelli di strade sterrate: uno, che non abbiamo percorso, si arrampica sulle aspre pendici del monte Ajo, l’altro, la Puerto Blanco Drive, parte dal centro visitatori, è molto più lungo e costeggia per un bel tratto il confine messicano. Siamo partiti sulla Puerto Blanco Drive, sterrata ma non impossibile da percorrere, che attraversa una zona di deserto roccioso puntellata da una miriade di cactus piccoli e grandi. E’ però monotona come visita, quindi dopo qualche miglio invertiamo la rotta e torniamo al centro visitatori per poi proseguire verso sud con l’idea di andare a vedere il confine sull’altro lato della Puerto Blanco Drive che imbocchiamo a circa 10 miglia di distanza. Subito notiamo una pattuglia della polizia ferma sul ciglio e un’altra ferma su un sentiero non accessibile a noi e che percorre una collina a ridosso del muro. Qui lo sterrato è peggiore che nel tratto precedente e riusciamo solo ad arrivare a un punto dove la strada è esattamente sul confine: a una decina di metri abbiamo la recinzione che separa i due stati, mentre a bordo strada sono state piazzate delle specie di barricate in legno dall’aspetto minaccioso. Scattiamo una foto e torniamo indietro per lasciare definitivamente il parco, ma probabilmente ci stavano osservando perché subito veniamo seguiti e fermati da una delle pattuglie dalla quale scende un ranger che in maniera molto gentile ci chiede spiegazioni della nostra presenza lì. Abbiamo risposto che stavamo visitando il parco, ma che la strada è troppo dissestata per la nostra macchina. Sempre cortesemente il ranger ci spiega che non è normale per loro vedere auto che vanno e tornano in breve tempo, normalmente la visita al parco è più lunga e prima di lasciarci andare ci chiede di ispezionare i bagagli. Ovviamente abbiamo acconsentito senza problemi, non c’era nulla di cui avremmo dovuto preoccuparci, ci è spiaciuto più per il ranger che ha dovuto ficcare la faccia dentro le nostre valigie ormai provate da tre settimane di viaggio…
Ritornati a Why prendiamo la strada 86 per la lunga traversata fino a Tucson. Lungo la strada ci accompagnano le ormai solite pattuglie della polizia doganale e un cambio di paesaggio con il deserto che lascia posto a una sorta di steppa con alberi e arbusti verdi. La strada 86 ci porta anche ad attraversare la riserva degli indiani Tohono O’odham. Prima di Tucson, in cima a un gruppo montuoso, vediamo avvicinarsi le cupole degli osservatori del complesso di Kitt Peak. Avevamo già pensato di deviare e prendere la strada che conduce alla cima, purtroppo un cartello ci avvisa che tale strada viene chiusa alle quattro di pomeriggio e siamo costretti a desistere, anche perché una volta sopra non avremmo trovato nulla di aperto.
Proseguiamo quindi verso Tucson (voto 7) e prima di arrivare in città deviamo a sinistra verso le montagne dove si trovano gli Old Tucson Studios, vecchi set cinematografici dove sono stati girati film e telefilm western oggi trasformato in parco tematico. Purtroppo troviamo tutto chiuso, il parco è aperto solo nel fine settimana… è destino che oggi non riusciamo a visitare le cose che avevamo previsto.
Continuiamo in mezzo alle montagne completamente ricoperte di una quantità innumerevole di saguaro, i cactus a fusto dritto e alto e prendiamo la strada panoramica del Gate Pass, che scavalca il gruppo montuoso e scende poi in picchiata verso il centro cittadino. In alternativa alla deviazione per il Gate Pass è possibile proseguire per andare a incontrare prima l’Arizona-Sonora Desert Museum, un’esposizione permanente su flora e fauna della zona e poi il Saguaro National Park. Per questa giornata però di cactus ne abbiamo già visti in abbondanza e abbiamo deciso di saltare questa parte. La Gate Pass Road non è molto lunga, è molto ben asfaltata, ma sale in maniera decisa. In cima al valico, da un punto panoramico si ha una bella vista di uno spicchio di città che si apre dietro le montagne.
Anche se abbastanza stanchi decidiamo dopo cena di andare in centro a Tucson per un piccolo giro. E’ venerdì sera e la città è principalmente sede universitaria per cui ci aspettavamo di trovare vivacità. Siamo rimasti un po’ delusi, la vita per così dire “notturna” sembra concentrata in un piccolo tratto della Congress Street dove si trovano alcuni locali, gelaterie e un teatro. Il viale non è molto affollato di gente e a occhio anche i locali non sembrano tutti pieni. Così concludiamo brevemente la perlustrazione e torniamo al motel.
Giorno 22 – 26 Agosto: Tucson – Tombstone – Tucson (160 miglia – 250 km)
Inizialmente avevamo previsto per questa giornata un altro lungo giro nel remoto sud-ovest dell’Arizona, fino al confine con il Messico, ma la stanchezza che ci ha preso a questo punto del viaggio ci ha consigliato di limitarci alla visita della città di Tombstone (voto 7), il luogo della sparatoria dell’OK Corral, forse la più nota dell’epopea western. La città vive praticamente sulla memoria di questo evento, del quale ogni giorno viene proposta la rievocazione con personaggi in carne e ossa (noi non l’abbiamo vista durante la nostra permanenza, ma pare che non muoia nessuno per davvero!) e del quale si trova un’epigrafe nel posto esatto in cui è avvenuta. La via principale, la Allen Street, chiusa al traffico e percorsa solo da un paio di calessi che fanno fare il giro del viale ai turisti, è in pratica un museo-teatro all’aperto. E’ costeggiata dagli edifici dell’epoca che oggi ospitano negozi di souvenir, abbigliamento e calzature western, accessori per i cavalli, vecchie librerie, gli immancabili saloon. Gli abitanti del luogo, tutti rigorosamente in abiti d’epoca, vagano per la via cercando di coinvolgere i turisti per assistere ai loro spettacoli. E’ tutto molto carino, ma la sensazione che ci ha trasmesso è di cosa un po’ artefatta e da luna park. Interessante invece è stata la visita al museo cittadino che propone foto, documenti e oggetti originali legati allo sviluppo che ha avuto la cittadina e, ovviamente, su fatti e antefatti della famosa sparatoria. Durante il giro ci ha raggiunto un forte temporale, il primo vero dall’inizio del viaggio, che però non ci ha impedito la visita al cimitero dove le vecchie lapidi raccontano le storie degli abitanti di un tempo.
Tornati a Tucson ci arrampichiamo sul Sentinel Peak Park, dove è possibile salire in cima alla ‘A’ Mountain, che prende il nome dalla lettera A ‘incisa’ sul fianco della collina. Dalla cima si ha una bella visuale di tutta la città, con Downtown in primo piano e le montagne che la circondano sullo sfondo. Dall’altro lato la vista si perde tra i rilievi del Tucson Mountain Park e del Saguaro National Park.
Rientriamo quindi al motel dove passiamo la serata approfittando della bella piscina.
Giorno 23 – 27 Agosto: Tucson – Phoenix (135 miglia – 220 km)
Penultimo giorno e rientro a Phoenix completando il nostro ricco e lungo giro. La mattina la passiamo girando a piedi il centro storico di Tucson, il quartier El Presidio, nucleo originario della città, a ridosso della Downtown. Meritano in particolare secondo noi la Old Pima County Courthouse con la sua cupola arabeggiante e il bel giardino su cui si affaccia e la Cattedrale di St. Augustine che non siamo riusciti a visitare internamente per una funzione che era in corso.
Torniamo quindi a Phoenix lungo la I-10 e prima di entrare in città ci fermiamo brevemente a visitare i sobborghi di Mesa e Tempe, nella zona est. Mesa è in realtà la terza città dell’Arizona per popolazione ed è un centro prettamente residenziale, ordinato e con spazi ampi. Tempe invece è centro universitario che ruota intorno alla via principale, la Mill Avenue, che mantiene gli edifici con lo stile retrò ed è piena di locali e posti di ristorazione. Abbiamo trovato Tempe più vivace e piacevole.
Entriamo quindi a Phoenix e con le energie ormai al termine passiamo il resto del pomeriggio a riposare.
Giorno 24 – 28 Agosto: partenza da Phoenix
Ci svegliamo per l’ultima volta in terra statunitense, sistemiamo i bagagli per il volo e laviamo l’auto facendola tornare quasi bianca così come ci era stata consegnata. L’idea era di fare un ultimo tour sulle South Mountains di Phoenix e arrivare al Dobbins Lookout, punto da cui si ha la panoramica sulla città. Purtroppo arrivati all’inizio della salita veniamo fermati dai ranger che ci spiegano che l’ultima domenica del mese la strada è chiusa alle auto. Ci dirigiamo allora mestamente verso i parcheggi del noleggio auto, dove senza problemi lasciamo la macchina dopo quasi 9.000 km percorsi nelle mani dell’addetto di Alamo. Da qui prendiamo la navetta che ci porta all’aeroporto per prendere il volo per Chicago, seguito da quello su Londra e infine Milano Linate, dove arriviamo nel tardo pomeriggio del 29 Agosto.