Memorie di un volontario
Sal è la più orientale delle dieci isolette nell’Oceano a largo del Senegal scoperte pochi decenni prima dell’America. Caldo meno soffocante di quello che pensavo per un paese a Sud del Tropico del Cancro. Un taxista quella notte mi chiese un paio di euro per portarmi a una cittadina a pochi Km di distanza dove fra Silvino, dello storico Convento dei Cappuccini, mi aveva prenotato la pensioncina. Accettai con una punta di paura. Prima non ero mai uscito dall’Europa, al massimo ero arrivato a Creta. Paesaggio lunare, niente luci, qualche casetta in lontananza. Polvere, terreno assai secco. La ragazza del piccolo Hotel, nera nera, non parlava inglese, ma ci capimmo lo stesso. La stragrande maggioranza della popolazione qui non conosce l’inglese. Alla fine mi rimproverò bonariamente: “Prossima volta dillo subito che es italiano”. La mattina dopo mi regalò una bottiglietta d’acqua. Dopo un inquieto sonno di tre-quattro ore presi dunque il breve volo per Mindelo, seconda città della Repubblica di Capo Verde. Cittadina di circa Sessantamila abitanti, nonché centro culturale dell’arcipelago. Quell’alba giunsi al piccolo aeroporto di Sao Vicente, quindi riconobbi subito fra Silvino, unico bianco ad attendere. Sotto i cinquanta, barba, torinese, occhi chiari, tau sulla camicia, volto sereno. Con lui avevamo organizzato un piccolo corso di italiano di sette settimane per dei ragazzi di lì che dovevano poi studiare a Torino. Dopo avrebbero aperto tre centri sociali. Silvino mi portò un po’ a conoscere la cittadina con il suo mitico furgone, aperto dietro, dove talvolta trovavano spazio fortunati viandanti. Vento forte, sole che spaccava la pietre. Popolazione per lo più mista. Ragazze bellissime, alte e slanciate, gli occhi neri neri e i capelli raccolti in miriadi di pettinature. Ti guardano con curiosità, mentre il vento alza un po’ le loro gonne sottili, ma tendenzialmente tendono a diffidare degli stranieri. Quando però capiscono (e un po’ce ne vuole!) che non sei un turista sono molto aperte e cordiali. Ma purtroppo sempre piuttosto attente a non farsi coinvolgere troppo. Spesso accettano di parlare un po’ con te, ma poi ci ripensano e ti danno buca agli appuntamenti. Mi è capitato almeno cinque, sei volte. Quando glielo raccontavo, Silvino rideva come un matto: “Stavolta pure *** non è venuta? Ahaha” Ma se si è caparbi qualcosa decisamente si ottiene. Il paesaggio di Sao Vicente è desertico, solo ogni tanto c’è qualche sparuto alberello. Le case sono molto spesso di mattoni grezzi, senza intonaco e, mi spiegava Silvino, molte sono senza acqua corrente né fogne. Capre, galline e rari asinelli nei loro pressi. Niente fontane che sprecherebbero questo bene preziosissimo, spesso niente asfalto. Le macchine alzano alti polveroni. Vidi una mamma che faceva una improvvisata doccia al suo bambino versandogli lentamente addosso un secchio davanti l’uscio. Il bimbo piangeva disperato. Pescatori con rozze lenze cercavano qualche pesce nell’Oceano, pescosissimo, penso più per mangiarlo che per rivenderlo. A Mindelo infatti c’è un fiorente mercato ittico e i pesci costano pochissimo. Soprattutto certe specie, tipo il tonno. Alcuni dei ragazzi, sulla ventina e più, a cui dovevo fare lezione abitavano in periferia. Gu, Ben, Notch, Nathy e poi Teresa. Mi accolsero con grande cortesia. A casa di Ben ci aprì la cuginetta, che fu così felice di vedere fra Silvin che ci fece un sorriso a trentadue denti. La nonna volle accendere la Tv (qui spesso è una forma di cortesia), ma noi rifiutammo, meglio parlare un po’. La nonna poi mi salutava sempre quando mi incontrava. Anche da Nathy c’era la tv accesa, senza volume. I capoverdiani, mi spiegò ancora fra Silvin, spesso ascoltano lo stereo dando ogni tanto un’occhiata alla tv, poi, quando c’è qualcosa di interessante, spengono lo stereo e alzano il volume del televisore. Le ragazze in casa ti guardano incuriosite. Quando conoscono un ragazzo europeo non più giovanissimo sospettano sempre che sia sposato. Non credono che uno a trent’anni possa essere celibe. Pensano spesso che menta e che abbia almeno una moglie e tre ragazzini a casa che lo aspettano ignari. Sabato sera fummo dunque invitati dal padre di uno dei ragazzi, che ci offrì la famosa “cachùpa”, una sorta di zuppa di fagioli con pancetta, pesce e uovo, assai nutriente, (economicissima) e gustosa. Anche il formaggio di capra era squisito. Il senhor mi disse orgoglioso che il sapore era dovuto al fatto che non permetteva alla capra di andare in giro a mangiare robaccia come cartone ed erba di cattiva qualità. Quando alla fine della serata lo ringraziai disse: “Non mi chiamare Segnòr, di Segnòr ce ne è Uno, e sta lassù”.
Il Convento di fra Silvino si trova nel centro di Mindelo, su una piccola altura. Un posto assai tranquillo, che spesso ospita nel pomeriggio molti ragazzini che vengono a giocare e a socializzare. Assistetti anche a una festa di due nuove suore che prendevano i voti. Sui bigliettini avevano scritto “Signore da chi altri andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Fra Silvino dirige la Radio di Capoverde, mentre l’altro frate italiano, Fra Umberto, un po’ taciturno, barbetta e pipa, coltissimo biblista e insigne teologo, innamorato di Saint-Exupéry, invece lavora nella Libreria. La Stazione della Radio è in una palazzina del centro e trasmette in tutte le isole grazie a dei ripetitori. Discussioni, musica, informazioni, letture edificanti, pagine bibliche, etc. Fui più volte ospite a pranzo nel Convento, piuttosto spoglio, ma assai confortevole. Feci un paio di partite a scacchi con fra Silvin, rimpiazzando le torri con tappi di bottiglia colorati. Conobbi anche alcuni frati africani che erano stati in Italia, ben contenti di vedere un volontario dalla lontana Napoli. Anche qui, come in Europa, la maggioranza della popolazione non è molto praticante e la mattina presto, alla messa del Convento, non ci sono tante persone. Ma quelli che ci credono hanno una fede di ferro. Nel cortile del Convento c’era un gruppo di ragazzine. Mi avvicinai e chiesi loro: “Aspirantes irmas?”. Tutte a ridere come pazze. E’ incredibile come qui, nonostante la miseria a volte nera in cui vivono, molti sono sempre pronti a ridere di tutto.
A scuola, una delle cose che più mi colpì, fu una ragazzina di cinque – sei anni, vestita di “stracci“ che giocava a calcio scalza, felice, con la sorellina, con un tappo di bottiglia, nell’assolatissimo cortile della parrocchia salesiana. Le regalai un euro con la promessa di comprarsi una pallina vera. Qualche giorno dopo la rincontrai e le chiesi: “Onde è a picni bola?” Lei, parlando a voce bassissima, sorridendo imbarazzata, e facendo dei graffietti sul muro dell’edificio (tutto scorticato), inventò una storiella alquanto inverosimile dicendo che aveva perso la moneta sul pullman. A parte il fatto che spesso i bambini sono tanto poveri da non avere nemmeno i soldi del pullman (equivalenti a poche decine di cent di euro) che li porterebbe in pochi minuti alla spiaggia, altrimenti troppo lontana per loro, la cosa era assai sospetta. Finsi di crederci. Probabilmente (spero) l’aveva data alla madre per comprare un po’ di riso. Ma non gliene diedi un’altra. Mi dissero che era assai diseducativo. Questa bambina, mi spiegarono, viveva vicino la scuola con la madre e la nonna, sempre ubriache. La responsabile del Centro mi tradusse il suo racconto: una volta la giovane madre uscì con lei a fare un servizio e se la dimenticò. Tornata a casa, fu rimproverata dall’anziana madre che, seppure sbronza, ma meno di lei, vagò per quel quartiere di Mindelo finché riuscì a riportare la nipotina tra le mura domestiche. Il trauma doveva averla scossa. Nella scuola la bambina, chiestomi timidamente il gesso durante una pausa delle lezioni, scrisse felice tutta la tabellina del quattro, senza un errore, ordinatissima. Poi fece dei disegni di frutta tropicale con ogni nome per esteso. Quando la presi in braccio, una ragazzina più grande, forse gelosa, forse sospettosa, mi guardava attonita mormorando “El es loco”. Spesso i bambini qui, soprattutto negli afosi pomeriggi estivi, non hanno molto da fare. A volte però si inventano un gioco con niente: da barattoli di pomodoro, tappi e scatole di latta ricavano delle bellissime macchinine, con tanto di volante, assi scorrevoli, finti fari e paraurti. Oppure costruiscono con estrema perizia delle barchette a vela che per tratti sorprendenti sfidano i venti oceanici. Di tanto in tanto una di queste prende davvero il largo e al piccolo costruttore, disperato, non resta che un pianto dirotto, che scema appena la mamma o la sorellina maggiore gli dicono che deve essere orgoglioso, perché forse la barchetta arriverà a Lisbona o a Rio de Janeiro, dove sarà raccolta da un altro bambino. Le femminucce invece imparano presto a cucire creando con scarti e vecchie pezze delle magnifiche bamboline, che hanno quasi sempre gli occhi triangolari. Lo sfondo pelle è nero come il carbone. I fili di lana sono i capelli. Vecchi calzini sono le gonne. Recentemente i bambini capoverdiani hanno mandato i loro giocattoli per un’ esposizione in una mostra a Napoli, sui famigerati Quartieri Spagnoli, organizzata da Manailena, mezza napoletana e mezza capoverdiana. Ma non sempre i ragazzini hanno tutta quest’inventiva e a volte se ne stanno senza far niente sotto un albero o davanti alla loro casa, in attesa che qualcosa o qualcuno dia un senso alle loro giornate. Tra i grandi da un po’ d’anni circola droga, ma è un fenomeno ancora piuttosto raro. A Praia, la capitale, pare invece sia più diffusa. La sera i capoverdiani se ne stanno quasi sempre fuori le loro casette e, al fioco lume di un’unica lampadina, i bambini improvvisano giochi d’altri tempi, saltellando felici su strisce di gesso, giocando ad acchiapparello o correndo dietro a gatti e palline. A volte, quando sembrano esagerare, le zie e le nonne intervengono (le mamme assai spesso emigrano in Portogallo, Spagna e Italia), rimproverandoli e cercando di non farli scatenare troppo: chi corre troppo ha più appetito, e chi ha più appetito vuole mangiare di più. Ma loro spesso mangiano poco e il loro stomaco non richiede molto cibo. Una volta andai a mangiare una pizza con Nely. Lei se ne mangiò solo mezza. L’altra metà la diede a un bambino che ci venne incontro affamato. Non credeva ai suoi occhi. Anche a Santo Antao, Thelma fece lo stesso. Lei, quando la invitavo a bere una coca-cola o a mangiare un toast si portava sempre un’amica. Davvero divertente. Pensava che non capivo il creolo, invece molte parole sono uguali al portoghese e io me la ridevo un mondo a sentire i loro commenti. Lì quasi tutto si ricicla e lo spreco non esiste. Ma non esiste nemmeno la raccolta differenziata e questo sta diventando un problema soprattutto nella capitale. Le donne non sono tanto abituate a ricevere complimenti sia rivolti a loro che ai loro bambini. Mi ricordo che una volta c’era una signora con una bambina piccola in braccio fuori il laboratorio chitarre di fra Silvino. Le dissi “Menina muito bonita” E lei, inchinandosi sorpresa “Obrigada”, restandola poi a guardare rapita. Queste sono le isole delle notti stellate e dell’Oceano incontaminato, ma, in parte, anche della tristezza e della disperazione. Questo non è ancora il Regno della prostituzione e della corruzione come molti paesi del grande continente africano di fronte. In “Korogocho” Alex Zanotelli fece in proposito una osservazione assai significativa: lui, fine teologo, conoscitore di cinque, sei lingue, tra cui l’arabo, vissuto anche diversi anni negli Usa e nel Sudan islamico, uomo al di sopra di ogni sospetto, che era stato tanti anni in una bidonville del Kenya, disse (su per giù) che in realtà non dobbiamo esaltare ingenuamente i poveri. Negli slums c’è una violenza inaudita: Dio non sceglie i poveri perché sono migliori dei ricchi; i poveri, sotto molti aspetti, sono peggiori. San Vincenzo de’Paoli, che ha lavorato in Francia all’inizio dell’industrializzazione e di poveri se ne intendeva, ha scritto che i poveri sono i più spietati padroni che esistano. Ed è vero. I poveri sono peccatori quanto i ricchi, ma Dio vuol loro bene perché sono schiacciati. (…) Un’economia di opulenza domanda una politica d’oppressione che a sua volta domanda una religione in cui Dio è prigioniero del sistema. Dio benedice il faraone; benedice Cesare; benedice Bush. E’ la religione imperiale, proprio perché coopta Dio, benedice l’Impero: ma di che cosa vi lamentate, non siete mai stati tanto bene! Gente che soffre… Ma poi c’è il paradiso dove sarete così felici! Chissà se non avesse ragione il Buddha: in un certo senso né nelle ricche serre delle metropoli occidentali dove imperano le mafie dell’alta aristocrazia capitalista, né negli inferni di Nairobi, ma è nella via di mezzo che c’è la verità. Il grande poeta Tagore dice che ogni volta che nasce un bambino Dio ci dice che non è ancora stanco di noi. Qui è pieno di bambini. Forse allora è qui.
All’inizio, quando andavo in piazza si avvicinavano diverse prostitute. Poi, nei giorni successivi, visto che non abboccavo, si tenevano alla larga. Se però uno si siede a un tavolino di un bar, su un divano di un locale e cerca di tenere gli occhi aperti e di osservare con spirito critico la realtà circostante, si accorge di quanta umanità degradata ti circonda: ragazzi occidentali impresentabili che prendevano in giro i ragazzini che chiedevano l’elemosina divertendosi a imitare il loro improbabile accento “italiano”, attempati pingui galantuomini che si allontanavano di notte con bellissime ragazze dallo sguardo “allegro”. C’era un napoletano (o forse era casertano), grassoccio, biondo, capelli a spazzoli seduto vicino al mio tavolino in Praça Nova… Per fortuna non mi ha mai rivolto la parola. Il sabato i capoverdiani se ne vanno tutti in Piazza Nova, l’unica dove c’è un po’ di verde. Alberelli e aiuole. Al centro c’è una grande fontana circolare rotta dove i bambini si appendono facendo acrobazie impensabili. Qui c’è questa curiosa usanza di girare per la piazza nel perimetro intorno ai giardinetti: i ragazzi, a partire dalle nove o le dieci, girano anche venti, trenta volte, lentamente, in gruppo, a braccetti di due, tre o anche più persone. Poi, arrivata mezzanotte, molti se ne vanno nelle due, tre discoteche limitrofe. Il biglietto costa un paio d’euro, e non tutti ce l’hanno. Ma per chi resiste, verso le tre ti fanno entrare con meno. Per fortuna non tutti amano questo tipo di divertimento. In effetti il “Syrius” è un carnaio sovraffollato, con musica di serie C che ti spacca i timpani. Mi ricordo la prima volta che andai c’era Swelma, della Guinea Bissau, che attirava gli sguardi di tutti i maschi. Era uno spettacolo. Altra cosa sono i concerti con le bellissime cover di Cesaria Evora e la musica capoverdiana tradizionale. Ma che peccato vedere quei magnifici ristoranti mezzi vuoti con un’orchestrina di grandi talenti che suona per pochissimi clienti, per lo più annoiati o presi da altri interessi. Nella piazza conobbi pure dei venditori di collanine e artigianato di legno senegalesi. Fondamentalmente per loro sei un “walkin’euro”, ma, se li incontri spesso, possono nascere conversazioni interessanti. Musulmani ferrei, parlavano un italo-francese rozzo, ma alquanto comprensibile. L’unica trasgressione che si concedevano era una birra di tanto in tanto. Mi raccontarono spesso della brulicante vita di Dakar e dei loro genitori, una sorta di himam assai tolleranti e seri (appresi che il presidente del Senegal è cattolico). Cercarono di insegnarmi a giocare all’uril, ma purtroppo non c’ho capito nulla (anche se non dev’essere difficile). Uno di loro mi spiegò che nei villaggi senegalesi c’è ancora l’uso di chiedere ai genitori la mano della ragazza prima del fidanzamento. A Dakar quest’uso è molto più blando. Molti senegalesi vanno a Capo verde in cerca di fortuna. Ma i più rigidi e osservanti talvolta considerano gli isolani un po’ severamente a causa del loro animismo e della scarsa pratica cristiana (cosa di cui subito si accorgono). Pensavo invece si sentissero più vicini agli animisti, ma mi sbagliavo di grosso. A Mindelo un bambino di sette-otto anni, qualche giorno dopo il mio arrivo, faceva timoroso capolino nell’aula. Sentiva il mio italiano, ma forse non capiva che era proprio un’altra lingua. Lo invitai a entrare e gli diedi un foglio e una penna. Senza una parola si copiò tutta la canzone di Franco Battiato che avevo fatto scrivere. Quei pomeriggi erano davvero surreali, mentre i ragazzi ascoltavano cercando di capire, io ero affacciato alla finestra del secondo piano. Intanto alle mie spalle rimbombava a tutto volume nelle casse la voce del Padrone: “Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a Corte degli Imperatori/ Della Dinastia dei Ming…” o “Passammo l’estate su una spiaggia solitaria/ E ci arrivava l’eco di un cinema all’aperto…” Ogni tanto qualche signorina che portava un secchio d’acqua sulla testa alzava un po’ il capo e vedeva questo strano viso pallido che ascoltava quella bellissima musica. Ben odiava Battiato, Gu, Notch e Nathy invece lo apprezzavano molto. Poi Gu a Torino conobbe una ragazza siciliana e dopo un po’ le chiese: “Ma ti piace Battiato?”accrescendo così il suo interesse pieno di stupore: “Ma chi sarà mai questo ragazzo che viene da un’isoletta sperduta nell’Oceano Atlantico che conosce a memoria le canzoni di Franco Battiato?”. Mah. Chiusa la parentesi, il giorno dopo il ragazzino ritornò con il suo quaderno rivestito di una consumatissima fodera trasparente. Non aveva mezzo cm vuoto: tutto scritto, compresi gli spazi sopra e sotto le righe. Attentissimo, ricopiò sempre senza fiatare tutto. Incredibile. Altro che III Mondo. E’ qui l’Eden della cultura. Un giorno, prima di partire scrissi al bambino in fretta un foglio fitto fitto pieno di poche regole fondamentali dell’italiano, con tanto di verbi ausiliari e numeri. Sono sicuro che lo conserva e se lo studia gelosamente. I tre moschettieri si danno molto da fare per i centri sociali. Nel frattempo portano avanti le loro attività. Notch pensa al bambino e sta mettendo sù la sua nuova casetta, Gu studia l’inglese con i miei DVD e va talvolta a trovare la sorella maggiore che ha aperto un bel ristorantino in campagna con la bambina, Nathy è preso dalle sue storie d’amore. Quando vado a trovarlo mi dà preziosi consigli sulla mentalità delle ragazze africane.
A Santo Antao, isola di fronte Sao Vicente, il paesaggio è assai diverso: rigogliosa vegetazione equatoriale, altissimi banani, enormi manghi, smisurati alberi di papaia, i cactus di Tex Willer e le gigantesche piante grasse. Prima di arrivare, sulla salita, tra le perenni nuvole che permettono questo miracolo, a una sosta, buttammo delle caramelle a dei bambini che stavano davanti la loro casetta: manco fossero stati diamanti: tutti si slanciarono ordinatamente a prenderle, tra urla e sorrisi pieni di stupore. Una bambina mi fece cenno di aspettare: ritornò dopo mezzo minuto con la sorella che doveva avere meno di un anno: la alzava verso di me sorridendo: voleva una caramella anche per lei. Sospettai quasi che gliela avrebbe conservato per quando sarebbe stata in grado di mangiarla. I genitori e i nonni, posate zappe e rastrelli, si mobilitarono per ringraziarci commossi. In Italia con un euro te ne compri una trentina. Al Bar-Ristorante di Mindelo un pomeriggio vidi una bambina con una pesante bagnarola sulla testa. Le feci cenno di entrare: lei invece mi imitò: non poteva. Forse per legge non possono. Comunque, uscito fuori, le chiesi: “Bananas? No tens bananas?”. Ma lei, che aveva invece le papajas, mi fece un cenno che non capii. Pensai che non ne aveva e che se ne era andata, invece, dopo 5 minuti arrivò trafelata con un enorme casco. Ne comprai cento scudi e le diedi un pizzicotto sulla guancetta. Ma il suo sorriso di gratitudine valeva da solo il viaggio. I dentini erano più bianchi delle loro perle oceaniche. Dopo altri 5 minuti mi sentii chiamare di nuovo, instancabile: la madre l’aveva mandata a riscuotere i 5 cent della busta. Fui tentato di darle un euro, ma mi ricordai le raccomandazioni di fra Silvino: mai dare tanto di più: si scatenerebbero meccanismi pericolosi: alcuni ragazzini più deboli talvolta lasciano la scuola e vanno a chiedere l’elemosina: facendo leva sui sensi di colpa dei turisti occidentali, in teoria potrebbero guadagnare molto più dei loro genitori. Per cui mi attenni e la salutai, mentre vedevo che ritornava raggiante vicino la madre nel vicoletto, dove, all’ombra delle case, si teneva “il mercatino”. Le donne del mercatino vengono quasi tutte dall’isola di Santo Antao, che è molto più rigogliosa. Spesso portano con loro i bambini, non ho capito bene perché: per farsi aiutare, perché non avrebbero a chi lasciarli o per far vedere loro Mindelo. Forse questa è l’ipotesi più probabile, dal momento che sembrano tutti assai felici di lasciare le loro montagne e venire “in città”. A volte, nelle attese, questi bambini (ma sono quasi sempre femmine) giocano con niente rotolandosi felici nelle cassette di frutta vuote. Un week end andai dunque con due mie alunni a vedere questa famosa Santo Antao. Appena si arriva c’è Porto Novo, una cittadina piccola e movimentata. Impatto notevole.
O povero me, di che uomini ancora arrivo alla terra? Forse violenti, selvaggi, senza giustizia, oppure ospitali, e han mente pia verso i numi? E tutte queste ricchezze dove le porto? Dove io stesso Andrò errando? Era meglio restar tra i Feaci, laggiù; forse a un altro dei potenti signori sarei venuto, che m’ospitasse e mi desse accompagno.
Lì conobbi fra Pieraldo, anziano francescano che stava lì da più di trent’anni. L’anno scorso era tornato in Italia per farsi curare. Ma ormai non si trovava più. Da come lo disse pensai che il consumismo e la volgarità della gente lo disgustava. Forse ricordava l’Italia come era prima del boom degli anni Sessanta. Chissà. Dopo l’operazione al cuore ritornò quindi volentieri nell’arcipelago, la sua vera casa. A Porto Novo di Santo Antao, fui accolto appena sceso dalla nave dalle grida di quelli che poi capii erano autisti (“PAUL, PAUL!!”). Al momento non capii che volevano. Come sempre, di fronte a queste rumorose manifestazioni di offerta di servizi non richiesti, volsi il capo. Poi Salimmo su un furgoncino- pullman, ci avviammo a vagare per il paesino una mezz’ora per riempire i posti vuoti: i pullman qui partono solo pieni. Volevo prenderne uno che partiva prima ma i ragazzi mi spiegarono che non valeva la pena. Il paese è davvero piccolo. Molti ragazzi stanno fermi sotto l’ombra a fare nulla. Qualche bar di tanto in tanto. Un piccolo mercato. Il paesaggio qui, tranne che la zona del porto, è desertico come a Mindelo. Ma, mano a mano che si sale ecco il miracolo: dapprima erbetta, poi arbusti, via via alberelli, poi, sulla cima si entra nelle nubi eterne: una specie di posto fiabesco, dove, per qualche minuto, non si vede a tre metri di distanza e il pullman va piano piano: ed ecco intravedere la lussureggiante vegetazione tropicale: alberi altissimi: palme, manghi, papaye, pini, etc. Sembra l’isola di Eolo. E all’isola Eolia arrivammo; qui stava Eolo Ippodate, caro ai numi immortali, nell’isola galleggiante: tutta un muro di bronzo, indistruttibile, la circondava, nuda s’ergeva la roccia.
Dodici figli d’Eolo vivono nel palazzo, sei figlie e sei figli nel fiore degli anni; Più giù c’è Paul, un posto meraviglioso con un ruscello che scorre in mezzo a due altissime fila di palme e mille piante gigantesche. Bambini neri neri che escono di scuola con gli zainetti e ti guardano con curiosità e simpatia. Una volta, tra le montagne, ne vidi una che non aveva più di due anni che andava “a fare la spesa” con una busta vuota in mano. Alcuni talvolta aiutano i genitori a distillare il liquore tratto dalla canna attizzando i fuochi con le fascine. Certi animali sono legati agli alberi, asinelli, un cavallo, e, in un piccole porcile, anche un maiale. C’è una piscina che sta ai piedi di una montagna. Gli operai della diga hanno fissato dei pioli per andare sù lasciando l’ultimo metro e mezzo da terra senza appoggi per non far salire i bambini. Ma loro hanno poggiato un bidone rovesciato e salgono agili come Tarzan fin sopra (saranno venti metri) divertendosi come matti. Non li potevo vedere. In questa grande vasca-piscina una volta mi cadde una moneta. Pensai che fosse un euro e promisi ai ragazzini, che se la trovavano, se la potevano tenere. I ragazzini si tuffarono più volte, ma alla fine dopo una mezz’ora, trovarono solo dieci cent. A quel punto, vinto dalla loro delusione, diedi loro l’euro. Stavolta potevo, mi ero sbagliato io.
A Santo Antao conobbi quindi questo Andrè, che aveva una bottega di telefonini nel mercato della cittadina, che volle ospitare me Nathy e Notch nella sua casa nonostante avesse un appartamento piccolo condiviso con un’altra coppia. L’anno dopo fece lo stesso. Grande Andrè. Anche qui il problema dei rifiuti è piuttosto sentito dalle autorità. In genere raccolgono l’immondizia e la seppelliscono. Un forte fetore di piscio spesso ammorba gli afosi pomeriggi. I muri scrostati e senza intonaco di frequente sono intrisi di urina di uomini e di cani. Molti cani qui mi abbaiano contro. Soprattutto la notte. Abitando nella struttura dei Salesiani la notte, quando torno, devo entrare dal retro. La lampadina è difettosa ed è buio pesto. Così quando devo infilare la chiave nella toppa devo sempre accendere un cerino. Ma il vento spesso me lo spegne prima che abbia avuto il tempo. I cani però si svegliano ugualmente e iniziano a ringhiare. Per fortuna c’è un cancello che ci separa. Nel Convento di fra Silvino c’è Alex, un ragazzino di dodici anni, ex ragazzo di strada. Padre partito, madre che non poteva tenerlo, cresciuto col nonno, che a un certo punto non potette più dargli da mangiare. Una signora pia piuttosto benestante (per il contesto), senza figli, una volta lo vide e si intenerì. Decise di prenderselo con sé. Poi, dovendo partire per il Portogallo lo lasciò un paio di mesi ai frati. Ma ormai sono passati più di tre mesi e lei ancora non torna. Alex passa le sue giornate estive nel Convento e si annoia a morte. Spesso però nel pomeriggio va a giocare con i suoi amici. Alcuni dei suoi compagni di strada lo avevano soprannominato “Cem Scudes”, ossia “Cento Scudi” perchè una volta un vecchio europeo, impietositosi, gli diede una banconota un po’ spiegazzata di cento scudi (circa un euro) e lui, avendone considerato con poco oculatezza l’imperfetto stato di conservazione, la rifiutò. Da allora gli amici lo avevano ribattezzato così. Il problema dell’infanzia abbandonata per fortuna qui non è tanto drammatico. Ma si vedono comunque alcuni ragazzini che percorrono vari Km dalle zone più impervie dell’isola per venire ad elemosinare. La polizia li dissuade, ma senza violenza. Silvino ha chiamato Bartolo, un giovane operatore torinese, per risolvere il problema. Una volta vidi un ragazzino che veniva picchiato una sera da tale Cica, la prostituta più famosa e bella di Mindelo. Nera nera, apparentemente sui trentacinque, ma in realtà poi scoprii che aveva 23 anni, originaria per metà dell’Africa continentale. Quella notte vidi che con la scarpa menava colpi contro uno di questi bambini. Mi avvicinai e le chiesi la ragione. In un italiano niente affatto stentato mi rispose che le chiedeva soldi: ”Io sto qui da tanti anni e ancora non ha capito che non ho soldi. Tutti lo sanno.”. Mi sedetti al tavolino del bar. Il ragazzino, che si era accartocciato con fare melodrammatico, si rialzò con gli occhi di un cane bastonato e se ne andò. Cica si accese l’ennesima sigaretta, si piazzò nella piazza di fronte al bar e iniziò a inspirare boccate di fumo. Non sembrava vergognarsi assolutamente del suo mestiere. Mi dissero che un paio d’anni prima un turista tedesco si era innamorato di lei ed erano stati diverso tempo insieme, ma poi evidentemente la cosa non funzionò. Chissà che cosa le passa nella testa quando sta sul marciapiede. Cosa pensa dei clienti, del mondo, di se stessa. Un paio di volte ci parlai e vidi che aveva uno sguardo intelligente, degli occhi bellissimi e svegli e un forte fiato di fumo. Tutte le sere, verso le dieci, con il suo corto vestito bianco leggero con mega spaccata, era lì nella piazza principale. A volte si sedeva ai tavolini, accavallando le gambe nere nere lisce come l’ebano per la gioia di tutti i maschi dai dodici ai novantasei anni. A volte andava avanti e indietro per il marciapiede di fronte. Ma ci restava poco. Una volta non la vidi per un paio di settimane. Quando poi mi passò davanti, al Bar, le chiesi: “Non sei più venuta?” E lei: “Sono stata fuori”, accarezzandomi senza malizia la spalla. Poi si andò a sedere. Mah. Altre di queste signorine invece se ne stanno nella via che porta alla Piazza, tutte insieme, con un paio di protettori vicino. Siedono sulle moto o si appoggiano al muro. Hanno giubbotti di pelle e sono isolane. Le loro urla sguaiate e i loro scherzi si sentono da lontano. Tutte fumano nervosamente. Molte bevono. Mi sa che però ben pochi possono permettersi di pagarle per cui penso che spesso non lavorano. Sono più in carne di Cica, che ha davvero delle gambe di gazzella. Che peccato. Chissà però che storia aveva alle spalle Cica. Magari l’anno prossimo provo a chiederglielo. Ma che mi risponderebbe? (L’anno dopo in effetti glielo chiesi e scoprii che aveva un’altissima stima di se stessa e pirandellianamente non si rendeva assolutamente conto del giudizio negativo che aveva la gente di lei. Figlia di un nigeriano che aveva abbandonato ben presto la fidanzata e i tre bambini piccoli, gettando la donna nella disperazione e nell’alcool, una volta cresciuta, sui tredici anni, non aveva avuto dubbi che il suo mestiere era del tutto lecito, anche se spesso ne aveva schifo: (“Secondo te mi piace che un uomo che non conosco mi tocca dappertutto sul mio corpo?”). Però, anche se non l’ammetteva, seppi che fumava crack. La voce le era diventata bassa e roca. Quando poteva aiutava i bambini di strada. Mi disse che voleva partire lontano, per Sal, dove un amico le avrebbe trovato un posto di cameriera. Spero quindi di non vederla più ). Un degrado notevole, ma mai simile a quello della capitale Praia, dove ormai ci sono veri e propri quartieri-bidonvilles. I frati si stanno dando da fare per trovare benefattori per recuperare questi ragazzini con asili e scuole: un euro al giorno e li si “aiuta a crescere”. Altrimenti Praia farà la fine di Korogocho, Nairobi: “Korogocho è una parola kikuyu che vuol dire confusione. E’ costituita da una collina lunga un chilometro e mezzo, larga uno. Tutto gli abitanti sono accatastati in questo spazio. Le baracche sono in genere 3 metri per 4 e ospitano mediamente cinque-sei persone. Le fognature sono a cielo aperto. L’unico servizio che fornisce il comune di Nairobi è l’acqua, che però non arriva nelle baracche, ma è portata con delle tubature a punti di rifornimento e poi venduta un tanto al secchio (…) Tutte le baraccopoli sono collocate sotto il livello delle fognature della città “vera”, quelle segnata sulle mappe. I poveri sono collocati sotto la cloaca. Andare in baraccopoli significa letteralmente scendere agli inferi, nelle fogne. (…) Una delle cose che ho sempre detto andando a Korogocho è che avevo bisogno di un’esperienza viva, reale, del Mistero. Ero stato abituato a parlare del Mistero in maniera molto asettica, borghese, lontana, mentre Korogocho te lo rende carne.
Una volta, in quella meravigliosa isola di Santo Antao, sull’androne della casa di André, il nobile amico dei miei due alunni, c’era una bambina di due-tre anni. Vidi che era incuriosita da me. Le chiesi qualcosa in portoghese (“Como te chamas?”), ma senza la traduzione in creolo della mamma (tipo “Qual è o teo nome?”) non capiva. La presi in braccio. Lei era così contenta che mi strinse forte forte. La madre rideva. Probabilmente non aveva mai conosciuto il padre. Non è un caso raro. Le famiglie qui sono decisamente matriarcali. I maschi, venendo da una cultura fondamentalmente animista, non hanno per nulla sviluppato un sentimento di più o meno peccaminosità (o almeno di responsabilità) verso il sesso. Per cui, arrivati sui diciassette, diciotto anni, riescono non di rado a sedurre le fanciulle più ingenue o più deboli, spesso disinteressandosi poi del bebè o comunque non essendo assolutamente in grado di badare a lui. Le ragazze, a cui tocca il duro compito del mantenimento del bebè, poi, anche legandosi moltissimo al bimbo, si disperano del “raggiro” e accusano i maschi in quanto “professionisti mentirosi”. I bambini quindi molto di frequente crescono senza la figura paterna. E siccome poi ce ne sono moltissimi che corrono scatenati sulle spiagge e le strade delle isole, è raro che qualcuno presti loro molta attenzione. Per cui per loro trovare un uomo che rivolge loro qualche domanda è una cosa piuttosto strana. E, se uno riesce a superare la loro istintiva diffidenza, magari accompagnato da un indigeno, sono assai contenti di parlare con te e di mostrarti i loro giocattoli. Notch mi fece una foto con una bambina che presi una volta in braccio, durante la gita alla bellissima spiaggia di Baia des Gatas, dove si tiene un famoso Festival. Si chiamava Kenya. Kenya dal saggio sguardo. Ballava con i grandi una bellissima danza in circolo. Tutti si sostenevano abbracciati l’un l’altro. Lei si sosteneva alle ginocchia della cugina, scatenando l’ilarità generale. Durante il viaggio di ritorno i bambini scatenarono un fracasso infernale sbattendo forte ritmicamente le loro bottiglie vuote sulle spalliere dei sedili di fronte. E Notch, per far conoscere tutti cantava una canzoncina: “Maria- rubou o- pane a -casa di Lucia” Lucia, chiamata in causa ex abrupto, chiedeva ridendo: “Qui- eu?” Tutti in coro: “Sì,- tu” E lei, piegata in due dalle risate: “Eu no”. Poi si passava a un’altra coppia di ragazzini e la canzoncina veniva ripetuta cambiando i nomi dei protagonisti fino a che tutti memorizzavano i nomi dei bambini. Questa gita era riservata solo a quelli che si erano distinti a scuola. Aspettavano questo momento tutto l’anno. A Santo Antao si coltivano dunque manghi, papaye, palme e altro. E’ uno dei pochissimi luoghi di Capo Verde dove la gente riesce a mantenersi grazie all’agricoltura. Praticata ancora con mezzi assai primitivi. Hanno un bue che legano all’aratro, delle galline e delle oche che tengono in delle casette di legno e lamiere, e seminano a mano. A volte hanno anche dei conigli e dei pulcini. Pochi i trattori, pochissimi. Spesso le donne vanno in giro con bidoni d’acqua sulla testa. A volte hanno grandi, pesantissimi fasci di legna in equilibrio sul capo. Altre volte portano sacchi di riso o di canestri di manghi e patate dolci. Nei loro forni di pietra a legna cucinano pane e dei dolci di cocco e mango zuccherati davvero squisiti. Altre volte portano delle pietre che servano a rinforzare i muretti. I muretti qui sono delle vere opere d’arte e spesso non sono tenuti da malta o cemento, ma sono ad incastro. Mangiano riso e tonno, riso e fagioli, riso e pomodori. Il riso è molto economico. I bambini spesso aiutano i genitori a coltivare i campi. Ma non per questo trascurano la scuola. Solo dopo aver fatto i compiti iniziano a dare loro una mano. Qui la scuola è sacra. Spesso con una zappetta e un piccolo piccone questi bambini cercano di smuovere le pietre dai campi o portano la legna per i forni del liquore di canna. Ma senza sforzi eccessivi né imposizioni. Per loro è un gioco e si divertono come matti cantando canzoncine. Altri contadini coltivano viti nell’isola di Santiago, dove c’è la capitale Praia. O a Fogo (“Fuoco”) l’isola dell’altissimo vulcano e dalla sabbia nera, fertilissima, ma con poca acqua. Ma se la vite prende, dà un vino unico al mondo. Anche qui tutti hanno foto giganti di Amilcar Cabral, l’eroe della Resistenza capoverdiana e della Guinea-Bissau che nel ’75 liberò i paesi dalla colonizzazione portoghese. Ma Cabral purtroppo non potette assistere all’evento da lui ispirato perché fu assassinato due anni prima a Conakry.
Una volta arrivati sulla spiaggia di Baia des Gatas, dunque, i ragazzini meritori montarono una grande tenda, poi si riversarono tutti nel bellissimo pezzo d’Oceano adiacente. Dopo si giocava a pallone. Anche una bambina della Parroquia “Bom Pastor” di Mindelo mi si affezionò un po’. Isabelle. Mezza nera, aveva delle treccine piccole piccole ai lati della testa, con tutte perline vicino. A volte la mandavo felicissima a comprare delle bottiglie fredde di succo di frutta per la gioia di tutti i parrocchiani. Isabelle era sempre la prima a fare gli esercizi di danza, canto e giochi tenuti dai ragazzi che prestavano gratuitamente la loro opera, inventandosi ogni pomeriggio incredibili attività sempre nuove. Alla fine dell’ultima giornata dell’ “Escola de verao” (Doposcuola- animazione estiva) tutti i bambini piangevano. I loro vecchi, dalle case intorno, sorridevano con gli occhi lucidi. Baia des Gatas. Bellissima spiaggia immacolata per 362 giorni all’anno. La prima volta che ci andai rimasi folgorato dalla bellezza del posto, peccato solo che non ci sono alberi. Distante pochi Km dalla cittadina di Mindelo. Dopo qualche ora di sole ebbi un po’ di difficoltà a tornare in città, ma qualcuno poi mi diede un passaggio gratuito sul furgone. Al festival di estate di Baia des Gatas confluisce quasi tutta Capoverde. E’ l’evento più atteso dell’anno. Per tre notti da vent’anni la bellissima spiaggia è teatro di interminabili concerti dal sound originale. Fino a notte fonda, anzi all’alba. Vengono appassionati e giornalisti da tutto il mondo. I capoverdiani si attrezzano con bagnarole e quasi tutti si improvvisano venditori di pesciolini fritti, dolciumi, bibite chiuse, bibite fatte artigianalmente, pezzi di torte, etc. I pullman sono sempre strapieni e i pochi abitanti di Mindelo che non posseggono l’euro necessario per il biglietto pubblico (o al nero) se la fanno a piedi per le terre, impiegandoci circa due ore. Alcuni cuociono il pollo su dei puzzolentissimi barbecues annaffiati da litri di benzina. Altri vendono bracciali, collanine, maschere, cappelli alla luce di lumetti. C’è una confusione indescrivibile, ma pochissimi poliziotti sono sufficienti a mantenere l’ordine tra migliaia e migliaia di ragazzi. Dopo il concerto, funestato talvolta da inconvenienti tecnici che fanno imbestialire gli artisti, i ragazzi si buttano nelle discoteche fin quasi all’Aurora dalle dita di rose. Ma sono troppo stanchi, allora, per apprezzarla. Noi pensiamo forse che uno forse dovrebbe sempre svegliarsi all’alba per vedere il miracolo di un nuovo giorno che dimostra che Padre Zeus non è ancora stanco di noi. Secondo la concezione islamica, mi spiegarono però i senegalesi, l’alba porta invece tutti i demoni ribelli ad Allah, che corrono con i raggi fino a insinuarsi nella mente degli uomini dando origine alle tentazioni e sensazioni più negative. Ed è quindi nel cuore della notte che c’è la vera pace. Come sanno da secoli i benedettini che si svegliano per pregare proprio allora (come pure i monaci buddisti secondo cui alle tre- quattro di notte c’è il “prana”). In effetti qui è vero. La prossima volta devo svegliarmi alle tre e salire su una barca per andare a pescare con dei pescatori veri. Come nel film La Terra Trema. Già. Dopo il concerto si formano file enormi per i pullman. Per evitare gli assalti all’ultimo posto degli anni precedenti ora c’è la polizia che le sorveglia. Una bella ragazza mai vista prima una volta si mise davanti a me contando troppo sulla sua bellezza e poco sulla mia mancanza di loquacità, e dopo venti secondi si tirò il fidanzato e un’altra coppia. A questo punto io, che non amo farmi passare per fesso, feci notare la cosa ai capoverdiani che stavano con me, che protestarono ferocemente. Per poco non si scatenò una rissa. Sul pullman che correva sulla strada di Mindelo frenando bruscamente a ogni curva poi commentammo ridendo l’accaduto mentre uno dei due miei amici, mezzo italiano e mezzo africano, diceva: “Io non so portare il pulmann ma sono certo che guido dieci volte meglio di questo stronzo”. Un’altra volta di pomeriggio mi incontrai con André e andai a mare località Sinagoga, e feci l’errore di tornarmene a piedi. Mi dissero: mezz’ora, massimo tre quarti d’ora e stai a casa. Sì, forse per loro. Io, di buon passo, ci misi più di due ore e arrivai che il sole era tramontato già da un pezzo. Solo la luna mi guidava, ma non era manco piena. Per fortuna riuscii a non cadere a mare, nel baratro sotto, aiutandomi anche dal chiarore delle pietre bianche messe di tanto in tanto sulla banchina, ma arrivai alla pensione distrutto. Fu un’esperienza veramente unica. Quando una nuvola copriva la luna erano solo le stelle, il bianco delle onde e il loro fragore a guidarmi.
Nell’Agosto 2006 chiuse il Concerto di Baia des Gatas la mitica Cesaria Evora in persona, anziana cantante dalle umili origini e dalla voce mozzafiato. Ogni tanto i cori dei ragazzi la interrompevano. Lei sorrideva grata. La luna alle sue spalle illuminava la massa oceanica dei fans (cioè in pratica di tutta la popolazione delle dieci isole). Naturalissima, placida, sembrava cantare nel salotto di casa sua. Fa molta beneficenza e la sua casa è aperta sempre a tutti, ma lei non sempre riceve di persona. Molto spesso è in turné. Va sempre in giro a piedi nudi, anche in Europa e in America. Un’altra volta, sempre a Santo Antao, andammo a una festa, località Janela. In mezzo a una campagna avevano montato baracche, discoteche, e per tre giorni tutti ballavano, bevevano e si divertivano. Centinaia di persone e solo un paio di poliziotti di guardia. Alla fine, verso le tre del mattino, molti si gettarono ordinatamente nella piscina limitrofa. Poi, verso le quattro, tornammo a casa. Ma sulla buia strada incontrammo un altro pulmannino il cui autista, ubriaco, si era scontrato con un muro. Allora lo rimorchiammo con una corda. Io ero troppo stanco per accorgermene (anzi mi addormentai), ma poi gli amici italiani mi dissero che avevamo rischiato più volte di andare fuori strada nel dirupo vicino (cacasotti esagerati!) A Santo Antao, a Paul i ragazzini erano felicissimi di seguire le lezioni di inglese con i cartoni animati della Disney. Poi, tornando a casa, cantavano felici le canzoncine imparate da Paperino e Topolino. Li trovavo il pomeriggio tutti sorridenti ancora prima che aprissero la Sala del Comune dove avevamo montato il proiettore. Punta do Sol di Santo Antao, invece, è il posto più estremo dell’intero arcipelago. E’ il paese di Alicia “che tenia dos olhos como dos estrelas”. Lì in milioni di anni il vento ha scolpito gli scogli in modo straordinario. Due enormi “Torri” di pietra dalla notte dei tempi costituiscono davvero l’ultimo baluardo dell’Africa prima dell’Oceano di Colombo. Se le fissi nel buio ti pervade un senso di sgomento. Anche lì una sera si teneva un bel concerto. André portava in braccio il bambino piccolissimo che dormiva nonostante il frastuono. Al di là delle luci della festa c’erano dei gabbiani che volavano sulle Torri, verso quella che sembrava proprio l’estremità del mondo. E se li seguivi allontanandoti dal frastuono della musica sentivi il vento fischiare forte tra gli scogli. Quella notte pioveva e la luna non c’era. L’orizzonte dell’Oceano pieno di lampi si confondeva con le ultime stelle; più in là non si vedeva nulla a perdita d’occhio.
“Africa Africa non mi chiamare\ Africa Africa son qua\ Africa Africa posso morire\ Ma la mia opera non morirà” (s. Daniele Comboni)