Viaggio di nozze Neozelandese!

Rudy e Sara nella terra dei Maori, a Auckland City e oltre...
Scritto da: Culdefeu
Partenza il: 20/09/2008
Ritorno il: 10/10/2008
Viaggiatori: in coppia
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Rudy e Sara: viaggio di nozze neozelandese!

PREFAZIONE Quanto i più ardimentosi si apprestano a leggere altro non è che il racconto relativo alla prima parte del viaggio di nozze intrapreso in compagnia di mia moglie Sara (la seconda parte ha avuto luogo alle isole Tonga e verrà pubblicata a tempo debito). In queste pagine troverete informazioni relative ai luoghi visitati, le spese sostenute per dormire e mangiare, i pensieri e le sensazioni provate, di tutto un po’ insomma. Per quanti non avessero voglia di leggere questo papiro, ma fossero comunque interessati ad avere informazioni di qualsiasi natura relative al viaggio, non esitino a contattarmi tramite mail.

Ed ora diamo il via a questa follia… See ya!!!

20 Settembre 2008 (Melbourne – Auckland) Dopo essere partiti il giorno 18 da Venezia con volo Emirates ed aver trascorso una notte in quel di Dubai, l’ultimo scalo prima dello sbarco nell’Isola della Lunga Nuvola Bianca ha luogo in Australia, con precisione a Melbourne. Tralasciando il siparietto nel quale una zelante poliziotta mi invita a sollevarmi la berretta e mostrare il suo contenuto al fine di controllare che non nasconda nulla di illecito, i controlli si rivelano una pura formalità. Dimostrato di non essere un terrorista, con fiducia rasente allo zero nei confronti dell’adattatore procuratomi in madrepatria, approfitto dell’attesa per acquistarne uno di scorta che si rivelerà una mossa quantomai azzeccata. Nuovamente imbarcati, in previsione di Auckland assimilo una piccola dose di melatonina nella speranza che il sonno abbia la meglio, ma si tratta di una dura battaglia che vinco solo quando siamo prossimi alla costa neozelandese. Atterriamo puntuali e grazie alla cortesia ed alla simpatia degli aeroportuali espletiamo le pratiche di ingresso nel paese nella più totale tranquillità. Recuperato il bagaglio cambiamo subito mille euro in valuta locale e ci mettiamo alla ricerca di un mezzo per raggiungere l’hotel. All’esterno dell’aeroporto non dobbiamo attendere molto per trovare un pulmino che per trentacinque dollari ci porta a destinazione. Dal finestrino osservo scorrere i sobborghi di Auckland, composti da vaste zone verdi, macchine di seconda mano e case in legno popolate in prevalenza da maori. Quando siamo in prossimità del centro cittadino le macchine asiatiche lasciano il posto a quelle di matrice europea. Al termine di un viaggetto di 40 minuti circa arriviamo all’albergo, che, come ci aveva accennato l’autista, ha cambiato di recente nome in Rendezvous. Il facchino afferra la valigie, ci lascia effettuare con tutta calma il check-in, dopodichè ci accompagna alla nostra camera situata al decimo piano. Prima di prendere possesso della stanza ci congediamo lasciandogli una cospicua mancia (nei giorni a venire saremo ragionevolmente più cauti con le ricompense). Al fine di smaltire un minimo l’impatto col nuovo fuso orario, di comune accordo ci corichiamo per un’oretta di riposo, ma al suono della sveglia sono il solo ad alzarmi, Sara ha infatti deciso di rimanere a letto. Io sono troppo eccitato e mi lancio alla scoperta in solitaria di Auckland, che tuttavia a prima vista non riscuote propriamente i miei favori. Passeggiando constato come la stragrande maggioranza della gente sia di etnia asiatica, una piccola fetta è composta da maori, mentre di bianchi sembra non esservi praticamente traccia! Osservo per un attimo la Sky Tower ed i temerari che si lanciano dalla sua sommità con il bungee-jumping, quindi mi dirigo in Queen St dove si concentrano i negozi della città. Acquistata una tessera telefonica mi indirizzo al porto pur senza arrivarci, decido infatti di lasciarlo per quando ci sarà anche Sara. Rientrando in direzione dell’albergo un autista d’autobus di origini maori scorgendo la mia videocamera semiprofessionale richiama la mia attenzione con un colpetto di clacson, dopodichè mi saluta come fossi un caro amico che non si vede da parecchio tempo… Un punto a favore dei nativi! Sveglio Sara e ci prepariamo per uscire, fuori infatti è già scesa la sera. L’aria è fresca, ma nonostante ciò non pochi giovani, sempre asiatici per dovere di cronaca, si aggirano per il centro vestiti di tutto punto, ma soprattutto del minimo indispensabile. Per questa sera stabiliamo di cenare in un Subway (sarà il primo di una lunga serie), dove mangiamo bene, a sazietà, e, cosa ancor più rilevante, spendendo una sciocchezza. Il venditore che ci serve, col suo fare gentile ed incuriosito mi porta alla mente il ragazzo bosniaco che ci aveva un anno prima salvato da un quasi certo digiuno serale ad Odense. Approfittiamo di una cabina telefonica per chiamare a casa, quindi tornati a calpestare le vie del centro osserviamo come il numero di giovani si sia esponenzialmente incrementato e come le strade siano ora solcate da improbabili auto elaborate fino all’eccesso, interpreti principali di un mesto carosello all’insegna di un prima, seconda, semaforo e così via. Passeggiamo fino al porto posticipando all’indomani la scelta di quale isola della baia visitare, dopodichè rientriamo in albergo senza che la Auckland by Night sia ancora entrata nel vivo, domani abbiamo in programma di svegliarci presto e visitare in lungo ed in largo la Città delle Vele.

21 Settembre 2008 (Auckland) La sveglia suona quando scoccano le sette del mattino. Ieri sera, rientrati in albergo ho analizzato fino a tardi la mappa del paese per avere un’idea di massima su quali rotte intraprendere nei giorni a venire, ma senza ottenere risultati incoraggianti. Dopo un’abbondante colazione al dodicesimo piano seguita da una modesta mancia alla cameriera di servizio, verso le otto siamo in strada pronti ad approfittare di questa bella giornata di sole. Prima di dirigerci al ferry per raggiungere la sponda di Devonport, facciamo tappa all’Albert Park dove i pochi avventori di questa fresca mattinata si possono riassumere in un brizzolato individuo impegnato in esercizi di meditazione, un paio di giovani dediti ad una colazione spartana e poco altro, se non il silenzio di questo piacevole inizio di giornata. Percorriamo a ruota l’affascinante Princes St, lungo la quale si affacciano raffinati edifici in legno di un tempo, quindi Lonely Planet alla mano ci fermiamo alla ricerca della concessionaria presso la quale domani ritireremo la vettura. Nel mentre un ragazzo ci nota e si ferma pochi passi avanti a noi, domanda se siamo italiani ed all’istante ci invita a fare colazione con lui presso il bar-ristorante Acquamatta, un locale di sua proprietà in cui si serve prettamente cucina italiana. Ci prepara uova e prosciutto in padella accompagnate da una gagliarda bruschetta all’olio, e mentre mangiamo ci racconta della sua prolungata assenza dall’Italia; ci riferisce che dopo aver fatto esperienza in Inghilterra e Stati Uniti, ha avuto la possibilità di aprire un’attività ad Auckland e l’ha sfruttata, perché come tende a sottolineare, sebbene il paese affronti una grossa recessione, personalmente se la passa bene, come del resto la stragrande maggioranza dei neozelandesi (quelli che sono rimasti ovviamente, perché in poco tempo ben trecentomila hanno pensato bene di cambiare aria per la vicina Australia). E’ un poco burbero, ma al tempo stesso gentile, e tiene a precisare che gli mancano gli italiani, ma non l’Italia. Dopo una doverosa foto ricordo lo salutiamo e riprendiamo Queen St, dove ci fermiamo a comprare i primi souvenir della vacanza. Giunti al ferry ci impossessiamo dei biglietti per Devonport e dopo una breve attesa ci imbarchiamo alla prua del traghetto, dal quale osserviamo il braccio di mare che divide in due Auckland trafficato da una miriade di barche. Una volta sbarcati ci inoltriamo senza indugi in Victoria Rd, una bella strada interamente porticata presidiata da negozi di artigianato nei quali Sara si diletta nell’antica arte dell’acquisto, fin quando riesco a sedarla. Per non relegare Devonport alla sola funzione commerciale, prendiamo la direzione del Mount Victoria percorrendo un bel tratto di strada in salita lungo il quale alcuni giovani skater si dilettano in ripide discese. Conquistata la cima lo sguardo spazia su trecentosessanta gradi e possiamo così godere di un magnifico panorama. Ci dilettiamo con l’autoscatto fin quando un barbuto signore alla Bill Bryson ci viene incontro con fare amichevole, scambia due chiacchiere e diventa all’istante un amico di vecchia data. Dimostrando un buon feeling con la fotografia ci scatta alcuni ritratti con la city a far da sfondo, raccontandoci nel contempo di essere in viaggio intorno al mondo in compagnia della moglie, di risiedere a Londra, soffermandosi in chiusura su di un divertente aneddoto inglese relativo a tre anelli ed il matrimonio. Ci congediamo e percorrendo la strada a ritroso torniamo in Victoria Rd, ma sul fianco antistante; Sara scorge qui un negozio interamente dedicato alla stoffa per patchwork e ne acquista qualche modello. Al termine di Victoria Rd perveniamo alla piccola spiaggia, la sabbia è simile a quella di casa nostra, ma l’acqua è decisamente meno torbida. Nel parco circostante un gran numero di giovani famiglie con relativa prole al seguito approfitta di questa bella giornata di inizio primavera per bighellonare all’aria aperta. Per riuscire a visitare quello che resta di Auckland decidiamo di ignorare Rangitoto, cosicché preso il traghetto torniamo nella city e ci rechiamo al Britomart dove acquistiamo i biglietti per Kingsland, la fermata dell’Eden Park, lo stadio nazionale di rugby. Scesi alla nostra fermata squadriamo il quartiere, una zona malinconica e dall’aspetto trascurato, in netto contrasto con quanto visto sino ad ora. Raggiunti non senza problemi i cancelli d’entrata dello stadio constatiamo con delusione come non sia possibile accedere al campo, tanto che avviliti torniamo alla fermata della stazione, con l’impressione di aver buttato via soldi e tempo. La sensazione prende ancor più corpo quando il bigliettaio, un rugbista maori mancato a giudicare dalla mole, ci spiega che i tagliandi in nostro possesso sono di sola andata, pertanto senza far polemica acquistiamo quelli per il ritorno. Tornati in città percorriamo Quey St in direzione del porto, dove assistiamo alquanto indifferenti al rientro dell’Emirates Team New Zealand. Mentre Sara sgranocchia biscotti al kiwi e cioccolatini plasmati alla maniera del celebre animale simbolo della nazione, ci rechiamo alla Sky Tower. All’interno del più alto edificio dell’emisfero australe facciamo incetta presso lo shop di gadget e regali per una cifra considerevole, quindi ci accodiamo per salire sull’ascensore col quale guadagniamo la cima della torre. L’ascesa alla sommità completata in meno di quaranta secondi, osservata attraverso il pavimento di vetro trasparente dell’ascensore fa un certo effetto, ma il vero brivido lo regala Auckland, che, grazie ad una sapiente illuminazione, assume in notturna un aspetto decisamente seducente. Rimaniamo diverso tempo ad osservare lo spettacolo, quindi dopo aver fatto un po’ di confusione con gli ascensori, arriviamo al piano dove è localizzato il ristorante panoramico che ruota attorno all’asse della torre. Purtroppo non avendo prenotato ci attenderebbe una lunga attesa, ragion per cui salutiamo la Sky Tower e ci rechiamo al Mexicali Fresh, un franchising di cucina messicana nella zona del molo, dove mangiamo discretamente ed in quantità. Saremmo finalmente pronti per la piscina dell’albergo, ma esorto Sara a fare una deviazione al fine di richiedere alla Europcar di poter ritirare l’indomani la vettura un’ora prima dell’orario concordato, tuttavia oltre a sbagliare strada e perderci nei meandri di Auckland, troviamo l’ufficio già chiuso. Recuperata Queen St ed acquistata una donut alla vaniglia, rientriamo in albergo dove munitici di accappatoio e ciabatte ci rechiamo al quarto piano dove si trova la piscina. Come per incanto è tutta nostra, abbiamo a disposizione solo mezz’ora prima che chiuda, ma riusciamo comunque a godercela. Tornati in camera ci facciamo la doccia, ma Sara non è al meglio, cosicché la serata termina qui, con lei che prende sonno ed io al suo fianco intento ad elaborare il tragitto del viaggio itinerante che domani finalmente avrà inizio.

22 Settembre 2008 (Auckland – Dargaville – Waipoua Kauri Forest – Whangarei) Come spesso mi accade i buoni propositi hanno avuto vita breve. L’intento di riposare un buon numero di ore allo scopo di presentarmi lucido al mio primo appuntamento con la guida all’inglese è infatti andato a farsi benedire, tuttavia sono contento di aver dato vita nella notte ad un percorso soddisfacente che nelle mie intenzioni ci porterà in meno di tre settimane da Auckland a Christchurch. Dopo colazione scendiamo in reception e lasciamo i bagagli in deposito per recarci alla sede della Europcar, dove un addetto che definire squisito sarebbe poco, ci aiuta a dispiegare le pratiche di noleggio. Venuti a capo di uno scontro linguistico d’altri tempi, ci viene assegnata una Kia Cerato bianca con quasi 50000 km al suo attivo. Sono un poco perplesso, il noleggio contemplava una station wagon ed inoltre memore del viaggio in Danimarca dell’anno precedente confidavo in una vettura con meno strada alle spalle, ma poco importa, se farà il suo dovere fino alla riconsegna ne potremo parlare solo che bene. L’approccio al nuovo tipo di guida è meno problematico di quanto potessi immaginare, tuttavia una volta giunti in albergo tiro un respiro di sollievo notando la poco tranquillità manifestata da Sara lungo il breve tragitto. Salutiamo il Rendez-vous traendone le seguenti conclusioni: tanti servizi a disposizione e personale molto gentile, ma le camere sono poco curate, l’arredo in certi casi consunto, la pulizia non eccelsa e la colazione offre una scelta abbastanza limitata… Teniamo presente che si tratta di un albergo a quattro stelle e mezza (curioso, ma è proprio così)! Salutiamo Auckland ed inforchiamo la SH1 in direzione nord, destinazione Waipoua Kauri Forest. Il percorso che prosegue sulla SH12 è più lungo di quanto possa sembrare sulla mappa ed impieghiamo quasi due ore e mezza per raggiungere Dargaville, dove visto l’orario ci fermiamo al Subway locale per pranzare. Dargaville, come tutte le piccole cittadine incrociate a nord di Auckland, si consacra all’immaginario collettivo di vecchio paese di frontiera, tutti si conoscono e la vita sembra procedere sempre alla stessa maniera, giorno dopo giorno. Quando ripartiamo ha cominciato a piovigginare molto finemente, mentre avevamo lasciato Auckland abbacinata dal sole. Ci aspetta ancora parecchia strada per arrivare a destinazione, cosicché nonostante i limiti di velocità siano piuttosto bassi ed ingiustificati per queste zone di aperta campagna, premo sul pedale del gas (pur memore delle raccomandazioni di quanti mi avevano messo in allarme relativamente alla facilità con cui si viene multati in Nuova Zelanda per eccesso di velocità). Intorno a noi il verde spazia in tutte le sue sfumature, mucche al pascolo, vitellini che giocano e pecore intente ad oziare completano il quadretto. Arrivati nella zona dei kauri comincia a scendere la nebbia, prima ed unica volta nell’arco delle tre settimane a venire. La strada che attraversa il parco è costellata ai suoi bordi da una vegetazione a tratti tropicale, dove felci, kauri e palme regnano sovrane. I kauri in particolare nella loro grandiosità catalizzano la nostra attenzione, tuttavia non possiamo fare a meno di notare come la strada sia lastricata di opossum ed in una occasione scorgiamo finanche un rapace intento a banchettare con la carcassa di uno di loro. Giunti ad una piazzola riservata a parcheggio per gli escursionisti, posteggiamo la vettura ed in compagnia di una sola altra giovane coppia ci addentriamo nel parco. Dopo essere scesa qualche goccia il tempo si stabilizza e così possiamo contemplare i leggendari kauri denominati Four Sisters, ma soprattutto il Te Matua Ngahere, un vero portento della natura grazie alla sua circonferenza fuori dall’ordinario, avvertendo inoltre come in questa foresta gli aromi abbiano un’intensità fino ad oggi a noi sconosciuta. Tornati sui nostri passi ci avvicendiamo alla guida. Precedentemente, presso l’i-Site di Dargaville, il responsabile ci aveva spiegato che vista l’ora e la destinazione non saremmo mai riusciti ad arrivare in serata all’ostello di Orewa North com’era nei nostri piani ed a malincuore devo ammettere che aveva ragione. Decidiamo allora di raggiungere Whangarei, domani ci sveglieremo molto presto per recuperare un po’ di terreno. Arriviamo in città dopo aver rischiato di investire un opossum decisamente inebetito e attraversando zone immerse in una profonda oscurità (il primo lampione lo avvistiamo nei paraggi di Whangarei, dopo oltre cinquanta km di strada). Senza grossi problemi giungiamo all’ostello della YHA che le ore venti sono passate da pochissimi minuti, ma sull’uscio un ragazzo canadese ci informa che la reception ha già chiuso, lasciandolo all’addiaccio. Fortunatamente un ospite all’interno della struttura ci nota e telefona al responsabile dell’ostello invitandolo a tornare indietro. Grati allo sconosciuto soccorritore ed espletate le pratiche di routine, prendiamo possesso della nostra stanza con vista sulla città; all’interno dell’alloggio stazionano un bel letto a castello (matrimoniale a terra, singolo al piano sopraelevato) ed un divano, non potevamo chiedere di meglio. Per cenare ci rechiamo nella zona del Viaduct Basin, ma senza fortuna, le cucine hanno già chiuso tutte i battenti. La mia salvezza risponde al nome di Pak N Save, un vicino supermercato che rimane aperto al pubblico fino alle ore ventuno; mancano solo cinque minuti, ma sono sufficienti per acquistare un pacco di biscotti che saranno la mia cena. Tornati all’ostello, mentre Sara è intenta a farsi la doccia, nel recuperare lo zaino dalla macchina mi imbatto in un grosso opossum, che inizialmente mi scruta con circospezione per poi dileguarsi lentamente nella macchia. Dopo una doccia rigenerante mi infilo sotto le calde coperte del letto e scrivo gli aneddoti della giornata sul diario, ma senza far tardi, domani la sveglia suonerà presto.

23 Settembre 2008 (Whangarei – Thames – Hot Water Beach – Hahei – Thames) Anche oggi come ieri la giornata ha inizio con un bel sole che irradia la città. La vista attraverso le vetrate della camera è alquanto bizzarra ai miei occhi, con i tetti in lamiera delle case a valle rigorosamente ad un piano ed il bacino saturo di natanti in secca a causa della bassa marea. Raccogliamo le nostre cose e prima di recarci alle vicine Whangarei Falls ci fermiamo al Town Basin, dove facciamo colazione nell’unico bar aperto, il Serenity. Le paste, nella fattispecie un muffin ed un trancio di torta, vengono preparate in loco e sono meritevoli di elogio per l’impareggiabile qualità. Salutate le bariste veniamo avvicinati da un baffuto signore incuriosito dal nostro idioma; ci domanda della nostra provenienza ed appreso di avere a che fare con degli italiani decanta le lodi di un paese a detta sua stupendo che ha avuto la fortuna di visitare tanto tempo fa… Preferiamo non spiegargli che negli ultimi anni la situazione è parecchio cambiata! Tornati alla macchina raggiungiamo le belle Whangarei Falls, che vista l’ora sono solo nostre. Scendiamo i gradini nel bosco ed arriviamo alla base del laghetto in cui si getta prepotente la cascata. Tutto intorno è un incanto, l’aria permeata di minuscole molecole d’acqua affresca nell’atmosfera il classico arcobaleno, e risalendo avvertiamo nuovamente nell’aria gli intensi profumi del bosco. Con la macchina ci dirigiamo ora verso il centro cittadino alla disperata ricerca della SH1, ma non siamo fortunati e girovaghiamo a lungo smarriti, fin quando le indicazioni di un meccanico ci permettono di prendere la strada giusta. Diretti a Piha ci fermiamo in un distributore per fare benzina ed acquistare qualcosa da sgranocchiare durante i lunghi spostamenti. Succede poi che in autostrada manchiamo clamorosamente l’uscita e di conseguenza per non perdere ulteriormente tempo decidiamo di recarci a Thames, dove intendiamo trovare subito da dormire per la notte. All’ingresso del paese per mia somma gioia ci soffermiamo a guardare una partita di rugby tra squadre giovanili, quindi tornati alla ricerca dell’ostello lo troviamo con facilità, si tratta di un BBH, ma affiliato al circuito YHA. Come a Whangarei ce la caviamo con cinquantaquattro dollari per la camera doppia. Alla reception ci intratteniamo chiedendo alla proprietaria della struttura informazioni relative alle maree presso Hot Water Beach, ma internet fa le bizze e non otteniamo risposta al quesito. Sono circa le tre del pomeriggio, depositiamo i bagagli in camera e ci indirizziamo speranzosi verso la meta sopraccitata; la bella strada che attraversa la Coromandel Peninsula ha la classica corsia per senso di marcia, ma il bello è che nonostante le ripetute curve a gomito il limite di velocità è di cento km/h, cosa che rende il tragitto simile per certi versi ad una tappa di rally! Arrivati a destinazione constatiamo sconsolati come l’alta marea ci priverà dello spettacolo delle famose fosse scavate a riva, all’interno delle quali la gente si lascia crogiolare dall’acqua calda in risalita dal sottosuolo. Per non vanificare il tutto passeggiamo lungo la bella spiaggia, fin quando, dopo aver rischiato di farmi seriamente male nel tentativo di scavalcare goffamente alcune rocce, vediamo affiorare del vapore dalla battigia. Al contrario di quanto pensavamo la bassa marea ha inizio solo ora, cosicché possiamo osservare giovani e famiglie armati di badile scavare la buca all’interno della quale passare qualche gradevole ora. Tengo a precisare che tuttavia il tempo è di stampo invernale e pioviggina, ma nonostante ciò qualcuno azzarda persino un bagno nel gelido oceano. Da spettatori non paganti i momenti più divertenti restano quelli in cui la gente colta alla sprovvista nel camminare sul terreno rovente salta ed urla per poi esplodere in fragorose risate. Noi siamo vestiti come per un’escursione sui ghiacciai, e così, un po’ a malincuore, ci limitiamo ad osservare. Salutata Hot Water Beach (ma solo dopo che Sara ha fatto incetta di conchiglie e di una stella marina), raggiungiamo la vicina spiaggia di Hahei con l’intento di spingerci fino alle Cathedral Cove, ma visto l’imbrunire preferiamo soprassedere, così anche qui mi accontento di contemplare il paesaggio (peraltro meraviglioso), il tutto mentre Sara intenta a raccoglie sabbia e conchiglie viene colta di sorpresa da un’onda e tosto inzuppata fino quasi alle ginocchia. Si è fatto tardi, il buio avanza, ma soprattutto stasera vorremmo riuscire a mangiare qualcosa senza i soliti patemi. Propongo a Sara di cenare a Coromandel Town, ma quantificata la strada da percorrere ci dirottiamo senza esitazione in direzione di Thames, facendo sosta tuttavia a Tairua, un bel paesino bagnato dal mare, nel quale ci eravamo già fermati a fare delle foto nel pomeriggio. In un fish ‘n chips acquistiamo una porzione di patate kamaru ed un panino vegetariano che sbocconcelliamo lungo la strada del rientro. Giunti a Thames, per mantenere viva la tradizione acquisto al Subway locale un panino, venendo servito da un ragazzo di una gentilezza che già so mi mancherà in Italia. In ostello consumo il panino mentre Sara si diverte a giocare col gatto della proprietaria, quindi a letto presto, domani è in programma il primo trekking di questo viaggio.

24 Settembre 2008 (Thames – Waikino – Karangahake Gorge – Katikati – Mount Maunganui – Te Puke – Rotorua) La giornata ha inizio alle sette, quando il sole si è già impossessato del cielo sopra Thames. Una volta aver ordinato i bagagli ci congediamo dal Sunkist International Backpackers ed in particolare dai suoi simpatici inquilini, nella fattispecie la proprietaria, i suoi due gatti ed il labrador, per raggiungere il vicino centro città. Gli abitanti di Thames sono ancora avvolti in calde coperte a giudicare dalle strade deserte, ma riusciamo comunque a trovare un bar-pasticceria aperto al cui bancone sono messi in mostra improbabili pasticci alla Sweeney Todd e dolci che un occhio convenzionale come può essere il mio trova un poco ardimentosi. Ci accomodiamo e con una spesa irrisoria consumiamo una colazione che avrebbe fatto la felicità di un Bud Spencer e Terence Hill dei tempi d’oro. Lasciataci alle spalle la deliziosa Coromandel Peninsula giungiamo dopo poco tempo a Waikino, dove una piccola stazione ferroviaria segna l’inizio del cammino della Karangahake Gorge, un sentiero da trekking vivamente consigliato dalla Lonely Planet. Com’è prassi non sembra esservi traccia di esseri umani, cosicché ci rechiamo alla stazione, punto di partenza di un trenino stile vecchia miniera che appuriamo prestare servizio solo la domenica ed i festivi. Indagando avverto provenire del rumore dall’interno della struttura, cosicché mi decido a bussare ed una signora affacciandosi al portone ci dice di recarci all’altro ingresso del bar che aprirà immantinente, offrendoci così l’onore di essere i primi clienti della giornata. Gentilmente la donna ci indica quale sia il punto preciso di inizio del cammino lasciandoci come vademecum la relativa mappa, informandoci che purtroppo non potremo percorrere per intero il sentiero, in quanto un lungo tratto è chiuso per opere di manutenzione. Un poco abbattuti dalla notizia ci avviamo per il sentiero, osservando in principio ciò che rimane di Victoria Battery, il complesso un tempo utilizzato dai cercatori d’oro. Come per gli interpreti del film Stand by Me, i vecchi binari sono il nostro sentiero, fin quando questi interrompono bruscamente la loro corsa inghiottiti dal terreno. Durante il cammino passiamo di fronte ad una cascata equiparabile ad un rigagnolo a causa della recente scarsità di piogge, quindi sempre seguendo il corso del Ohinenemuri River arriviamo fino al punto in cui il percorso si tronca a causa dei lavori sopraccitati, dove come nella più assurda delle parodie veniamo accerchiati da alcuni polli a piede libero. Sfruttiamo l’occasione per lasciarci andare ad alcuni sketch con i suddetti, quindi cominciamo il ritorno alla macchina. Al bar della stazione facciamo una sosta per dare seguito alla luculliana colazione di Thames; in quest’occasione provo la prima birra neozelandese, una bionda prodotta nella regione che supera a pieni voti l’esame. Tornati in strada facciamo una nuova sosta a Katikati, dove in un negozio di artigianato locale chiediamo delucidazioni su come arrivare all’Haiku Pathway, una passeggiata sul fiume lungo il quale secondo la Lonely dovrebbero essere disseminate rocce con sopra incise brevi poesie. Ottenuta l’informazione Sara acquista qualche capo in lana d’alpaca, indi saliamo in macchina e percorsa un po’ di strada comprendiamo di avere necessità di ulteriori chiarimenti! Ci viene in soccorso il vicino Tourist Office dove risolviamo il nostro dilemma cogliendo inoltre l’occasione per farci prenotare due notti all’ostello di Rotorua e acquistare un buon numero di cartoline, il tutto elargendo una donazione nell’apposita cassettina per i volontari che gestiscono la struttura. Scendiamo quindi la collinetta alle spalle dell’edificio che porta al fiume, un luogo sereno ed immerso nella natura, tuttavia osservate le tanto decantate rocce constatiamo che quelli della Lonely a volte si esaltano veramente per poco. Nulla ci vieta comunque di fare una bella passeggiata nel parco, durante la quale osserviamo numerosi pescatori all’opera ed un corgi che apprezza di buon grado le attenzioni di Sara, il tutto sotto gli occhi della padrona con cui intavoliamo il solito faticoso dialogo. Rifocillato lo stomaco al Subway di turno (anche qui il commesso è di una gentilezza e simpatia che quasi dispiace doverlo salutare) ed il serbatoio della Cerato, osservando distrattamente i celebri murales cittadini che alla pari delle rocce lungo l’Uretara River non ci colpiscono particolarmente, ripartiamo diretti a Te Puke, ma strada facendo incuriositi da Mount Maunganui decidiamo di concedere una chance anche a questa località. Affrontato un traffico quasi irreale per queste latitudini, parcheggiamo sul lungomare della Bay of Plenty e ci dirigiamo presso la bella spiaggia di sabbia bianca, dove sulla battigia fini conchiglie levigate fanno bella mostra di sé. Sara ne fa la solita incetta mentre io preferisco dedicarmi al bel paesaggio che irradiato da un caldo sole lascia pensare più ad un giorno d’estate che di primavera, sensazione che deve provare anche una giovane coppia poco distante da me già schierata in costume. Mount Maunganui catalizza la nostra attenzione, cosicché senza pensarci due volte decidiamo di conquistarne la cima. Cominciata la salita capisco subito che non sarà una passeggiata, il caldo contrapposto ad un vento freddo mi spingono onde evitare brutte sorprese ad affrontare l’ascesa vestito quasi dovessi sfidare il Cervino ad inizio inverno. Alle pendici della montagna le pecore pascolano, mentre tutt’attorno il quadro è composto da erba verde perfettamente livellata, rocce in quantità ed una rigogliosa vegetazione composta perlopiù da alberi e felci. Ogni individuo incrociato, che stia facendo una camminata od un più impegnativo jogging, ci saluta con un ansimante “hi!”, usanza che ci piace parecchio e che cerchiamo di fare subito nostra. Raggiunta la cima del monte il paesaggio che ci si staglia di fronte è fantastico, il mare, le isole, la baia e tanto, ma tanto verde! Dopo le foto ed i video del caso affrontiamo la discesa, decisamente meno impegnativa della salita. Montati a bordo della vettura ci spogliamo degli abiti madidi di sudore e ripartiamo alla volta di Rotorua, speranzosi di non giungervi troppo tardi e confidando di riuscire a fare tappa anche a Te Puke. Per uscire da Mount Maunganui commetto l’errore di attraversare il centro di Tauranga in piena ora di punta, cosa che rallenta non poco. Arriviamo a Te Puke che manca mezz’ora all’imbrunire, così per stringere i tempi ci limitiamo a fare qualche foto all’immensa insegna a forma di kiwi posta all’ingresso del Kiwi 360 ed al relativo trenino a tema. Arrivati a destinazione verso le diciannove e trenta, ci presentiamo alla reception dell’ostello Kiwi Paka e riferiamo alla receptionist il codice di prenotazione rilasciatoci dal Tourist Office di Katikati. L’ostello a prima vista si presenta bene, tanti spazi comuni, una piscina riscaldata, ma fin dal caos sonoro originato da una miriade di ragazzini in libera uscita è chiaro che saranno due notti impegnative. Ad aggravare la situazione ci pensa una camera doppia sufficiente quel tanto che basta per contenere al suo interno un letto ad una piazza e mezzo ed una misera scrivania. Depositiamo il nostro armamentario e dopo aver constatato che la piscina termale sia meglio lasciarla al branco di giovani Attila, ci rechiamo in città per cenare al Pig & Whistle, una ex stazione di polizia ristrutturata. La cena è ottima, abbondante, le cameriere gentili e la spesa ridicola se si pensa a quanto avremmo pagato per l’equivalente in Italia. Sugli schermi televisivi del locale scorrono immagini sportive, il rugby è sport nazionale, ma anche il calcio sembra avere un buon seguito a giudicare dal gran numero di campi e ragazzi visti alle prese col soccer in giro per il paese. Giunto il fatidico momento della doccia, l’ostello mi si rivolta contro definitivamente. Si parte dai lavelli, piccoli, scomodi, con i due pomelli diametralmente opposti (quest’ultima scopriremo essere una consuetudine in Nuova Zelanda), per toccare l’apice con le docce a misura di hobbit. Titubante, rannicchiato alla maniera di una fisarmonica, scendo in campo pronto a combattere contro ad un flusso d’acqua incostante che spazia dal caldo inferno al gelo tipico della steppa senza mai assestarsi su di una temperatura umanamente sopportabile, fin tanto che in un momento di lucida follia chiamo a raccolta l’intera congrega dell’Ásgarðr, ma senza ricevere risposta alcuna. Prossimo a dare in escandescenza faccio ricorso a tutto il mio savoir-faire limitandomi a piangere sommessamente nel buio più completo, perché, mi ero dimenticato di dirlo, la luce è regolata da un timer che si riavvia ogni qualvolta qualcuno fa il suo ingresso nei bagni. Appena raggiungo il letto la stanchezza prende il sopravvento ed in un attimo mi abbandono tra le braccia di Morfeo.

25 Settembre 2008 (Rotorua – Te Whakarewarewa – Te Wairoa – Waiotapu – Rotorua) Per il sottoscritto andare a letto presto significa svegliarsi altrettanto presto e di conseguenza quando non sono ancora le sei mi ritrovo a guardare fuori dalla finestra della camera striata dalla rugiada notturna. La notte non è stata il massimo, nelle stanze attigue orde di barbari hanno bivaccato fino a tardi ed il pavimento in legno consunto dal tempo scricchiolando al ogni passo ha reso il riposo decisamente complicato. Scrivo per un’oretta sul diario quello che non ero riuscito a stendere prima di coricarmi, quindi ci alziamo e ci rechiamo in città al Fat Dog Cafè 2, un piccolo locale molto carino, dove facciamo colazione con i famigerati pancakes rigorosamente accompagnati da sciroppo d’acero. Congedatici dalle simpatiche cameriere constatiamo come stamani il cielo sia imbronciato, ma a parte qualche timida goccia si rivelerà una bella giornata. Com’era nei programmi andiamo a Te Whakarewarewa, una cittadina maori immersa nei vapori delle sue solfatare. L’aria in principio è opprimente e non posso fare a meno di ripensare a ieri sera quando in prossimità di Rotorua (quindi ancora lontani da Te Whakarewarewa) il gas penetrava attraverso ogni pertugio della macchina facendomi riaffiorare i ricordi di un viaggio in Islanda di cinque anni prima. Paghiamo l’ingresso e oltrepassato l’arco d’accesso al villaggio entriamo in qualcosa di suggestivo. Case, negozi di souvenir e cimitero si alternano a pozze ribollenti dando a questa cittadina un senso di irreale. Dopo aver osservato il quartiere abitato, le scolaresche nelle loro casacche colorate impegnate nella marae ed i principali lookout all’inizio del percorso, ci avventuriamo in una piacevole camminata attraverso verde e laghi sulfurei. Al termine del percorso durante il quale non abbiamo incrociato altri escursionisti, prima di effettuare gli acquisti d’organza assistiamo ad uno spettacolo maori nella casa dei concerti. Si tratta di un prodotto posticcio, non malvagio a dire la verità, ma vedere mercificare una cultura in questa maniera non può che rattristare. La massima delusione prende forma tuttavia quando comprendo che la Haka tanto agognata verrà eseguita in compagnia degli spettatori… Ebbene, il pezzo forte se ne scorre via senza lasciare alcun segno. Al termine dello spettacolo come accennato ci dedichiamo agli acquisti comprando due ciondoli, rispettivamente in giada per Sara ed osso per me ed una maschera che ora capeggia nel nostro salotto. Usciti dal villaggio decidiamo di recarci al Burried Village di Te Wairoa, ma non avendo una mappa stradale dettagliata chiediamo informazioni nell’ufficio all’ingresso del Te Whakarewarewa, rimanendo ancora una volta impressionati dalla gentilezza e dalla disponibilità che a queste latitudini sembra essere un’abitudine consolidata. L’addetta alla reception ci scrive su un foglio passo a passo tutte le deviazioni da prendere per arrivare a destinazione, cosicché giungiamo al Burried Village in totale scioltezza, zigzagando su di un manto stradale ammantato di opossum quando nell’ultimo periodo le principali vittime asfaltate erano state i pukeku. Parcheggiata l’automobile acquistiamo il biglietto e cominciamo l’esplorazione del museo, dove nonostante i cronici problemi con la lingua assistiamo alla dettagliata ricostruzione di quel triste giorno nel lontano 1886 in cui ebbe origine la Pompei neozelandese. Il video ambientato nell’albergo della città in cui un giovane scrittore inglese in viaggio attraverso il paese racconta le sue ultime ore di vita è realizzato in una maniera che non può lasciare indifferenti. La visita prosegue all’esterno, dove gli scavi hanno dato alla luce quel poco che il fango ed i lapilli non hanno cancellato per sempre; questa parte è decisamente meno affascinante a meno che non ci si fermi a leggere i cartelli informativi disseminati lungo il percorso, tuttavia la deviazione che attraversa il bel bosco regala squarci di natura decisamente incantevoli. Completato il giro ci rechiamo all’ultima tappa della giornata, il Waiotapu Thermal Park, dove pozze sulfuree dai colori più disparati fanno bella mostra di sé. I tempi sono stretti, ragion per cui siamo costretti ad accelerare il passo. Le pozze nelle loro policromie sono incantevoli, così come il miasma che permea l’aria in certi tratti è qualcosa di devastante. Percorriamo quasi per intero le tre piste soffermandoci in particolare a ridosso della famosa Champagne Pool, quindi tornati alla reception rimpinguiamo ulteriormente il già cospicuo agglomerato di regali che capeggia nei sedili posteriori della vettura. Sono solo le cinque del pomeriggio, eppure qualunque attrazione o luogo di interesse a quest’ora ha serrato i portoni d’accesso, cosicché torniamo in città alla ricerca di un negozio di ottica che possa rimettere in sesto gli occhiali di Sara che sono stati vittima di un piccolo incidente. Siamo poco speranzosi, ma fortuna vuole che incrociamo un negozio di ottica nel pieno dei festeggiamenti per l’inaugurazione; gli addetti si fanno in quattro, riparano gli occhiali, non vogliono essere pagati e ci invitano a partecipare al rinfresco! Prostrandoci di fronte a tanta cortesia torniamo all’ostello dove prima di uscire per cena approfitto della luce del sole per farmi una doccia. Tappa della serata è ancora una volta il Pig & Whistle, dove cambiano le portate, ma non il risultato: siamo sul punto di scoppiare, soddisfatti per la qualità del cibo e consci di aver speso ancora una volta relativamente poco. Dopo aver assistito alle consuete immagini di un match della coppa nazionale di rugby e ad un frammento di concerto dal vivo di un duo acustico in una sala adiacente dell’edificio, rientriamo in ostello dove Sara senza successo cerca di telefonare a casa con un telefono pubblico. Resici conto che la tessera telefonica acquistata qualche giorno fa risulta inutilizzabile fuori da Auckland, tornati in camera Sara ricorrendo al cellulare domanda a suo babbo di attivarle la promozione per chiamare dall’estero e finalmente anche questo problema è risolto. Prima di mettermi a dormire, tra gli schiamazzi dei ragazzini, le corse sul pavimento che cigola ed il loro eterno viavai, come consuetudine mi dedico alla stesura del resoconto giornaliero fin quando stabilisco che anche per quest’oggi può bastare.

26 Settembre 2008 (Rotorua – Agrodome – Matamata – Kawhia – Waitomo) Entrambe le sveglie stamattina hanno deciso di boicottarci, tuttavia la luce che filtra attraverso la finestra ci salva destandoci dal sonno. Dopo esserci preparati ci rechiamo all’I-Site di Rotorua al fine di effettuare un paio di prenotazioni fondamentali per l’indomani ed i giorni a venire, nella fattispecie il traghetto per Picton del 30 settembre e la notte all’ostello Juno Hall BBH di Waitomo. Tornati alla macchina, prima di lasciarci alle spalle Rotorua, facciamo una passeggiata nei Governement Gardens, dove osservo incuriosito la meravigliosa facciata del Rotorua Museum of Art & History, gli incantevoli giardini in fiore ed i numerosi campi da croquet, quindi presso il vicino Lake Rotorua ammiriamo il piroscafo a ruota Lakeland Queen, soffermiamo tuttavia primariamente sui cigni neri con cucciolate al seguito che catalizzano l’attenzione dei pochi turisti. Con un bel sole a fare capolino deliberiamo sia giunto il momento di andare al Rainbow Springs Nature Park ad ammirare i kiwi, ma quando veniamo informati che si deve necessariamente effettuare la visita guidata di un’ora in inglese, decidiamo a malincuore di soprassedere. Com’era nei progetti della partenza ci rechiamo allora all’Agrodome, una sorta di parco giochi per chi ama l’adrenalina. Su consiglio del gestore acquistiamo il pacchetto denominato 4-gasm, che consente di provare appunto quattro dei giochi proposti dal parco. La spesa di centosessanta dollari a testa è eccessiva, ma fare i giochi pagandoli separatemene non sarebbe conveniente e dunque ci lasciamo rapinare in piena coscienza. Decidiamo di cominciare con lo Zorbing. Il gestore dell’attività vuole convincerci a scendere a corpo libero immersi nell’acqua all’interno della sfera, ma sono partito dall’Italia voglioso di provarlo all’asciutto con la precisa intenzione di essere centrifugato e così dovrà essere. Una camionetta fa il pieno di Zorbingisti alla base del tracciato e poi sale a tutta velocità in cima alla collinetta, in quello che è già di per sé uno sport estremo. Prima di noi scendono alcuni ragazzi in palle riempite d’acqua. Sara mi lascia il passo, vengo quindi imbracato dentro alla palla e lanciato in una discesa che sa di sadomasochismo se non fosse per tutte le protezioni del caso e com’era nelle previsioni si rivela un’esperienza meritevole senza alcun riserbo. Sara mi segue a ruota, quindi dopo aver osservato altra gente scendere dopo di noi, ci rechiamo nell’altra struttura dell’Agrodome, dove continuiamo con l’Agrojet, un motoscafo che viaggia a tavoletta all’interno di un piccolo circuito-acquitrino. Da fuori l’impressione è che si tratti di un’attrazione noiosa ed invece fin dalla prima accelerata il gioco si rivela elettrizzante, curve ed evoluzioni sull’acqua sono veramente divertenti. Arriva il turno del Freefall Estreme, una simulazione di lancio col paracadute ottenuta con la forza di una turbina. Dopo le operazioni di rito (istruzioni sull’assetto da mantenere in volo, vestizione, avvertimenti di ogni natura), entro nell’arena e mi cimento senza grande successo in qualche evoluzione aerea, il tutto mentre i due responsabili divertendosi almeno quanto il sottoscritto osservano i miei movimenti ed all’occorrenza o correggono la mia postura o mi buttano sul bordo del cuscino d’aria gonfiabile quasi fosse un incontro di wrestling. Sara impara dai miei errori offrendo una prova decisamente migliore di quella del sottoscritto ed al termine della giostra acquista il cd contenente le foto dell’esperienza. E’ la volta dell’ultima attrazione, lo Swoomp. Come annunciato fin dal momento dell’acquisto del tagliando, abbandono Sara al suo destino, non conosco infatti i miei limiti e non voglio scoprirlo di certo a migliaia di chilometri da casa. Neanche Sara è propriamente convinta e trova nel ragazzo addetto alla giostra la compagnia che le consente di staccare i piedi dal suolo. Saliti ad una altezza considerevole i due vengono lasciati cadere nel vuoto per poi dondolare avanti e indietro, finché uno degli addetti afferra al volo i sacchi dentro i quali si trovano i due e li aiuta a scendere . Dopo avere acquistato anche il cd di questa prova (sconsigliatissimi questi acquisti, il rapporto qualità-prezzo tende verso il basso), torniamo alla macchina per recarci a Matamata, con la chiara intenzione di vedere Hobbiton, sebbene ogni guida sottolinei il fatto che di quei set è rimasto ben poco. La città appare subito inflazionata dal passato recente di cittadina degli hobbit, e su questo vive e vegeta tutto il turismo. Nell’ufficio informazioni veniamo messi al corrente che il tour sarebbe stato della durata di due ore e mezza, decisamente troppo per due persone quasi a digiuno di inglese, ragion per cui abdichiamo ed approfittiamo di un Subway per pranzare. Partiti in direzione di Waitomo ci fermiamo a contemplare un allevamento di alpaca e subito dopo facciamo sosta in un distributore in località Karapiro per concedere anche alla vettura il giusto pasto. Lungo la strada decidiamo di fare una deviazione in direzione di Kawhia e della sua spiaggia di origine vulcanica. La strada che ci apprestiamo a percorrere è un’improba collezione di curve, il tutto per qualcosa come cinquanta km, di conseguenza da un attimo all’altro mi aspetto che Sara stia male (soffre i tracciati non rettilinei), ed invece resiste stoicamente fino a destinazione. Nonostante la bella location e la sabbia nera ravvivata da riflessi argentei, Kawhia in questo periodo dell’anno non ha granché da offrire, così dopo una breve visita e soprattutto aver incrociato l’erede naturale del primo ed inimitabile Capitan Findus, ripartiamo per Waitomo dove arriviamo verso le diciannove. L’ostello che ci ospiterà questa notte si presenta davvero bene, in particolare la camera è spaziosa e come su richiesta abbiamo il nostro bagno privato. Depositati i bagagli ci rechiamo a cenare in un bistrò su Waitomo Caves Rd, con panini e patatine. Al bar trasmettono la consueta partita di rugby, mentre tra i tanti avventori di questa piccola cittadina possiamo notare quelli che l’indomani saranno gli istruttori del Black Water Rafting a cui prenderemo parte. Un ragazzo di origine maori affascinato dalla videocamera che mi porto appresso cerca di scambiare qualche parola con noi, il saperci italiani lo affascina, ma la barriera linguistica non aiuta e lo salutiamo col rimpianto di aver perso un’occasione interessante per conoscere una cultura tanto lontana dalla nostra. Rientrati in ostello la proprietaria ed alcuni avventori della struttura così come li avevamo lasciati un’oretta prima, sono impegnati nella visione del primo capitolo della saga de Il Signore degli Anelli. Arrivati in camera mi lascio cullare da una bella doccia al termine della quale mentre Sara dorme faccio il classico riassunto della giornata, fin quando verso le ventitrè decido sia giunta l’ora di andare a letto.

27 Settembre 2008 (Waitomo – National Park) Come è ormai consuetudine mi sveglio presto, ma questa volta per cercare di stabilire quale sia la soluzione ottimale per organizzare questa giornata ed i giorni a venire. Quando Sara si sveglia non sono tuttavia venuto a capo del dilemma e decido che a questo punto prenderemo le cose per come verranno. Riconsegnate le chiavi della stanza guadagniamo il vicino Legendary Black Water Rafting intenzionati ad immergerci anima e corpo nell’attrazione conosciuta come Black Labyrinth. I biglietti sono tuttavia esauriti, per una coppia c’è posto solo nel Black Abyss, più oneroso in ordine di tempo, denaro ed impegno. Vorrei declinare l’offerta, ma consapevole che non ci sarà una seconda volta, pur titubante accetto. I presupposti non sono incoraggianti: le tute propinateci hanno la deliziante peculiarità di essere gelide, bagnate fradice ed intrise di uno sgradevole fetore di urina, il tempo non promette nulla di buono e nel mio caso ad aggravare la situazione ci si mette il cervello che come per dispetto si chiude in una forma di autismo atta ad impedirmi di stabilire una qualunque forma di contatto con gli istruttori. A bordo di un furgoncino ci rechiamo all’ingresso delle Caves, ma prima di dare inizio alla spedizione ci viene fatta provare l’attrezzatura da arrampicata in una piccola zona attrezzata. Tremo come una foglia, mi sento attraversare il corpo da un freddo come non mi è mai capitato prima d’ora e siamo solo all’inizio (ad aggravare la mia condizione psichica c’è la consapevolezza di essere per qualche motivo insondabile l’unico ad avere freddo). Ovviamente nella comitiva di sette persone sono quello meno compagnone ed a ben vedere anche quello meno accorto, ma il freddo mi impedisce di muovere gli arti come vorrei e questo mi fa cadere in un vortice di nervoso all’ennesima potenza. Comincio a contare il tempo che passa, la vestizione risale ad un’ora fa circa e l’intera escursione dovrebbe durare qualcosa come cinque ore… Glom.. E non worms! La calata in corda doppia di trenta metri nel ventre della terra è più piacevole di quanto avessi preventivato e almeno per qualche minuto mi sento in pace con il mondo. Una volta scesi tutti quanti ci raduniamo in cerchio ed alla luce dei caschi in compagnia della nostra guida impariamo a conoscerci, anche se da parte mia per tagliarla corta mi limito ad un “I’m Rudy and I not speak english”. Dopo un altro tratto in corda doppia su cui ci lasciamo scivolare per giungere alla sponda opposta del fiume sotterraneo (divertente, ma a causa dell’imbracatura la frenata comporta una forte strizzata di zebedei una volta giunto a destinazione che non consiglio a nessuno), veniamo omaggiati di un pezzo di dolce e cioccolata calda… Chiunque mi conosce non crederà mai che ho consumato tutto ed in particolare con le mani infangate! La fase successiva prevede che con un gommoncino appoggiato alle natiche ci si debba lanciare al buio nel sottostante fiume sotterraneo. Sono l’ultimo a buttarmi, ma il meno titubante. L’impatto con l’acqua gelida che si insinua lungo la schiena dona una sensazione agghiacciante, avvallata dalle grida tutt’altro eroiche dei miei compagni di avventura che mi hanno preceduto. Se ripenso che tutta l’avventura ci è costata centosessantasei dollari a testa mi viene voglia di risalire ed andarmene, ma sono in ballo e devo ballare. Risaliamo un tratto del fiume usando le braccia alla maniera di remi, dopodichè formiamo una cordata della quale ne divento il locomotore, sebbene sia trainato a mia volta dall’istruttrice. Con lo sguardo rivolto al cielo osserviamo il fenomeno dei Glowworms (si tratta di larve di zanzara fluorescenti che pendono dalla volta delle caverne), avendo in certi istanti la sensazione di fissare in realtà le costellazioni nel cielo. Sganciatici, abbandoniamo i ciambelloni e cominciamo la camminata nel letto del fiume, ad ogni passo le caviglie tremano, ma resiste stoicamente. Alterniamo tratti a nuoto, altri a passeggio, attraversiamo fenditure nella roccia, scivoliamo lungo uno scivolo artificiale. Abbiamo un incontro poi con un pesce dall’aspetto poco gradevole, ne osserviamo uno fossile ed infine ci arrampichiamo lungo la parete verso l’uscita, mentre piccole, ma vigorose cascate cercano di complicarci la risalita. A distanza di tempo sono contento di aver fatto quest’esperienza, stupenda ed al tempo stesso tremenda, che tuttavia non ripeterei una seconda volta per il freddo che ho sofferto. Dopo essere stati rifocillati una seconda volta all’interno della caverna con cioccolata e brunch caldo, tornati in superficie siamo accolti da una pioggia fine e fastidiosa che ci accompagnerà per tutto il resto della giornata. La doccia rovente al termine di quest’esperienza è inizialmente piacevole, ma il corpo ancora congelato soffre lo scompenso, cosicché resisto fin quando decido di desistere e di lavarmi i capelli più comodamente in serata presso l’ostello. E’ giunto il momento di recarci all’I-Site locale dove prenotiamo gli ostelli per le notti a National Park, Wellington e Picton, il tutto grazie ad una commessa paziente e molto gentile. Nelle vicinanze facciamo tappa allo Shearing Shed, dove Sara, amante dei conigli, può ammirare un meraviglioso esemplare d’angora, anche se la visita al resto dell’allevamento fatto di conigli costretti in anguste gabbie la rattrista non poco. Torniamo in strada, la pioggia si è fatta sempre più insistente e ci accompagnerà ininterrottamente fino all’ostello Ski Haus in quel di National Park. Veniamo accolti dal gestore a cui sarebbe doveroso fare i complimenti per la bella soluzione adottata per la sala comune, fornita di tutto punto e con dei meravigliosi cuscini collocati sulla moquette rossa dirimpetto al camino scoppiettante, sui quali mi abbandono qualche minuto all’ascolto del bellissimo cd che sembra essere stato messo appositamente per me, The Cosmic Game dei Thievery Corporation. Mentre siamo impegnati a depositare i bagagli in camera udiamo provenire delle voci dal corridoio ed incuriositi ci affacciamo alla porta. Udite un paio di frasi degli avventori intenti a discutere col proprietario dell’ostello, azzardo con Sara che si possa trattare di turisti italiani. Non mi sbaglio, l’inglese parlottato da noi italiani all’estero salve rare eccezioni è un marchio di fabbrica! La conversazione verte sulle condizioni del Tongariro Crossing, argomento che interessa anche noi. Il gentilissimo proprietario dell’ostello si informa col pc, comunicandoci addolorato che purtroppo l’indomani il sentiero sarà impraticabile, per la notte è infatti prevista una perturbazione che imbiancherà le vette. Ci consiglia come alternativa il sentiero del Taranaki Falls, ma noi siamo alquanto abbattuti poiché il Tongariro Crossing era uno dei principali obiettivi. Rimasti soli con la coppia italiana ci presentiamo, scoprendo trattarsi di bolognesi in viaggio di nozze proprio come noi. Di comune accordo decidiamo di non rassegnarci posticipando all’indomani il da farsi e vista l’ora ci rechiamo a cena tutti assieme al dirimpettaio Basekamp. Come al solito si ordina al bancone ed in questa occasione opto per una ardimentosa pizza con pesto, feta e quant’altro, un mix inaspettatamente piacevole. Al tavolo ognuno esprime il proprio parere su questa tranche di viaggio in Nuova Zelanda; Michela e Massimo, i due ragazzi bolognesi, sono simpatici ed alla mano, ma soprattutto sono i primi italiani che incontriamo in questo viaggio se escludiamo il ristoratore di Auckland. Rientrati in ostello ci salutiamo con l’accordo di incontrarci alle otto del mattino nella sala comune ove prendere una decisone, nella speranza che le infauste previsioni vengano smentite.

28 Settembre 2008 (National Park – Taranaki Falls – National Park – Wanganui) Quando suona la sveglia la finestra è inondata dai raggi di un sole in piena forma che alimenta qualche flebile speranza. Sobriamente facciamo colazione in camera con qualche biscotto ed il succo d’arancia e mango comprato qualche giorno addietro in una stazione di servizio, la cui commistione genera un insolito sapore non dissimile da quello della pesca. Puntuali ci incontriamo con Michela e Massimo; fiduciosi chiediamo al proprietario dell’ostello novità riguardanti il Tongariro Crossing, ma riceviamo tuttavia il medesimo infausto responso della sera prima, sebbene al fine di fugare ogni dubbio ci consiglia di recarci a Whakapapa Village ove chiedere delucidazioni dettagliate al locale Tourist Office. Ci avviamo ognuno a bordo della rispettiva vettura e pur senza conquistarne le cime già dalla strada il colpo d’occhio dei monti innevati è di una bellezza disarmante. All’ufficio informazioni ci viene confermato definitivamente che il Tongariro Crossing a causa delle condizioni impegnative dei sentieri quest’oggi è accessibile unicamente a escursionisti esperti con adeguato equipaggiamento. Ci viene allora consigliato nuovamente il Taranaki Falls Track, a cui si potrebbe accostare il Tama Lakes Track. Accettiamo il consiglio, del resto non ci sono molte alternative, ma prima ci rechiamo alla vicina sede della Mountain Air, una compagnia di aerei da turismo che sorvolano il Tongariro con un volo panoramico in partenza alle ore undici della durata approssimativa di trentacinque minuti. Pagate le nostre quote le undici diventano magicamente le undici e trenta, ma non ne facciamo un problema. Il nostro pilota, un ragazzo giovane molto cordiale, ci invita a salire a bordo assegnando al sottoscritto il sedile del copilota, uno spazio stretto, angusto e non ideale per le riprese in quanto visuale e movimenti sono alquanto limitati. Ci apprestiamo così al decollo, alcuni comandi necessitano che mi sposti o assuma posizioni da contorsionista affinché la manovra possa essere eseguita correttamente. Prendiamo il volo dopo una breve rincorsa sulla pista erbosa sotto allo sguardo assente di decine di mucche al pascolo, ed in un attimo siamo alti nel cielo. Di tanto in tanto il pilota attraverso le cuffie ci illustra quanto siamo intenti a sorvolare, mentre cerca di sdrammatizzare sulle numerose turbolenze che movimentano il volo: a terra tuttavia Massimo in maniera piuttosto colorita ci renderà partecipi del suo pensiero riguardo tali sussulti! Tornati ai veicoli raggiungiamo il parcheggio attiguo il Tourist Office di Whakapapa presso il quale io e Sara ci rechiamo intenzionati a fermare la notte presso Wanganui. La ragazza al banco ci consiglia di prenotare direttamente sul posto, è bassa stagione e troveremo di sicuro una camera libera. Confidando in queste parole usciamo e dopo aver acquistato qualcosa da sgranocchiare per pranzo ci rechiamo assieme a Massimo e Michela all’inizio del Taranaki Falls Track, passando dietro allo storico albergo Chateau Baywiev Tongariro, dal quale si stanno allontanando numerose automobili d’epoca lucidate di tutto punto. A confermare che in questo preciso momento del viaggio la fortuna non è dalla nostra parte scopriamo che un tratto di sentiero è chiuso, pur non comprendendo con precisione quale; l’unica cosa certa è che vista l’ora e la durata dei percorsi (due ore andata e ritorno per il Taranaki Falls Track e quattro per il Tama Lakes Track), ci dedicheremo solo al primo, un po’ per non doverci trovare nelle condizioni di condurre a termine l’escursione al buio, un po’ perché non vorremmo arrivare troppo tardi a Wanganui (Waitomo è invece la destinazione di Michela e Massimo). Se si esclude la bella cascata alla fine del sentiero, che peraltro non offre nulla più di quelle viste sino ad oggi e la limpidezza del corso d’acqua che in certi punti assume le fattezze del cristallo, il Taranaki Falls Track non offre attrattive di rilievo e risulta per certi versi monotono. Per tornare indietro decidiamo di affrontare il sentiero alternativo che scopriamo quasi immediatamente essere quello anzidetto chiuso, ragion per cui percorriamo a ritroso la strada dell’andata. Giunti alle automobili siamo tutti concordi nell’affermare che i tempi di percorrenza dei sentieri siano calcolati con un principio del tutto neozelandese: per coprire infatti una distanza giudicata dagli autoctoni fattibile in circa un’ora, noi abbiamo impiegato quasi mezz’ora in più, pur camminando con un buon ritmo e limitando al minimo le soste. Fatto ritorno allo Ski Haus per recuperare le valige, domando al gestore dell’ostello di farmi la cortesia di telefonare al Juno Hall, dove temo di aver scordato la batteria a lunga durata della telecamera. Ultimata la telefonata mi riferisce che nessuno ha ancora controllato dalla nostra partenza la camera in cui abbiamo pernottato e che qualora fosse stata trovata la batteria mi avrebbe richiamato lei al cellulare. Il proprietario dello Ski Haus tiene comunque a precisare che anche in Nuova Zelanda si possono reperire con facilità siffatte batterie, ma quando lo metto al corrente di averla pagata centoquaranta euro assume l’espressione di chi è stato sodomizzato con l’inganno e asserisce di comprendere il mio stato d’animo. Caricati i bagagli nel baule salutiamo la coppia di ragazzi bolognesi, sperando ci sia in futuro l’occasione di rincontrarci. Presa ognuno la propria strada ci muoviamo verso sud con un bellissimo sole a rischiarare il cielo: le colline sono maculate di pecore e mucche, gli opossum finalmente lasciano spazio all’asfalto, paesaggisticamente parlando è tutto perfetto. Giunti a Wanganui poco prima dell’imbrunire, troviamo senza difficoltà il Braemar HouseYHA, situato nei pressi del Dublin Bridge. La struttura principale dell’ostello in stile vittoriano è fantastica, ma anche le stanze nella parte retrostante distaccata dell’edificio sono molto belle. Dopo aver pagato cinquantaquattro dollari il simpatico gestore ci consegna le chiavi della stanza. Dopo una meravigliosa quanto meritata doccia, risaliamo in macchina e attraversato il bel giardino dell’ostello inforchiamo Somme Pde e costeggiato il placido Whanganui River giungiamo in prossimità del ristorante Vega, nel quale abbiamo intenzione di cenare. Ci accomodiamo in quella che un tempo fu una casa di appuntamenti e per la prima volta da quando siamo in Nuova Zelanda l’ordinazione viene effettuata direttamente al tavolo. Accompagniamo la cena con due bicchieri di vino bianco del Marlborough e se alla fine consideriamo che per due primi, due secondi e due dolci abbiamo speso poco più di cento dollari in quello che è considerato un ristorante di classe, potete farvi l’idea di quale sia il costo della vita a queste latitudini. Verso le ventidue lasciamo il ristorante ai camerieri (sono rimasti solo loro) per fare due passi lungo la centralissima Victoria Avenue, ma Sara è infreddolita e stanca, ed il sottoscritto non è in condizioni tanto migliori, indi per cui rimandiamo la passeggiata all’indomani e ci andiamo ad accucciare sotto le calde coperte dell’ostello.

29 Settembre 2008 (Wanganui – Palmerston North – Wellington) La giornata ha inizio con la raccolta dei panni che la sera prima avevamo steso sui fili all’aperto ad asciugare: beh, dev’essere stata una notte particolarmente rigida a giudicare dall’indeformabilità di mutande e calzini che potremmo usare tranquillamente alla maniera di armi bianche! Consegnata la chiave e caricate le borse nel portabagagli ci rechiamo in centro, ma solo dopo aver fatto una breve sosta per riprendere dei canoisti allenarsi nel Whanganui River (è un freddo tremendo, vedere loro e molta altra gente in maniche corte ci sorprenderà non poco). Il parcheggio in Victoria Avenue è rigorosamente a pagamento e per quanto ci adoperiamo alla macchinetta, prima di capirne il funzionamento abbiamo offerto a qualche ignaro avventore un’ora di sosta. Infatti a differenza del Bel Paese dove viene solitamente rilasciato un tagliando da esporre in macchina, qui a Wanganui si paga in base al numero di parcheggio che si occupa, numero che si può notare inciso a terra sulle piastrelle antistanti l’area di sosta. Venuti a capo della machiavellica trappola mangiasoldi ci rechiamo a fare colazione al Big Orange, dove un Elton John in camicia a scacchi ci serve muffin, torte di limone, succhi d’arancia e latte alla vaniglia. E’ una colazione che vale quanto un pranzo, e infatti così sarà. Salutato Elton ci lanciamo in una scorribanda per negozi che accusa una breve interruzione unicamente finalizzata alla ricarica del tassametro. Presso uno sportello Bancomat Sara preleva trecento dollari, ma una banconota risulta essere parzialmente strappata; entrati in banca una dipendente la sostituisce con una nuova senza esitazione alcuna, permettendoci così di tornare senza perdere tempo all’acquisto di tonnellate di souvenir. Con i sedili posteriori della Cerato stracarichi di regali oltrepassiamo il fiume per poi risalire Durie Hill, il promontorio che domina la città e sul quale si staglia la War Memorial Tower, una torre eretta in memoria dei caduti neozelandesi della prima guerra mondiale. Scalati i centosettantasei gradini si raggiunge la sommità della torre, dalla quale si ha una meravigliosa vista che spazia dalla città fino al mare di Tasmania. In cima con noi solo una giovane coppia tedesca intenta a pranzare e che se ne andrà a bordo di una scalcinata vettura verosimilmente acquistata per pochi soldi, pratica molto in voga in questo paese a quanto c’è dato vedere. Abbandonata Durie Hill prendiamo la strada per Palmerston North, fino a giungere alla nostra prossima meta, il museo del rugby. Il New Zealand Rugby Museum è l’unica ragione per cui siamo spinti a Palmerston North, per cui entriamo senza perdere tempo. Pagato l’ingresso cominciamo la visita al piccolo museo, ed anche se Sara sostiene a ragione che sia un po’ abbandonato a se stesso, ogni singolo cimelio esposto è degno di essere osservato ed in determinati casi anche contemplato. Rimasti piacevolmente colpiti da questa interessante divagazione, ci rechiamo allo shop dove Sara non senza problemi a causa della taglia acquista la maglietta ufficiale degli All Blacks. Prima di congedarci l’anziano proprietario ci mostra alcuni oggetti appartenuti a suo padre, che con un certo orgoglio afferma essere stato il primo capitano dei mitici All Blacks! Quindi ci indica sopra la porta d’ingresso all’edificio una lavagna striata di mille colori, opera di numerosi giocatori che hanno avuto l’onore di indossare la casacca nera: lo slancio in salto di alcuni è davvero impressionante, quasi non mi capacito come quei carrarmati possano arrivare con le mani in alcuni casi a sfiorare i tre metri e venticinque di altezza! Salutiamo il simpatico curatore e prima di lasciarci alle spalle Palmerston North ci fermiamo in un supermercato della catena Countdown dove facciamo un’abbondante spesa. In direzione di Wellington il cielo si imbroncia e a sessanta km dalla capitale comincia a piovere con intensità sempre più forte man mano che ci avvicinavamo alla destinazione. Un mio personale puntiglio ci spinge a prendere la deviazione per Petone, ma viste le orrende condizioni atmosferiche in prossimità del paese decido di soprassedere e di proseguire verso la capitale, dove arriviamo prima dell’imbrunire. L’ostello Rosemere Backpackers presso il quale avevamo effettuato la prenotazione esternamente mostra i segni del tempo, ma a prima vista forse per merito degli sgargianti colori della facciata mi risulta carino. Il gestore è molto gentile e dopo averci consegnato la chiave ci dà qualche delucidazione relativa ai locali cittadini e su come arrivare all’imbarcadero per Picton. Preso possesso della camera (dall’aspetto trasandato e apparentemente poco pulita), torniamo alla macchina per recarci al Kai, un ristorante maori vivamente consigliato dalla Lonely. Percorriamo un paio di volte il viale dove la guida individua il ristorante, fintanto che perdo la pazienza, posteggio l’auto nel primo posto libero che mi si offre e dispongo di chiedere in giro, ottenendo la seguente risposta: il Kai ha chiuso i battenti! Tornati in ostello e fatta la doccia, ceniamo in camera con quanto acquistato nel pomeriggio al supermercato, dopodichè cominciamo l’impegnativo allestimento delle borse con i regali, anche se a dire il vero è Sara a caricarsi dell’incombenza. Fuori il tempo sembra essersi un poco ristabilito dopo la caterva di pioggia ed il vento selvaggio che ha sferzato le vie della città. Redatto il resoconto giornaliero mi preparo ad affrontare quest’ultimo giorno nella North Island.

30 Settembre 2008 (Wellington – Picton) Quando suona la sveglia Wellington è spazzata da una forte pioggia che lascia presagire una giornata fotocopia di quella appena conclusa. Alla maniera della sera prima mangiamo qualcosa in camera, quindi verso le nove usciamo dall’ostello intenzionati a caricare i bagagli in macchina, sebbene la pioggia in combutta con un irritante vento invitino a starsene al chiuso. Faccio attendere Sara sotto al porticato sul retro dell’edificio mentre vado a recuperare la macchina, quindi con una inversione in pieno stampo italico ripiego in direzione dell’ostello di fronte al quale posteggio la vettura con le quattro frecce. Carichiamo i bagagli sotto ad un’acqua implacabile e solamente quando ci chiudiamo all’interno del veicolo riusciamo a tirare un respiro di sollievo. Presa in esame la situazione decidiamo di trascorrere la mattinata al museo Te Papa, o perlomeno fino a quando il tempo non volga al meglio. Lasciata la macchina nel posteggio coperto del museo entriamo nell’immenso edificio, dove un inserviente notata la nostra titubanza si avvicina e molto amichevole ci illustra con orgoglio l’intero complesso nei suoi sei piani, tutti gratuiti a meno che non si voglia lasciare un’offerta nelle apposite cassette. La visita al Te Papa è piacevole, si comincia dalla scienza, si attraversano i periodi preistorici, l’analisi della fauna locale, la geologia, la cultura maori, la storia dell’immigrazione nel paese e così via. Dopo oltre tre ore ci rendiamo conto di averne visto solo una porzione, tuttavia fuori la pioggia ha interrotto il suo incedere, ragion per cui salutiamo il Te Papa per andare alla scoperta di Wellington nel poco tempo che c’è rimasto da dedicarle. Nella zona del porto il numero di persone impegnate nel jogging è considerevole, ma infinitesimale se rapportate a quelle che lo affolleranno all’imbrunire. Procedendo a ritroso rispetto all’itinerario proposto dalla Lonely, lasciatoci alle spalle il Te Papa arriviamo al viadotto pedonale che oltrepassa Jervois Quay per giungere in Civic Square. Il ponte è quanto mai bizzarro, composto in legno, ferro e cemento è capeggiato dalla sagoma di un pesce. Alcune opere d’arte di difficile interpretazione fanno bella mostra di loro, ma noi soprassediamo recandoci in Civic Square, dove è impossibile non rimanere perplessi alla vista della sfera-felce che staziona a decine di metri d’altezza di tanti piccoli aspiranti skater alle prime armi. Dopo la consueta tappa nell’I-Site locale ci immettiamo nella trafficata Lambton Quay, la cui unica ragione di esistere è quella di spingere i consumatori a dar fondo ai propri averi in uno dei suoi tanti negozi ed a tal proposito presso il Champions Of The World acquistiamo materiale griffato All Blacks per una cifra sufficiente a sanare il debito pubblico di uno stato africano di media grandezza. Al fine di non ridurre Wellington al solo shopping, dopo una sosta ad un Subway dove abbiamo a che fare per la prima volta con del personale scortese, proseguendo l’itinerario ci rechiamo al Beehive, il caratteristico edificio dove hanno sede gli uffici del parlamento Neozelandese. Dopo averlo squadrato per bene siamo concordi con la guida nell’affermare che sia difficile esprimere un giudizio sulla valenza artistica di questo palazzo: per non scontentare nessuno diciamo che è orrendamente bello. Salutato il Beehive e l’attigua Parliament House ci introduciamo in Terrace St alla ricerca della stazione di partenza della celeberrima cremagliera. Un uomo intento a caricare dell’attrezzatura sulla propria vettura nota il nostro smarrimento e senza esitazione, una volta compreso il motivo del nostro tergiversare, si lancia in una dettagliata spiegazione su come raggiungere la stazione inferiore, ma il suo inglese stretto è estremamente complicato da comprendere. Ciò nonostante capiamo di dover ricorrere ad un elevatore posto sull’altro lato della strada, cosa che facciamo pur con qualche esitazione. Prima di scendere chiediamo conferma ad un signore in procinto di salire in ascensore, che oltre a confermare quanto affermato dal tizio baffuto, ci offre il suo posto iniziando l’attesa per un nuovo ascensore! Scesi al piano zero sbuchiamo in un negozio di abbigliamento giovanile, cosa che mi incuriosisce alquanto. Usciti dal negozio e tornati in Lambton Quay incappiamo in una vetrina di valigie che potrebbe fare al caso nostro, dobbiamo infatti cominciare a valutare come portare a casa i regali fino ad oggi acquistati e spedirli dalle poste in una valigia ci sembra la soluzione migliore. Dopo una serie di calcoli e proporzioni, ne acquistiamo una molto capiente con la quale ci rechiamo all’ingresso della fermata della cremagliera. Acquistati i biglietti saliamo immediatamente sulla carrozza che ci porta in cima alla collina, dalla quale si ha una bella vista della città nonostante il cielo persista nel suo cupo grigiore. Degli immensi Botanic Gardens nonostante il notevole margine di tempo che ci separa dalla partenza del traghetto ne vediamo solo una piccola parte, conscio del traffico incontrato il giorno precedente non voglio correre rischi e così agguantata la cremagliera rientriamo in città. Lungo la strada per tornare al Te Papa noto come a differenza di Auckland che a prima vista può sembrare una colonia asiatica, Wellington sia popolata quasi per intero da cittadini di radici europee. Pagato il parcheggio partiamo in direzione dell’imbarcadero dove un traghetto della compagnia Interislander ci porterà nell’isola del sud. La strada è semplice e totalmente sgombra di traffico, tanto che quando arriviamo siamo costretti ad attendere quasi quarantacinque minuti prima che vengano aperti i cancelli. Armati di pazienza cominciamo l’attesa accanto al casello, osservando dallo specchietto retrovisore l’incolonnarsi di altri veicoli altrettanto frettolosi. Sara ne approfitta per mangiare qualcosa, io studio il percorso per i giorni a venire, fin quando effettuiamo il check-in, primi tra tutte le vetture. Una volta a bordo, prima di recarci a mangiare qualcosa girovaghiamo per i vari piani della stupenda imbarcazione. La bassa stagione è più evidente di quanto immaginassimo, tant’è che siamo gli unici avventori del ristorante. Ordiniamo fish n’ chips e prendiamo qualcosa di preconfezionato, quindi dopo aver consumato il tutto, con Sara che accusa un po’ di mal di mare (lo stretto di Cook stasera è un poco agitato), torniamo nel salotto dove una grande tv lcd catalizza l’attenzione dei pochi avventori. Mentre Sara si riposa io esco a fare una passeggiata sul pontile, dove l’allegra compagnia di due grossi camionisti usciti direttamente dall’ultimo numero del Lando, mi invita a rientrare quanto prima. Tutt’intorno il buio ha avvolto qualunque cosa, con notevole fatica qualche flebile luce compare all’orizzonte dello stretto di mare che pare essersi acquietato ed al termine del trasbordo a differenza di quanto visto quando affrontai la traversata dalle Lofoten a Bødø, fortunatamente qui nessuno starà male. Approdati a Picton siamo i primi a scendere, ed in pole position ci lanciamo alla ricerca dell’ostello riuscendo incredibilmente a sbagliare strada! Rimediato prontamente all’errore, arriviamo al The Villa Backpackers Lodge, dove a seguito di accordi telefonici avremmo dovuto trovare le chiavi della camera in una busta posta in un cesto di vimini nel cortile. Destino vuole che appena scesi dall’auto nel giardino dell’ostello ci sia il proprietario, che con gentilezza tipicamente neozelandese ci guida all’interno del bell’edificio rosso-blu. Nel giardino interno tre ragazzi intenti a discutere ci salutano, noi contraccambiamo, dopodichè portandoci al seguito il minimo indispensabile facciamo una doccia ed infine ci infiliamo a letto.

01 Ottobre 2008 (Picton – Ohau Point – Kaikoura – Motueka) A causa dell’assenza dell’impianto di riscaldamento, questa notte abbiamo dovuto fare a spallate con i pinguini, ma a parte questo piccolo inconveniente il The Villa Backpackers Lodge è stato promosso a pieni voti. Indecisi sul da farsi gettiamo la chiave nella buchetta dell’ufficio e dopo aver osservato appese alle pareti le numerose onorificenze ricevute dall’ostello, usciamo e carichiamo i bagagli in macchina. Per fare colazione ci rechiamo al Sea-Breezes Cafè, un bel bar con vista sul porto della cittadina. C’è un bellissimo sole in cielo, ma sebbene molti ostentino t-shirt e ciabatte infradito la temperatura come sempre è rigida, con il lunotto della vettura ghiacciato a darne conferma. Dopo un’abbondante colazione usciamo dal bar risoluti a recarci in quel di Kaikoura, il gestore ci ha infatti tolto ogni dubbio riferendoci che con un’andatura rilassata in due ore e mezza si arriva a destinazione. Tuttavia prima di salutare Picton ci rechiamo nel parco prospiciente l’approdo, dedicato come succede molto di frequente a queste latitudini ai propri caduti di guerra. Molto bello il piccolo porto e la vegetazione che fa da cornice al Queen Charlotte Sound, curiose le panchine le cui gambe sono ricavate dalle ruote dismesse di vecchi carrelli ferroviari. Partiamo dunque alla volta di Kaikoura attraverso strade pressoché deserte che fendono verdi paesaggi di una bellezza unica, fin quando decidiamo di spezzare il tragitto facendo una pausa in una stazione di servizio nei pressi di Ward. Sebbene la radio elargisca buon rock a piene mani, l’incostanza del segnale ci spinge ad acquistare un cd e la scelta cade sugli Abba: Sara è contenta ed io tutto sommato convengo che l’atmosfera festosa nei brani dei quattro svedesi si accosti bene allo spirito del viaggio. Ripresa la marcia i paesaggi non calano di intensità, il mare e la ferrovia alla nostra sinistra, le verdi colline e le montagne innevate sulla destra creano un panorama unico che ci fermiamo più volte ad immortalare. Non troppo distanti da Kaikoura prendo ad osservare con insistenza le rocce battute dalle onde nella speranza di scorgere segnali di vita e vengo quasi subito accontentato. Parcheggiamo e scendiamo lungo la ripida parete per infiltrarci in un branco di foche pur non riuscendo a stabilirne con precisione la razza, sta di fatto che la spettacolarità dell’evento non è inferiore al mefitico fetore che emanano. Sono distesi al sole ad oziare, grandi e piccoli, e la nostra non sembra disturbarli. Muovendoci a piccoli passi ci avviciniamo notevolmente pur mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza, all’apparenza queste creature paiono goffe e lente, ma non nutro la curiosità di scoprire cosa potrebbero farmi una volta avermi accerchiato. Dopo averli osservati a lungo risaliamo in macchina e ci fermiamo all’I-Site locale dove prenotiamo la solita camera doppia a Motueka presso il Bakers Lodge, un ostello della catena YHA. Ripresa la marcia attraversiamo il centro di Kaikoura e proseguendo lungo la strada costiera perveniamo in un tratto di costa dove la bassa marea ha messo a nudo un selciato di roccia dalla curiosa conformazione, parte infatti ha un aspetto spugnoso, il restante è composto da escrescenze di roccia sedimentatasi verticalmente. Un ultimo tratto di macchina ci porta infine al termine della strada, punto in cui è localizzata una colonia di foche. Osserviamo qualche individuo riposare mentre il sole ha lasciato il passo alle nubi, ma il numero degli animali è di molto inferiore a quello visto presso Ohau Point. Tra questi sono incuriosito da un cucciolo che sembra riposare pesantemente e a cui mi avvicino fino ad arrivare ad un paio di metri. Quando d’improvviso sentendosi minacciato si volta ringhiando in maniera minacciosa, nonostante la giovane età fa già impressione e poco ci manca che perda l’equilibrio finendo in acqua. Approfittando della bassa marea proseguiamo la passeggiata lungo il litorale roccioso, intagliato di infinite calette popolate da alghe spesse un dito e da una flora marina autoctona. Facendo ritorno a Kaikoura ci fermiamo a mangiare al Kaikoura Seafood BBQ, un chiosco posto in una incantevole location che a prezzi competitivi vende pietanze a base di pesce. Cogliendo l’attimo sperimento i rinomati bianchetti, rimanendone tuttavia deluso, dopo tanto parlare mi aspettavo decisamente qualcosa di meglio. In centro a Kaikoura ci fermiamo giusto il tempo di fare un po’ di spesa, in particolare per acquistare dei sacchetti di plastica nei quali conservare separatamente la sabbia che di volta in volta stiamo raccogliendo sui litorali. E’ giunta l’ora di partire in direzione di Motueka, ci attende la SH1 in direzione nord. Oltrepassiamo senza fermarci la città di Nelson che a prima vista sembra molto carina, quindi arrivati a Motueka chiedo a Sara di fare una deviazione in direzione della battigia, per riprendere una nave ammarata ormai divorata dalla ruggine. Decantando lodi a profusione in riferimento alle meravigliose villette signorili sul lungomare, ci rechiamo finalmente all’ostello, ma prima di giungere a destinazione in High St non possiamo fare a meno di notare il Gothic Gourmet, un ristorante ricavato da quella che in origine era una chiesa. Stabilito che stasera ceneremo qui, raggiungiamo l’ostello che pur non avendo il fascino del The Villa di Picton ci mette a disposizione una camera doppia con bagno che è una favola: letto enorme, spazi a misura d’uomo, prese elettriche in quantità (fino ad oggi generalmente una per stanza, molto raramente due), punti ove appendere gli indumenti ed una doccia grintosa. Scoccate le diciannove ci adeguiamo agli standard neozelandesi e ci rechiamo a cena percorrendo High St, una vetrina a cielo aperto intervallata di tanto in tanto da motel ed ostelli. Il Gothic Gourmet racchiude un ambiente raffinato anche se eccessivamente posticcio in alcuni accorgimenti, ma usciamo soddisfatti spendendo pressappoco quanto al Vega di Wanganui. Il buio nel frattempo ha fagocitato la città, per strada non c’è anima viva, cosicché rientriamo in ostello dove Sara con tutte le sue forze stipa i restanti regali all’interno della valigia acquistata a Wellington. Si rivela un’impresa non da poco, ma per nostra buona sorte ha buon esito… Sarà l’ultimo avvenimento di questa lunga giornata.

02 Ottobre 2008 (Motueka – Kaiteriteri – Abel Tasman National Park – Motueka) Rimanere un’altra notte a Motueka o cominciare a ripiegare in direzione di Hokitika? Come spesso accade decidiamo di demandare la decisione al dopo colazione. Usciamo dall’ostello diretti al vicino supermercato Fresh Choise dove acquistiamo qualcosa per il pranzo, quindi nuovo stop al Bakery Rolling Pin Cafè, un ottimo bar-pasticceria particolarmente fornito e di matrice europea. Tornati in ostello fermiamo la camera per un’altra notte, non abbiamo infatti intenzione dopo aver fatto trekking all’Abel Tasman National Park di metterci nuovamente in marcia. Cogliamo l’occasione per domandare in reception quale sia la soluzione migliore per percorrere il tratto da Bark Bay a Torrent Bay e come risposta ci viene consigliato di appoggiarci all’Abel Tasman Sea Shuttle, una compagnia di water taxi con sede alla vicina Kaiteriteri. Raggiunta la meta facciamo il biglietto e attendiamo sulla bella spiaggia che il battello parta. L’uscita è una sorta di mini-crociera, vengono operate digressioni nei luoghi di maggiore interesse (una roccia di forma globulare spezzata in due, una colonia di foche intente a riposare, un’altra di cormorani e così via) a soste in spiagge incantevoli dall’acqua limpida corrispondenti ai punti di partenza dei tanti percorsi che attraversano il parco. Dopo aver studiato attentamente i sentieri della costa abbiamo deciso di percorrere il tratto che parte da Tonga Bay, passa per Bark Bay ed arriva a Torrent Bay, quattro ore circa di cammino secondo la ragazza che ci ha venduto i biglietti tranquillamente fattibili. Siamo titubanti, ma al tempo stesso parecchio carichi, ragion per cui decidiamo di fidarci delle sue parole. La nave ci abbandona a Tonga Bay in compagnia di pochi altri avventori, la stragrande maggioranza degli escursionisti prediligerà infatti la tratta che va da Torrent Bay a Bark Bay; prima di intraprendere la lunga camminata facciamo una breve pausa e come d’incanto ci ritroviamo soli nella foresta. Poco male, il paesaggio è da cartolina caraibica e si sta veramente bene, né troppo caldo né troppo freddo, i presupposti per una stupenda passeggiata ci sono tutti. Nei pressi di Tonga Quarry ci fermiamo il tempo di scattare qualche foto alla stupenda location ed a tre cormorani intenti a rilassarsi sulla battigia; galvanizzati ripartiamo di buon passo, gli odori della selva sono qualcosa di indescrivibile e la zona boschiva è incredibilmente esotica. I tratti in salita sono impegnativi come in generale la gran parte del percorso, ma quello che comincia a preoccuparci sono i tempi che si dilatano notevolmente rispetto alla tabella di marcia, senza che si trovino indicazioni relative alla prossima meta, Bark Bay. Acceleriamo il passo e d’un tratto quella che era iniziata come una camminata prende le sembianze di una maratona. Comincio allora a ripensare quanto sostenuto da Massimo, cioè che le distanze ed i tempi neozelandesi sono calcolati in una maniera completamente diversa dalla nostra e non posso che dargli ragione. Oltrepassiamo magnifici paesaggi, cascate, ruscelli e paludi, fin quando ad un bivio ci vengono proposte due strade per arrivare a Bark Bay ed ovviamente i qui presenti non potevano non inforcare quella che, a causa dell’alta marea, conduceva ad un vicolo cieco. Dopo aver ripiegato fino al bivio prendiamo la giusta direzione pervenendo al campeggio di Bark Bay, dove orologio alla mano constatiamo sia impossibile proseguire per Torrent Bay e confidare di agguantare in tempo l’ultimo traghetto della giornata. Scegliamo allora di pranzare con i nostri panini, indugiando con gli altri pochi camminatori affinchè trascorra l’oretta che ci separa dall’arrivo del motoscafo. Torniamo a Kaiteriteri che sono le quattro del pomeriggio, ragion per cui decidiamo di rientrare a Motueka dove presso l’I-Site cittadino prenotiamo la notte ad Hokitika. Trovato posto al Mountain Jade Backpackers ci ritiriamo in ostello dove ci rilassiamo sul letto fino all’ora di cena. Stasera optiamo per l’Hot Mama’s Cafè dove ci deliziamo con pizza, nachos, birra e quant’altro, dopodichè in ostello lascio Sara al meritato riposo per recarmi nella sala comune dove mi dedico al diario giornaliero ed alla pila di cartoline che lentamente ha raggiunto le dimensioni di un hamburger, il tutto mentre alcuni ragazzi sono intenti a guardare una vecchia VHS del cartone Disney Hercules. Rimasto solo, verso mezzanotte spengo le luci e raggiungo Sara a letto.

03 Ottobre 2008 (Motueka – Westport – Punakaiki – Greymouth – Hokitika) Memori della mattina precedente concediamo un doveroso bis al Bakery Rolling Pin Cafè, che con la sua vasta scelta di paste risulta una piacevole rivelazione all’interno del panorama dei bar neozelandesi. Salutata Motueka ed in particolare i suoi bambini soliti camminare a piedi scalzi per strada a qualunque ora del giorno e della notte e con qualsiasi condizione meteorologica, riprendiamo la marcia inforcando la SH6 in direzione sud. Prima di percorrere la Valley Highway ed attraversare una zona puntinata di piccoli paesini dediti ad agricoltura e pastorizia, riusciamo tuttavia nella non facile impresa di sbagliare due delle tre possibili strade a nostra disposizione per lasciare il paese. Tra i consueti allevamenti di pecore e mucche emergono quelli un po’ più bizzarri di cervi ed alpaca, che si domandano incuriositi il perché di tanto interessamento da parte nostra. In un clima estremamente benevolo maciniamo chilometri su chilometri quasi senza accorgercene, fin quando d’improvviso il sole decide che anche per lui è giunto il momento di fare le valige ed andare meritatamente in ferie. Si comincia così con una fine pioggerellina che accorda una breve comparsata alla nebbia per poi abbattersi nuovamente su di noi, ma stavolta con un’intensità tale che non si ricordava dai tempi di Noè. Diretti a Tauranga Bay facciamo tappa nell’anonima Westport, necessitiamo di un break e soprattutto di effettuare delle prenotazioni. Col maltempo che non accenna ad attenuarsi decidiamo a malincuore di tralasciare Tauranga Bay ed allo stesso modo Denniston, un paesino abbandonato un tempo grosso centro di produzione del carbone, leggasi città fantasma. Presso l’I-Site chiediamo subito di prenotare per l’indomani l’escursione in elicottero sul ghiacciaio Franz Josef, che, ci viene riferito, avrà luogo unicamente in condizioni di cielo sereno. Fatta questa richiesta rimaniamo inchiodati al banco per oltre un’ora e mezza, la ragazza che si occupa di noi si fa prendere la mano al punto che ci ricopre di brochure e mappe di tutta la South Island! A ruota fissiamo la notte all’ostello Wanaka YHA dell’omonima cittadina con la speranza l’indomani di riuscire a coprire gli oltre quattrocento km che la separano da Hokitika. Seguono la prenotazione per la crociera nel Doubtful Sound con la compagnia Real Journeys, l’ostello Lakefront Backpackers a Te Anau ed infine la camera al Southern Comfort Backpackers di Invercargill. Lasciamo alla cassa l’equivalente di circa 320 euro, ma perlomeno i prossimi giorni dovremo preoccuparci solo di portare il cibo alla bocca. Usciamo dall’ufficio e facciamo una corsa sotto la pioggia per raggiungere la macchina, ma quando stiamo per ripartire scorgiamo correrci incontro la ragazza dell’I-Site che ci tiene ad informarci di non parcheggiare più contromano in futuro, la polizia è inflessibile e le multe a detta sua salate. Dopo averla ringraziata ripartiamo, ma percorsi una quarantina di km ci fermiamo, siamo giunti infatti a Punakaiki, una località costiera dove si può assistere al fenomeno dei getti d’acqua esplosi dalla furia dell’oceano attraverso le fenditure delle Pancake Rocks, rocce stratificate che hanno l’aspetto di tante frittelle impilate una sull’altra. Raggiunti i lookout ammiriamo queste conformazioni rocciose dall’aspetto curioso attendendo pazientemente di osservare il fenomeno sopra descritto, pur consapevoli che a causa della bassa marea le speranze sono ridotte al lumicino. Possiamo considerarci tuttavia fortunati, il mare in burrasca aggredisce con veemenza la costa e ci permette di assistere a diversi sfiatate che immortaliamo con foto e riprese video. Abbandoniamo questo scenario che ricorda le baie ove nella fantasia sono solite attraccare le navi dei pirati per ripartire in direzione di Greymouth, presso la quale facciamo il pieno di benzina. Greymouth nonostante la pioggia ha decisamente più appeal di Westport, ma colpisce in particolar modo Sara per un negozio d’abbigliamento che la rapisce letteralmente. Arriviamo infine all’imbrunire a Hokitika, dove ci attende per la notte il Mountain Jade Backpackers. La porta d’ingresso è chiusa, al suo interno non sembra esserci anima viva e per riuscire a penetrare nell’edificio dobbiamo ricorrere ad una porta di servizio, che inizialmente non siamo nemmeno sicuri conduca all’ostello. Rintracciata non senza fatica la ragazza che gestisce la struttura e consegnataci la chiave della stanza, ne prendiamo possesso e pur essendo piccola vi è perlomeno un tavolo su cui appoggiarsi per scrivere. La ragazza, di origine asiatica, oltre ad avere significativi problemi con la lingua inglese è alquanto sgarbata, ma poco importa, siamo qui solo per dormire. Portati i bagagli in camera recuperiamo la Cerato e dopo aver squadrato la merce venduta al supermarket del vicino distributore di benzina, ci rechiamo ad un vicino supermercato dove una commessa molto gentile incuriosita dalla nostra provenienza e dal motivo del nostro viaggio in Nuova Zelanda ci fa qualche domanda mentre è intenta a servirci. Per cenare decidiamo di affidarci ai consigli della Lonely Planet, cosicché ci rechiamo al Tin Shed Galley & Cafè che in un primo tempo non riusciamo a rintracciare, finché dopo un’accurata ricerca comprendiamo il motivo: è chiuso in attesa di un acquirente! Come seconda scelta optiamo per il Stumpers Cafè & Bar, dove già parecchia clientela è intenta a cenare. Ci accomodiamo, tutte le cameriere sono gentilissime e con sessantacinque dollari mangiamo senza ritegno. Tornati in ostello, dopo il consueto aggiornamento del diario di bordo ci infiliamo sotto le calde coperte ascoltando l’infausto ticchettio della pioggia alle finestre e confidando che domani possa essere un altro giorno.

04 Ottobre 2008 (Hokitika – Franz Josef Village – Haast – Hakarora – Wanaka) La sveglia suona che l’oscurità non ha ancora lasciato il passo al giorno. Con estrema gioia noto come la pioggia abbia posto fine alla sua sottile tortura, motivo per cui cominciamo baldanzosi la vestizione pro ghiacciaio, ma quando le operazioni sono ormai terminate, un sinistro ticchettio alle finestre non lascia presagire nulla di buono. Sposto la tenda ed osservando furtivamente la strada il presagio diventa realtà, una triste realtà. Col morale sotto ai piedi depositiamo la chiave nella reception deserta ed uscendo carichiamo i bagagli in macchina. Per tutta la durata del viaggio pioverà con intensità comprese tra l’aggressivo ed il subdolo, senza dare al tergicristallo un attimo di tregua. Lungo il tragitto incrociamo appena una dozzina di vetture, una sola invece (un camion) percorre la strada nella nostra direzione. Diversi episodi di aquaplaning mi mettono in allarme, ma l’episodio più eclatante si verifica quando i fossi colmi d’acqua tracimando diventano una sola cosa con la sede stradale. Il camion che ci precede avanza a bassa velocità in qualcosa di più simile ad un lago che ad una strada e accodandoci a lui ci togliamo da questo impiccio. Giungiamo a destinazione estremamente puntuali, il tempo di concederci una sobria colazione in macchina e ci incuneiamo tra la massa di gente che affolla il centro da cui partono le escursioni sul ghiacciaio. Mentre un gran numero di persone si sta equipaggiando per affrontare l’escursione lungo il Franz Josef, noi vogliamo illuderci fino all’ultimo che l’elicottero possa prendere il volo nonostante la pioggia abbia assunto proporzioni di calamità naturale. Presentati i nostri coupon di prenotazione, la ragazza al computer avvia una procedura similare al check-in che per un attimo alimenta false speranze. Tornati con i piedi per terra senza essere mai decollati, veniamo informati che con questo tempo l’elicottero non prenderà il volo, ma ci viene consigliato di unirci all’altrettanto bella escursione a piedi di due ore sul ghiacciaio che è in procinto di partire. Fuori scende un muro d’acqua che rende difficile distinguere una persona da una cassetta della posta e di conseguenza declino l’offerta, esplorare le grotte di ghiaccio avrebbe un senso ma doversi accontentare di osservare col tatto proprio non mi garba. Sgonfiati di ogni speranza, attendiamo un poco nella hall della compagnia osservando la gente prepararsi per la spedizione, quindi decidiamo di recarci al Sentinel Rock, un punto d’osservazione del ghiacciaio raggiungibile con un sentiero poco impegnativo. Sara decide di ripararsi con la mantella, io opto per l’ombrello, ma camminare con telecamera, zaino ed appunto l’ombrello, non è per niente pratico e per questo sudo le proverbiali sette camicie. Il breve sentiero e la pista parallela che nasce dalla biforcazione del percorso principale non regalano grandi emozioni: il ghiacciaio è celato dalle intemperie ed i rivi carichi di acqua limacciosa che scorrono ai suoi piedi non sono quello che si può definire uno spettacolo irrinunciabile. Gruppi in gran parte di anziani seguono o precedono i nostri passi ed ogni volta che ci incrociamo il morning! è d’obbligo. Questo consuetudine neozelandese anima una mattinata altrimenti noiosa, ma quando tornati alla macchina nonostante tutti gli accorgimenti del caso constato di essermi inzuppato in ogni dove, sbotto e perdo le staffe. Impiego parecchio a rassettarmi, quindi ripartiamo arrivando ad Haast, dove ci infiliamo al locale ufficio informazioni. Qui chiediamo informazioni riguardo a dove poter avvistare i pinguini, il luogo migliore secondo l’impiegata sarebbe Monro Beach, ma fermatici all’andata avevamo desistito, troppo lungo il cammino e pessime le condizioni del sentiero vittima del nubifragio. Un’altra buona postazione per vedere i pennuti potrebbe essere Jackson Bay, ma la strada per raggiungere la località ci porterebbe eccessivamente fuori dal tragitto per raggiungere in serata Wanaka. Dobbiamo inoltre considerare che i pinguini rientrano sulla terraferma solo al tramonto e noi non abbiamo intenzione di guidare per oltre due ore attraverso curve strette e per strade totalmente prive di illuminazione. Ci rechiamo così nel centro, se così si può chiamare, della piccolissima cittadina, più precisamente al Fantail Cafè, un locale dove possiamo consumare i bianchetti che in questa regione sono particolarmente rinomati. Consumo un sandwich con i bianchetti, pietanza sorella di quella sperimentata a Kaikoura, ma quello che catalizza maggiormente la mia attenzione in questo caffé è il gestore, un uomo sulla cinquantina che nella sua sobrietà ostenta tatuate sulle dita le lettere che compongono la parola “love”. In Nuova Zelanda sembra infatti che buona parte della popolazione maschile di una certa età abbia tatuaggi a giudicare dai colori ormai svigoriti, risalenti agli anni dell’adolescenza. Prima di salutare Haast ci rifugiamo in un negozio di souvenir dove non manchiamo di fare qualche acquisto. Salutiamo il simpatico proprietario ed il suo cane (altra indiscrezione, in Nuova Zelanda ai cani è praticamente interdetto ogni luogo, tuttavia vederli seduti in macchina a fianco del proprio padrone è una cosa normalissima) e partiamo alla volta di Wanaka. Il maltempo sembra provare pietà per i sottoscritti e arrestatasi la pioggia lo spettacolo che ci circonda è sublime. Lungo le pareti delle montagne è un fiorire di cascate, presso i ponti la gente si accalca ad osservare il prepotente incedere dei fiumi in piena e tutto attorno a noi si ha come la sensazione di rinascere. Cogliamo al volo l’occasione per intraprendere qualche breve sentiero da trekking, lungo la strada per Wanaka ve ne sono un’infinità ben segnalati ed ora che il sole filtra tra gli alberi i sentieri hanno assunto l’aspetto magico che mister Peter Jackson ci ha mostrato nelle sue pellicole. Arrivando in città, come consuetudine campi da calcio e rugby fanno subito la loro comparsa. Scaricate le valige nella bella camera doppia ci rechiamo nel vicino centro cittadino dove la scelta cade sul Speights Ale House, un ristorante caratteristico dal quale usciamo come sempre soddisfatti. Scesa la notte del lago non si ode che il suono dell’acqua spegnersi sulla riva ad allietarci il sonno.

05 Ottobre 2008 (Wanaka – Arrowtown – Queenstown – Te Anau) Il risveglio quest’oggi è decisamente piacevole per il sottoscritto, mentre Sara afferma di non aver avuto una notte altrettanto gradevole. Prima di recarci in centro per il breakfast, lasciamo in reception le chiavi della camera che la sera prima avevamo trovato come da accordi telefonici dentro la cassetta della posta accanto al piccolo ufficio. Lasciata la macchina in prossimità del lago, sebbene sia molto freddo facciamo qualche foto e ripresa al lago che stamani risplende irradiato da un fantastico sole mattutino. Fatta colazione al Cafè Gusto, dal quale esco amareggiato e più povero di sedici dollari (ma questo solo per un’infelice scelta di portata), prima di ripartire ci fermiamo all’I-Site prospiciente Roy’s Bay, dove una gentilissima impiegata ci prende in consegna informandosi del traghetto per le Stewart Island, delle condizioni meteorologiche nella South Island nel giorno di martedì e cercando senza successo di contattare l’ostello di Invercargill, per comunicare che quel giorno difficilmente saremmo arrivati prima delle venti (orario dopo il quale come avrete ormai capito non troverete più nessuno ad accogliervi). Inforcata la strada per Queenstown lascio libero sfogo al Best Of di Michael Jackson acquistato il giorno prima presso un distributore ad Haast per sopperire la cronica discontinuità del segnale radio neozelandese (e ci sarebbe veramente da lamentarsi perché le emittenti neozelandesi elargiscono a piene mani ottimo rock dalla mattina alla sera). Sulla base dei consigli ricevuti prima di partire schiviamo la SH6 a favore della Crown Range Road, decisamente più tortuosa, ma ricca di panorami che ci fermeremo a più riprese ad immortalare. Una tappa d’obbligo è la piccola Cardrona, una località stile vecchio west composta da una manciata di edifici tra cui spicca il famoso hotel omonimo. In prossimità dello svincolo per Queenstown svoltiamo in direzione di Arrowtown, piccolo paesino tanto decantato dalla guida. E qui la Lonely Planet ha perfettamente ragione, il centro storico conservato e ristrutturato è incantevole. Prima però, nonostante il disappunto di Sara che ne farebbe volentieri a meno, ci rechiamo a vedere il villaggio dove i coloni cinesi erano stati confinati all’epoca della corsa all’oro. Gli edifici lasciano appieno immaginare le dure condizioni di quei tempi e valgono la breve parentesi. In Buckingham St, il viale principale, Sara dà libero sfogo alle sue brame mettendo a ferro e fuoco almeno la metà dei negozi che incrociano il nostro cammino. Tornato in gioco propongo di entrare al Lake District Museum & Gallery, al cui interno è ricostruita la storia di Arrowtown, dal periodo della corsa all’oro alla ricostruzione di alcuni edifici così come si presentavano nel XIX° secolo (panetteria, scuola, stamperia, ecc…). Il museo ci colpisce piacevolmente, ma si è fatta ora di pranzo, cosicché ci fermiamo in una rosticceria turca dove acquistiamo due panini ed una coca-cola che consumiamo nel piccolo parco denominato Buckingham Green. Complice il sole molte persone vi ci si sono riversate, tutte abbigliate come fosse già estate, mentre io e Sara continuiamo ad ostentare un abbigliamento ben più autunnale. Concluso il pranzo con un milk-shake, verso le quindici partiamo alla volta di Queenstown, dove parcheggiamo appena fuori dal centro. Si è fatto tardi, ragion per cui ci dirigiamo senza perdere tempo all’I-Site locale al fine di chiedere delucidazioni. La ragazza alla reception è fantastica, ride, scherza, si comporta come se fossimo cari amici che non vede da tempo. Ci informa quindi che l’ostello a Te Anau chiude mezz’ora dopo le diciannove e che al Southern Comfort Backpackers di Invercargill in una qualche maniera ci verrà fatta trovare la chiave. Ci prenota poi il ferry-boat di martedì da Bluff ad Oban e considerando che il rientro nell’isola del sud avverrà nel tardo pomeriggio, anche il pernottamento a Balclutha in motel per centodieci dollari, la spesa più elevata per dormire che affronteremo in questo viaggio. Quando usciamo dall’I-Site il parchimetro è agli sgoccioli e ci resta da percorrere ancora molta strada per arrivare a Te Anau, ragion per cui ci fermiamo solo il minimo indispensabile per dare una scorsa alla città, per poi ripartire verso la nostra meta. I panorami sono tuttavia stupendi e non possiamo rinunciare a qualche sosta lungo le sponde del Lake Wakatipu, con questo tempo meraviglioso sarebbe un vero peccato non immortalare le sue acque limpide. Lungo la strada è il solito fiorire di allevamenti di pecore, mucche e cervi, sebbene quelle che carpiscono maggiormente la nostra attenzione sono le prime a causa delle loro pellicce rasate ed al gran numero di agnellini al seguito. Arriviamo a Te Anau appena in tempo utile per effettuare il check-in. La reception sul lungolago promette bene, ma la camera-appartamento è deludente, in particolare la piccola stanza da letto ed il bagno di stampo minimalista non suscitano le mie simpatie. Depositati i bagagli ci rechiamo in città dove percorriamo ad andatura blanda la via principale del paese, quella dei negozi e dei locali. Beh, d’estate forse questa località potrà risultare accattivante, ma in questa sera di una domenica di inizio primavera con molti ristoranti chiusi ed un passeggio inesistente, è davvero deprimente. Trovato un distributore aperto ne approfittiamo per fare il pieno alla vettura e per domandare alla gerente un buon posto dove mangiare bene senza spendere una fortuna. Ce ne consiglia un paio, il primo sul lungolago e l’altro sul viale principale, ma riusciamo nell’impresa di non trovare né l’uno né l’altro! Decidiamo allora di fermarci al Olive Tree Cafè, dove conveniamo per una serata di mangiare con moderazione. Le portate principali sono ottime, ma quando ci vediamo presentare un conto ben più alto di quanto avessimo preventivato sono sul punto di scoprire quanto velocemente posso correre i cento metri piani. Tornati in camera ci sdraiamo sul letto e ci abbandoniamo al sonno col pensiero rivolto all’imminente crociera nel Doubtful Sound.

06 Ottobre 2008 (Te Anau – Manapouri – Doubtful Sound – Te Anau – Invercargill) Fatta sbrigativamente colazione in camera e caricata la vettura delle valige, posteggiamo quest’ultima di fronte alla sede della reception del Te Anau Lakefront Backpackers ed attendiamo che giungano le otto e mezza, ora in cui l’autobus della Real Journey ci verrà a prelevare per recapitarci all’imbarco di Manapouri, prima tappa della crociera nel Doubtful Sound. Sul pullman siamo inizialmente in pochi, aumenteremo di numero soltanto una volta raggiunto lo scafo per solcare il Manapouri Lake. Arrivati all’imbarco procediamo prima al check-in, quindi ritiriamo il pranzo che la Real Journey ci ha fatto preparare. Il trasbordo non è nulla di eclatante, il lago è bello, ma non troppo diverso da quanto visto sino ad ora. Il cielo intanto è sereno e lascia ben sperare, la Lonely Planet infatti relativamente alle condizioni climatiche nei fiordi parlava di un buon cinquanta percento di possibilità di prendere pioggia. Dopo aver rinunciato più o meno forzatamente al Tongariro Crossing ed al Franz Josef Glacier per i capricci del tempo, ci seccherebbe potesse andar male anche in questa occasione, dunque osserviamo il cielo speranzosi che tutto proceda al meglio. Attraccati in corrispondenza della West Arm Power Station, cambiamo mezzo salendo su di un secondo autobus, condotto da un autista che a causa del proprio look diventerà per noi uno degli Abba. Durante il tragitto, l’autista che ricopre anche il ruolo di guida, ci illustra le varie zone che attraversiamo e ci porta in lookout dai quali poter osservare panorami e cascate (comincio ad averne abbastanza di cascate, lo confesso). Al termine del tour veniamo lasciati all’imbarcadero, ove accediamo alla nave che ci porterà in crociera attraverso i fiordi. Buona parte dell’imbarcazione è vuota, sicuramente la bassa stagione può avere influito, ma di certo i più si affidano al meglio reclamizzato e più accessibile Milford Sound. La crociera è interessante, priva di grandi sussulti, ma scivola via che è un piacere. Un responsabile ci informa costantemente su cosa siamo in procinto di vedere, ma la riposta di pubblico è totale solo quando ci viene fatto notare che un manipolo di delfini stanziali nel Doubtful Sound sta nuotando in competizione con la nave. I passeggeri, tra cui noi, si accalcano sul ponte principale, per osservare incantati i salti e le evoluzioni da grande platea della gang di tursiopi. Sul ponte della nave il freddo è prepotente, tagliente alla pari di un rasoio, ed in un batter d’occhio siamo tutti nuovamente al caldo dentro la nave. Giunti nel punto in cui il fiordo sfocia in mare aperto, osserviamo una colonia di foche poltrire al sole su di una delle rocce che al tempo fecero indietreggiare nientemeno che il signor Cook. Comincia a questo punto il rientro verso la base, di tanto in tanto scende qualche goccia di pioggia, ma tutto sommato il tempo stavolta è stato dalla nostra parte. Ad un certo punto del rientro la nave arresta i motori e dagli altoparlanti una voce diffonde notizie a cui non prestiamo orecchio. Usciamo allo scoperto e osserviamo l’acqua che in questo punto del fiordo ha assunto un colore non dissimile dal nero, è impressionante! Io e Sara intenti a parlottare veniamo tosto ripresi da una inserviente che ci redarguisce spiegandoci che il break non è stato casuale, ma volto a farci godere del silenzio che regna nel cuore del Doubtful. Conveniamo di dover prestare maggiore attenzione a futuri messaggi dello speaker, tuttavia il tentativo si rivela un mezzo buco nell’acqua, scatti fotografici, suole delle scarpe che scricchiolano, porte chiuse con veemenza e gente intenta a parlare seppur a bassa voce non permettono di immergerci in questo magico silenzio. Raggiunto il porticciolo saliamo nuovamente a bordo dell’autobus che ora ci condurrà alla centrale idroelettrica. Scesi nel sottosuolo attraverso un profondo tunnel, ci troviamo alla fine della discesa di fronte ad un portone dietro il quale uno spazio di manovra ci doveva consentire di invertire il senso di marcia, ma è chiuso. Emulo del primissimo Austin Power, l’autista per nulla intimorito compie in un paio di manovre una mirabolante inversione ad U che sfocia all’unisono in un applauso da prima della Scala. Scesi dal mezzo accediamo ad una sala dalla quale si possono osservare in azione le sette turbine e dove alcuni pannelli informativi narrano la storia di questa immensa opera edile. Appena fuori dalla sala capeggia una targa commemorativa con riportati i nomi degli operai che hanno perso la vita nella costruzione di questa centrale. E’ tremendo pensare che morte orribile possa averli colti, provo una grande commozione e rimango perso nei miei pensieri, fin quando l’autista cortesemente mi fa cenno di risalire, sono infatti rimasto fuori dall’autobus solo io. Riemersi dalle viscere della terra ci aspetta un nuovo tratto in autobus, l’ennesimo imbarco ed infine nuovamente l’autobus che ci riporterà in ostello. Col torpore che avanza comincio a tirare le somme di quest’esperienza, giungendo alla conclusione che si sia trattato di una piacevole escursione, ma soprattutto che una giornata rilassante in fondo ci voleva per tirare un po’ il fiato. Tornati a Te Anau ci divertiamo con una grossolana altalena legata al ramo di un albero in riva al lago, quindi fatta una breve tappa in centro partiamo per Invercargill, certi di arrivarvi quando la proprietaria sarà già in pigiama davanti alla televisione di casa. Arriviamo a destinazione dieci minuti oltre le ore venti, ma fortuna vuole che incrociata una ragazza diretta alla sua vettura questa esclami rivolgendosi a noi: “Sara Laghi?”. E’ la proprietaria del Southern Comfort Backpackers, uno dei più begli ostelli in cui abbiamo avuto modo di pernottare. Molto gentilmente ci mostra la stanza, ci invita ad esibirle la cedola del voucher l’indomani e si congeda. Consapevoli che a quest’ora le cucine dei ristoranti sono già chiuse, cerchiamo un supermercato od una tavola calda dove acquistare qualcosa per cena. Ci imbattiamo così ad un bivio, a fronteggiarsi un fish n’ chips ed un Subway. Dopo aver sondato senza successo il primo ci rifugiamo nel secondo, contribuendo a rafforzare ulteriormente il nostro legame con questa catena. Rientrando in ostello constatiamo come la città non sia anonima come afferma la guida, al contrario ha un certo fascino, ma forse sono le luci della sera a renderla quasi gradevole ai nostri occhi… Giudicheremo meglio domani. Ceniamo in camera aggiornando i nostri diari, scriviamo le cartoline e prima di metterci a letto ci concediamo una doccia nel bel bagno (finalmente un posto dove per fare la doccia non sono costretto a ballare il limbo).

07 Ottobre 2008 (Invecargill – Bluff – Stewart Island – Bluff – Invercargill – Balclutha) Per fare colazione stamani abbiamo scelto il Three Bean Cafè, dove abbiamo cercato di immagazzinare energie per la giornata intera. Usciti dal bar come preventivato ci rechiamo al vicino ufficio postale intenzionati a chiedere informazioni relative a come poter spedire la valigia carica di souvenir in Italia. Non sono molto ottimista al riguardo, invece la ragazza allo sportello ci dice che non vi sono problemi, ma bisogna verificare peso e dimensioni del bagaglio da spedire. Una volta recuperata la valigia veniamo serviti da una sua collega con la quale abbiamo inizialmente qualche problema di comunicazione. Espletate le procedure per la spedizione, il tutto sotto gli occhi della clientela che ci osserva incuriosita, decidiamo che per considerare conclusa la nostra opera è rimasto solo da collocare il lucchetto alla valigia. La signora al banco sbigottisce alla nostra richiesta, ritiene non ve ne sia alcun bisogno, ma da realisti quali siamo cerchiamo di erudirla spiegandole che l’Italia non è il paese ridente ed immacolato che sembra essere stampigliato nell’immaginario collettivo neozelandese, bensì una nazione tutt’altro che sicura per un certo genere di cose. Su nostra pressante richiesta ci spiega che possiamo acquistarlo in un negozio poco distante, un esercizio che vende accessori per auto e presso il quale un commesso estremamente cortese ci fornisce il tanto agognato lucchetto più un secondo in previsione di una ulteriore valigia da spedire in quel di Christchurch. Il commesso come accennato sopra è di una gentilezza squisita, tenta persino di instaurare un dialogo, ma compreso che siamo di fretta e che il nostro inglese è veramente pessimo, si limita a salutarci con il tipico “see ya”! In posta apponiamo il lucchetto alla valigia e la salutiamo, speranzosi di poterla vedere sana, salva e con tutto il suo contenuto in Italia. Tornati all’ostello consegniamo alla proprietaria il voucher di prenotazione, carichiamo i bagagli nella macchina e prendiamo la strada in direzione di Bluff con notevole anticipo rispetto alla partenza del traghetto per Stewart Island. Ci lasciamo dunque alle spalle Invercargill che al contrario di quanto proferito dalla Lonely ci è sembrata una città carina con una sua personalità, nonostante il cielo plumbeo che stamani gli gravita sopra. Al contrario Bluff ad un primo impatto lascia un po’ sgomenti con le sue case malmesse e quel senso di sobborgo abbandonato, ma il centro ed in particolare le belle abitazioni che sorgono sulla collina rivolta all’oceano risollevano un poco il giudizio di questa cittadina. Arrivati all’imbarco dei traghetti procediamo al check-in, dopodichè ci rechiamo senza perdere tempo allo Stirling Point, il punto dove la SH1 interrompe la sua corsa a sud. Per dare un tono al luogo i neozelandesi hanno pensato bene di installare un cartello con indicate le distanze che ci separano dai maggiori siti e città del pianeta. Comincia a piovigginare, il tempo non è dei migliori, ma vogliamo sperare che oltre quel braccio di mare le condizioni meteo ci sorridano. Sempre a ridosso dello Stirling Point mi concedo un break presso un bagno pubblico rimanendo impressionato da questo capolavoro tecnologico, una voce registrata infatti mi guida in tutta la pratica, dall’espletamento all’asciugatura delle mani, il tutto accompagnato da una piacevole orchestra di sottofondo. Diretti al molo ci fermiamo a fare un po’ di spesa in un supermercato, quindi parcheggiamo nello spazio riservato ai clienti della Stewart Island Experience, appena qualche minuto prima che abbia inizio l’imbarco. Partiamo puntuali, insieme a noi c’è una compagnia di turisti statunitensi che a turno tentano di instaurare un non facile dialogo, fin quando si inserisce un anziano che coglie l’occasione alla maniera di un Abe Simpson di narrarci con enfasi il suo anno trascorso in Italia nel 1974 quando era ancora un marines. Arrivati ad Oban ci congediamo prendendo la direzione dell’I-Site presso il quale confidiamo di prenotare gli ostelli per le notti a venire, ma riusciamo solo a farci consigliare un bel sentiero da percorrere nel tempo di permanenza sull’isola. Per avere una piantina dettagliata del percorso da seguire dobbiamo recarci nel vicino ufficio del DOC, dove acquistiamo appunto la mappa e per non perdere il ritmo anche qualche regalo. La leggera pioggia nel frattempo ha assunto connotati più simili al nubifragio, ragion per cui indosso la mantella, sebbene solo dopo pochi istanti la pioggia decida di arrestare il suo incedere. Come affrontiamo l’inizio del sentiero veniamo rapiti dalla meravigliosa vegetazione che ci circonda, al cui interno numerose razze di uccelli fanno udire il proprio canto. A colpirci in modo particolare ci pensa un grosso esemplare di kea, una sorta di grosso pappagallo dal piumaggio simile al falco, avvezzo a ricevere cibo dagli umani. Una signora dalla finestra della propria abitazione porge un pezzo di pane al pennuto che senza fare complimenti afferra e si dilegua, noi osserviamo e la emuliamo anche se non riusciamo nell’intento di fargli prendere il cibo direttamente dalle nostre mani. Il percorso alterna tratti di sterrato, asfalto e macchia boschiva, senza scendere comunque mai di livello. Attraversiamo spiagge bagnate da acqua limpida, saliscendi all’ombra di felci dalla bellezza abbagliante, il tutto sotto ad un sole che sembra averci preso finalmente in simpatia. Ci soffermiamo ad osservare alcune case provviste di una meravigliosa vista sull’oceano che espongono il cartello “vendesi”, quindi oltrepassato un tratto di terreno privato raggiungiamo una croce eretta in memoria di un missionario di origine tedesca che dedicò la sua vita per la gente di Stewart Island. Per evitare spiacevoli inconvenienti rientriamo verso il porto con ragionevole anticipo, constatando come il clima a queste latitudini sia decisamente instabile, infatti una nuova ondata di pioggia gelata di breve durata si abbatte sulle nostre teste. Dopo una breve tappa nell’unico supermercato locale, effettuiamo il check-in per il ritorno e accomodatici nel bar della compagnia di navigazione ci attardiamo a sbocconcellare qualche patatina osservando la baia dalle grandi vetrate dell’edificio. Imbarcati con puntualità veleggiamo verso Bluff, dove arriviamo con la solita puntualità neozelandese. Pagata la quota di parcheggio partiamo alla volta di Balclutha, dove arriviamo senza far soste qualche minuto prima delle ventidue, attraverso paesi immersi nell’oscurità notturna ed un traffico praticamente nullo. La camera del Highway Lodge Motel prenotata qualche giorno prima da Queenstown merita tutti i soldi che l’abbiamo pagata, locali ampi, ottimo impianto di riscaldamento, nulla insomma da recriminare. La signora che gestisce la struttura molto gentilmente ci consegna le chiavi, una bottiglia di latte e ci saluta dandoci appuntamento all’indomani. Scaricati i bagagli ci abbandoniamo ad una bella doccia, seguita da una tazza di the, finché passata mezzanotte andiamo a letto.

08 Ottobre 2008 (Balclutha – Dunedin – Otago Peninsula – Moeraki – Oamaru – Timaru) Parafrasando il buon Otto Disk mi sveglio pregando il sole di darci tutto quello che ha e miracolosamente veniamo accontentati, il cielo è una tavola azzurra e non vi è una sola nube a disturbarne la monocromia. Approfittiamo dell’angolo cucina per prepararci la colazione, quindi caricate le valige nel bagagliaio ci rechiamo dall’anziana signora per consegnarle le chiavi dell’appartamento. Alla domanda su quale sia il nostro itinerario rispondo prontamente enunciando una sequela di località le cui pronunce vengono corrette repentinamente dalla signora, neanche mi trovassi alle prese con una interrogazione scolastica. Con Sara a guida della fedele Kia Cerato, manuali alla mano mi diletto nel ruolo del cicerone fin quando giungiamo alla vicina Dunedin. Lasciata la macchina nel parcheggio con l’asfalto più irregolare di cui abbia memoria, ci dirigiamo subito nel cuore della città, l’Octagon, che forse a causa della quasi totale assenza di attività umana scivola via senza lasciar segno. La stessa St. Paul’s Cathedral non ostenta nulla più di quello che abbiamo già visto decine di altre volte, ragion per cui approfittiamo della presenza del solito I-Site per prenotare gli ostelli per le ultime notti, nell’ordine il 1873 Wanderer Backpackers a Timaru ed il Coachman Backpackers a Christchurch, inserendo nel pacchetto anche la visita al centro dei pinguini blu di Oamaru. Tornando a Dunedin ci avventuriamo in George St, il viale principale in cui è localizzata la vita economica della città. Essendo stata anticamente fondata da coloni scozzesi, non stupisce la presenza di un negozio dedicato interamente alla terra dei padri ed allo stesso modo non meraviglia la curiosità con cui ci fondiamo al suo interno. Dopo una successiva sosta in una ciclopica libreria, adocchiando l’insegna di un Subway decidiamo che possa essere giunta l’ora di pranzare. Seguendo la nostra stella cometa capitiamo all’interno di un centro commerciale il cui piano interrato è disseminato di ristoranti e tavole calde che ci annebbiano le idee, tra cui il Subway. La tentazione ci induce a dirottarci presso la tavola calda che serve cibo indiano, nella fattispecie riso a cui si può abbinare una lunga lista di condimenti posti in recipienti che ricordano tanto le nostre vaschette del gelato artigianale. Spendiamo un’inezia e ne usciamo pienamente soddisfatti oltre che pieni come otri. Rimanendo all’interno del centro commerciale, sedotti dagli sconti acquistiamo una valigia della Billabong, con la quale intendiamo spedire a casa il resto dei regali, che nei minuti a seguire aumentano misteriosamente ancora una volta di numero. Torniamo al lato culturale del viaggio recandoci alla bella stazione ferroviaria, tuttavia il tempo è mutato radicalmente ed una pioggia gelata in compagnia dell’immancabile vento ci spingono a dedicarle meno tempo di quello che sicuramente si merita. Rattrappiti raggiungiamo la vettura nella quale depositiamo i nuovi acquisti per lasciarla tuttavia in sosta un’altra mezz’oretta al fine di visitare la First Church of Otago. Esternamente si presenta massiccia e solenne, ma al suo interno questa magnificenza lascia il posto ad una sensazione di sobrietà che non ti aspetteresti. Tornando in strada, a voler ribadire che in Nuova Zelanda i cani non sono i benvenuti, prestando attenzione si notano numerosi divieti di ogni sorta per gli amici a quattro zampe. Salutata la città con il sole che è tornato prepotentemente a risplendere, prendiamo la direzione della Otago Peninsula e percorrendo Portobello Rd possiamo contemplare il magnifico Victoria Channel e le colline sul versante opposto. Facciamo tappa al Larnach Castle ed al Yellow-Eyed Penguin Conservation Reserve sperando di scorgere qualcosa senza dover sborsare necessariamente dei soldi, ma i neozelandesi sono degli ottimi affaristi e desistiamo in entrambi i casi. Una sosta ad Harington Point invece è d’obbligo, nel tratto di spiaggia sottostante il punto di osservazione degli albatross Sara scorge in una fenditura del terreno una femmina di pinguino minore blu impegnata nella cova. Particolarmente eccitati facciamo qualche foto prima di tornare in noi e domandarci se le nostre azioni non l’abbiano disturbata… Sara si sentirà in colpa fino a sera ed oltre! Risalito il crinale fino a Taiaroa Head ci deliziamo osservando il faro, il mare e le nuvole dai toni incredibili, ma soprattutto gli anfratti delle scogliere dove numerose famiglie di volatili sono impegnate nella cova delle uova. Il tempo passa rapidamente, cosicché ripartiamo e dopo aver fatto il pieno alla vettura ci fermiamo a Moeraki, dove prendiamo d’assedio sulla spiaggia le Te Kaihinaki, rocce dalla singolare forma sferica. Alla ricerca di una ripresa ardimentosa un’ondata mi coglie di sorpresa inzuppandomi un piede e mettendo in parità il match che Sara aveva aperto due settimane prima in quel di Hahei. Oamaru è la nostra prossima destinazione, dove arriviamo con sufficiente anticipo per assistere allo spettacolo dell’avvistamento dei pinguini. Provvediamo subito al check-in, durante il quale ci viene ribadito ciò che centinaia di cartelli posizionati in ogni dove riportano a lettere cubitali, cioè che non si possono fare né foto né riprese ai pinguini, motivando il tutto con vaghi discorsi sul danno che flash ed affini possono arrecare alle piccole creature. Per non fare della sterile polemica ci chiudiamo in macchina in attesa dell’apertura dei cancelli dove molto frugalmente ceniamo con quello che è rimasto dagli acquisti dei giorni prima. All’orario prestabilito accediamo al centro e ci rechiamo nell’anfiteatro di legno che scruta il mare. Dalle tribune si ha una buona vista, anche se la struttura sebbene inserita ad hoc nell’ambiente toglie un poco di poesia a ciò che ci apprestiamo a vedere. La responsabile del centro dopo averci dato qualche ragguaglio relativo ai pinguini blu, si raccomanda di restare in rigoroso silenzio per non turbare i pennuti. Sono ovviamente parole lanciate al vento, l’echeggiare delle voci di decine di bambini impazienti, ma soprattutto un’orda di turisti giapponesi disinteressati alla benché minima forma di rispetto, lasciano intendere che ci sarà di tutto, tranne che silenzio. Dopo una lunga attesa in lontananza si cominciano ad intravedere con una certa fatica delle sagome altalenanti che destano l’interesse degli astanti. Aspettiamo trepidanti, ma le dimensioni dell’oceano tradiscono ed i pinguini danno l’impressione di non arrivare mai. Quando finalmente raggiungono le rocce della scogliera e formano la prima squadra, l’emozione è palpabile. A testa bassa attraversano goffamente il reticolato che li separa dalle loro abitazioni artefatte dall’uomo ed uno ad uno scompaiono in esse in un concerto di gracidii. Dal mare arrivano altri gruppetti ed ogni volta si attende pazientemente il completamento della nuova truppa prima di rientrare nelle proprie dimore. Assistiamo allo spettacolo sin oltre le ventuno, si è fatto particolarmente freddo e dobbiamo arrivare a Timaru. Ripiegando in direzione della vettura osserviamo nel prato un pinguino che è rimasto tutto solo. E’ il momento buono, lo prendo e lo carico in macchina al volo… Nella mia fantasia! Ci scruta con attenzione, sembra interessato a noi ed a piccoli passi si avvicina. Apparentemente senza timore attraversa il reticolato e comincia a camminare tra di noi, fin quando alcuni turisti giapponesi nel tentativo di avvicinarsi per offrirgli del cibo lo mettono in allarme spingendolo a dileguarsi sotto alle tribune. Altri pinguini tuttavia iniziano a sbucare da ogni parte e diversi li incrociamo persino nel parcheggio. Sara si emoziona e le cominciano a scendere alcune lacrime, teme infatti che data la loro minuscola stazza possano venire investiti dalle numerose auto in manovra. Capisco la sua preoccupazione, ma possiamo fare ben poco, cosicché lasciamo Oamaru per recarci a Timaru. Il tratto di strada presenta lunghissimi tratti di rettilineo che combinati ad una stanchezza di proporzioni cosmiche mi spingono a chiedere a Sara il cambio alla guida. Giunti a destinazione non troviamo il proprietario ad aspettarci come era negli accordi, ma un quartetto di giovani intenti a suonare la chitarra nella sala dell’ostello ci scorge dalla finestra aiutandoci a rintracciarlo nell’abitazione privata attigua. Mentre ci scusiamo per il ritardo ci viene mostrato l’ostello e la nostra camera, non particolarmente grande, ma con un bel letto dalle singolari lenzuola color oro, mitigate dal silenzioso lavoro della termocoperta e sotto alle quali stremati ci abbandoniamo al sonno.

09 Ottobre 2008 (Timaru – Christchurch – Akaroa – Christchurch) Altra mattina di sole, tant’è che cominciamo a credere che il tempo si sia veramente fatto beffa di noi nei momenti cruciali (vedi Tongariro Crossing e Franz Josef Glacier). Trasferiti gli zainetti dalla camera alla macchina, per fare colazione scegliamo il Blue Bay Cafè in Bay Hill. Il locale è piccolo, ma come riporta una targhetta elegantemente posizionata al bancone del bar, è stato eletto miglior locale regionale per la ristorazione nell’anno in corso. Il nostro giudizio non è tuttavia parificabile a quello dei giudici, questione di gusti. Ci lasciamo alle spalle anche Timaru, raggiungendo in un paio d’ore Christchurch. Qui parcheggiamo frontalmente all’attracco delle chiatte del Punting On The Avon, ma quando siamo pronti per fare la nostra gita sull’Avon, il sottoscritto si accorge di aver perso le chiavi della vettura. Soprassedendo per motivi di vergogna su dove si trovassero, ci accorgiamo che alcune persone sono sul punto di sopravanzarci. Una coppia del New Jersey brucia tutti sul tempo, ma Sara operando un sorpasso che ostenta chiaramente quali siano le nostre origini, si mette alle spalle una famiglia di quattro elementi. Dopo una breve attesa ci accomodiamo sulla chiatta insieme alla coppia americana, al remo si posiziona un ragazzo giovane che oltre a direzionare l’imbarcazione ci fa anche da cicerone. Mentre all’andata sfruttando la corrente a proprio favore sembra godersi la gita quanto noi, al ritorno facendo uso del solo lungo bastone che puntella nel basso canale per dare la spinta alla chiatta, deve prodigarsi in uno sforzo notevole per contrastare il flusso dell’acqua. Tornati alla machina raggiungiamo il Coachman Backpackers, dopo aver lottato a lungo con i sensi unici che ci complicano la vita in una città di per sé molto semplice da girare. L’ostello si presenta molto bene, il gestore come prassi è gentile e ci informa che la nostra camera è già pronta, cosicché ne approfittiamo per depositarci i bagagli. Sara si serve del forno a microonde per riscaldarsi una confezione di nachos acquistate giorni addietro al distributore di Greymouth e che consuma in macchina mentre ci dirigiamo alla Banks Peninsula, più precisamente al paesino di Akaroa, ultima tappa di questo girovagare in Nuova Zelanda. Nei pressi di Governors Bay ci fermiamo a fare il pieno di benzina. Serviti da un ragazzo cinese innamorato dell’Italia, questi insiste per sapere come si dice “i love you” nella nostra lingua ed una volta averlo appreso è un susseguirsi di sorrisi e “ti amo”… Hmm! La strada per Akaroa a causa della sua tortuosità sembra non avere mai fine, ma una volta raggiunti i rilievi che gettano lo sguardo sull’Akaroa Harbour la vista che si ha dell’insieme ripaga di tutto quanto. Arrivati ad Akaroa parcheggiamo all’inizio di Rue Lavaud, la via principale del paese, dove dopo aver fatto una visita alla graziosa Church of St Parick ha inizio l’inevitabile processione per negozi. Giunti al locale War Memorial facciamo una sosta, la giornata è meravigliosa, il paese incantevole e la rifrazione sull’Akaroa Harbour ipnotica. Tornando sui nostri passi ci fermiamo ad acquistare un gelato ed un milk-shake per testarne la qualità a queste latitudini (non male, nonostante la componente chimica di certi gusti sia sconcertante), quindi altre tappe per negozi di artigianato locale. Prima di ripartire scorgiamo alcuni anziani giocare a croquet, è un’occasione ghiotta, ma siamo sfortunati, perché riusciamo a vedere solo il colpo conclusivo del match. Della strada per Christchurch non ricordo molto, il mal di testa mi spinge ad addormentarmi e mi risveglio che siamo praticamente arrivati. Per ovviare al problema del parcheggio ricorriamo al posteggio coperto di fronte a Victoria Sq, dal quale ci rechiamo all’ostello per uscire quasi subito, diretti al ristorante indiano Little India City Bistrò. Il servizio è un poco lento, ma le pietanze sono eccellenti e la spesa esigua, soprattutto considerando che come nostro solito quando usciamo dal ristorante abbiamo superato abbondantemente il limite della sazietà. Vorremmo festeggiare questo ultimo giorno neozelandese uscendo a bere qualcosa in un bar, ma dal mal di testa è scaturito un tremendo raffreddore che mi ha tormentato durante tutta la cena, figuriamoci a questo punto se ho ancora voglia di stare in giro per locali. Rientriamo dunque in camera dove prima di spegnere le luci su questa giornata prepariamo le valigie per l’indomani, prestando particolare attenzione a quella carica di regali da spedire in Italia. Vorrei fare ancora mille cose, sento già che questo paese mi mancherà, ma è tardi, sono stanco, stordito dal raffreddore e coscienziosamente raggiungo Sara che già sta dormendo.

10 Ottobre 2008 (Christchurch – Auckland – Tongatapu – Nuku’alofa) Queste tre settimane a zonzo per la Nuova Zelanda sono passate troppo rapidamente, rimarrei ancora a lungo in questo fantastico paese, ma stasera il nostro viaggio di nozze prenderà la via del Pacifico ed onestamente un po’ di vita da spiaggia ora come ora mi invoglia proprio. Ancora rintronato dalla sera precedente mi alzo a fatica e nell’ordine mi curo la barba, registro al meglio le borse ed infine sveglio Sara. Depositato il bagaglio in ostello ci rechiamo nel vicino ufficio postale per spedire la valigia piena di regali e per acquistare i francobolli necessari ad inviare il malloppo di cartoline che da Auckland ad oggi ha raggiunto la rispettabile quota di cinquantadue unità. Antistante le poste vi è una pasticceria presso la quale ci fermiamo a fare colazione, il tutto mentre applichiamo i preziosi francobolli sulle cartoline. Sebbene sia venerdì, dunque giorno lavorativo, la vita pare procedere molto a rilento ed alle nove per strada vi è ancora ben poca gente. Per non girovagare a vanvera ci affidiamo al percorso consigliato dalla guida, cominciando la passeggiata da Cathedral Square, dove sembra vi sia un po’ più di movimento. Incrociamo qui un suonatore di corno a cui elargiamo qualche dollaro, cosa che faremo nel pomeriggio anche con una giovane coppia di ragazze armate di flauto traverso e violino, dopodichè ci dedichiamo alla bella piazza. Una scacchiera dalle dimensioni umane è teatro di epiche sfide consumate sotto lo sguardo dei numerosi curiosi che si godono la giornata passeggiando coccolati da un caldo ed amichevole sole. Visitiamo la meravigliosa Christchurch Cathedral per spostarci poi in New Regent St, dove ammiriamo un’incantevole spaccato in stile spagnolo fatto di edifici tinteggiati di rosa, giallo e verde acqua. Una lunga digressione al MapWorld (un negozio fornito all’inverosimile di mappe, guide ed affini) è d’obbligo, così come la sosta in un vicino fish n’ chips, essendo prossimi all’ora di pranzo. Arrivati in Victoria Square ci fermiamo un poco a poltrire sulle panchine, mentre un gabbiano famelico ci urla contro le peggio cose per ottenere qualcosa. Sara gli lancia qualche patatina che il volatile apprezza di buon grado, quindi salutato il pennuto ripartiamo osservando lungo le sponde dell’Avon i tanti paperi e le cucciolate che oziano al sole. Proseguiamo in Durham St. North fino a tornare in Cathedral Square che in questo momento pullula di gente di tutte le età, diverse bancarelle hanno aperto i battenti ed altri musicisti di strada si sono aggiunti a quelli del mattino. Consumiamo un milk shake prima di salire a bordo del tram storico; il mezzo copre un giro di due km e mezzo, ma il ritmo lento fa sprofondare Sara in un sonno profondo. Giunti per l’ennesima volta in Cathedral Square, decidiamo di tralasciare il percorso dalla Lonely Planet per raggiungere il Dux De Lux, un bel locale dove alle due del pomeriggio consumiamo il nostro ultimo pasto neozelandese. Approfittando della vicinanza facciamo una breve sortita nei bei Botanic Gardens, dove complice la giornata di sole si è riversato un gran numero di persone. Si è fatta l’ora di tornare al parcheggio coperto per recuperare la macchina con la quale ci rechiamo all’ostello per caricare le valige. Arriviamo all’aeroporto alle sedici in punto, l’orario di consegna è spaccato al secondo. Scarichiamo i bagagli, annotiamo i km percorsi (4800 circa) e salutiamo definitivamente la “nostra” Kia Cerato. Allo sportello della Europcar grazie ad una poco scaltra receptionist e ad un gruppo altrettanto spaesato di turisti cinesi, l’attesa assume proporzioni bibliche, tanto che il signore che ci precede nella fila quando finalmente termina il disbrigo delle pratiche ci saluta augurandoci “good luck”! Il check-in per la Air New Zealand non è meno problematico. Dopo l’ennesima lunga attesa, giunto il nostro turno la signora al banco ci fa notare che il bagaglio a mano pesa quasi il doppio del consentito complicando non di poco la situazione, difatti le valige non possono essere caricate di un altro solo grammo senza pagare un extra. A seguito di una lunga quanto infruttuosa diatriba, Sara pur non spendendo nulla è costretta ad imbarcare nella stiva anche lo zaino, mentre io smembrando il sacco ed occludendo alla pesa parte di esso, riesco a farla franca. Il volo parte con una ventina di minuti di ritardo che possono costarci caro nel cambio di aereo per Tonga. All’aeroporto nazionale di Auckland dopo un attimo di esitazione prendiamo l’autobus che gratuitamente in un paio di minuti porta al terminal dei voli internazionali. Qui, un poco spaesati e sotto pressione a causa dei tempi ristretti, ricorriamo al banco informazioni, trovando per nostra fortuna una ragazza che ci prende per mano portandoci con sé verso il gate di partenza accelerando lo svolgimento delle rigide procedure di controllo. In salvo e con un sufficiente margine di tempo per l’imbarco, ci fermiamo al duty-free dove acquistiamo come promesso le sigarette per GP, l’uomo con cui siamo in contatto per la nostra vacanza a Tonga. Durante la breve attesa nella sala d’imbarco non possiamo fare a meno di osservare i tongani con cui spartiremo il viaggio, hanno stazze colossali, indistintamente che si tratti di uomini o donne. Il volo procede in tutta tranquillità, all’una siamo a destinazione e dopo aver ottenuto il visto recuperiamo i bagagli (con gran sollievo di Sara non manca nulla all’appello) e raggiungiamo l’uscita. Un uomo sbandiera un foglio su cui sono scritti i nostri nomi e lo seguiamo dentro al suo furgoncino con il quale ci accompagna al Waterfront, la struttura che ci accoglierà per queste prime notti. La camera è bella e spaziosa, l’aria calda come piace a me, ma sono le due di notte e siamo pronti per andare a letto, domani comincia una nuova avventura!



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