A spasso nel sud est degli Stati Uniti
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02 OTTOBRE: MILANO-NEWARK-ATLANTA
Pronti per la partenza! La ricerca dei voli su internet è stata un po’ complessa perché la nostra sede di partenza ottimale (Venezia) presentava prezzi veramente eccessivi e senza apprezzabili variazioni nel tempo, nonostante le ricerche su tutte le compagnie disponibili. Abbiamo quindi optato, dopo una lunga riflessione, per una partenza da Malpensa con United, approfittando di un comodo collegamento con Atlanta via Newark ad un prezzo estremamente conveniente: partenza a metà mattina, tre ore di cambio a Newark e arrivo ad Atlanta nella prima serata. Avevamo letto recensioni contrastanti su United ma, per quel che riguarda la nostra esperienza, il viaggio è stato ottimo e senza il minimo intoppo: il servizio a bordo non sarà quello di Emirates ma non c’è veramente nulla di cui lamentarsi: cibo ed entertainment sono in linea con quelli della maggior parte delle compagnie e gli orari sono stati ampiamente rispettati.
Sbrighiamo le pratiche burocratiche già a Newark e così ad Atlanta possiamo recarci direttamente all’uscita, cosa comunque non rapida perché l’aeroporto è enorme e i gates piuttosto distanti tra loro; c’è un comodo trenino che li collega ogni minuto e le indicazioni sono chiarissime, quindi non c’è pericolo di perdersi o di finire nel posto sbagliato. Noi decidiamo di percorrere il tragitto a piedi per sgranchire le gambe dopo ore di volo e, nel percorso, oltre ad una piacevole mostra di sculture africane, ci imbattiamo in Julius Erving che trafelato cammina a fianco a noi! Primo colpo di scena del viaggio già pochi minuti dopo l’atterraggio: l’incontro con il mitico Doctor J, un po’ imbolsito e con i capelli bianchi ma comunque sempre gigantesco dal vivo: non sarà più l’airone che con i capelli cotonati volava a schiacciare dalla linea del tiro libero, ma rimane una leggenda immortale del basket.
Per raggiungere il centro di noleggio auto dai voli nazionali, occorre servirsi di un altro trenino (dagli arrivi internazionali c’è l’autobus) che parte immediatamente all’uscita e che, in pochi minuti, giunge alla sede di tutte le agenzie di noleggio. Anche qui tutto fila liscio e ben presto saliamo a bordo della nostra auto che questa volta è una Chevrolet Malibù, modello che già avevamo avuto in un altro viaggio negli USA, decisamente comoda e spaziosa, l’ideale per percorrere le molte miglia che ci attendono.
Per la prima notte abbiamo prenotato a Gainesville, sulla rotta che dovremo prendere da domani: non ci rimane altro che uscire da Atlanta, percorrere le miglia che ci separano dal letto e fare la nanna… domani si incomincia!
03 OTTOBRE: GAINESVILLE-VOGEL STATE PARK-AMICALOLA FALLS-CHATTANOOGA
Dopo una notte ristoratrice siamo pronti alla partenza: la prima parte del viaggio avrà come filo conduttore l’esplorazione di alcuni tratti dell’enorme foresta decidua che, con interruzioni e nomi diversi, copre buona parte dell’East nord-americano, dal sud degli USA sino al Canada.
Si tratta di un ecosistema veramente unico, sia per l’estensione che non ha eguali al mondo, sia per la biodiversità vegetale ed animale che contiene: ciò che colpisce attraversandola è, oltre alla dimensione abnorme e alla densità (si dice circa 250 milioni di ettari), il connubio a stretta vicinanza tra aree assolutamente incontaminate e altre dove l’invasione antropica la segmenta in maniera evidente. In ogni caso si riesce sempre ad intravederne la continuità fatta dai grandi boschi di latifoglie: aceri, querce, sicomori, pioppi, faggi, con i relativi sottoboschi ricchissimi e che, in questa parte dell’anno, danno il meglio di sé attraverso il fenomeno del “foliage”.
Centinaia di migliaia di turisti infatti si spostano nei boschi per osservare la caduta delle foglie e il loro lento mutare di colore, dal verde, al giallo, all’arancione fino al rosso, porpora, marrone, violetto, in infinite sfumature che danno al paesaggio un tocco magico degno di una tela di Van Gogh; si tratta di una vera invasione di persone, per noi abbastanza incomprensibile (voglio dire… chi da noi si sognerebbe di progettare le proprie vacanze per vedere cadere le foglie nei boschi?) ma che qui coinvolge folle oceaniche e muove miliardi di dollari nell’indotto turistico. C’è da dire, avendolo visto, che si tratta di uno spettacolo veramente eccezionale: un muro infinito e quasi impenetrabile di alberi multicolori che si estende a perdita d’occhio (e ben oltre il campo visivo) su dolci pendici e ridenti fondovalle, inimmaginabile da noi.
Da queste parti inoltre parte l’Appalachian Trail, semplicemente il sentiero escursionistico più lungo del mondo che, con i suoi oltre 3400 Km di estensione attraverso gli Appalachi si snoda in 14 Stati, collegando la Georgia al Maine; insomma non mancano i motivi di interesse per queste prime giornate.
Con queste idee bene in testa partiamo sulla HW 19/129 alla volta del Vogel State Park, prima meta naturalistica del nostro viaggio. Si trova nel nord della Georgia, all’interno della Chattahoochee National Forest, estendendosi attorno al lago Tralhita sui dolci crinali degli Appalachi, in un contesto incontaminato e poco frequentato dai turisti. L’ingresso, giusto a fianco della 19/129 prima di Blairsville, costa (come nella maggior parte degli State Park) 5 dollari, e vale un giorno.
All’interno vi sono diverse opportunità di fare trekking, sempre con la giusta attenzione alla presenza di orsi bruni (una costante nelle foreste degli Appalachi); noi abbiamo percorso il Bear Hair gap Trail e un pezzo del Coosa Trail, due sentieri piacevoli all’interno dei boschi con alcune apprezzabili viste panoramiche sul lago; non sono particolarmente impegnativi ma hanno un paio di insidiosi e scivolosi attraversamenti di torrente: nel caso li facciate preparatevi all’eventualità di poter inzuppare i piedi.
Nel primo pomeriggio ci spostiamo verso la seconda meta di giornata: l’Amicalola Falls State Park, sede delle cascate più alte della Georgia e sito decisamente più noto e frequentato. Ci muoviamo verso nord lungo la 515, la 76 e successivamente sulla HW 52, a fianco della quale si trova l’ingresso del parco.
Lo spettacolo è notevole fin dall’ingresso e le cascate di circa 750 piedi sono la gemma che lo impreziosisce; appena entrati raccogliamo un po’ di informazioni al Visitor Center dove i ranger sono come sempre gentili e competenti: questo è, tra l’altro, il centro dove inizia ufficialmente l’Appalachian Trail e dove si è invitati a segnalare la propria presenza sul sentiero per eventuali ricerche. L’inizio esatto è a 9 miglia dal Visitor Center e si raggiunge con un trail che conduce alla Springer Mountain per poi confluire sull’Appalachian.
In partenza avvistiamo un opossum che, piuttosto stralunato per la luce diurna, cammina nell’erba: era la prima volta che ne vedevo uno e l’impressione è proprio quella di un buffo ed innocuo batuffolo di pelo; nel parco ci sono comunque molti altri animali tra cui orsi bruni, linci, bald eagle, deer, molti roditori e diverse specie di serpenti.
Il New Appalachian Approach trail conduce anche, con un delicato saliscendi, alla base delle cascate; per salire sino alla sommità invece è necessario percorrere una scala di 604 scalini che permette di arrivare sino al ciglio: un po’ faticoso ma la vista ripaga decisamente dallo sforzo.
Dopo aver concluso il giro, visto anche l’approssimarsi della sera e i molti km ancora da fare decidiamo di chiudere la nostra visita e indirizzarci sulla rotta di Chattanooga, non prima però di aver fatto una sosta alla Burt’s Farm, un’azienda che produce zucche a pochi Km dall’ingresso del parco in direzione di Dawsonville.
Siamo stati infatti attirati da un campo di enormi zucche arancioni (alcune di 70-80 cm di diametro!), molte delle quali già pronte per la vendita di Halloween e ci siamo fermati a curiosare: oltre a prendere confidenza con le infinite specie di zucca presenti, abbiamo mangiucchiato ottimi prodotti, in particolare un dolce chiamato pumpkin bread veramente squisito.
Archiviata la pratica della merenda, andiamo a prendere la IS 75 per Chattanooga, Tennessee, “dove il sole ti spacca in quattro” come diceva il mitico Dan Peterson nello spot del thè Lipton; stasera in realtà fa un freddo becco e c’è pure la nebbia ma come dare torto al coach?? Per me… numero uno!
04 OTTOBRE: CHATTANOOGA-NANTAHALA NATIONAL FOREST-PISGAH FOREST-PIGEON FORGE
Oggi proseguiamo verso nord sulla IS 75 fino a Cleveland dove imbocchiamo l’HW 40 e 64/74 verso la North Carolina; sono decisamente piacevoli, inoltrandosi nella foresta e costeggiando torrenti di montagna e due grandi laghi (Ocoee Lakes) che, a quanto si legge a bordo strada, sono stati siti olimpici durante l’Olimpiade di Atlanta.
Dopo Bryson City cerchiamo l’attacco della Blue Ridge Parkway, una strada panoramica che si estende per oltre 460 miglia collegando, da sud a nord (la numerazione delle miglia in realtà viaggia da nord a sud ma noi la percorreremo al contrario), il Great Smoky Mountains National Park allo Shenandoah National Park. Contiamo di percorrerne diversi tratti in questi giorni perché si tratta di un itinerario naturalistico veramente interessante, immersi completamente per centinaia di Km nella fitta foresta senza incontrare mai paesi o città, ma solo qualche casa sparsa qua e là. Lungo il percorso ci sono diversi Visitor information, come sempre generosi di informazioni, e parecchi trail che partono sempre a lato della strada e sono segnati sulle mappe partendo dal cippo kilometrico di riferimento: per orientarsi è quindi fondamentale tenere sott’occhio l’andamento delle miglia.
Manchiamo il primo appuntamento a causa di indicazioni stradali non proprio lineari e ci concentriamo sul secondo incrocio, nei pressi di Canton sulla 151, strada che, dopo aver attraversato una stretta gola, si inerpica in un fittissimo bosco divenendo sufficiente a malapena per il transito di un’auto: esperienza non proprio memorabile visti i burroni a lato e l’impossibilità di fare inversione, ma, alla fine, dopo qualche centinaio di curve in poche miglia, sbuchiamo finalmente sulla Blue Ridge nei pressi del Mount Pisgah; come tutte le strade panoramiche è dotata di aree di sosta e scenic overlook che permettono notevoli viste dall’alto sulla foresta: adesso, ovviamente, prevale lo scenario autunnale costituito dalle foglie multicolore ma immaginiamo che anche in primavera si potranno cogliere scorci magnifici, dati dalla fioritura delle gemme e dagli arbusti multicolore di rododendri e pink lady slipper.
Dopo pranzo ci avviamo per un lungo trekking tra il Mount Pisgah e il Graveyard Fields su un comodo e piacevole sentiero, dove avvistiamo oltre ad un infinità di scoiattoli e ground hog (piccole marmotte) anche un gruppo di pine snakes che sonnecchia nell’erba a poca distanza dal sentiero.
Dopo qualche ora ripartiamo per Asheville e da là, attraverso l’IS 40 e la HW 321, arriviamo a Pigeon Forge.
Pigeon Forge era, per dirla parafrasando Bill Bryson, “…un mucchio di catapecchie che aspirava a diventare un puntino sulla carta geografica” fino al giorno in cui Dolly Parton, la famosa cantante-showgirl country nata proprio da queste parti, non ha deciso di trasformarla in una specie di Las Vegas degli Appalachi. Ha creato Dollywood, un immenso parco divertimenti dotato di ogni amenità e ha trasformato il mucchio di catapecchie in una enorme città-luna park a cielo aperto, funzionante 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno; ora… la classe e il buon gusto sono bandite per legge da qui, ci troviamo nel regno incontrastato del nazional-popolare a stelle e strisce irrorato da un’abbondante dose di kitsch (non male ad esempio la ricostruzione in scala 1:1 dell’Empire Building di New York con un gigantesco King Kong che si sta arrampicando in cima), ma di sicuro vale il prezzo del biglietto (come si dice in questi casi) per assaporare il gusto dell’America più popolare e fracassona.
Passiamo quindi una piacevole serata, sbellicandoci dalle risate per ciò che vediamo in giro (la città è comunque zeppa di turisti), e ce ne andiamo a nanna.
05 OTTOBRE: PIGEON FORGE-GREAT SMOKY MOUNTAIN NP-WYTHEVILLE
Oggi ci svegliamo presto per essere in pista all’alba all’interno del parco, che dista poche miglia da qui.
Il Great Smoky NP si estende nel territorio appartenuto agli indiani Cherokee, a poche miglia dalla riserva dove attualmente vivono, e deve il suo nome al fatto che i nativi definivano queste montagne come “monti del fumo blu” per via di una particolare nebbiolina azzurra che si eleva dal terreno e copre alcune cime; anche oggi si percepisce, stantia nell’aria, questa nebbiolina che sicuramente offre una connotazione particolare alla luce e ai colori.
Esplorarlo è molto soddisfacente perché all’interno, numeri alla mano, si contano oltre 1500 specie di piante, 200 specie di uccelli e 60 di mammiferi, diversi rettili e anfibi tra cui alcune specie rarissime di salamandre giganti; al Sugarland Visitor center raccogliamo le informazioni sui trail che ci interessano e sui luoghi migliori da visitare e, sulla base dei consigli dei ranger (che ci prospettano una giornata molto affollata dai famosi maniaci delle foglie), decidiamo di percorrere prima la Laurel Creek Road, che porta al famoso loop di Cades Cove.
Lungo la strada si incontrano alcuni brevi trail, percorribili in poche decine di minuti, utili ad addentrarsi nella foresta e a sgranchirsi le gambe.
Effettivamente c’è una discreta folla sulla strada, tutti armati di teleobiettivi da agente segreto e pronti ad immortalare il magico momento della foglia che cade; nei pressi di Cades Cove la carreggiata diventa un loop a senso unico della lunghezza di circa 15 miglia, noto per essere una trappola senza via d’uscita da percorrere a passo d’uomo in perenne coda; anche oggi, senza la minima avvisaglia, la concentrazione di auto si moltiplica all’inverosimile e noi decidiamo in tutta fretta di non imbottigliarci senza avere più possibilità di ripensamento e ci fermiamo poco prima del loop per tornare indietro.
Pensateci bene prima di non poter più fare nulla, potrebbero essere necessarie anche 2 ore per chiudere il giro.
Ci dirigiamo quindi lungo la Little River Road e poi sulla HW 441 che attraversa da nord a sud il parco, per effettuare l’ascesa al Mount Le Cont, una delle vette più alte degli Appalachi.
L’ascesa è splendida, offrendo lungo il tragitto numerose viste mozzafiato che culminano in uno spettacolare 360° dalla vetta; salendo si apprezza la variazione di ecosistema, passando dalla foresta di latifoglie a quella di conifere che concede all’ambiente un’aria vagamente alpina, anche per la presenza di fiori tipici delle grandi altezze.
Si tratta comunque di un sentiero discretamente impegnativo, esteso nel percorso di A/R per circa 15 Km, ma senza particolari difficoltà tecniche, anche perché i pochi punti vagamente insidiosi sono ben attrezzati con corde fisse; l’intera escursione richiede circa 4 ore di tempo, muovendosi di buon passo.
Ritorniamo all’auto a metà pomeriggio e ci muoviamo verso l’uscita sud a Cherokee, capitale dell’omonima riserva indiana, località decisamente piacevole, ordinata e direi persino bella da visitare, cose non certo comuni nelle altre località indiane che abbiamo visitato in passato; da qui, attraverso l’IS 26 e 81 entriamo in Virginia, stato mitico, e tra le altre cose Terra Santa del Country e del Blue Grass, due generi musicali che permettono di entrare a fondo nelle radici culturali della gente del sud.
Praticamente ovunque, e in particolare nelle località a stretto ridosso della Blue Ridge Parkway, è possibile assistere a concerti, jam sessions, esibizioni libere all’interno di saloon, birrerie o all’aria aperta nel verde.
Una Mecca del Blue Grass è Galax, piccola cittadina sulla HW 221, dove ogni venerdì sera una radio locale organizza uno concerto pubblico che raduna tutti i Festus, Jessy e Bubba Joe della zona, con i loro cappelli da baseball ben schiacciati in testa; oggi è proprio venerdì, quindi cosa c’è di meglio che un bel po’ di musica in mezzo a trattori e bifolchi barbuti? That’s real America, altro che New York!
Alle ore piccole arriviamo a Wytheville per la nanna.
06 OTTOBRE: WYTHEVILLE-GEORGE WASHINGTON NATIONAL FOREST-CHARLOTTESVILLE
Da Wytheville ci spostiamo ad est sulla 81 fino all’incrocio con la 8, che prendiamo in direzione sud per allacciarci alla Blue Ridge Parkway, che oggi percorreremo per diverse miglia.
Lo scenario è incantevole perché il “foliage” inizia a prendere consistenza nel suo caleidoscopio di colori: proseguiamo per decine di miglia in una sorta di tunnel naturale costituito dall’incrociarsi dei rami, ammirandone colori e sfumature.
Lungo la strada, come già detto, vi sono diversi trail, overlook ed alcuni visitor center con tutte le informazioni necessarie; non vi sono però benzinai, né altri generi di negozi, pertanto occorre percorrerla già equipaggiati del necessario.
Arriviamo, tra mille immagini da cartolina, al Peaks of Otter, nella George Washington National Forest: il punto dove avevamo deciso di fermarci per percorrere un tratto dell’Appalachian Trail in direzione delle Terrapin Mountains.
Giunti nel posteggio notiamo immediatamente una frenetica animazione ed un numero sospettosamente alto di auto parcheggiate; in breve ne capiamo la ragione: in una radura a poche decine di metri dalla strada, circondata da decine di persone, è allestita la ricostruzione di un accampamento sudista con tanto di tende, soldati armati, trombettieri e cannoni.
Chiaramente ci interessiamo alla vicenda e scopriamo che oggi è prevista una cerimonia rievocativa di alcuni avvenimenti storici legati alla Guerra di Secessione: da queste parti non si scherza con l’orgoglio sudista, quindi evitiamo facili ironie e ci godiamo la rappresentazione che culmina con un assalto alla Johnson Farm, una fattoria della seconda metà dell’ottocento immersa nella foresta e ancora in ottime condizioni.
Esaurito il ripasso di storia, ci dedichiamo al moto percorrendo il trail che porta alla sommità dello Sharp Top e osservando perplessi l’ammasso di nuvole nerissime che stanno arrivando dalla West Virginia e che presto ci costringeranno a cambiare i nostri programmi.
Nel primo pomeriggio ripartiamo sulla Blue Ridge fino ad incontrare la IS 64 e da lì ci dirigiamo verso Charlottesville, meta della serata. Charlottesville è sede della Virginia University e, come tutte le città sedi di importanti atenei, acquista immediatamente un fascino e una bellezza inimmaginabili nella maggior parte delle medie città americane che si riducono, bene o male, ad una sequenza randomica di motel, fast food, centri commerciali e poco altro.
Nelle città universitarie invece si trova immediatamente una parvenza di logica urbanistica, un centro piacevole da visitare, marciapiedi e zone pedonali (merce rara altrove), giardini, aree verdi e costruzioni esteticamente apprezzabili.
È un piacere fare 4 passi in località simili, curiosando nel campus tra aule, chiostri e impianti sportivi da far invidia a San Siro; anche qui non si sfugge alla regola: l’università fu fondata da Thomas Jefferson nel 1819 e quindi presenta una bella alternanza tra edifici storici e moderne costruzioni iper-tecnologiche.
Anche il centro città, con la sua zona pedonale ricca di locali, permette una sana passeggiata con una buona birra.
07 OTTOBRE: CHARLOTTESVILLE-SHENANDOAH NP-HARRISONBURG
Le famose nuvole della West Virginia sono arrivate: il programma di oggi prevedeva proprio un’escursione in West Virginia alla scoperta della Monongahela Forest, ma il gelo e la pioggia semitorrenziale inducono a cambiamenti.
Ragioniamo sull’opportunità di fare una gita in giornata a Washington che dista un paio d’ore da qui, ma alla fine prevale la voglia di una giornata rilassante.
Cerchiamo quindi su internet un Recreation Center, che troviamo nella zona universitaria: per una manciata di dollari a testa abbiamo a disposizione una mega piscina, una palestra dotata di ogni attrezzo possibile, wellness center e idromassaggio. Con questo freddo è il massimo starsene un paio d’ore al calduccio nuotando e facendo qualche esercizio; come in altre circostanze, ci colpisce sempre (e ci fa anche un po’ incazzare per dire la verità) osservare il rapporto qualità-prezzo di molti servizi e paragonarlo a ciò a cui siamo abituati dalle nostre parti.
Per ingannare il tempo e consacrare la giornata al cazzeggio, nel pomeriggio decidiamo di spostarci verso Monticello, il “buen retiro” voluto e costruito da Thomas Jefferson per trascorrervi gli anni della vecchiaia. E’ l’unica residenza americana annoverata tra i beni Patrimonio dell’Umanità Unesco ed è sicuramente molto bella per i canoni a stelle e strisce; per noi, abituati alle regge italiane o europee, sicuramente appare più normale.
Lungo la strada che conduce alla villa ci sono diverse aziende vinicole e alcuni caratteristici locali ricavati in vecchi mulini in cui è possibile degustare dolcetti, vini e birre artigianali: non ci tiriamo indietro e assaggiamo un po’ di prodotti, nella maggior parte dei casi, devo dire, deliziosi.
Esaurite le libagioni, decidiamo di raggiungere Harrisonburg (sede della nanna) facendo un primo passaggio in auto nello Shenandoah National Park dove staremo domani; paghiamo l’ingresso alla South Entrance (che vale comunque una settimana) e ci avviamo all’interno del parco: il tempo è pessimo, il termometro dell’auto ci dice che siamo prossimi allo zero ed infatti la pioggia si tramuta in nevischio dando un tocco di fascino particolare alla foresta, ma certamente ci impedisce di avere una buona vista sul panorama circostante.
Senza troppi indugi arriviamo quindi ad Harrisonburg per la serata.
08 OTTOBRE: HARRISONBURG-SHENANDOAH NP-RICHMOND
Oggi il tempo sembra migliore, pur non essendo particolarmente bello: non piove e questo è fondamentale ma fa ancora molto freddo.
Lo Shenandoah NP è, numeri alla mano, il Parco più visitato degli Stati Uniti: ciò è dovuto principalmente alla sua vicinanza con le grandi città del nord est dove è concentrata buona parte della popolazione americana. Di fatto è una sottile striscia compressa e salvata dall’antropizzazione selvaggia di inizio novecento, che si estende da nord a sud per circa 110 miglia, con una larghezza massima che fatica a raggiungere le 10 miglia: guardandolo su una mappa geografica si vede chiaramente che si tratta di un vero e proprio corridoio ecologico in mezzo all’urbanizzazione e, pertanto, di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle specie animali.
Entriamo nel parco dalla HW 33, più o meno a metà e ci dirigiamo verso nord per arrivare al Byrd Visitor Center per la consueta raccolta di informazioni. Ovviamente non mancano le possibilità di trekking, anche impegnativi, lungo il parco: a parte l’immancabile Appalachian Trail, vi sono infatti decine di sentieri disponibili, da una lunghezza di poche centinaia di metri sino a svariate miglia.
La nostra scelta ricade su una serie di itinerari escursionistici tra i più gettonati del parco che partono attorno al miglio 45, nei pressi del Hawksbill Parking: da un lato l’ascesa al Hawskill Gap (la montagna più alta del parco) con la magnifica vista dalla cima, dall’altro il Cedar Run Trail che scende in una serie di gole costellate da bellissime cascate nella foresta.
L’ascesa al Hawskill Gap è tutto sommato semplice e non presenta alcuna difficoltà tecnica: si compie un loop di circa 5 Km attraverso le interconnessioni tra Hawksbill Trail, Salamander Trail e un pezzo di Appalachian Trail; sono comunque ben segnate e non c’è possibilità di sbagliare. La vista che si gode dalla cima è fantastica anche in una giornata uggiosa come questa e, se avete poco tempo a disposizione, vi consigliamo questo itinerario.
Il Cedar Run Trail è lungo e decisamente più impegnativo anche perché scende in picchiata in alcune gole all’inizio e risale ripido alla fine, con tutte le complicazioni in termini di fatica di un sentiero fatto “al contrario” (Grand Canyon docet): si estende per una decina di miglia costeggiando diversi corsi d’acqua e permettendo la vista di innumerevoli cascate, alcune anche imponenti, che sbucano quasi per incanto dalla fitta vegetazione.
Ovunque sono ben presenti evidenti tracce della presenza di orsi: numerose orme, tronchi d’albero grattati anche di recente, cavità create per il prossimo letargo; stiamo con gli occhi ben aperti per cogliere il minimo cenno di movimento ma questa volta, a differenza di altre, l’incontro con l’orso non c’è stato; peccato.
Noi, per aggiungere pepe al trail, sbagliamo pure strada e finiamo (ma questo lo scopriremo solo alla fine) sul Whiteoak Trail che ci porta, con un surplus sgradito di percorrenza, ad un posteggio ubicato circa 5 miglia oltre quello dove avevamo lasciato l’auto.
Francamente non sappiamo dove abbiamo sbagliato ma qui le interconnessioni con altri sentieri sono numerose e le indicazioni non sempre chiare, quindi può capitare. In ogni caso non abbiamo alternative: ci sorbiamo il rientro al posteggio giusto e arriviamo piuttosto stanchi all’auto.
Ora non rimane che una tirata in auto sino a Richmond: usciamo dal parco con la 522 verso Culpeper e da lì proseguiamo fino a riprendere l’IS 64 fino alla nostra destinazione; è tardi e siamo stanchi, non rimane che una cena veloce e la nanna.
09 OTTOBRE: RICHMOND-WILLIAMSBURG-GREAT DISMAL SWAMP-NORFOLK
Dopo una notte di sonno ristoratore si parte: on the road again per un’altra magnifica giornata.
Oggi, per prima cosa, faremo un’immersione nella storia, visitando il cosiddetto “Historic Triangle”, ovvero il triangolo formato dalle cittadine di Williamsburg, Jamestown e Yorktown, il “Birthplace of American Democracy”; per farla breve, nel 1607, arrivarono i primi coloni inglesi e sempre da queste parti accaddero molti degli avvenimenti che concorsero a creare le condizioni per la Guerra di Indipendenza; senza dimenticare la vicenda più nota, ovvero la storia di Pocahontas che qui conobbe John Smith e i coloni, introducendoli alle tribù dei nativi che vivevano nella zona e dando vita alle avventure ampiamente raccontate da film e cartoni animati. Insomma… non un luogo banale.
Da Richmond prendiamo la HW 5, una strada panoramica che attraversa alcune delle più grandi piantagioni e ville padronali degli Stati Uniti, appartenute ai latifondisti della Virginia: la maggior parte sono chiuse al pubblico ma, anche solo transitandoci, si può immaginare quale fosse l’aspetto nel periodo della schiavitù.
Giungiamo in circa un’ora al sito di Williamsburg: l’ingresso costa 38 $ e, devo ammettere, sono soldi ben spesi perché la ricostruzione della città è assolutamente fantastica e la presenza nelle strade di attori che interpretano personaggi dell’epoca rende il tutto molto realistico.
Con un briciolo di fantasia si può pensare di aver preso la macchina del tempo e di essere stati catapultati attorno al 1770: tutto si muove secondo ritmi e riti di quegli anni e nelle strade si viene avvicinati da fantomatici abitanti in costume che coinvolgono i presenti in questioni e dialoghi, oppure discutono tra loro su vicende di vita quotidiana; noi, quasi senza accorgercene, ci troviamo coinvolti in un’animata discussione tra un gruppo di teste calde che intendono assaltare il palazzo del governatore e vogliono coinvolgere la folla nel loro tentativo, e alcuni aristocratici che dissentono e vogliono farli desistere; una gentil nobildonna di passaggio mi chiede informazioni su questo trambusto e vedendomi propenso a sostenere la rivoluzione mi liquida in modo sdegnato cercando altri interlocutori; il tentativo di assalto finisce comunque nel nulla di fronte alla possibile rappresaglia dell’esercito di sua Maestà e ci dobbiamo disperdere nelle strade prima di finire arrestati e condotti ai lavori forzati.
L’effetto complessivo è decisamente coinvolgente e fatto con grande abilità e competenza, con attori professionisti e comparse, comunque ben calate in ruoli anche apparentemente insignificanti; nulla è lasciato al caso e non c’è niente di kitsch o forzato nelle rappresentazioni, quindi merita sicuramente una visita se passate da queste parti.
Noi ci dedichiamo una buona mezza giornata e, nel primo pomeriggio, ci spostiamo verso Suffolk con l’IS 26 e HW 58/460, per andare a visitare il Great Dismal Swamp Wildlife Refuge, punto di svolta naturalistico del nostro viaggio: da oggi ci lasciamo alle spalle montagne e foreste ed entriamo poco alla volta nel mondo del mare e delle paludi.
Il Dismal Swamp è un ottimo assaggio: situato a fianco delle Road 604 e 642 (non sono HW ma strade secondarie e pertanto è necessaria una mappa dettagliata per raggiungerlo), a pochi km dall’abitato di Suffolk, è un vero paradiso incontaminato e ben poco frequentato da turisti.
C’è comunque una Ranger Station aperta tutti i giorni dove raccogliere le informazioni necessarie sulle opportunità di visita; per prima cosa si può percorrere in auto un loop di circa 4 miglia che conduce alle sponde del Lago Drummond situato nel cuore della riserva: la strada è sterrata ma ben tenuta, e attraversa canali e paludi coperte di cipressi dove si possono avvistare facilmente molti volatili, anche di grandi dimensioni: varie specie di aironi, cormorani, ibis, pellicani e, nel nostro caso con un po’ di fortuna, anche bald eagle che pasteggiano a bordo strada con un procione.
Più tardi decidiamo di percorrere un tratto del “Lynn e Washington Ditch”, un sentiero che si estende per molte miglia all’interno della palude e che permette di camminare a fianco di canali e aree umide per cogliere ogni possibile presenza animale: anche nei giorni successivi rinforzeremo questa convinzione ma, già ora, possiamo dire che in generale il metodo migliore per avvistare animali è muoversi a piedi nei sentieri, evitando bici o altri mezzi a motore che, se da un lato fanno guadagnare in termini di rapidità e comodità, dall’altro riducono al minimo le possibilità di avvistamento.
Camminando si colgono sfumature che altrimenti si perderebbero e questo può fare un’enorme differenza; la passeggiata è piacevole e ci permette anche di osservare da vicino alcune tartarughe.
All’imbrunire usciamo dal parco e, sempre con HW 58/460, ce ne andiamo a Norfolk per la nanna.
10 OTTOBRE: NORFOLK-VIRGINIA BEACH-DURHAM-GREENVILLE
Di prima mattina ci muoviamo da Norfolk verso Virginia Beach con l’IS 264 che termina direttamente in prossimità delle spiagge: abbiamo infatti deciso di farci una bella passeggiata ed una corsa sul Boardwalk che si estende per oltre 5 miglia alle spalle della spiaggia.
Il contorno è molto accattivante: in questo luogo, che non ha bisogno di presentazioni e che costituisce una delle perle turistiche della Virginia, si può camminare sul lungomare o sulla sabbia bianchissima per diverse miglia, respirando l’aria dell’Atlantico in mezzo a delfini che sbucano dalle onde e a decine di surfisti che sono in attesa del momento giusto per buttarsi in acqua.
Nonostante sia presto, c’è già molta gente che si gode i primi caldi del mattino passeggiando o correndo, in un contesto tipico da località balneare di vacanza, niente male per rilassare corpo e mente.
Dopo una sana doccia ristoratrice al rientro in motel, approfittando del tardo check-out, ripartiamo da Norfolk alla volta di Durham, North Carolina: il programma di oggi prevede infatti una giornata da trascorrere in città con una passeggiata nell’enorme campus della Duke University, casa dei mitici Blue Devils, e con il concerto in serata degli ZZTOP, per la cronaca i miei idoli musicali.
Combinazione ha voluto infatti che stasera sia in programma al DPAC di Durham una data del loro Tour 2012 e, ovviamente, sarebbe stato assurdo non cogliere al volo una combinazione simile.
Piuttosto gasato per ciò che mi attende, guido senza soste sulla HW 58 fino a South Hill dove incrociamo l’IS 85 che ci porterà a destinazione in circa 3 ore di viaggio.
Durham, come altre città universitarie, è carina e facilmente visitabile: una parte della zona centrale è stata ricavata dal recupero urbanistico del Tobacco District, dove l’enorme fabbrica dismessa della Lucky Strike e tutti i relativi magazzini sono stati piacevolmente riadattati in zona pedonale con giardini, negozi e locali dove cenare o bere qualcosa; a poca distanza dal centro c’è Duke con i suoi enormi campus: i punti di interesse si trovano tutti nel West Campus, a partire dalla famosa Cattedrale Gotica e sino al Lemur Center, il più importante centro di studi al mondo sui lemuri al di fuori del Madagascar.
Passeggiare in un campus curiosando tra le strutture di queste mega università è sempre interessante: Duke poi è veramente bella, costruita interamente in stile vittoriano ricorda alcuni scorci della Londra ottocentesca, e questo via vai di centinaia di studenti provenienti da ogni angolo del pianeta rende impietoso il confronto con qualunque ateneo nostrano; e poi c’è la zona degli impianti sportivi, anche qui mastodontici ed intrisi di storia per gli appassionati: i Blue Devils di basket sono una delle franchigie storiche e più vincenti, qui allena coach K, ovvero Mike Krzyzewski, per molti semplicemente un’inestricabile sciogli-lingua ma in realtà uno degli allenatori più vincenti del basket USA, selezionatore tra l’altro del Dream Team NBA alle Olimpiadi di Pechino e Londra.
Tra un’incursione nelle serre del dipartimento di biologia e una visita al fan’s shop arriviamo di fronte al Cameron Indoor, il palazzetto che tante volte ho visto in TV trasformato in una bolgia dantesca e, con mia grande sorpresa, lo trovo aperto e senza che nessuno mi fermi arrivo fino a bordo campo e mi siedo in prima fila pensando a quello che succederà qua dentro tra pochi giorni… chissà se prima o poi capiterà l’occasione di esserci!
In men che non si dica volano un paio d’ore abbondanti e quindi è giunto il tempo di tornare in centro per il concerto: ceniamo in un localino al Tobacco District zeppo di gente che passeggia e cena all’aperto e, puntuali alle 19.30, ci presentiamo all’ingresso del DPAC.
L’inizio del concerto è fissato per le 20.30 e qui difficilmente si sgarra sugli orari: la sala è già piena mentre suona una band di supporto che scalda gli animi con del buon rock blues sudista; molti dei presenti non avrebbero granchè bisogno di essere scaldati perché l’euforia dilaga e alcuni degli spettatori valgono da soli il prezzo del biglietto.
Alle 20.30 time’s coming: eccoli! The little band from Tejas arriva puntuale e inizia lo spettacolo! Che dire? Immensi, favolosi e basta… 2 ore di show alternando i grandi classici con i brani dell’ultimo album, scenografia scarna e senza fronzoli ma tanta buona musica e carisma da vendere.
La conclusione è affidata alla superclassica combo La Grange-Tush e l’arena esplode, facendo ballare e cantare a perdifiato anche gli spettatori più compassati.
Con l’adrenalina che pompa ancora a mille ma senza aver abusato di birra usciamo dal DPAC e ci muoviamo verso Greenville, dribblando un paio di agguati dei Rosco locali (il nomignolo con cui abbiamo battezzato gli onnipresenti poliziotti che, in media dieci volte al giorno, vediamo inseguire e multare automobilisti indisciplinati); la sera infatti è l’orario preferito dai Rosco che si appostano nell’oscurità pronti a fermare chiunque: per questo ho evitato di omaggiare San Luppolo e, prudente come un neopatentato, guido a 25 miglia orarie verso l’IS ALT264 che ci porta a destinazione ben oltre la mezzanotte.
11 OTTOBRE: GREENVILLE-OUTER BANKS-WILMINGTON
Un po’ rintronati per l’ora tarda della sera precedente partiamo sulla IS 64 verso est, alla volta delle Outer Banks, le bellissime isole che si estendono in una sottile lingua di sabbia al largo delle coste della North Carolina fra il Pamlico Sound e l’Oceano Atlantico, da dove, tra le altre cose, spiccarono il volo i fratelli Wright nel 1903 scrivendo una pagina leggendaria di storia.
Si tratta di 3 isole lunghe e strettissime, che disegnano un litorale di oltre 100 miglia, formando lagune e canali incontaminati e selvaggi, collegate tra loro da ponti lunghissimi e da traghetti, ed attraversate da una sola strada tortuosa (HW12), considerata uno degli itinerari automobilistici più affascinanti degli interi Stati Uniti.
La 64 giunge fino a Manteo, ultimo avamposto di terraferma prima di attraversare il mare, e sede di un attrezzato visitor center: il nostro itinerario prevede di svoltare verso sud sull’Hatteras Island, tralasciando la Bodie Island a nord, cosa che facciamo percorrendo un ponte impressionante di svariati km che ci costringe anche ad una sosta, aprendosi per permettere il passaggio di una chiatta.
Hatteras è sede di alcuni parchi naturali di estrema bellezza come il Pea Island Wildlife Refuge, dove è possibile fare passeggiate immersi nella natura, o semplicemente accedere alla spiaggia per godersi il paesaggio camminando sul battigia.
Anche il semplice itinerario automobilistico è, come detto, incredibile: immaginate una striscia di asfalto che si dipana tortuosa nell’isola avendo a fianco, da entrambi i lati, solo sabbia bianchissima e mare a perdita d’occhio: chissà cosa deve succedere qui in caso di tempeste o uragani, ma credo che non sia piacevole trovarsi sulla propria auto in mezzo a mareggiate che provengono da ogni direzione possibile senza via di fuga.
Sull’isola ci sono alcuni villaggi di pescatori, molto caratteristici e tutto sommato “genuini”, dove le pescherie e le tavole calde che servono gamberi e granchi la fanno da padrone.
Verso mezzogiorno arriviamo ad Hatteras, paesino all’estremo sud dell’isola, da dove parte il ferry gratuito (e non prenotabile) che collega l’isola con Ocracoke Island: il nostro programma prevede infatti di visitare anche questa terza isola e poi, da Ocracoke, prendere il ferry a pagamento (e prenotabile) che in circa 2 ore e mezzo conduce sulla terraferma a Cedar Island; abbiamo prenotato on-line questo secondo traghetto per evitare di percorrere tutte le isole con il rischio di non trovare posto e dover tornare indietro fino a Manteo (mappa stradale alla mano sarebbe stata una tragedia) e questo si rivelerà di fondamentale importanza anche per il primo traghetto.
Infatti, nonostante la bassa stagione (o presunta tale), ma visto il ridotto numero di corse, al porto c’è una coda pazzesca: si vocifera di almeno 2/3 ore di attesa ed infatti molte auto desistono e ritornano indietro; sorpreso ma non demoralizzato, metto su la miglior faccia da turista affranto e disperato e mi reco all’ufficio informazioni con la nostra prenotazione per il traghetto successivo, chiedendo aiuto per non arrivare tardi: l’addetto si prende a cuore la mia crisi esistenziale e mi permette di scavalcare buona parte della coda imbarcandomi sul primo traghetto utile dopo meno di un’ora… grande!
A parte gli scherzi, è ovvio che se intendete muovervi verso sud è fondamentale avere già prenotato l’ultimo traghetto per poter usufruire di questa specie di lasciapassare anche nel primo collegamento, altrimenti il rischio di arrivare tardi e perdere il ferry per Cedar Island è reale.
Ocracoke è molto piccola (lunga circa 20 km) ed è praticamente disabitata, a parte l’omonimo villaggio all’estremità sud: dalla strada si accede in diversi punti alla spiaggia deserta, dove si può passeggiare in compagnia di innumerevoli gabbiani, pellicani, qualche pescatore sonnolento in attesa della preda giusta e… pony mustang selvaggi che cavalcano sulla sabbia; sono una delle immagini tipiche da cartolina delle Outer Banks, questi magnifici esemplari che si muovono liberamente sull’isola.
Dopo una bella camminata arriviamo nell’abitato di Ocracoke, dove inganniamo l’attesa per il traghetto sorseggiando una buona birra in un localino di pescatori sul mare e scrutando l’orizzonte e le insenature.
Di fronte a queste case ebbe fine la leggenda di Edward Teach, meglio noto come Pirata Barbanera, che qui morì nel 1718 dopo aver terrorizzato per anni le coste atlantiche, ucciso in battaglia dalle navi britanniche del tenente Maynard; la nave di Barbanera fu affondata e ancora giace nei fondali di Ocracoke con i suoi misteri mentre Maynard è ricordato con un monumento sul lungomare, essendo il vero eroe locale di queste parti.
Alle 16.30, puntuale, parte il traghetto per Cedar Island che arriva a destinazione attorno alle 19.00; non ci rimane altro che muoverci verso Wilmington, sede della nanna, dove arriviamo in un paio d’ore abbondanti.
12 OTTOBRE: WILMINGTON-MYRTLE BEACH-JACKSONVILLE
La giornata di oggi è soprattutto di trasferimento verso sud e ci riserverà una dose massiccia di miglia da percorrere.
Avevamo in programma un’escursione al Fort Pulasky National Monument nei pressi di Savannah, su cui avevamo raccolto informazioni interessanti, ma il traffico mostruoso e diversi lavori in corso veramente demenziali ci hanno costretto a stop e code interminabili, sballando la nostra tabella di marcia.
Partiamo da Wilmington senza dedicare molte attenzioni alla città e, passando dal mitico Cape Fear (per fortuna non c’è traccia di Robert De Niro), raggiungiamo Myrtle Beach in South Carolina: abbiamo ancora voglia di mare e spiagge bianche incontaminate, e decidiamo di approfittare del caldo e del sole, mischiandoci alle numerose persone che si godono la bella giornata.
Nella tarda mattinata ripartiamo sulla HW 17 verso sud e subito ci troviamo cooptati in un grumo di auto materializzatesi apparentemente dal nulla: veramente impressionante, in pochi minuti passiamo dal placido lungomare ad un ingorgo metropolitano di prima categoria.
Strada facendo, le cose non migliorano anche a causa dei soliti, interminabili, demenziali road works made in USA; giuro che non mi lamenterò mai più delle corsie chiuse nelle nostre autostrade: qui la lunghezza minima dei lavori deve essere almeno di qualche miglia (se supera le 10 miglia è meglio…) e tra buche, zigzag, carreggiate degne della Parigi-Dakar, sensi unici alternati e altre amenità avanziamo ad una media da lumaca. Mentre sono fermo all’ennesimo stop butto l’occhio sulle decine di auto che mi precedono e provo le stesse sensazioni di Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia”, ma provo a resistere alla tentazione di scendere e proseguire a piedi.
L’unica soluzione è raggiungere al più presto l’IS 95, lasciando la costa e spostandoci nell’entroterra: studiamo un itinerario che sembra sufficientemente lontano da città e paesi e imbocchiamo una serie di strade secondarie nel cuore della South Carolina; in effetti il traffico si riduce ai minimi termini anche se, uno stop in piena campagna per lasciar passare un corteo funebre, rischia di essere la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Non so se questo sia il normale traffico di queste parti, ma di sicuro muoversi qui al di fuori delle Interstate richiede tempi sensibilmente più alti che altrove.
La tabella di marcia è ormai completamente andata, siamo in clamoroso ritardo, e pertanto non ci resta che tirare dritto sino a Jacksonville per la nanna.
13 OTTOBRE: JACKSONVILLE-MERRITT ISLAND WILDLIFE REFUGE- PALM BEACH- MIAMI
Siamo in Florida ed oggi arriveremo a Miami; non che le metropoli ci interessino particolarmente, preferiamo sicuramente stare immersi nella natura, ma un giretto in città lo faremo volentieri.
Partiamo sull’IS 95 verso sud, fino a Titusville, da dove si accede al Merritt Island Wildlife Refuge, la prima meta della giornata; il parco (ingresso 5 $) si estende su una striscia di terreno paludoso compreso fra l’Oceano Atlantico e l’Indian River ed è visitabile tramite un loop da percorrere in macchina della lunghezza di 7 miglia, e con un sentiero di 5 miglia che parte dal loop automobilistico.
L’itinerario è corredato di diversi punti di sosta sulla laguna, con torri e piattaforme dotate di cannocchiali per osservare la presenza di wildlife: come in ogni zona paludosa si avvistano facilmente numerosi volatili, da minuscoli pivieri ad enormi ibis, aironi e cicogne, che si spostano sul pelo dell’acqua o si alzano in volo al minimo cenno di disturbo.
Il Trail parte dal punto di sosta numero 9 ed è chiaramente segnalato: permette un giro a piedi nelle zone più remote della riserva, a stretto contatto con laghetti, canali e risacche che pullulano di tartarughe e alligatori: oggi avvistiamo infatti il primo alligatore, a pochi metri dal sentiero, che sonnecchia sul bagnasciuga, mentre numerosi altri si muovono a pelo dell’acqua rendendosi quasi invisibili; sullo sfondo si ammira invece la piattaforma di lancio di Cape Canaveral da cui sono partite molte spedizioni dello Shuttle, che crea un accattivante connubio tra la natura selvaggia e tecnologia e progresso: alligatori e bald eagle da un lato e navicelle spaziali Nasa dall’altro, non si può dire che manchi il contrasto, anche se oggi tutto sembra perfettamente integrato.
Nel pomeriggio ripartiamo alla volta di Miami concedendoci un primo assaggio di mondanità a Palm Beach: devo dire nulla di eccezionale, a parte il boardwalk che collega Downtown con West Palm Beach.
Arriviamo così a Miami, in tempo per sistemarci a Daina Beach nella zona nord della città, e per prendere il primo contatto con vizi e virtù della World City.
14 OTTOBRE: MIAMI
Oggi trascorreremo l’intera giornata in città, con appuntamento principale al SunLife Stadium per assistere alla partita di football NFL tra Miami Dolphins e St.Louis Rams.
Ci svegliamo con calma e decidiamo di fare una passeggiata e una corsa sul lungomare che collega Daina Beach ad Hollywood: il boardwalk costeggia la spiaggia per diverse miglia ed è raggiungibile con comode passerelle dalla A1A, la strada parallela al mare. Nonostante le dimensioni, anche Miami, come la maggior parte delle città americane è molto semplice da girare in virtù del reticolo fitto di strade parallele che l’attraversano da nord a sud e da est ad ovest; l’unica incognita è il traffico ma oggi è domenica e sembra che non ci sia nessuno in giro.
Sul lungomare ci mischiamo in mezzo a centinaia di runners, in pista per la corsa mattutina e agghindati di tutto punto da atleti professionisti: vedere frotte di fisici atletici correre e fare addominali sulla spiaggia è certamente uno spettacolo insolito in un paese dove nella maggior parte dei luoghi non esistono nemmeno marciapiedi e se decidi di camminare per strada vieni guardato con compassione come un povero demente, ma qui siamo in una specie di zona franca che vive secondo regole sue.
Dopo una buona doccia, in tarda mattinata, andiamo verso lo stadio: vogliamo goderci al massimo il clima e l’ambiente fin dalle prime ore, visto che la giornata della partita è una vera festa che inizia presto e finisce tardi, andando ben oltre l’evento agonistico.
Attorno al Sun Life ci sono già un sacco di famiglie e tifosi, ciascuno con il proprio gazebo e il proprio barbecue professionale pronto all’uso; si stanno preparando al rito della grigliata domenicale, vera icona dell’americano medio: nell’aria si spande aroma di salciccia e salsa barbecue, e dalle magliette, regolarmente marchiate Dolphins, emergono panze di primo rispetto; ma allora anche a Miami ci sono i ciccioni… solo che vanno tutti alla partita!
Si respira un’aria di festa e tutti sono pronti a divertirsi grazie anche ai diversi stand collocati appena fuori dallo stadio: giochi a premi per tifosi, simulazioni di partite su minicampetti, memorabilia varie e persino un concerto rock di buon livello, tutto gratuito, insomma… praticamente quello che abbiamo ogni domenica in un normale stadio di calcio italiano. E poi si domandano perché gli stadi sono sempre più vuoti… mah!
Decidiamo di giocare alla Ruota della Fortuna sponsorizzata dalla Ford dove, come nel famoso quiz televisivo, si gira una ruota e si vince il premio designato nello spicchio su cui cade la freccia; ovviamente gli spicchi sono molti e sottili, e contengono premi del tutto simbolici tranne uno, il più sottile di tutti, che dà diritto ad un pass per la Vip Lounge e per accedere a bordo campo a vedere la partita.
È superfluo dire cosa sperino tutti i presenti, ma nessuno vince, tant’è che noi, da buoni italiani, iniziamo a pensare che ci sia il trucchetto; tocca a me e confermo la regola: vinco un burro-cacao marchiato Ford, tocca a Nadia e vince… il Pass!
Squillano le trombe, high five a destra e sinistra con tanto di foto ricordo e, in pochi minuti, stringiamo in mano il pass per accedere a bordo campo! Veniamo accolti nella Lounge con tutti gli onori dedicati ai vincitori e la cosa ci imbarazza un po’ ma chissenefrega! In mezzo a personaggi vestiti come ad una sfilata di moda ci godiamo i benefici dell’open bar e del catering veramente squisito, e respiriamo un po’ l’aria da Vip: nell’atmosfera soffusa, con dj annesso, si possono vedere nella stanza attigua, attraverso una parete in vetro, le ultime prove delle cheerleaders (anche l’occhio vuole la sua parte eh).
Ma, scherzi a parte, il vero spettacolo del Pass sta nel poter stare a bordo campo, letteralmente a 30 cm dalla linea laterale, a vedere la partita: un’esperienza che non avevo mai vissuto e che difficilmente ricapiterà, veramente emozionante ed intensa, arricchita dal dialogo continuo con i giocatori della panchina dei Dolphins che periodicamente interagiscono con i tifosi a bordo campo. Ora mi spiego perché nelle partite in TV si vede sempre tanta gente sulla linea laterale a fianco delle panchine: grazie Ford!
I Rams fanno l’impossibile per perdere e alla fine ci riescono: Miami vince 17-14 tra il tripudio generale.
A partita finita il problema principale è ritrovare l’auto nel dedalo di posteggi enormi ed identici che circonda lo stadio ed evitare di trascorrere le prossime 5 ore in coda per rientrare in città: tutto fila liscio e, in pochissimo tempo, ci ritroviamo a Miami Beach per trascorrere il resto della giornata su una delle spiagge più famose del mondo.
15 OTTOBRE: MIAMI-FLORIDA KEYS-CUTLER BAY
Oggi sveglia all’alba per spostarci nelle Keys, le isole all’estremità meridionale della Florida che terminano nel pieno del Golfo del Messico con la punta di Key West. Si tratta di località che non hanno bisogno di presentazioni, quindi non mi dilungherò in dettagli che probabilmente vi saranno già noti.
L’uscita da Miami è decisamente più complicata di ieri: traffico da ora di punta e temporali intensi ci imbottigliano in code molteplici, rendendo vano ogni tentativo di individuare strade alternative: ci spostiamo su più itinerari paralleli ma, prima o poi, si arriva puntualmente all’ingorgo con il blocco totale della circolazione. Ah, che nostalgia delle foreste della Virginia dove la musica era ben diversa e le auto rare.
Dopo diverse peripezie ci agganciamo all’HW 1, unica strada che attraversa le Keys, e ci dirigiamo verso Key Largo che rappresenta il primo punto di riferimento delle isole.
Una volta fuori dalla città si riesce a viaggiare meglio, anche se il traffico rimane sostenuto per tutta la giornata: siamo in teorica bassa stagione e le Keys sono comunque molto affollate, a dicembre qui deve essere un carnaio… tenetene conto per i vostri programmi e per i tempi di spostamento.
Key Largo è il punto ideale per raccogliere informazioni sulle possibili attività da fare nelle isole ed è il luogo di partenza principale per fare snorkeling nel John Pennekamp Coral Reef, una delle attrazioni principali delle Keys.
Noi proseguiamo oltre godendoci un itinerario spettacolare, tra isolette e ponti chilometrici che danno la possibilità di spaziare sul mare e sul paesaggio circostante; per molti versi ricorda l’HW 12 delle Outer Banks, ovviamente il paesaggio è diverso per via del clima tropicale, ma i punti di contatto sono diversi: isole lunghe e strette, piccoli villaggi qua e là, spiagge incontaminate e mare a perdita d’occhio.
Senza fretta, fermandoci qua e là per qualche foto, arriviamo al Bahia Honda State Park, nel tratto tra Marathon e Big Pine, che contiene una delle spiagge più note delle Keys, a cui si accede pagando un ingresso di 8 $: siamo nel primo pomeriggio e c’è bassa marea, il momento ideale per un tuffo nell’acqua cristallina e fresca, osservando lo scenario caraibico che ci circonda: palme, cipressi, sabbia bianca e mare azzurro, gli ingredienti giusti per qualche ora di relax in spiaggia.
Pochi km dopo, in direzione Key West, c’è anche l’interessante Key Deer Refuge, oasi naturalistica incontaminata, dove vive una specie particolare di deer nano, a rischio di estinzione, e che qui viene protetto nel tentativo di ripopolare il parco.
Decidiamo di fare una passeggiata ma fa comunque un caldo pazzesco e il sole è ustionante, dopo qualche ora all’aperto sentiamo la necessità di tornare indietro verso Cutler Ridge, nella Biscayne Bay sul lato sud di Miami, dove ci attende una stanza fresca e confortevole per la nanna.
16 OTTOBRE CUTLER BAY – EVERGLADES NP- BRADENTON
Oggi full immersion di paludi nell’Everglades National Park: le aspettative sono molte perché si tratta di una vastissima area paludosa, totalmente disabitata, ma ricca di flora e fauna uniche al mondo.
Ci sono due possibili ingressi (10 $ il costo del permesso) nel parco: uno dal lato sud (meno turistico e più selvaggio) attraverso la Flamingo Road 9336, e uno dal lato nord attraverso il gate posto lungo l’HW 41; noi dedicheremo la mattinata al lato sud e il pomeriggio al lato nord.
Alle 8, puntuali, entriamo dal Coe Visitor Center (apre alle 9 ma noi abbiamo già sufficienti informazioni per muoverci in autonomia) per andare al Royal Palm Nature center, da dove partono due brevi ma interessanti trail che serviranno per scaldare cuore e gambe e prendere confidenza con pregi e insidie delle paludi.
Iniziamo con il botto: in pochi minuti avvistiamo aironi, ibis, tartarughe e 2 enormi alligatori a pochi metri dal sentiero… se il buongiorno si vede dal mattino sarà una splendida giornata.
Mentre torniamo all’auto vedo una splendida tartaruga sul ciglio e mi fermo ad osservarla, senza accorgermi di essere in pochi secondi ricoperto da decine di formiche rosse veramente incazzose, che mi costringono a sbattere i piedi e a fuggire velocemente prima che la situazione precipiti.
E qui tocca aprire il capitolo insetti: tutti vi diranno che i pericoli maggiori delle Everglades sono costituiti da alligatori e serpenti, il che è sicuramente vero, ma se ne facciamo una questione di fastidio e frequenza di incontri bisogna ammettere che formiche rosse e soprattutto zanzare sono una vera iattura; è assolutamente obbligatorio avere vestiti lunghi (almeno in questa parte sud, al gate nord molto meno) ed abbondante repellente da spruzzare a volontà.
Dopo questo primo assaggio dei famosi “pregi ed insidie”, ci muoviamo verso l’estremità sud del parco, in direzione della località di Flamingo: l’obiettivo è percorrere due trail interconnessi tra loro, che si inoltrano nelle paludi poco oltre il West Lake, lo Snake Bight trail e il Rowdy Bend trail.
L’itinerario si mostra subito molto affascinante ma ostico: la stagione non è ancora completamente secca e quindi lo spazio per muoversi nella foresta di cipressi è poco e non sempre facilmente individuabile; ci muoviamo su una sottile striscia di terra, ricoperta di vegetazione, in mezzo a specchi d’acqua a perdita d’occhio.
In una mezzora circa avvistiamo 3 cottonmouth che sbucano fuori dalle foglie davanti ai nostri piedi e si tuffano in acqua, e sulle pozze compare ogni tanto qualche increspatura sospetta che fa presagire la presenza di alligatori; decidiamo quindi di tornare indietro perché il gioco si sta facendo troppo duro anche per noi: la traccia è difficile da individuare, le zanzare sono miliardi e fameliche, e attorno a noi zompettano allegramente serpenti e alligatori, insomma non gli ingredienti ideali per una piacevole escursione.
Non so se in alta stagione il sentiero sia più pulito e quindi meno infestato, ma oggi è sicuramente troppo complesso andare oltre.
Ritorniamo all’auto inseguiti da una nuvola di zanzare che fatichiamo a tener fuori dall’abitacolo e decidiamo di spostarci all’ingresso nord; ripercorriamo la 9336 fino all’incrocio con la 997, e da lì verso nord sino all’HW 41 su cui si trova il gate per lo Shark Valley Visitor Center: per percorrere il tragitto tra i due ingressi contate all’incirca un’ora e mezza.
Come detto, la parte nord è decisamente più turistica e frequentata: lungo l’HW 41 vi sono numerose Tour Agency che offrono escursioni in air boat o in canoa, gift shop, locali e ristoranti; da Shark Valley si dipana un loop di circa 20 miglia che si inoltra nelle paludi, percorribile su un trenino a pagamento che parte ad intervalli regolari dal Visitor Center, in bici (noleggiabili sempre al Visitor Center) o, in parte, a piedi.
L’offerta è varia e si adatta ad ogni esigenza ma anche qui vale il solito ragionamento: il trenino sarà anche comodo ma riduce al minimo le possibilità di avvistare wildlife.
Nel nostro itinerario a piedi vediamo diversi volatili e alcuni alligatori, uno in particolare fermo in mezzo alla strada con la bocca aperta nella tipica postura da fotografia che ci permette alcuni scatti memorabili a pochissimi metri di distanza.
A metà pomeriggio riprendiamo l’HW 41, direzione Naples, e lungo la strada ci fermiamo alla Big Cypress National Preserve, gemella meno nota delle Everglades ma ugualmente (se non più) interessante e varia. All’Oasis Visitor Center ci danno un quadro esaustivo delle possibili attività, considerato che una parte della riserva è, al momento, sotto il pelo dell’acqua e quindi impraticabile.
Ci sono comunque diverse opportunità, tutte facilmente raggiungibili dalla 41 e ben segnalate: strade sterrate da percorrere in auto o brevi sentieri che conducono a punti di particolare bellezza, tra i quali segnaliamo le tracce che partono da Kirby Storter e il Big Cypress Bend, brevi itinerari attrezzati su passerelle di legno, di grande impatto visivo.
In quest’area vivono gli ultimi esemplari di pantera della Florida (circa 100) che sono ovviamente difficilissimi da avvistare e, infatti, non ci sottraiamo al gioco delle probabilità; oltre agli immancabili alligatori (ormai è diventata quasi un’abitudine), ci imbattiamo in un grosso testa di rame che si scalda sulle assi di legno… è proprio vero, da queste parti bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
Esaurite le visite, ripartiamo alla volta di Bradenton, città dove faremo la nanna, proseguendo sulla HW 41 fino a Naples e poi con l’IS 75 verso nord.
17 OTTOBRE: BRADENTON-TALLAHASSEE
Oggi, dopo alcune giornate intense e zeppe di emozioni, sarà una giornata soprattutto di trasferimento e scarico, senza particolari impegni e con un paio di imprevisti fantozziani.
Ci alziamo con calma e imbocchiamo l’IS 75 verso nord, transitando da Tampa, fino a Inverness dove abbiamo in programma una visita alla Withlacoochee National Forest, a cui si accede (secondo le nostre informazioni e secondo le mappe) dall’HW 44.
Arrivati sul posto, cerchiamo l’ingresso ma… non lo troviamo! Nonostante ripetuti passaggi sul “luogo del delitto” non riusciamo a scovare questo benedetto accesso e, non avendo possibilità di chiedere informazioni a nessuno, lasciamo perdere e ritorniamo perplessi sulla nostra rotta.
Dalla 75 ci immettiamo sull’IS 10 verso Tallahassee, dove arriviamo non prima di aver concesso il bis del “Disperso tra i boschi”: per consolarci della battuta a vuoto precedente, decidiamo infatti di fare un passaggio dal St. Marks Refuge, parco naturale sull’Apalachee Bay, nei pressi della cittadina di St. Marks.
Questa volta pare impossibile perdersi, c’è una sola strada che conduce fino là: usciamo fiduciosi dall’IS 10 e prendiamo la 257 verso sud; man mano che ci avviciniamo alla costa, inoltrandoci nelle paludi, perdiamo contatto con qualunque forma di civiltà e la strada diventa sempre più stretta e brutta: l’asfalto è ormai una serie randomica di buche e rattoppi ed ai lati compaiono preoccupanti voragini.
Mentre ci chiediamo dove diavolo stiamo finendo, avvistiamo all’orizzonte un’enorme nuvola di polvere da cui emerge a circa 70 miglia orarie un camion che per un pelo non ci travolge: azz, superfluo dire che di lì a poco la carreggiata diventa sterrata e fangosa, non l’ideale per la nostra Malibù e quindi ci tocca tornare indietro per la seconda volta nella giornata.
A questo punto non rimane che andare zitti e buoni a Tallahassee e sperare in un domani migliore, cosa che facciamo rapidamente.
Tallahassee, in realtà, è una città piacevole e ha tutte le solite caratteristiche di un centro universitario (è sede dei Seminoles della Florida State Un), dando la possibilità di fare belle passeggiate sia nel centro storico che lungo una rete di piste ciclabili che partono dalla periferia sud e si inoltrano nella Apalachicola Forest; come scherzo del destino c’è ne anche una che, dalla HW 319, raggiunge St. Marks, ricavata sulla traccia di una vecchia ferrovia dismessa (St. Marks Historic Railroad); è affollata di ciclisti e pedoni, niente male per fare una corsa, concludere la giornata ed archiviare gli intoppi.
18 OTTOBRE: TALLAHASSEE – PENSACOLA BEACH – MOBILE
Partiamo alla volta di Pensacola, località turistica del nord della Florida, al confine con l’Alabama, nota per le sue spiagge e insenature che danno vita al Gulf Island National Seashore.
Il viaggio sulla 10 è reso molto complicato da un nubifragio pazzesco che ci costringe a guidare a vista (al Visitor Center di Pensacola scopriremo che si è trattato di un tornado, tutto sommato meglio averlo saputo dopo): procediamo a 30-40 miglia orarie travolti da secchiate d’acqua e da folate di vento come non mi era mai capitato ed arriviamo a destinazione sotto un cielo nerissimo, ma che lascia intravedere l’arrivo del sereno.
Le spiagge di Pensacola si raggiungono con un toll-bridge (costo 1$) che consente l’accesso alla lingua di terra su cui si estendono montagne di sabbia bianca e incredibilmente soffice e le insenature selvagge del Gulf Island.
Prima di farci una bella passeggiata sulla spiaggia, tra i molti surfisti che sfruttano la giornata ventosa, decidiamo di cedere alle delizie del palato andando ad assaggiare granchi in un ristorantino sulla piazzetta di Pensacola Beach: ora, senza enfatizzare, ma per 9.99 $ ci arriva un mega piatto di deliziosi granchi interi (una decina abbondante, di buone dimensioni), con patatine, insalata di cavolo e salse varie; parliamo di 7 euro, il prezzo a cui da noi si mangia una pizza Margherita… meglio non andare oltre su questo discorso.
Soddisfatti della buona transazione effettuata, andiamo in spiaggia a goderci il sole che nel frattempo ha vinto la sua battaglia sulle nuvole, e trascorriamo un paio d’ore di relax prima di ripartire.
Per chiudere la giornata manca un appuntamento mondano: la visita ad un enorme Tanger outlet che si trova lungo il nostro tragitto, a Foley in Alabama; attraversiamo la Perdido Bay che segna il confine tra i due stati sulla HW 98 e arriviamo alla meta in poco tempo: l’outlet si trova comodamente a lato della HW 59 nei pressi di Foley e, come sempre, è ricco di affari imperdibili a cui anche per noi, che non siamo dei maniaci dello shopping, risulta impossibile non cedere.
Esaurite le spese, andiamo a Mobile, città deputata alla nanna, dove ci concediamo una cena a base di carne al Longhorn, un locale che avevamo visto nella sit TV “Man VS Food”, la serie che propone in ogni puntata l’eterna sfida tra l’uomo (il conduttore che gira ristoranti e locali negli USA) e il cibo (rappresentato da porzioni giganti di ogni ben di Dio che di volta in volta deve mangiare): la puntata di Mobile si svolgeva proprio qui ed in effetti la cena è abbondante e deliziosa: questa sera nella sfida tra uomo e cibo ha vinto… l’uomo!!
19 OTTOBRE: MOBILE – NEW ORLEANS
Oggi è il giorno della Big Easy! Contiamo di arrivare in tarda mattinata a New Orleans per girare con calma il French Quarter e vivere l’ebbrezza del venerdì sera.
L’ingresso in New Orleans è semplice perchè il dedalo di Interstate è funzionale ad arrivare comodamente nella downtown senza dover percorrere troppe strade in città.
Posteggiamo ai margini del French Quarter ed in pochi minuti siamo nel cuore pulsante della Big Easy: il quartiere francese è prima di tutto un gioiello di architettura settecentesca perfettamente mantenuta e conservata, con una rete di strade perpendicolari facilmente visitabili senza perdere l’orientamento.
Le piccole palazzine di 2-3 piani ricordano scenari più tipici della Costa Azzurra che del sud est americano e fanno da netto contrasto con i grattacieli e i centri commerciali che pulsano sullo sfondo lungo Canal Street.
La maniera migliore per visitarlo è vagabondare senza una meta precisa tra una strada e l’altra, sia andando a scoprire i luoghi più famosi e frequentati, sia passando dalle vie secondarie dove si incontra poca gente, non c’è il fracasso di Bourbon Street ma qua e là si annidano piccoli negozi dalle bellezze sorprendenti.
Entriamo nel French Market, un mercato coperto dove si può trovare un po’ di tutto, incluse teste di alligatore imbalsamate, e gironzoliamo fra le bancherelle gustandoci l’esposizione e ascoltando un gruppo blue grass che suona in uno spiazzo tra i venditori: a proposito di “gustare”, prima di uscire dal mercato non resistiamo alla tentazione di comprare della carne di alligatore affumicata che ci papperemo più tardi (per la cronaca… niente male) anche per ribadire chi è veramente in cima alla catena alimentare.
Passiamo dalla splendida Jackson Square con la Cattedrale di St. Louis, dirigendoci sul boardwalk che costeggia il Mississippi, fino a raggiungere l’area di sosta del famoso barcone a pale Natchez: nell’ottocento era usato come casa da gioco galleggiante per sfuggire alle leggi della terraferma, ed oggi è un’attrazione per turisti (a prezzi folli).
Con l’arrivare della sera ci portiamo su Bourbon Street, il cuore “festaiolo” del quartiere: se nelle vie laterali ci si perde tra botteghe storiche, gallerie d’arte e negozi voodoo con altari votivi al Baron Samedi (ce n’è uno in St. Peter Street veramente inquietante che merita una visita), qui invece si pensa solo a ballare, suonare, cantare: la folla, supportata da abbondanti dosi di luppolo e suoi derivati, intende godersi al massimo la giornata.
È un susseguirsi interminabile di locali da dove fuoriescono note e musiche che si mischiano in ritmi allegri e travolgenti: sui marciapiedi si esibiscono numerosi musicisti e artisti di strada, alcuni dei quali geniali nelle loro performance: noi rimaniamo a bocca aperta di fronte ad un tizio che interpreta i Transformers e che, di punto in bianco, si trasforma in una macchinina e se ne va… roba impossibile da descrivere efficacemente a parole ma incredibile da vedere.
Le ore passano velocemente tra musica e festa ed è giunto il momento di tornarcene al motel per la nanna, domani ci attende una giornata intensa nel Bayou e non vogliamo esagerare, ma certo ci porteremo a casa un ricordo speciale di questa bellissima città.
20 OTTOBRE NEW ORLEANS- BAYOU-BARATARIA PRESERVE-LAFAYETTE
Oggi è una delle giornate che attendevo con maggior curiosità perché abbiamo in programma di esplorare il Bayou, ovvero l’immenso dedalo di canali e paludi che si estende nell’estremo meridionale della Louisiana. Il termine Bayou è un derivato francese di una parola usata dai nativi Choctaw e rappresenta l’insieme dei lenti canali che scorrono verso l’oceano e delle sottili lingue di terra umida e fangosa che spuntano tra un canale e l’altro.
Si tratta di vere e proprie strade d’acqua delimitate e direzionate dalle terre emerse, su cui crescono enormi cipressi, mangrovie ed altri alberi imponenti: il colpo d’occhio è quindi diverso rispetto alle Everglades, che hanno più l’aspetto di un immenso acquitrino ricco di arbusti, lilium e papiri; qui invece ci si muove in una sorta di foresta impenetrabile che rende l’ambiente molto affascinante.
Il primo appuntamento è a La Place, dove abbiamo prenotato un’escursione in barca; nei giorni scorsi abbiamo cercato di contattare telefonicamente il figlio della mitica Annie Miller (Alligator Annie), una delle più note guide del Bayou, ma purtroppo non ci ha risposto ed abbiamo quindi optato per un’altra soluzione, che comunque si rivelerà ottima.
Il giro in barca è semplicemente straordinario: in un paio d’ore di vagabondaggio tra i canali avvistiamo decine di alligatori, tartarughe (tra cui alcuni esemplari enormi di tartarughe alligatore) e diversi procioni e armadilli sulla terra ferma, il tutto circondato da un paesaggio incantevole.
Tra le piante si intravedono qua e là alcune baracche, ultimi avamposti di presenza umana nella palude: sembra impossibile, ma ci sono uomini che hanno deciso di vivere persino in un ambiente così ostile, forse per mancanza di alternative, forse per altro; è superfluo discuterne, ma certo è sorprendente da vedere: i cajun, qualche volta chiamati con disprezzo “the beasts of the southern east”, vivono quasi in simbiosi con le paludi e con tutti i loro abitanti, senza provare il minimo disagio.
Nel primo pomeriggio ci spostiamo alla Barataria Preserve nel Jean Lafitte Refuge, posto lungo l’HW 45 nei pressi del Lake Salvador.
Siamo infatti nella terra di Jean Lafitte: corsaro, bucaniere, trafficante di schiavi, contrabbandiere al soldo del miglior offerente e personaggio chiave della guerra che nel 1812 consegnò la Lousiana agli USA e svanito nel nulla poco prima di essere arrestato; a cavallo tra storia e leggenda è uno dei migliori rappresentanti del bayou e dei suoi abitanti.
L’oasi naturalistica contiene diversi trail, che partono per la maggior parte dal Visitor Center sulla Barataria Boulevard: ci si immerge (quasi letteralmente) nel bayou, lungo passerelle in legno sopraelevate che permettono di raggiungere aree remote e altrimenti irraggiungibili.
Serpenti ed alligatori sono individuabili lungo il percorso, in totale sicurezza ma da molto vicino: è un luogo sicuramente interessante e, vista la relativa vicinanza da New Orleans, anche facilmente raggiungibile per chi si ferma in città e vuole un assaggio di bayou.
Esaurita la visita partiamo verso Lafayette lungo la HW 90, strada estremamente panoramica e che vale la pena includere nel proprio itinerario; per allungare il giro decidiamo di infognarci un po’ su strade secondarie e curiosare in alcune località che definire “estreme” è poco: Houma, Theriot ed altre, ubicate sulle poche route (182, 315, 57) che si allungano a fatica verso il Golfo del Messico e per le quali vale quanto detto prima: è curioso vedere come alcune persone abbiano deciso di vivere qui, a riva di canali zeppi di alligatori e serpenti velenosi, in un sottile lembo di terra che spesso finisce sott’acqua per le inondazioni… ma tant’è.
A sera inoltrata arriviamo a Lafayette per la nanna.
21 OTTOBRE LAFAYETTE – BATON ROUGE – NATCHEZ TRACE – TUSCALOOSA
Penultimo giorno, l’avventura volge al termine.
Da Lafayette raggiungiamo Baton Rouge sulla IS 10, dove abbiamo in programma una sosta per visitare la città e per fare una bella passeggiata: facciamo quattro passi nel centro ancora semideserto della domenica mattina e ci spostiamo sul bel boardwalk che costeggia per diverse miglia il Mississippi, partendo dalla downtown (a fianco del museo di scienze naturali) e dirigendosi verso sud.
Percorriamo il tratto sino alla LSU University immersi nel verde, mentre la città e soprattutto l’università iniziano a svegliarsi, e ci godiamo la brezza fresca del mattino: da un lato scorre placido il grande fiume, dall’altro si estende il campus su cui troneggia l’Earthquake Dome, lo stadio da 95000 posti di LSU, così soprannominato perché il casino fatto dai tifosi durante le partite crea onde sismiche percepite dai sismografi della zona.
Ripartiamo sulla 10 e poi sull’IS 55 alla volta del Mississippi, ultimo stato che attraverseremo in questo viaggio, e uno dei luoghi per eccellenza dell’orgoglio sudista, che qui però vide materializzarsi la sconfitta decisiva del Generale Lee, a Vicksburg, nella battaglia che poi decise le future sorti della guerra.
Il programma prevede di percorrere un tratto della Natchez Trace Parkway, una strada panoramica (sullo stile della Blue Ridge Parkaway) che si estende per circa 450 miglia da Natchez a Nashville, attraverso foreste, laghi e contesti naturalistici incontaminati.
Lungo l’intero tragitto ci sono molti punti di interesse a cavallo tra natura selvaggia, siti storici dell’epoca dei nativi o della guerra di secessione e musica; i visitor center, con tutte le informazioni e le mappe necessarie, sono quattro e ben distribuiti lungo la via; anche qui i luoghi più significativi sono segnalati in base al cippo kilometrico di riferimento (0 corrisponde a Natchez e 444 a Nashville), quindi è importante avere una mappa dettagliata.
Nel tratto che abbiamo percorso, sino all’intersezione con l’HW 481, vi sono alcuni tratti molto spettacolari tra cui segnaliamo in particolare la Ross Barnett Reserve con il Barnett Lake, poco a nord di Jackson, e la Cypress Swamp.
Unica nota non sempre positiva sono i sentieri che, per quel che riguarda la nostra esperienza, non sono ben segnalati e c’è il rischio concreto di perdersi. A parte questo rimane però un itinerario favoloso da percorrere, anche semplicemente in auto, e di sicuro una valida alternativa alle interstate.
Raggiunta la 481, usciamo dalla Natchez Trace e ci immettiamo nuovamente sulla IS 20 nei pressi di Meridian, per proseguire sino a Tuscaloosa, sede della nanna.
22/23 OTTOBRE TUSCALOOSA-ATLANTA-ITALIA
Last day: oggi la sveglia suona molto presto per arrivare ad Atlanta in tempo per il nostro volo, previsto per le 12.30.
Lungo l’IS 20 tutto fila liscio, sia nel tragitto che nell’ingresso in Atlanta; il Rental Car Center è facilmente raggiungibile dall’IS 285 seguendo le indicazioni che conducono sulla HW 6 verso l’aeroporto: le operazioni di riconsegna dell’auto sono come sempre veloci e senza intoppi e, così, attorno alle 10.00 siamo in aeroporto per il check in: il viaggio è ufficialmente finito e si torna a casa, con la valigia ed il cuore pieni di immagini ed emozioni di questo straordinario paese.
That’s all folks, anche questa è fatta; si conclude un’altra avventura in attesa di pensare alla prossima… chissà quale sarà!
Speriamo di non avervi annoiato e se avete necessità di approfondimenti, contattateci.
Ciao a tutti
Francesco e Nadia.