Lecce e Atene sono più vicine di quello che pensavi, e la loro storia è un filo rosso che unisce letteratura e… taranta
Nell’articolo precedente abbiamo speso qualche parola sul greco di Calabria, una vera e propria lingua parlata nella provincia di Reggio, sulla punta del Bel Paese, in una zona nota come Bovesìa.
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Quello di Calabria, però, non è “l’unico greco” ad essersi conservato; basta infatti spostarsi verso il tacco dello Stivale per trovare una situazione simile, e, tuttavia, non proprio identica dal punto di vista storico e linguistico.
Ci troviamo nella provincia di Lecce, nella terra e fra i paesini del celebre ballo salentino, la “pizzica”; qui, nei comuni di Castrignano de’ Greci, Sternatia, Soleto, Zollino, Melpignano, quest’ultimo, celebre per ospitare ogni anno la Festa della Taranta, il griko – o greco salentino – ha da sempre costituito la prima lingua rispetto all’italiano, per intenderci, la vera e propria lingua madre trasmessa di generazione in generazione.
Ancora oggi, chiacchierando con quei pochi anziani che, fra di loro, continuano a parlare il griko, scopriamo che solo successivamente, verso i nove o dieci anni, andando a scuola, hanno imparato a parlare l’italiano. Il Salento, dunque, con i suoi panorami di ulivi, di bianche e incantevoli spiagge, di borghi e di chiese in pietra leccese, è custode non solo delle bellezze gastronomiche e naturalistiche che, negli ultimi anni, l’hanno resa una delle mete turistiche più ambite, ma, altresì, nella sua anima più profonda e radicata, di un patrimonio linguistico senza eguali.
Come nel caso del greco di Calabria, anche per il griko possiamo parlare di fossile vivente, una lingua antica e al contempo moderna, le cui parole ed espressioni richiamano alla memoria millenni di filosofia, dominazioni, guerre, scambi culturali e commerciali; insomma, quello che, oggi, definiremmo a tutti gli effetti un melting pot.
Ciò che, dal nostro punto di vista, risulta interessante da mettere in luce, sono gli aspetti linguistici e storici; in poche parole, a quale greco assomiglia il griko? Antico o Moderno? Perché si è conservato in questi paesini del Salento?
Andiamo a dare un’occhiata un po’ più da vicino.
Ma parlano in Greco Antico o in Greco Moderno?
Il porto di Gallipoli, una delle città greco-salentine dove si è diffuso l’uso del griko
“Greci siamo, ma da tremila anni in Italia stiamo”.
Con queste parole, il poeta salentino Domenico Tondi descrive la sua terra, il Salento, e la sua lingua, il griko, cristallizzandone nel tempo le genti, la cultura e la storia millenaria.
Nelle poesie di Mimmi – pseudonimo con cui il Tondi era noto – il griko fiorisce e la Grecia si avvicina, lasciando così spazio all’importanza e al fascino che, nella penisola italica, la grecità aveva prodotto già molti secoli fa:
“Roma non ebbe vergogna di scrivere e far conoscere che, se essa aveva vinta la Grecia con le armi, la vinta Grecia vinse Roma con le arti e con le lettere sue”
Al di là dell’informazione e della suggestione che può scaturire dalla lettura di questa frase, è comunque importante integrarne il contenuto; molto prima di Roma, infatti, a partire dall’VIII secolo avanti Cristo, la Magna Grecia aveva costituito uno degli universi culturali più vivaci e progrediti del Mediterraneo.
Per quanto riguarda la Puglia, le zone interessate erano state quelle costiere, come Taranto, Siponto e Gallipoli, quest’ultima, ad oggi, celebre più per la movida che per il suo glorioso passato.
Nei secoli successivi, durante la conquista romana della Penisola, alla lingua greca si affiancarono il latino e altri idiomi locali, fino ad arrivare, poi, nel XIII secolo, alle prime attestazioni del volgare italiano.
A questo proposito, la conservazione del griko, che dobbiamo pensare come un mix fra le varie lingue parlate nel territorio salentino, è stata garantita soprattutto dalla continuità di genti greche nel territorio pugliese. In che senso?
Per portare un esempio concreto, durante l’Alto Medioevo, a causa di alcune dispute religiose, molti monaci furono costretti a fuggire da Oriente e approdare in Italia; il risultato? L’insediamento e il consolidamento dell’identità greca, questa volta anche dal punto di vista religioso, motivo per cui, nel sud Italia, sopravvivono ancora diverse comunità ortodosse. La lingua, poi, subì una battuta d’arresto a partire dalle conquiste sveve e aragonesi, fra il XIII e il XV secolo, e, ancor di più, durante il periodo fascista.
Insomma, lo avrete capito, non parliamo né di greco antico né di greco moderno; al contrario, abbiamo a che fare con una lingua forte, unica, non scollegabile dal territorio in cui è nata, che ha saputo scavalcare i secoli e resistere al passare del tempo e dei vari dominatori.
Nel griko troviamo il greco antico, quello bizantino – importato dai monaci –, quello moderno, e, in più, tutta una serie di parole derivate dal latino e dal dialetto locale salentino.
Con queste bellissime parole, mai demodé, speriamo di dare un’idea della grazia e della musicalità di questo idioma:
Evò panta se seno pensèo, jatì sena fsichi agapò
Io ti penso sempre perché ti amo, anima mia
Mangiare e festeggiare nel Salento greco: la tradizione culinaria, religiosa e musicale
Uova con menta selvatica, grano pestato, schiacciate di verdure e pasta d’orzo, dolci a forma di maialino, i purcedduzzi (simili per certi versi agli struffoli), sono solo alcuni dei curiosi ingredienti e preparati della tradizione grika e salentina. Fra le tante, diamo un’occhiata a due preparazioni, entrambe parecchio sentite e circoscritte solo ad alcune zone: lo scèblasti di Zollino e la carrellata di prodotti associati alla Settima Santa.
Lo scèblasti, un gioiello della panificazione, si produce nel comune griko di Zollino – lo stesso di cui era originario il poeta Domenico Tondi –, e in poche altre zone limitrofe.
Una ricetta custodita e tramandata gelosamente, della cui preparazione, a conti fatti, non se ne sa poi tanto: cipolle, olive, origano, capperi, zucca, o zucchine, ne compongono più o meno il “condimento”, gli ingredienti, insomma, che costellano e si perdono fra le maglie della lievitazione; tuttavia, è l’impasto il vero segreto.
Un articolo a parte lo meriterebbe invece la Pasca Salentina, e cioè, la Pasqua, momento in cui alla coralità religiosa si intreccia la tradizione culinaria più esclusiva e radicata.
Durante la Passiuna tù Cristù – la cui celebrazione, in certi paesini greco-salentini, ancora si mantiene – si mette in scena la Passione di Gesù, ma lo si fa in modo singolare; a tre cantori è affidato il compito di girare per le masserie del territorio e di recitare, cantando, i passi evangelici che trattano la Passione e la Crocefissione di Cristo.
Oltre al cibo offerto ai cantori – di solito uova sode – non mancano, durante la Settimana Santa, una sfilza di piatti e preparazioni di solito off-limits nel resto dell’anno: la cuddura, diffusa anche in altre regioni del meridione, che consiste in una ciambella dolce con all’interno un uovo; l’agnello con pasta di mandorle; le còcule, particolari polpette di patate.
Concludiamo con un consiglio, inerente, questa volta, alla cultura musicale salentina: la Pizzica.
Nonostante la Festa della Taranta di Melpignano – paese griko – sia, sul piano mediatico, ma anche culturale, la ricorrenza per eccellenza legata a questo ballo, non perdete occasione, se avete modo, di attraversare e fermarvi in paesini come Castrignano, Aradeo, Galatina, angoli nascosti e più che mai autentici, in cui la forma e l’esperienza del ballo si animano e prendono vita, richiamando, se pur alla lontana, gli aspetti della sindrome culturale da cui la pizzica ebbe origine: il Tarantismo, prima che una danza, uno strumento di guarigione; ma questo è un altro discorso.