Nel cuore del Caribe, il ritmo della Repubblica Do
Dieci giorni nella Repubblica Dominicana, ed ho la testa rintronata. Il merengue non da tregua, martella da ogni altoparlante disponibile. Esce a torrente dal cruscotto dei taxi, dalla radio degli autobus dipinti a mano. Fa da sottofondo continuo nei bar, nei ristoranti, nei self service, addirittura nei Mc Donald’s. Probabilmente anche nelle case, negli uffici, forse anche nelle scuole. Altra musica pare non esistere, niente rock da queste parti, al massimo qualche sdolcinata canzone francese e la solita musica internazionale anglofona. Passa un’auto, non senti il motore, ma le trombette acute del merengue, le vibrazioni ne minacciano la carrozzeria, anche le orecchie, di ricchi e di poveri, nelle ville in collina o in riva al mare, o nelle catapecchie sperdute in montagna. Ma i timpani resistono, mi chiedo come possa resistere il cuore. Perché il merengue non è una musica qualunque, che si ascolta e passa. E’ un inno perpetuamente suonato, un allucinogeno acustico collettivo, una gigantesca coperta di Linus sonora che copra il Paese e ne soffoca dolori e pene. Ti prende, ti fa muovere il corpo, fa sudare di fatica e piacere, poi arriva al cervello. Senza trasmettere messaggi, perché i testi delle canzoni puntano sempre sul cuore che fa rima con amore, parlano di brucianti passioni finite, di lei che se se ne va, o di lei che, meno male, se ne torna. Quel che conta è il ritmo, facile, ripetitivo, non ci si può difendere. I toni secchi delle percussioni, le frequenze alte dei fiati vanno direttamente alla mente, al cuore. La sera sul malecon di Santo Domingo sono queste le due parti più sollecitate e coinvolte. Malecon vuol dire semplicemente lungomare, quasi tutte le città di mare sulla costa hanno un malecon, ma qui nella capitale è una parola magica. E’ qui che la metropoli, quando fa buio, scarica sulla riva del mare le sue ansie, le sue paure, le sue grandi tristezze. E’ qui che si viene a dimenticare povertà materiali e miserie spirituali, per ritrovare questa esibita felicità collettiva, l’allegria travolge tutto, pare autentico, forse qualcosa di vero c’è. Nella strada trasformata in una strana balera all’aperto, lunga e stretta, piena di auto, rumore e musica, c’è una folla di snodati dominicani.
Tanti colori di pelle, cioccolati chiari prevalentemente, ambre, bianchi e prietos, i neri. Le discoteche, i casinò, i piano bar assomigliano a quelli degli States. Macchine americane, qualche volta capita anche una bella arrogante Ferrari, vanno forte le Mercedes, l’importante è che siano vistose. Depositano clienti che arrivano, ne riprendono altri che se ne vanno. Una bella passerella, la porta girevole non si ferma mai. Hei, amiga, cosa cerchi? Dimmi cosa cerchi, voglio aiutarti. Cammini sul marciapiede nel trambusto di gente, e procacciatori di tutto elencano merce e possibilità di svaghi, tra fanciulle color cioccolata che ammiccano, la musica non si interrompe mai. Cammini entrando ed uscendo da bolle di suono. Poi si spengono le luci nelle case del vecchio centro, si abbassano le tapparelle, l’aria è fresca, il rumore del mare fa da sottofondo, la musica ed il rhum hanno intorpidito tutti, il buio nasconde le cose, così l’illusione è perfetta. Fino a che impietoso non rispunta il sole. Il merengue lascia il posto al rumore del traffico, la brezza del mare, il cielo terso. E pochi chilometri più in là, l’oceano cristallino, la sabbia bianca e fine come zucchero a velo, gruppetti di baracche di legno unite tra loro solo da un cavo elettrico, paesini di pietra sprofondati. Ci sono cose che nemmeno mille parole potrebbero raccontare. I catamarani, la barriera corallina, le stelle marine in mano che si gonfiano orgogliose. Le mangrovie, le fregate. I pappagalli ara, gli aironi, i cormorani, i trigoni, le tartarughe marine giganti, gli alligatori. Gli zoccoli dei cavalli sulle lingue di sabbia. Le sorgenti d’acqua sotterranea, le piscine naturali. Il paesaggio poetico e lunare della notte, l’odore di salmastro. I vecchi pescatori, i loro racconti tramandati sui pirati spagnoli. I mercati, il brillante folklore dominicano, le fabbriche di sigari. La Grotta delle Meraviglie, le sue cinquecento pittografie di arte rupestre, le formazioni carsiche. L’eco della storia. E’ in questo acquario naturale che Jaques Cousteau confermò la presenza di corallo nero. Repubblica Dominicana non si può portare via niente, nè la sabbia, nè le conchiglie trovate, nè pietre non lavorate. Alla dogana non fanno passare niente, al massimo un litro di rhum ed una ventina di sigari lunghi.
Prima di partire, di questo paese sapevo ben poco. Che si parlava spagnolo, che si ballava, che c’erano le palme – la sabbia bianca – il mare caldo trasparente, che la moneta era il peso, ma niente di più. E’ stato Mimmo, l’interprete ambientale barese del villaggio, ad avermi insegnato tutto il resto. Innanzitutto il cocco non è piccolo ovale marrone e duro, ma grande affusolato verde e molliccio. Quello che noi conosciamo per cocco, non è altro che il frutto staccato invecchiato di mesi ed indurito. Qui non lo mangia nessuno, lo buttano. C’è da spendere qualche parola anche sulla banana. In Repubblica Dominicana la banana è considerato un legume, non un frutto. Le mangiano schiacciate, fritte, con il peperoncino, impanate, con le patate, con il cioccolato ed il caramello. Io Mimmo l’ho conosciuto al chiosco della spiaggia mentre ne mangiava una flambé annegata nel liquore. Parlava ad una coppia di toristi riguardo i souvenir tipici dell’isola.
Ci sono i sigari [da tenersi sempre al fresco, per evitare il verme che divora il tabacco], il rhum [e le sue tre B – Brugal, Bermudez e Barcelo], le bamboline di legno decorato [senza volto, per evidenziare l’impossibilità di definire lineamenti caratteristici ai dominicani, visti i numerosi mescolamenti di razze], la Mama Juana [una ventina di erbe diverse da far sciogliere nel miele e nel vino rosso, per ottenere un gusto simile al Brandy ed eccellenti prestazioni sessuali], i batik [con le classiche rappresentazioni di scene di mercato, tramonto, palme oppure con gli dei precolombiani stilizzati.]. Mimmo parla anche delle due pietre locali, l’ambra, che pietra non è, bensì è resina, e il larimar. L’ambra porta fortuna solo se regalata. In questo paese le famiglie ricche mettono pezzi di ambra grezza nelle culle dei bambini perchè si dice che assorbono gli spiriti cattivi. Più in generale l’ambra, anche se lavorata, non si dovrebbe mai far toccare da estranei, perchè si rischierebbe di inglobare le energie negative delle persone. L’ambra vera si riconosce dal gusto simile all’incenso, dal colore celeste se esposte ad una luce infrarossi, e dalla sua facile infiammabilità. Il larimar invece è una pietra dura vulcanica azzurra, e protegge dai malanni alla gola, raffredda l’energia ardente, calma l’ira, porta gioia dolce. Io e Mimmo dopo abbiamo fatto una lunga paseggiata per il Parco Nazionale dell’Est. Io ho imparato che non è la polpa dell’ananas che fa dimagrire, ma il gambo che scartiamo. Che la rosa di Bayahibe è l’unica pianta al mondo con larghe foglie e spine. Che le olive nere del Gri Gri sono buone e che le foglie dell’uva tropicale sono state i papiri su cui Colombo scriveva quando sbarcò su quest’isola. A proposito di Colombo, Mimmo mi racconta la storia del popolo indigeno Taigos, sterminato dagli spagnoli e dallo stesso genovese. Questo i libri di storia non lo riportano mai. Ho impregnato il naso del profumo dell’ibisco, che non è originario dei Caraibi, bensì dell’Asia, da cui si estrae il burro di Karkadè, con il quale di tradizione le donne ricche dominicane si cospargono il corpo la prima notte di nozze, per facilitare la penetrazione all’uomo, dicono. Mimmo mi fa toccare anche le palme reali, la cyca, le orchidee, la pianta del viaggiatore e quella del fuoco.
Poi si è messo improvvisamente a diluviare, per appena due minuti. Il sole dopo tornava rovente, l’acqua scendeva dalla grondaie alla piante, e di foglia in foglia, sulla terra, con un ritmo quasi zen.