Nel Cuore dei Balcani

Weeken on the road sulla strada per Sarajevo, Mostar e la costa Croata.
Scritto da: buldra
nel cuore dei balcani
Partenza il: 14/07/2011
Ritorno il: 17/07/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
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Dobrodošli venerdì, da Slavoski Brod, verso Sarajevo. Davide e Stefano. L’autogrill di Slavonski Brod è una macchina del tempo che ti catapulta direttamente negli anni ottanta. Il bancone del bar, il parcheggio, e i pochi clienti seduti ai tavolini sul cemento, sembrano usciti direttamente da quegli anni. E degli anni passati da allora ne mostrano i segni. È una sensazione straniante, quasi surreale. Slavonski Brod è l’ultima città della Croazia che incontriamo, prima di deviare a sud oltrepassando la Sava, dritti in Bosnia, destinazione Sarajevo. Non ero più abituato alle frontiere. La prima cosa che ho pensato mentre eravamo fermi in fila per il controllo documenti è stata l’enorme quantità di tempo che è passato dall’ultima volta che, in automobile, ho oltrepassato un confine vero. Dall’ultima volta che per andare in un posto è stato necessario mostrare i documenti. Forse vent’anni. In aereo è un’altra cosa. In aereo entri in un posto ed esci in un altro. Per strada, invece, per proseguire il viaggio, ad un certo punto abbiamo dovuto esibire un documento. Un pezzo di carta che certifica il nostro diritto di muoverci in posti e luoghi altrimenti preclusi alla nostra presenza. Noi siamo cittadini italiani ed europei. Noi siamo passati, senza problemi, senza sguardi strani, senza perquisizioni, senza nessun contrattempo. Il mio passaporto “Unione Europea” mi conferisce uno status di cittadino di serie “A”. La mia nazionalità, la targa della mia macchina, in questa frontiera noiosa in mezzo ai Balcani, ha un valore privilegiato. Io sento che questo privilegio non lo merito. Sento che io, senza motivo, posso andare, posso passare, e sarei potuto scappare senza problemi. Senza questi pezzi di carta mi sarei dovuto fermare. Chi sono io o cosa sono io per meritare un lasciapassare così potente è una questione che fa parte di un’altra questione più grande. Ed è uno dei motivi che mi ha spinto a fare questo viaggio nei Balcani. Attraversiamo la Sava, il fiume che segna il confine tra Croazia e Bosnia, e veniamo accolti da un cartello gigante, bianco con le scritte blu: “Welcome to Republika Srpska”. In pratica succede che la Bosnia-Erzegovina è divisa in due entità, una è appunto la Republika Srpska a maggioranza Serba, l’altra è la Federazione di Bosnia-Erzegovina a maggioranza Bosniaco-Musulmana e Croata. I due territori si incastrano come un puzzle, come due corpi avvinghiati ed inseparabili. Chilometri di confine in un territorio minuscolo, che disegnano enclave e imprimono le cicatrici degli assedi della guerra nel territorio, dentro la terra. Il malinteso comincia ad un centimetro dal confine. Quando al posto della bandiera Bosniaca c’è quella serba. E prosegue fino all’Adriatico. In un continuo simbolismo popolare fatto di bandiere posticce appese all’ingresso di ogni villaggio, di toponimi cirillici cancellati con la vernice, di croci disegnate sui muri e di moschee costruite ovunque. Tutto questo, tuttavia, è nulla in confronto alla processione di case distrutte che scorre oltre i finestrini della mia auto nel tratto di strada che va fino a Doboj. Erano le case dei musulmani. Cacciati. Uccisi. Scappati. Case di cui rimangono solo lo scheletro e le mura interne annerite dalle esplosioni dei colpi di arma pesante. Case bruciate. Case crivellate di colpi. Cortili abbandonati, tetti saltati per aria. È tutto lì. È davvero tutti lì. In un fermo immagine infernale. Troppo vero per essere compreso. Troppo potente per essere assorbito senza conseguenze. Troppo recente per essere didascalico. Troppo mortale per poterlo fotografare. Ci siamo fermati accanto ad una di queste case. Ad una sola. Ad una qualsiasi. Sono sceso dall’auto. Ho camminato nel cortile. C’era un pozzo. C’era un tavolo di legno con le panche. Dove c’era un’abitazione c’era una scatola di mattoni con delle voragini e delle scale che non portavano più da nessuna parte. Volevo entrare in quel baratro, volevo vedere ancora da più vicino la verità. E invece non è stato possibile. Perché la verità era intorno a me. L’orrore della morte era nelle mie narici e nei miei occhi. E la mia testa è andata in tilt. E non ho provato compassione, non ho provato dolore, non ho provato rabbia, non ho provato desolazione. Non mi sono commosso. Ho solo avuto paura del vuoto. Ho visto solo vuoto. Ho visto solo nulla. In quelle rovine, c’è il nulla. Il nulla totale. L’assenza di ogni emozione. C’è il nulla che non appartiene nemmeno agli animali che ammazzano altri animali. Lì non c’è più niente. Ed a togliere quello che c’era prima sono stati esseri umani. Esseri umani come me. Uguali a me. Sono tornato in macchina. Siamo ripartiti, ed è ripartita la processione di rovine. Senza soluzione di continuità fino a Zenica. Bolle di devastante nulla in mezzo a villaggi e a persone che hanno ricominciato la loro vita. Case nuove accanto a case distrutte. Buchi della vergogna nel cuore pulsante della stessa Europa che spocchiosamente si autocelebra “unione” sul frontespizio del mio passaporto. Nazionalità italiana. Sono vivo. E posso farlo. Posso pensare che un giorno qualcuno riuscirà a riempire quelle voragini di vuoto. Almeno, io credo che così sarà. E non dovrò mai più vergognarmi per non aver avuto la nazionalità sbagliata. Non dovrò più sentirmi in colpa per essere nato sull’altra sponda dell’Adriatico.

Duša Sarajeva venerdì sera, a Sarajevo. Davide e Stefano Poco dopo Zenica, lungo il fiume Bosna, in territorio Bosniaco, cominciano i lavori per l’autostrada che conduce a Sarajevo. Dopo qualche metro di strada sterrata in mezzo ad un enorme cantiere di fronte a palazzi socialisti e a fabbriche di non so bene che cosa, cominciamo a correre sulla striscia d’asfalto a quattro corsie che ci porterà a destinazione. Entriamo in città da nord, la periferia è un’anonima accozzaglia di case e negozi dozzinali, c’è un po’ di traffico, molte macchine che da noi non passerebbero la revisione da almeno 10 anni e la strada è in discesa. Seguiamo le indicazioni per il centro. E ci troviamo a percorrere un viale a gigantesco lungo dritto verso due edifici moderni, due torri di vetro che se non ricordo male nei telegiornali degli anni novanta erano pesantemente danneggiate dai bombardamenti. Ai lati del viale ci sono dei quartieri fatti di palazzi alti dieci piani, sono case popolari, alveari socialisti. Sono centinaia. Tipico stile anni settanta-ottanta. Ce ne sono uguali in tutta Europa. Ce ne sono uguali a Trento, a Bologna e a Treviso. Solo che qui hanno un aspetto feroce. Perché sono gli stessi palazzi che, quando avevo 20 anni, guardavo comodamente dal mio divano in velluto, crivellati dai colpi. Senza capire chi fosse a sparare. E perché stesse sparando. A guardarli con attenzione, dal vivo, quei palazzi danno l’idea di cosa voglia dire assedio. E’ palese che dalle colline tutto intorno rappresentano bersagli elementari da colpire. Alti e stretti, dalle montagne intorno li puoi contare uno ad uno. Finestra per finestra. Famiglia per famiglia. Musulmano per musulmano. Molti palazzi hanno ancora i segni dei colpi. Soprattutto sulle facciate rivolte a monte. Quella che stiamo percorrendo si chiamava “la via dei cecchini”. Prima di arrivare in centro passiamo accanto ad un edificio completamente distrutto. È l’unico della città ridotto così. Il resto è stato ricostruito. Rimesso in piedi. Più ci inoltriamo dentro Sarajevo, più minareti incrociamo con lo sguardo. Ad un certo punto, mentre sembra di essere in una qualsiasi capitale del qualsiasi impero Austro-Ungarico, la strada vira a destra verso il fiume e prede a corrergli accanto. A questo punto chiediamo ad un paio di passanti dove sia il nostro albergo. Spieghiamo che si trova in Ferahdija e tutti ci dicono che dobbiamo fermarci dove c’è la “eternal flame”, un monumento che dovrebbe essere costituito da una fiamma grande e ben visibile. Il nostro albergo è proprio lì. Noi cerchiamo la dannata fiamma. Facciamo cinque volte il giro dello stesso isolato. Ma non la vediamo. Fondamentalmente non la vediamo perché c’è talmente tanta gente in giro che passeggia che non ci accorgiamo che in realtà la “fiamma eterna” è una torcia di trenta centimetri posata per terra. Una volta trovata la fiamma, non ci resta che parcheggiare in un garage privato. E dirigerci a piedi, poco lontano, all’albergo. Bene, la quantità di gente che c’è in giro alle nove e mezzo di venerdì sera a Sarajevo è impressionante. È pieno di gente. Pieno di giovani. Tutti che passeggiano, chiacchierano e si preparano alla serata. È uno spettacolo. E le ragazze sono bellissime. Tutte. È una cosa che ti toglie il fiato. Sono tutte talmente belle che dopo cinque minuti ti senti assuefatto, e dopo altri cinque minuti non puoi fare a meno di notare nuovamente quante belle ragazze ci siano in giro. Imbarazzante. Il nostro albergo è al nono piano di un palazzo con una splendida vista sulla città. Usciamo subito, verso le dieci, e ci dirigiamo senza cartina, senza niente, verso il centro. La quantità di gente che passeggia per strada è pazzesca. Tutti i bar e i locali sono pieni. Tutti chiacchierano, parlano, ballano, bevono e ridono. Il volume sonoro di tutta questa vitalità è assolutamente mediterraneo. È bellissimo. Sembra che tutta la vita e la spensieratezza del mondo si siano date appuntamento qui. Ad un certo punto la via dall’aspetto asburgico con i suoi palazzi possenti e dalle geometrie ordinate cede improvvisamente il passo ad un intrico di viuzze e ad un dedalo di edifici bassi di pietra che si aprono qua e la in cortili di moschee e in piazze con fontane o chiese. Si tratta di Baščaršija, una specie di quartiere dalle fattezze turche. E qui, se possibile, la vita brulica ancora di più. In 37 anni di vita non ho mai visto tanto movimento e tanta gente in giro, mai. Forse solo la Spagna dei primi anni 2000 teneva il passo di tutta questa vita. È tutto pieno. E tutti si stanno godendo la serata, calda, d’estate. Noi ci sediamo all’aperto, in uno dei tanti ristoranti. Mangiamo un enorme grigliata di carne mista, con la birra, e alla fine beviamo caffè turco e Vilamoka (grappa alla pera bosniaca). Siamo solo all’inizio. Mentre vaghiamo increduli di tanta vita ci infiliamo in una viuzza satura di ragazzi seduti ai tavolini di due bar. Ci sediamo anche noi e ordiniamo da bere. Ed io penso che qui c’è qualcosa che da noi s’è perso. Che da noi s’è addormentato. Qui hanno tutti alle spalle una storia fresca. Una morale tatuata addosso dai colpi di mortaio e dalle mitragliate. Una morale immacolata e giusta, una determinazione alla vita che noi abbiamo lasciato entrare in coma. Che abbiamo sepolto sotto quintali di cazzate, di paure e di menate. Che qui la guerra s’è portata via tutto, cose belle e cose brutte. Ed è rimasta solo la voglia di ripartire. È rimasta, grazie al cielo sacro di questa città, solo la voglia di vivere. E allora, ci siamo lasciati aggredire da tutto questo, e abbiamo portato i nostri culi pallidi da europei integrati verso un altro locale da dove esce un suono di musica dal vivo. E c’è la band che fa le cover degli anni ottanta. Ma è una fottuta band bosniaca, e le cover le fa come si fanno in Bosnia, reinventate, sminchiate, contaminate. Con il chitarrista che fa gli assoli heavy metal, la cantante che canta le scale arabe e il bassista ciccione che martella come un operaio socialista in pieno piano quinquennale. E beviamo ancora. Ed esco a prendere aria. E mi guardo intorno all’una di notte dentro Sarajevo dalle cicatrici in bella vista sui muri, e la scopro ragazza madre dall’odore buono, che coccola e si gode i suoi figli adolescenti cuccioli spensierati. Questa città ha dato la vita per loro. E loro la stanno ripagando con una resurrezione che ha del miracoloso, se non fosse una città Sarajevo sarebbe un mito greco, sarebbe un sogno, un’utopia. Un posto in cui si mescolano Islam, Chiesa ortodossa e chiesa romana. Un posto in cui ci sono anche le ragazze che portano il velo, ma è un velo che regala ai loro sguardi, ai loro occhi disegnati ed alle loro sopracciglia persiane, qualcosa di ancora più bello. Mentre rientro nel pub con una birra media in mano mi accorgo che Stefano sta parlando con un ragazzo, mi avvicino e dico: “quanta vita a Sarajevo!” “eh…non hai visto ancora niente!” “come?” “devi venire a Belgrado! Li si che davvero c’è la vita” in un istante, l’angelo buono che c’è dentro di me mi fa esclamare “ah, ma tu sei SERBO!” lui sgrana gli occhi, si irrigidisce, fa un mezzo sorriso tra l’ironico e l’imbarazzato, si porta l’indice alle labbra e “SSSSSH!” io chiedo scusa, lui mi spiega che i serbi in città non è che siano poi visti così bene. Poi ci offre da bere. Poi noi offriamo da bere a lui, usciamo fuori. E comincio a chiedergli cose sulla guerra. Lui è disponibilissimo. Lui mi dice che non ha combattuto a Sarajevo. Ma che nel 99 è stato soldato in Kossovo, contro gli albanesi. Poi mi dice che la colpa della guerra degli anni novanta è degli USA. Perché loro hanno voluto comprare a prezzi stracciati le miniere della Bosnia e allora hanno lasciato che loro si scannassero tra di loro. Gli chiedo del Kossovo, gli dico che “scusa se ti chiedo ste cose” e lui dice che “I’m glad to talk about this, I need to talk”. Ha bisogno di parlare. Di spiegare. Perché i Serbi adesso sono incolpati di tutto e invece mi chiede se conosco la battaglia di Kosovo Polije. E io dico che certo, che c’ho fatto la tesina di relazioni internazionali. E lui mi demolisce dicendomi in faccia che lui in Kossovo c’ha fatto il soldato e che gli è morto il fratello di quindici anni tra le braccia. Il suo fratello minore che era andato a cercarlo, dopo otto mesi che non si vedevano. Mi dice che “si è voluto arruolare, lui sapeva cosa faceva, ma mi è morto in braccio. Mio fratello”. Io e Stefano siamo sbigottiti. Beviamo birra bosniaca mentre Ivan (si chiama così) puntualizza che nella battaglia di Kosovo Polje, nel lontano 1389 i Serbi hanno salvato l’Europa dall’Islam. Io lo guardo negli occhi, Ivan, mentre parla di arti marziali con Stefano, mentre spiega che sua madre vive in città e suo padre sta morendo di cancro a Belgrado. Lo guardo bene. Ha una cicatrice, anzi due, sopra il labbro superiore. Ride e sembra spensierato. Ha gli occhi da buono. E si offre di accompagnarci in un altro locale ancora, ma sono le tre e mezza e siamo stanchi. Sfiniti. Allora ci accompagna all’albergo. La città ancora riverbera di vita e di musica. Fa un caldo pazzesco. Gli chiedo come si viveva quando c’era Tito: “quando c’era Tito si stava…sai come si stava? Si stava che mio padre era il più umile degli operai, ma aveva uno stipendio più che dignitoso, che gli ha permesso di farci studiare, tutti noi quattro fratelli, e avevamo una bella macchina e due volte all’anno andavamo in vacanza tutti insieme…d’inverno a sciare e d’estate al mare…e potevamo avere quello che volevamo…così si stava…si stava bene” Siamo di nuovo davanti alla fiamma eterna di Sarajevo. L’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio lungo quasi quattro anni. È lì a commemorare la vittoria di Serbi Bosniaci e Croati insieme contro i nazisti. Insieme. L’ha accesa Tito, forse. E se quella misera fiamma brucia ancora, tale e quale, sempre la stessa, dopo una guerra mondiale, dopo un assedio lungo cinque anni, dopo la pulizia etnica. Se continua a bruciare mentre salutiamo Ivan e saliamo al nono piano di un albergo di Sarajevo…se continua a bruciare piccola ed invisibile in mezzo alla città mentre sto scrivendo dentro i confini dell’Europa Unita…forse tra qualche anno Ivan non dovrà più sgranare gli occhi davanti a un italiano solo perché è serbo. Forse non dovrà più giustificare il suo ventesimo compleanno passato a combattere una guerra ereditata settecento anni prima. Forse la prossima volta che tornerò a Sarajevo non ci sarà più una Republika Srpska e una Federazione di Bosnia Erzegovina. Forse la maledizione dei Balcani avrà fatto cinque giri dell’isolato e si sarà accorta che c’è una fiammelle piccola, e mentre si avvicina per guardare meglio prenderà fuoco lei, e non più la Bosnia. Non più Sarajevo. Mai più. Ora è tempo di vivere, di scherzare, di andare a dormire alle tre e mezza di notte, mentre tutti insieme, i ragazzi di questa città continuano a stare svegli, ad assaporarsi ogni secondo di vita. È la migliore ninna-nanna che io abbia mai avuto. Buonanotte Maršala Tita.

Zajedno Sabato pomeriggio, a Sarajevo. Davide e Stefano Apro gli occhi alle otto e un quattro di mattina. Ho la testa ancora intontita dai postumi della serata precedente, ma non ho più un grammo di sonno per girarmi dall’altra parte e rimettermi a dormire. Mi auto-convinco che con una bella doccia e una colazione come si deve sarò come nuovo, quindi mi alzo. Sposto la tenda della finestra e do un’occhiata a Sarajevo dall’undicesimo piano. Si, è decisamente ora di alzarsi. Stefano sta ancora dormendo, ma quando esco dalla doccia apre gli occhi. Gli dico che vado a fare colazione, e che poi vado a controllare il garage dove abbiamo lasciato la macchina. Lui mi risponde che va bene, che ci vediamo al mio ritorno. Faccio colazione velocemente, sono completamente solo, tranne che per una coppia di turisti di non so bene quale nazionalità. Prendo l’ascensore ed esco dall’albergo, incamminandomi lungo Maršala Tita. C’è decisamente meno gente rispetto a ieri sera, mi accorgo di una serie di banche occidentali che non avevo notato, e di parecchie librerie ben fornite. Mentre raggiungo il garage, addentrandomi in una laterale del viale principale, mi accorgo dei segni della guerra. Ne sono rimasti. Un bel po’. Il portico anni settanta che attraverso per raggiungere l’auto è crivellato di colpi, e la facciata del palazzo di fronte ha preso un colpo di mortaio molto vicino ad una finestra. Di giorno c’è più luce. Evidentemente certe cose si notano meglio. Faccio davvero fatica a credere ai miei occhi. Penso che sia surreale. Faccio fatica a credere che questi segni, queste ferite siano vere. Esistano davvero. Mi viene da infilare le dita nei buchi dei proiettili, come san Tommaso ha infilato le mani nelle ferite di Cristo. L’immaginazione è annientata dalla vista delle cicatrici di questa città, l’immaginazione è nulla in confronto alla testimonianza. Le difese della lontananza e della mente crollano di fronte ai segni della guerra. È una sensazione strana. Il cervello trasmette segnali di pericolo, istintivamente, ma contemporaneamente si sforza di elaborare le immagini che sta vedendo, e sono vere pallottole e veri colpi di mortaio, le elabora collocandole dentro un bagaglio di conoscenze tranquillizzanti, che ti rassicurano che la guerra è finita. Non c’è più pericolo. Il punto è che è cominciata e finita nell’arco di tempo compreso trai miei 18 e 22 anni. Ed è cominciata e finita qui, dove sono io ora. Ad una mezza giornata di macchina da casa mia. La mia Golf è ancora lì, e il padrone della rimessa mi assicura che saranno aperti anche nel pomeriggio. Torno indietro. Mi accorgo che oltre alle banche e alle librerie stanno costruendo un Mc Donald’s, non ci trovo nulla di divertente o di rassicurante. Nel frattempo Stefano ha fatto colazione, ed è bello stravaccato su una poltrona della terrazza dell’albergo. Confabuliamo un po’ e decidiamo di andare a piedi fino al Museo di Storia della Bosnia Erzegovina, e poi di proseguire in tram fino al “museo del Tunnel”. Ci incamminiamo, cambiamo un po’ di euro in marchi convertibili (la moneta locale), chiediamo informazioni sulla direzione da prendere ad un ragazzino che poi scopriamo nato in Italia e ritornato a Sarajevo da appena tre mesi, e infine arriviamo nei pressi del museo. Poco prima di entrare veniamo abbordati da un uomo sulla quarantina che ci chiede se siamo italiani, noi diciamo di si e lui, in italiano, si offre come guida per il museo del tunnel. Dice che per 15 euro ci porta lì in macchina e ci spiega la storia dell’assedio. Viene fuori che è un sopravvissuto e che ha lavorato in Italia. Accettiamo di buon grado però spieghiamo che prima vogliamo vedere il museo di Storia. Non ci sono problemi, ci aspetta fuori. Si chiama Elvis. Ottimo. Il museo di Storia è un parallelepipedo bianco, con una scalinata larghissima, che porta evidentissimi segni della guerra, tant’è che ci chiediamo se la cosa sia voluta o meno. All’interno c’è una mostra essenziale ma esaustiva sulla storia della Bosnia, ed una zona interamente dedicata all’assedio degli anni ’90. Per chi non lo sapesse, Sarajevo è stata sotto assedio dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 (cit. D. Pellizzon). La città era sotto l’attacco delle truppe paramilitari serbe che la circondavano da ogni lato sparando e cannonando dai monti intorno. La popolazione è rimasta per tutto il tempo senza luce, senza acqua e senza riscaldamento. Qualsiasi essere umano si trovasse sotto il tiro dei cecchini veniva bersagliato. I rifornimenti alla città arrivavano tramite l’aeroporto, sotto il controllo delle forze delle nazioni unite. Ma la via per arrivarci era sotto tiro dei cecchini. Dietro l’aeroporto, su un’ area collinare, c’era un pezzo di territorio libero. Così nel 1993 gli abitanti della città scavarono un tunnel di 800 metri, per passare sotto la pista dell’aeroporto e poter raggiungere la zona “libera” e comprare un po’ di viveri. Tutto ciò ha generato oltre dodicimila morti e cinquantamila feriti. Ora, io non starò qui a dilungarmi su quello che ho visto al museo, sulle stufe di fortuna costruite con le padelle, sui cartelli con la scritta “cecchino”, sui sacchi di pasta contrassegnati UN. No. Io vi dico solo che ho visto delle foto. Delle foto dell’assedio. Ed erano foto di gente comune, come me, come noi. Donne. Bambini. Bersagliati, uccisi, amputati. Uomini, donne e bambini. Fatti. A. Pezzi. Ha un senso tutto questo? Ha un significato? E che cos’è la rabbia che provo di fronte a tutto ciò? Che cos’è la sensazione di essere complice di tutta questa merda che ritorna tale e quale come la provavo mentre seduto nel mio soggiorno vedevo, ascoltavo le cronache di morte da Sarajevo e nessuno faceva nulla…che cos’è? Perché? Perché la paura di queste persone intrappolate dentro un inferno mi fa sentire così stupido? Così maledettamente impotente? Perché non sono dio? Se fossi stato dio forse avrei fatto giustizia? Forse avrei punito chi ha ordito questo orrore? Se fossi stato dio avrei diviso i buoni e i cattivi? E non è forse questo che hanno fatto coloro che bombardavano inermi esseri umani dalle montagne intorno Sarajevo? Non hanno forse diviso tra buoni da non sfiorare e cattivi da ammazzare? Se fossi stato dio avrei voluto morire sotto le bombe al mercato di Sarajevo. Questo avrei voluto essere. Questo avrei fatto. Avrei voluto morire al posto anche di una sola delle migliaia di vittime di tutta questa merda che dall’altra sponda del mare guardavamo in televisione mentre qui schizzavano membra umane spappolate dalle finestre del tuo vicino di casa. Questo è quanto. E ce ne siamo andati. E non sono riuscito più a guardare quelle foto. È bastato un secondo. E non le dimenticherò mai. E sono venuto qui per vedere, proprio come San Tommaso del cazzo….solo che di santo qui non c’è proprio niente. Ho solo lo stomaco che si sta per rivoltare, la gola annodata e le lacrime che non scendono. Poi fa davvero troppo caldo. Devo uscire. Devo uscire a respirare. Usciamo dal museo. Elvis ci sta aspettando. Ci dice che ci porterà a vedere il tunnel di Sarajevo. Gli diciamo che siamo rimasti molto colpiti dal museo, dalle foto, dalle cose…lui ci spiega che era in città, sotto l’assedio. Ci fa vedere dove abitava, al decimo piano di un quartiere pieno di palazzi altissimi. Ci dice che i serbi da un giorno all’altro hanno cominciato a volerli uccidere. Che avevano le armi nascoste. Io dico che non ci credo e lui mi dice che ha trovato un kalashnikov sotto il letto di un’anziana serba che lui da sempre aiutava a fare la spesa. Dice che i Bosniaci musulmani in città non avevano armi. Che hanno scavato questo tunnel per passare sotto l’aeroporto e raggiungere la zona “libera”. Dice che lui ha perso undici amici sotto l’assedio. Dice che lui con la macchina portava i feriti in ospedale. E faceva su e giù per la via dei cecchini. E che un giorno è rimasto a piedi. È stato un quarto d’ora sotto il tiro dei cecchini, nascosto dietro l’auto. Poi è arrivato il blindato delle Nazioni Unite e lui ha potuto camminarci dietro e raggiungere un posto sicuro. Ci indica il monte Igman, ci dice che lui nel 95 è riuscito a scappare a piedi su quel monte. È riuscito a non finire esploso su una mina, ci racconta che è arrivato a piedi fino a Mostar e poi è salito perla Croazia fino in Italia, che a Trieste ha preso il primo treno che partiva ed è finito a Bolzano. E che a Bolzano è riuscito a fare i documenti e a trovare lavoro. Che ha lavorato 7 anni a Bolzano poi è ritornato a Sarajevo. Faccio fatica a credere che quest’uomo assolutamente semplice abbia vissuto una cosa del genere. Ma i segni dei colpi e dei cannoni sui palazzi intorno sono sufficienti a farmi credere che ciò che dice sia vero. Ci porta fino al tunnel. Ci spiega dove erano le forze dell’ONU, come riuscivano a vendergli la benzina e come hanno scavato il tunnel. Il museo in se non è un gran che. Sembra un’attrazione turistica. In effetti è l’unico posto della città in cui abbiamo trovato un po’ di turisti non locali. Ma c’è la lista delle vittime dell’assedio. Ed è impressionante. Prima di andarcene chiedo al nostro accompagnatore se ci può portare a fare un giro sul monte Trebević, uno dei monti da cui sparavano sulla città. Elvis risponde in maniera un po’ seccata che ci porta, si, ma che lui ci vuole restare poco perché quello è territorio serbo e non gli piace stare in mezzo ai serbi. E poi ci sono altri monti da vedere. Sembra un po’ scocciato che noi vogliamo andare a vedere proprio quel posto e non, che ne so, il monte Igman o altri posti della città. Comunque ci avviamo. Lui è davvero bravo a farci capire quali zone della città erano sotto il controllo serbo e quali no. Finalmente riesco a capirci qualcosa di questo assurdo assedio durato troppi mesi. Passiamo in mezzo ai quartieri coi palazzoni anni settanta e vediamo le facciate crivellate di colpi. Elvis ci spiega quale cortile era serbo e dove iniziava la zona bosniaca. Questione di metri. Cominciamo a salire sulle montagne. “ecco, qui è republika serba” ci dice “ah…..” Alza il volume della radio, non ha voglia di parlare mentre saliamo su per una strada del tutto simile a quella che porta sul Monte Bondone a Trento. Forse ho chiesto di un posto ancora troppo “scomodo”. Provate ad immaginare che vi piovano in testa ogni giorno migliaia di garante dai monti attorno a casa vostra. Credo che quei posti assumerebbero un significato ben diverso da quello che hanno ora. “ecco vedete, da qua sopra città in bella vista….Sarajevo sdraiata, adesso ci giriamo…” non ha davvero voluto fermarsi, mentre scendiamo getta dal finestrino delle cartacce e ci dice che i serbi si devono tenere la loro immondizia. Non comment. Ad un certo punto ci fermiamo vicino ad un cimitero. Elvis ci spiega che è un cimitero ebraico. Oltre ai musulmani e ai croati, a Sarajevo c’era anche la comunità ebraica. Che durante l’assedio si unì ai musulmani per difendere la città, attirandosi la critiche di Israele. D’altronde Israele la sa lunga in quanto ad assedi…comunque, il cimitero è vecchissimo, ed è un campo di battaglia nel quale, oltre a bombardare la città si sono scontrati esercito serbo e bosniaco. Le tombe sono piene di colpi d’arma da fuoco. Ho la netta sensazione che usassero le lapidi per ripararsi e spararsi addosso. Mi giro ed ho la città ai miei piedi. Abbiamo voglia di staccare. Di rituffarci nella Sarajevo viva. Basta assedio, basta. Ci facciamo potare in centro, e mentre scendiamo chiedo a Elvis come si stava sotto Tito, lui risponde: “Tito era come un padre per me, lui era uno giusto. Era uno rispettato e temuto. Non come i politici di adesso….” Continuo a fare domande, perché voglio capire cosa può essere successo in un posto bellissimo come questo. “ma senti…voi e i Serbi adesso come siete, vivete normalmente…fate cose insieme?” “…amico, qui non esiste più niente insieme” Elvis scandisce l’ultima parola nel suo italiano dei Balcani. E io finalmente non ho più voglia di fare domande. Stringo le labbra e guardo fuori dal finestrino mentre scendiamo verso la città. Arrivati a Baščaršija ringraziamo la nostra guida improvvisata, gli diamo un po’ di più di quanto ci ha chiesto, ci lascia il suo cellulare raccomandandoci di chiamarlo se viene qualche amico nostro o se torniamo. Poi andiamo vicino alla piazza dei piccioni. E mangiamo cevapcici. La vita tutto intorno a noi è tranquilla. In mezzo alle moschee ed ai campanili ortodossi e cattolici non sembra essere successo nulla. C’è un colpo di mortaio davanti alla cattedrale romana, ci sono le lapidi delle vittime della Madrasa di fronte alla moschea più antica della città. Ma nulla sembra frenare la normalità e la luce calda di una giornata di luglio nel mezzo dei Balcani. Mi piace questo posto. E non è perché c’è stata una guerra, o perché voglio fare il pellegrinaggio nei luoghi del dolore. Almeno, credo non sia solo per questo. Credo sia perché ho scoperto, a Sarajevo, che mi trovo a mio agio nei posti di confine. Nei posti in cui si mescolano i punti di vista. Si mischiano le acque delle diverse culture. Si incontrano i sapori e le forme, i visi e i nomi di paesi e storie diverse. Qui a Sarajevo non solo si incontrano o si scontrano…ma si intrecciano strettissimamente. Forse perché non mi sono mai sentito del tutto legato ad una particolare terra, ad n particolare posto. Forse perché sono nato a Bologna, da una mamma trentina e da un padre emiliano che ha girato mezza Italia, forse perché mio nonno Giuliano combatteva la prima guerra mondiale con gli italiani, mentre mio bisnonno trentino parlava tedesco….non lo so. Non mi sento nemmeno veneto, mi sento piuttosto italiano ma non sono affatto orgoglioso di esserlo. Forse mi sento europeo. Si. Senza una terra, ma europeo sento di esserlo. Senza una religione, ma europeo. Ecco. forse è così. Quello che è certo è che se esiste un cuore dell’Europa si trova qui, in Bosnia.La Bosnia è il cuore pulsante dell’Europa. Secondo me è così. È il vero cuore…in senso sentimentale e anche fisico. E da che mondo e mondo si può vivere bene usando l’intelligenza, si può vincere una guerra usando la forza, si può lavorare la terra con le braccia….ma si ama soltanto col cuore. Solo col cuore. È ora di partire per Mostar.

Stari Most Sabato sera a Mostar, Davide e Stefano Siamo di nuovo per strada, verso Mostar. Siamo partiti da Sarajevo verso le cinque e mezza del pomeriggio. La strada è splendida. La prima parte è una discesa tortuosa lungo una gola stretta ed alta, dietro il monte Igman. Poi la pendenza si addolcisce, e l’asfalto comincia a costeggiare dapprima un lago lunghissimo e poi il fiume Neredva. Nei pressi di Jablanica ci si para di fronte un corteo matrimoniale, strombazzante e rumoroso proprio come i nostri. La cosa bella è che gli sposi lanciano delle caramelle dal finestrino e i bambini sui marciapiedi fanno a gara per raccoglierle. Sembra proprio sia una tradizione di queste parti. È un gesto di buon auspicio. Arriviamo a Mostar verso ora di cena. Mentre parcheggiamo ci viene in contro un giovane del luogo, si chiama Haris, ci chiede se siamo italiani, parla italiano, ci dice che il suo amico ha una bella pensione con delle belle camere nuove e il parcheggio custodito, che con 20 euro dormiamo. Diciamo che va bene. E il suo amico ci accompagna con lo scooter. La stanza è comodissima, nuova e a pochi passi dal centro. Appena il tempo per cambiarci e usciamo, incamminandoci verso il ponte vecchio della città, il ponte che i Croati hanno abbattuto a cannonate, perché qui a Mostar la guerra ha raggiunto dei record di assurdità inimmaginabili. In questo posto convivevano Croati cattolici e Musulmani bosniaci. Sono stati invasi dai Serbi. Croati e Bosniaci insieme hanno respinto i Serbi. Poi, invece di festeggiare e farsi una birra, hanno pensato bene di scannarsi a vicenda. Croati contro Bosniaci, cattolici contro musulmani, fino alla morte. I musulmani arroccati sulla riva opposta del fiume e i croati che distruggono il ponte che collega le due sponde, che sta lì da 500 anni. Distrutto. Un macello. In effetti la città porta ancora i segni ben evidenti di tutto questo orrore. Di tutte le 28 moschee ridotte in macerie e di tutta la follia immane che si è scatenata in questa valle balcanica. Incredibilmente, però, come a Sarajevo, a tutto questo fa da contraltare una vitalità spontanea ed unica. Siamo scesi sulle rive del fiume, sotto il ponte, in un bar sulla riva. C’è la gente che è seduta lungo il fiume, che prende il fresco, che beve birrette e chiacchiera. Sotto il ponte ricostruito di Mostar ci rilassiamo, dopo il viaggio, insieme ai suoi abitanti. La vita continua. Il centro della città è completamente ricostruito, un po’ si nota, sembra quasi di essere in un parco tematico. Al ristorante mangiamo la solita mega-grigliata di carne, accompagnata da abbondante birra. Penso che forse è il momento di diventare vegetariano. Finita la cena ci incamminiamo per le vie del centro. È pieno di locali, di musica, di gente. Appena esci dal percorso delle vie più centrali iniziano le rovine. Ma il cuore di Mostar è vivo. Ci fermiamo in un locale qualsiasi, dove conosciamo un Croato che ha lavorato per tanti anni a Venezia. Parliamo un po’, in italiano, chiedo anche a lui come si stava quando c’era Tito. Lui mi risponde: “Amico, la democrazia che c’è adesso è uno scherzo in confronto alla libertà che c’era con Tito”. Io rimango un po’ scioccato. Stefano per chiudere in bellezza chiede se c’è della grappa alla pera, della Slibovitza….questi ci portano un’acquavite artigianale buonissima, che ci da la mazzata finale. Torniamo in albergo un po’ stanchi e barcollanti. Mentre camminiamo ci accorgiamo di quante ferite porta addosso questa città. Penso a questa valle stretta, a come doveva essere sotto l’assedio dei serbi, e mentre croati e musulmani si battevano in un conflitto fratricida. Penso a quanti abitanti di adesso incontrino il proprio carnefice sullo stesso ponte che noi abbiamo attraversato. Conto i minareti. Respiro. E vado a dormire. Senza sapere perché.

Majka Jugoslavija Domenica, verso Rijeka Il mattino seguente ci svegliamo presto. Dobbiamo tornare in Italia. Scendendo verso Spalato e poi risalendo la costa croata, in autostrada, fino a Rijeka. Facciamo colazione in un piccolo bar di Mostar, sulla via principale lungo il fiume. Sembra un bar fermo nel tempo agli anni ’80. Ci sono gli avventori locali, che parlano piano. Il silenzio della domenica mattina quasi stride contro il rumore della vita notturna di qualche ora fa. È tutto molto calmo a Mostar. E’ tutto molto fermo. Non c’è nemmeno il padrone dell’albergo. Ci apriamo il cancello del parcheggio da soli ed usciamo dalla città quasi fossimo l’unica cosa in movimento nel raggio di chilometri. Stiamo per salutare la Bosnia. Il paesaggio si addolcisce, si appiattisce, l’orizzonte si allarga e si apre. Stiamo andando verso il mare. Mentre tiriamo dritto oltrepassando il bivio per Međugorje ci avviciniamo al confine. È una splendida giornata di sole. Spuntano qua e là bandiere croate. Facciamo la fila. Facciamo vedere i nostri passaporti. Non vengono nemmeno aperti. Bye bye Bosnia. We will miss you. Passiamo per Metkovic lungo la Neretva, la strada è dritta e costeggia il fiume, è piena di bancarelle e di famiglie sulla riva che fanno pic-nic. Sembra l’Italia di quand’ero bambino e andavo coi miei al lago, e mio padre pescava mentre mio nonno stava seduto sotto un albero e io giocavo lì intorno. Ho nostalgia. Ho già nostalgia dei Balcani mentre sono ancora in Dalmazia. Il paesaggio qui è bellissimo, è pieno di colline dolci, di verde e di acqua. I fiumi e l’Adriatico si abbracciano qui in fondo alla Croazia, danno spettacolo, e ci ricordano che siamo tutti mediterranei. Corriamo verso nord. La strada è pressoché deserta. Abbiamo nello stereo della macchina un bel po’ di turbo-folk che ci tiene compagnia. In poco tempo siamo nei pressi di Zara, e decidiamo di fermarci. Parcheggiamo ed entriamo in città a piedi, oltrepassando una porta antica con il leone di San Marco più grande che io abbia mai visto. Per un attimo mi sembra porta San Tomaso a Treviso, però qui c’è il mare. Zara è splendida e veneziana, ci sediamo su un tavolo di un ristorante del lungo-mare e pranziamo con una magnifica grigliata di pesce locale. Qui è già molto diverso rispetto alla Bosnia. Qui siamo già in dentro un’Europa più formale. Qui in Croazia un po’ di formalità europea ha già intaccato, almeno in superficie, la sostanza Jugoslava di cui è fatta questa terra. La costa adriatica Croata è fra le più belle del continente. Facciamo il bagno sulla spiaggia di Zara e ripartiamo verso nord. Man mano che ci avviciniamo a Rijeka, e dunque al confine con l’Italia, mi rendo conto di quanto la Jugoslavia fosse vicina a noi. Di quanto l’Italia e la Jugoslavia si siano mescolate, di quanto il paesaggio, la gente, i panorami e la terra in definitiva si mescolino. Di quanto, se non ci fosse un confine a separarle, Italia e Jugoslavia siano la stessa cosa. Mentre penso tutto questo, forse, capisco perché ho voluto fare questo viaggio. Questo veloce tour dei Balcani. Capisco perché sono voluto andare a Sarajevo. Capisco perché sono voluto andare in Bosnia. L’ho fatto perché sentivo che questi posti mi appartenevano, in qualche modo. Sentivo che queste terre balcaniche erano parte della mia cultura, della mia civiltà, del mio carattere e del mio essere. Volevo vedere se avevo ragione. Sono venuto qui nei Balcani apposta. Volevo vedere quanto mi sentissi a casa. E ho trovato una casa. Ho trovato il cuore pulsante e vivo di un’Europa ingessata e formale che si è dimenticata cosa voglia dire avere un “cuore”. Se n’è dimenticata lasciando sola una parte di se stessa, per troppi lunghi anni, lasciandola in mano ad un potere che per auto-conservarsi non ha esitato a sacrificare una generazione di esseri umani liberi. Una classe dirigente cieca nella ragione che ha trasformato la Bosnia in una enorme e sanguinolenta tonnara umana sulla sponda opposta dell’Adriatico. Un’Europa grande nelle parole, nelle banche, nelle istituzioni…ma piccola, misera, insignificante nella difesa dei diritti umani, nel pacifismo, nella condanna del male. Un’Europa ancora senza cuore. Mentre io ho un cuore. Un’Europa colpevole, che non siederà mai davanti a nessun tribunale, ma che io condanno fermamente e senza appello per ogni chilometro che ho percorso dentro l’ex-Jugoslavia e per ogni nome e cognome scritto su una lapide o dimenticato in qualche fossa comune. Chi non si indigna è complice di tutta questa merda. Ed io ho fatto questo viaggio per essere consapevole di tutto questo. Per portarmelo oltre il confine di Trieste. Tenermelo stretto, qui in Italia, perché mi serve. Mi serve per sconfiggere il male. Per ricordare. Per salvarmi. La Bosnia è il posto più vivo che io abbia mai visto negli ultimi 10 anni. E’ la terra più piena di vitalità e di significato in cui io sia mia stato da quando sono nato. Se esiste un’Europa, l’Europa è là. Se esiste una via per il progresso, l’armonia, la solidarietà, la tolleranza, l’arte e la cultura, quella via passa per forza per le strade dei 1800 chilometri che ci siamo fatti io e Stefano in un finesettimana torrido di luglio 2011. Daide Buldrini www.davidebuldrini.it

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