La Birmania
Lungo la stradina piena di bancarelle di souvenir si apre ad un tratto il cancello del Mingun Sanitarium, una casa di accoglienza per anziani, dove abbiamo consegnato dei medicinali alla simpatica infermiera che si prende cura dei vecchietti. Una gradita sorpresa ci attende al ritorno. Sul ponte del battello che ci riporta a Mandalay, il barcaiolo ha preparato un rinfresco a base di banane, the, dolcetti e deliziose frittelle di mais. Nel pomeriggio visitiamo il palazzo reale circondato da un fossato lungo svariati chilometri, all’interno dei giardini reali oggi ci sono le abitazioni dei militari. Per il tramonto ci spostiamo verso la collina dalla quale si può godere un bel panorama della città. E’ ancora presto e ci sediamo a riposare su di una panchina, subito veniamo circondati da alcuni pellegrini birmani che ci chiedono di fare una foto insieme a loro, così da poter dimostrare a parenti e vicini di casa che hanno amici occidentali. Sono così teneri e semplici che è impossibile non amarli. Al momento del tramonto ecco venir fuori i turisti, pochi anzi pochissimi; nel nostro giro ne abbiamo visti un po’ solo a Mandalay e Bagan, quello che è avvenuto lo scorso settembre non incoraggia certo il turismo, e loro avrebbero tanto bisogno di turisti per dare una piccola spinta ad un’economia che per molti si regge ancora sull’artigianato, sul commercio dei souvenir e sulla ristorazione.
A cena decidiamo di andare al Golden Duck, Abbiamo mandato a riposare l’autista e pericolosamente fermi sul ciglio della strada tentiamo l’avventura di prendere un taxi, subito ci avvicina un guidatore di risciò, ma il suo aspetto emaciato e la lunga distanza da percorrere ci fanno rinunciare. Alba non se la sente di sfruttare un essere umano che, poveretto, dovrà pedalare per 4 km. Però, insisto io, quello è il suo mestiere e se tutti la pensiamo come lei, quello non mangerà mai. Dopo circa un quarto d’ora arriva una macchinina blu con tanto di cassone con due panche. Quella che sembra la macchina di Paperino è invece un taxi collettivo sul quale a volte riescono a stiparcisi anche 10 persone. Stavolta siamo in due e per una cifra astronomica 5000 kyat, il guidatore si offre di portarci al ristorante e di riportarci indietro. Sono le 21 il ristorante è pienissimo, ma dopo mezz’ora ci accorgiamo di essere rimasti soli, La movida birmana inizia alle 20 e termina alle 20.30, i camerieri gironzolano con indifferenza intorno al nostro tavolo e così capiamo che ora di chiedere il conto. Va bè tanto domani dobbiamo alzarci presto perchè all’alba si parte per Bagan. Alle 7 meno 10, il comandante del battello, constatato che tutti i passeggeri sono a bordo, decide di partire in anticipo. Raccogliamo al volo un locale che, non sapendo delle decisioni del capitano, se la stava prendendo comoda, ma con un balzo acrobatico riesce a salire a bordo, dunque si parte. Fa freddissimo. La navigazione sull’Irrawady, sebbene lunga non è noiosa, anzi, dopo il meraviglioso spettacolo del sole che sorge dietro la sponda sinistra del fiume, ecco i pescatori che iniziano a calare le reti, le donne e i bambini che vivono nei miseri villaggi in riva al fiume fanno la spola fra la riva e i campi con pesanti bidoni d’acqua portati a spalle con un bilanciere mentre i contadini sono intenti a zappare i loro orti di arachidi e fagiolini. Fra tre mesi sarà tutto sommerso dal fiume ingrossato dalle piogge e i contadini dovranno lasciare casa e terreno e cercare riparo altrove. In taluni tratti il fiume è in secca e a bordo del battello, due marinai a prua, calano una pertica in acqua e segnalano al pilota la profondità per evitare di arenarci. Proprio ieri il battello che fa servizio da Mandalay a Bagan si è incagliato e anzichè arrivare alle 17 è arrivato alle 21. Arriviamo in perfetto orario e al porticciolo troviamo il nuovo autista che starà con noi fino alla fine del viaggio. Facciamo una rapidissima puntata verso una pagoda dalla quale possiamo ammirare il nostro primo tramonto sulla piana di Bagan e poi di corsa in albergo dove una doccia si impone di rigore. L’albergo, un po’ distante dal centro di Nyang U è stupendo, inserito perfettamente nella cornice di 2000 pagode sparse su tutto il territorio. Questo albergo rispetta le architetture, i colori e la natura di questo luogo incantevole. Il nostro bungalow è ad un passo da una piccola piscina con tanto di palme e cascata d’acqua, il vialetto per raggiungere la reception è adorno di fiori e vaschette piene di ninfee, il ristorante è all’aperto sotto un bellissimo albero di tamarindo e in un angolo ospita un teatrino di marionette che la sera allieta i clienti. Ci abbiamo cenato due sere tanto era buono il cibo e simpatico il personale. Fra l’altro sia New Bagan che Nyang U la sera non offrono nulla. Il giorno successivo è stata una full immersion di templi e pagode e vale veramente la pena affidarsi ad una guida per vedere le cose più belle e importanti. Abbiamo visitato un villaggio e anche lì abbiamo lasciato medicinali, vitamine e fermenti lattici ad un ambulatorio che assiste i bambini. Il giorno successivo, con molta calma siamo partiti per una escursione al monte Popa. Lungo la strada ci siamo fermati in una fattoria dove un uomo non più giovane si è arrampicato con l’agilità di un gatto su di una palma, ne ha estratto il latte e ci ha fatto vedere la sua lavorazione dalla quale si estrae dallo zucchero al liquore, poi con le foglie ci ha mostrato come si costruiscono cestini e giocattoli, ma la cosa che più ci ha colpito è stata un mucca che girando in tondo intorno ad una macina in pietra estraeva dalle arachidi l’olio necessario per la cucina. In sostanza abbiamo capito che in questa zona arida della Birmania, chi ha le palme, il bambù e le arachidi può far fronte alla maggior parte dei bisogni giornalieri. Lungo la strada abbiamo incrociato un coloratissimo mercato dove le cose curiose e a noi sconosciute si mischiano a quelle maleodoranti, vedi pesce secco. Monte Popa è stata una vera delusione: tranne la strada per arrivarci, dove si comincia a vedere un po’ di verde il luogo non presenta nulla di particolare. Si percorre a piedi scalzi una lunghissima scalinata sporchissima di escrementi di migliaia di scimmie, una volta arrivati in cima lo spettacolo è lo stesso che possiamo vedere da una qualsiasi collina delle nostre montagne appenniniche. A parte la grotta dei Nats non c’è altro, si può evitare tranquillamente. Sulla strada del ritorno incrociamo dei bambini, poveri, stracciati e con degli occhioni tristi. Quegli sguardi si sono conficcati nel mio cuore e forse rimarranno il ricordo più caro e doloroso di tutto il nostro viaggio. Abbiamo lasciato a loro le caramelle e qualche soldo alle loro famiglie, una goccia nell’oceano. La mattina successiva partiamo per Kalaw, tappa di avvicinamento al lago Inle, appena lasciato l’albergo ci imbattiamo in una festosa processione, è una festa per il noviziato di alcuni bambini che domani diverranno monaci. I costumi indossati dai partecipanti sono davvero splendidi e molto ricchi, i novizi avanzano in sella a dei cavalli, molti sono così piccoli che i genitori debbono sorreggerli, ovunque c’è musica e tanta confusione ma lo spettacolo è veramente allegro e coinvolgente.
Lasciata Bagan la strada diventa sempre più impraticabile. Passata la città di Thazi si comincia a salire, ogni volta che incrociamo un’altra macchina occorre fermarsi e spostarsi in cunetta, bisogna spegnere l’aria condizionata perchè la salita è dura e la macchina non ce la fa, il fondo stradale quasi non esiste e la polvere è dappertutto. Ogni tanto al bordo della strada alcune giovani ragazze, svuotano delle ceste di pietrisco, altre lo stendono e poi ci versano sopra una secchiata di catrame. Per il caldo, la polvere e l’odore sembra di stare in uno dei peggiori gironi danteschi. Dopo un’interminabile salita, il paesaggio comincia a cambiare, la strada migliora e si scorgono le prime conifere. Siamo a 1300 metri sul livello del mare e si respira un’arietta frizzantina. Dietro ad una curva si cominciano a intravedere i primi tetti delle case. Sembra di stare in Svizzera, tetti spioventi, case con giardini e gente vestita pesante. Il nostro albergo, è perfettamente intonato al paesaggio, mancano solo i canti tirolesi. Giriamo per il mercato e compriamo dei souvenir a prezzi abbordabili (contrattare sempre, questa è la regola). La sera ceniamo al celebratissimo “Seven Sisters” le sette sorelle che ormai sono rimaste in tre, il cibo è buono e la sala ristorante sembra un’accogliente stanza di una casa di amici. Andiamo a dormire presto, anche perchè non c’è nulla da fare. La mattina si presenta con un’alba meravigliosa dalla finestra senza scuri della nostra camera, ma già siamo svegli perchè dal monastero di fronte all’albergo la campana ha cominciato a suonare dalle quattro. Come prevedibile fa freddo, e così vestiti a cipolla, prima di partire per Pindaya, passiamo a visitare l’orfanotrofio adiacente ad una chiesa cattolica. I bambini hanno appena terminato la scuola e lasciamo al vecchio sacerdote, penne e quaderni per il prossimo anno scolastico. Al momento di lasciarci ci fa scivolare in tasca due lettere e ci chiede di spedirle dall’Italia, perchè la censura gliele bloccherebbe e potrebbe passare dei guai. Ogni busta contiene delle letterine che i bambini scrivono ai loro benefattori ringraziandoli e inviando un disegnino. Proseguiamo per Pindaya, lungo la strada che stavolta è bella incontriamo dei bambini che giocano in un campo, ma alla nostra vista fuggono spaventati. Dopo un po’ di riluttanza e alla vista delle caramelle i più temerari si avvicinano seguiti mano mano dagli altri e rivediamo il sorriso su quelle faccine tristi. L’esterno del sito di Pindaya appare bianco in mezzo alla collina. Si sale per una breve serie di tornanti e parcheggiata l’auto si procede a piedi. Di fronte all’ingresso una statua di un principe che uccide un enorme ragno ricorda un’antica leggenda. Con un ascensore di cristallo che un po’ stona con il resto, saliamo alla grotta che contiene più di ottomila statue di Budda. E’ molto suggestivo e forse perchè è presto, siamo gli unici turisti e possiamo scattare fotografie senza nessuno sullo sfondo. All’uscita visitiamo una piccola fabbrica di ombrelli di carta. E’ sorprendente la velocità con la quale i quattro artigiani lavorano usando degli attrezzi, che per noi appartengono al medioevo. Questa fabbrica è a conduzione famigliare, c’è chi prepara la carta macinando della poltiglia di cellulosa, chi la stende su dei telai e chi la fa asciugare al sole, mentre in un capannone un uomo e una ragazza assemblano e dipingono gli ombrelli, sui muri si vedono delle dediche scritte soprattutto da italiani che testimoniano la simpatia per quelle persone.
Lungo la strada per Lago Inle ci fermiamo per regalare ad alcune giovani contadine delle magliette. Difficilmente potremo dimenticare quei visi poco più che infantili sorpresi ed emozionati. L’auto corre veloce in un paesaggio completamente diverso da quello lasciato a Bagan e presto arriviamo a Shwenyaung importante crocevia per il traffico locale, ma priva di alcun interesse turistico. Dopo pochissimi chilometri, giungiamo a Nyaungshwe che sarà la nostra base per tre notti. Posiamo le valigie in un albergo molto carino appena fuori città, di fronte alla stazione di polizia, e andiamo a cambiare un po’ di dollari. Il dollaro, a causa delle recenti turbolenze dei mercati finanziari, è ulteriormente calato e riusciamo a cambiare a 1050. Successivamente ci rechiamo all’imbarcadero dove la nostra guida prende accordi con un barcaiolo per la gita di domani. Sta per calare la sera, passiamo davanti ad un monastero dove giovanissimi monaci stanno giocando una partitella di pallone impediti nei movimenti dalle loro vesti, dimenticando per un attimo la rigida disciplina monastica. Per cena, contrariamente alla nostra regola di non mangiare mai tricolore all’estero, ci facciamo tentare da un ristorante italiano. E’ il più celebrato ristorante di Nyaungshwe e anche il più decente. La fortuna di questo ristorante è cominciata da quando una signora di Bologna ha regalato al cuoco locale una macchina per fare la pasta. Tutte le sere il ristorante è pieno di clienti che stanchi di riso e cibi orientali cercano rifugio nella cucina italiana. Ad onor del vero dobbiamo dire che i loro piatti sono veramente squisiti, e il personale è gentilissimo. Un buffo cameriere ha l’unico compito di raccontare ad ogni avventore la storia della macchina per la pasta e di mostrare con una visita guidata nella cucina, la freschezza e la genuinità dei prodotti. Il mattino seguente, maglione, giacca a vento e cappello, partiamo per la gita. Dal paese occorre percorrere circa 5 miglia di canale per arrivare al lago. Subito vediamo i famosi pescatori che remano con una gamba. Non è assolutamente vero che lo fanno solo alla vista dei turisti, remare con una gamba consente loro di calare in acqua una rete mentre si allontanano con la barca. Fa molto freddo e una leggera foschia quasi impedisce di vedere la riva, dopo una mezz’oretta sbarchiamo in prossimità della Phaung Daw Oo Paya, famosa per 5 statue di Budda quasi completamente sfigurate dalle foglie d’oro che i pellegrini continuano ad attaccarci sopra. Alle spalle di questo tempio su di una spianata abbiamo la fortuna di incrociare il mercato dei cinque giorni, artigianato e prezzi migliori che altrove. Visitiamo una fattoria dove giovani operaie tessono il sottilissimo filo del fusto dei fiori di loto per farne delle meravigliose e costosissime sciarpe. Per il pranzo ci fermiamo in mezzo al lago dove sorge un ristorante con annesso spaccio e negozio di souvenir. Il pranzo Shan è ottimo e economicissimo: tre dollari in tre. Nel pomeriggio ci addentriamo in un canale che ci porta ad Indein. Durante la navigazione vediamo scene di vita comune, donne che fanno il bucato e bambini che sguazzano felici vicino a bufali che si riparano dalla calura stando immersi nelle fresche e pulite acque. Un lungo corridoio fiancheggiato da centinaia di colonne di legno, che conferiscono un aspetto magico al sito, ci conduce allo Shwe Inn Thein, un complesso di stupa in rovina. E’ previsto un piano di restauro per queste pagode, ma sicuramente perderanno quell’alone di antico e decadente che ora le rendono affascinanti. Tornando a piedi verso la barca, percorriamo un boschetto di bambù che costeggia il fiume che ogni tanto si allarga creando deliziosi laghetti. Il sole sta per tramontare e sulla via del ritorno ci sarebbe rimasto da visitare il monastero dei gatti saltanti. Decidiamo di non vederlo; pur non essendo particolarmente amanti dei felini, riteniamo una crudeltà obbligare questi animali, liberi per natura ad esibirsi in numeri da circo.
Ritorniamo a cena al solito ristorante. Stasera gnocchi! Buonissimi.
La giornata successiva prevede una escursione a Kakku, nel territorio della tribù Pa-O nello stato dello Shan. Strada facendo, a pochissimi chilometri da Nyaungshwe ci fermiamo al monastero Shwe Yaunghwe Kyaung. Con le sue particolari finestre ovali, questo monastero in legno, ospita decine di giovani monaci che abbiamo trovati intenti a studiare. Sebbene già grandicelli, hanno gradito molto le matite e le penne colorate che abbiamo regalato loro. La strada è ottima, dopo qualche chilometro passiamo sotto un specie di arco di trionfo sul quale c’è scritto che siamo benvenuti nella divisione Shan e tra poco saremo a Taunggyi. Dopo una strada che si arrampica in mezzo ad una vegetazione rigogliosa, eccoci nella capitale dello stato Shan. Questa città è molto diversa dalle altre metropoli birmane, strade larghe, edifici ben tenuti e una moltitudine di negozi. La vicinanza alla Cina ha favorito oltre al contrabbando, uno sviluppo commerciale notevole che ha reso questa provincia sicuramente la più ricca di tutta la nazione birmana. Ce ne siamo accorti dall’abbigliamento degli abitanti, dalle case in muratura ben fatte e ben tenute, dai negozi pieni di articoli tecnologici. Per poter accedere al sito di Kakku siamo obbligati a passare al GIC office di Taunggyi e pagare una tassa di entrata di 3 dollari più 5 per la guida, al collettivo Pa-O. La nostra guida è una ragazza Pa-O vestita tradizionalmente con un abito nero che assomiglia vagamente ad un tailleur con gonna lunga. Sulla testa porta il classico turbante color arancio a quadri, denominatore comune di tutte le donne di quella tribù. La ragazza dimostra di essere molto istruita e di parlare un buon inglese. Un anno fa è stata in monastero per un periodo di tre mesi e ora ci mostra, togliendosi il turbante, i suoi capelli ancora corti. Normalmente le donne li portano lunghissimi, neri e lucidi. Abbiamo visto chiome lunghe ben oltre il sedere. Kakku è un posto magico. Sarà stato il vento che agitava i campanelli sui pinnacoli di centinaia di stupa, sarà stato il cielo per la prima volta minaccioso di nuvole da quando siamo in Birmania o forse l’alternarsi di vecchie pagode meravigliosamente fatiscenti con quelle nuove o appena restaurate dipinte di un pallidissimo color rosa che ci regala l’ennesimo spettacolo di questo viaggio che sta per terminare. Fuori dal sito, accanto ad un minuscolo mercatino, incontriamo dei contadini dai tratti somatici inequivocabilmente cinesi, sono gentilissimi, ci sorridono e sembra che ci vogliano invitare al loro picnic. Ma abbiamo già prenotato il pranzo all’unico ristorante della zona e ci aspetta un garlic curry che ci ha incuriosito. Anche per chi ama l’aglio come noi è un’esperienza troppo forte, ma almeno questa sera le zanzare staranno lontane.
La mattina successiva partiamo per Heho. L’aereo, puntualissimo arriva da Mandalay, ci carica e riparte al volo per Yangon. Le hostess della Air Mandalay sono carine e gentilissime e ci accompagnano con il sorriso per un’ora di viaggio. All’aeroporto della capitale ritroviamo la nostra guida che ci ha lasciato il giorno prima ed è tornato con l’autobus. Sul suo viso scorgiamo i segni di sedici ore di viaggio, ma è sempre sorridente e con grande piacere ritroviamo il primo autista. Insistiamo perchè siano nostri ospiti questa sera per l’ultima cena. Molto timidamente e dopo varie insistenze, accettano e così passiamo una bellissima serata, annaffiata con forse troppe birre al già noto Junior Duck. Il nostro accompagnatore, nonostante sia impegnato con il suo lavoro, non rinuncia ad venire con noi fino all’aeroporto e dopo averci assistito al check in ci saluta con un abbraccio molto commovente. Sarà difficile poter dimenticare queste due settimane trascorse in luoghi stupendi fra gente semplice e meravigliosa.
Consigli di viaggio: La quotazione del dollaro non sempre dipende dalle oscillazioni dei mercati valutari, spesso fattori a noi incomprensibili determinano grandi fluttuazioni del kyat al mercato nero. Pochi giorni prima del nostro arrivo la moneta locale veniva venduta a 1250. Al momento della nostra partenza era scesa a 970.
Riteniamo che sia meglio portare degli euro evitando il dispendioso cambio euro/ dollaro e dollaro/ kyat.
Gli orari dei voli interni possono essere soggetti ad improvvisi cambiamenti per questo è opportuno confermare sempre con almeno due giorni di anticipo le prenotazioni all’ufficio della compagnia lasciando l’indirizzo dell’albergo per eventuali comunicazioni.
Riempite le vostre valigie di medicine (fatevi consigliare dal vostro medico) che potete lasciare in ambulatori o dispensari medici, noi abbiamo portato soprattutto antibiotici, vitamine e fermenti lattici.
Portate con voi anche capi di abbigliamento che avete deciso di non mettere più, per loro anche una maglietta è un lusso. Noi abbiamo lasciato a loro tutto il nostro bagaglio e siamo tornati con i soli indumenti da viaggio. Spesso le ragazze ci hanno chiesto se avevamo rossetti, profumi, saponette, se avete a casa dei campioncini portateli con voi e le farete felici.
Non date mai soldi ai bambini, li abituereste all’accattonaggio ma regalate loro caramelle che potrete comprare facilmente sul posto. Non parlate mai di politica se non siete sicuri del vostro interlocutore.
Affidatevi ad una guida competente ed efficiente, sono i soldi meglio spesi.
Per qualsiasi informazione avrò il piacere di rispondere via e mail, o al numero 338 7721371.