Viaggio nel sogno americano

Da tempo sognavamo di fare un viaggio on the road nell’Ovest degli Stati Uniti, visitare i parchi nazionali più affascinanti dell’emisfero boreale, guidare su strade infinite in territori sconfinati, farci abbagliare dai colori della natura più selvaggia... Leggere i diari di viaggio in siti come questo ha solo rafforzato ancora di più la...
Scritto da: sammy1
viaggio nel sogno americano
Partenza il: 23/10/2006
Ritorno il: 15/11/2006
Viaggiatori: in coppia
Da tempo sognavamo di fare un viaggio on the road nell’Ovest degli Stati Uniti, visitare i parchi nazionali più affascinanti dell’emisfero boreale, guidare su strade infinite in territori sconfinati, farci abbagliare dai colori della natura più selvaggia… Leggere i diari di viaggio in siti come questo ha solo rafforzato ancora di più la nostra voglia di esplorazione e di avventura, e quando è arrivato il momento giusto, abbiamo prenotato il volo e siamo partiti, forse anche un po’ spaventati dalla durata del viaggio (24 giorni volo compreso), e dal fatto che , per nostra scelta, visto che non si trattava di un periodo di alta stagione, non avevamo prenotato in anticipo la maggior parte dei pernottamenti, proprio per poter essere liberi di gestire l’itinerario con la massima libertà e secondo le esigenze dettate dal momento e dalla situazione in cui ci saremmo trovati.

Abbiamo naturalmente tracciato un itinerario di massima calcolando anche il numero di chilometri da percorrere e le probabili città dove pernottare, stabilendo però anche delle strade alternative e lasciando delle giornate in bianco da riempire solo quando saremmo stati lì. Ci eravamo documentati in anticipo su riviste di viaggi e sulla Lonely Planet, ma la nostra inseparabile guida e preziosa compagna di viaggio è stata la Routard, ricca di suggerimenti precisi e validissima fonte di ispirazione per molte delle cose che abbiamo fatto. In ogni caso l’organizzazione dei parchi è perfetta, è sempre presente un Visitor Center che fornisce cartine, oltre che consigli e dritte sui sentieri da percorrere con relative lunghezze e gradi di difficoltà, e sui punti più belli da vedere. Ogni punto panoramico è segnalato benissimo, dappertutto ci Da tempo sognavamo di fare un viaggio on the road nell’Ovest degli Stati Uniti, visitare i parchi nazionali più affascinanti dell’emisfero boreale, guidare su strade infinite in territori sconfinati, farci abbagliare dai colori della natura più selvaggia… Leggere i diari di viaggio in siti come questo ha solo rafforzato ancora di più la nostra voglia di esplorazione e di avventura, e quando è arrivato il momento giusto, abbiamo prenotato il volo e siamo partiti, forse anche un po’ spaventati dalla durata del viaggio (24 giorni volo compreso), e dal fatto che , per nostra scelta, visto che non si trattava di un periodo di alta stagione, non avevamo prenotato in anticipo la maggior parte dei pernottamenti, proprio per poter essere liberi di gestire l’itinerario con la massima libertà e secondo le esigenze dettate dal momento e dalla situazione in cui ci saremmo trovati.

Abbiamo naturalmente tracciato un itinerario di massima calcolando anche il numero di chilometri da percorrere e le probabili città dove pernottare, stabilendo però anche delle strade alternative e lasciando delle giornate in bianco da riempire solo quando saremmo stati lì. Ci eravamo documentati in asono toilette, aree di parcheggio, cartelloni con spiegazioni storiche e naturalistiche, insomma nulla è lasciato al caso.

In linea di massima è stato un viaggio alla scoperta della natura, con qualche digressione nella civiltà caotica di San Francisco e Las Vegas, ed essendo in novembre le giornate molto brevi, le poche ore di luce le abbiamo sfruttate al massimo, svegliandoci sempre prima dell’alba e spesso usando le buie ore del tardo pomeriggio per spostarci da un posto all’altro. Ovviamente la nostra vita notturna è stata praticamente assente, ma non siamo andati fin laggiù per fare le ore piccole.

Le poche prenotazioni effettuate in Italia le abbiamo fatte su Expedia, con risultati ottimi e spesso anche economicamente convenienti. In generale c’è da dire che lo standard dei motel, anche nelle cittadine più piccole, è abbastanza buono, le camere sono quasi sempre attrezzate di caffettiera, frigo, forno a microonde, e spesso anche ferro da stiro. Tornano molto utili le convenientissime lavanderie automatiche che si trovano un po’ ovunque.

Volo a/r British Airways Roma-Londra-San Francisco: € 601,84 a persona Volo a/r Windjet Catania-Roma: 113,92 a persona Noleggio auto Full-size Alamo per 21 giorni con assicurazioni CDW e LIS incluse: € 695,48 Assicurazione medico-bagaglio: € 128,26 Eravamo in due. In totale, inclusi 23 pernottamenti, tutti i pasti, gli ingressi, i pedaggi, le spese e i souvenir, abbiamo speso € 5512.

24 OTTOBRE 2006, GIORNO 1° (LA GIORNATA INFINITA!) Howard Johnson Express Inn, San Francisco (€ 54,56 su Expedia, colazione inclusa) Sveglia alle 5, oggi si parte per gli USA! Siamo arrivati a Roma ieri sera da Catania e abbiamo pernottato all’”Airport Palace Hotel” a Ostia, perché fornito di una comoda navetta che dovrebbe portarci in aeroporto alle 6, in tempo per il nostro volo. Purtroppo la navetta salta la corsa, così siamo costretti a chiamare un taxi, per la modica cifra di 33 €. Ore 8:15: Decolliamo verso il nostro sogno! L’emozione si fa sentire, arriveremo molto tardi, ma certamente non ci peserà, saremo troppo felici per farci prendere dalla stanchezza! Alle 9:45 atterriamo a Londra, il volo British Airways è in perfetto orario. Dopo un po’ di attesa girando per il Duty Free, finalmente alle 14:30 decolla il nostro fantastico Jumbo alla volta di Frisco. Il volo è lungo (10h 35 min), ma tra un pisolino, un sudoku e il film “Cars” (in tema con il nostro viaggio), ne usciamo indenni. Al ritiro bagagli io (Sam) sono in ansia temendo il peggio, e infatti il baule di Fede non arriva, ma per fortuna è un falso allarme, avremmo dovuto immaginare che, viste le dimensioni e la forma (è il baule militare), gli Americani lo avrebbero fatto passare attraverso controlli diversi. Dopo averlo ritirato, prendiamo il trenino che ci porta ai noleggi auto, e prendiamo possesso della nostra Pontiac Grand Prix bianca. Ultimo intoppo della giornata: per fare 5 km fino al motel, ci mettiamo 45 minuti, ingarbugliandoci tra raccordi e sopraelevate; menomale che Fede ha portato il palmare col navigatore Tomtom! Pernottiamo all’Howard Johnson Express Inn, semplice, pulito e comodo, dove, grazie alle chiacchiere dell’impiegato della reception, abbiamo subito modo di conoscere l’indole socievole ed espansiva del popolo americano, cosa che non finirà mai di sorprenderci durante la nostra lunga vacanza.

25 OTTOBRE 2006, GIORNO 2° (IL PACIFICO, CHE MERAVIGLIA!) Padre Oaks Motel, Monterey (€ 51,63 su Expedia, colazione inclusa) Sveglia alle 6, superiamo alla grande il jet-lag, e dopo aver consumato i nostri muffins e il caffè seduti sulle poltrone della hall del motel, carichiamo i bagagli in macchina e siamo pronti per partire. Alle 8 il motore è acceso, ci aspetta la costa californiana. Arriviamo a Monterey alle 11, gironzoliamo per il Fisherman’s Wharf, osservando i leoni marini, i gabbiani e i pellicani. Pranziamo seduti su un muretto con una enorme “Clam chowder in a bread bowl” ($ 11), una saporita zuppa di vongole versata in una grossa pagnotta scavata. Continuando la passeggiata, ammiriamo alcuni scorci del centro storico, tra cui un bellissimo giardino in stile messicano, e il primo teatro della città, ormai in disuso. Ma il tempo scorre inesorabile, e siamo costretti a ripartire, senza però rinunciare ad una breve deviazione lungo Cannery Row, un tempo zona di inscatolamento delle sardine, e oggi famosa meta turistica piena di ristoranti e locali. Incantati dai meravigliosi scenari, riusciamo, dopo innumerevoli soste per scattare foto, a raggiungere Pacific Grove, ingresso della 17-Mile Drive, una strada panoramica a cui si accede pagando un pedaggio di $ 8,75, ma ne vale la pena! Guidiamo lungo la costa ammirando curatissimi campi da golf, ville da sogno, scogliere a picco su un oceano turbolento e irrequieto, e dopo qualche chilometro giungiamo al Lone Cypress, l’albero più fotografato d’America. Ce lo saremmo aspettato un po’ più “solitario”, ma lo scenario resta comunque incantevole. La strada ci conduce naturalmente a Carmel by-the-Sea, una cittadina estremamente tranquilla caratterizzata dalla quasi totale assenza di cartelloni pubblicitari, insegne luminose e qualunque cosa possa turbare l’armonia del posto. Nei dintorni di Carmel, visitiamo la Missione, fondata nel 1770 da un frate cristiano di origine spagnola nel tentativo di evangelizzare la popolazione selvaggia del luogo. E’ un convento in stile spagnoleggiante con un piccolo giardino e una chiesa riccamente ornata, un angolo di pace e tranquillità perfettamente integrato nella natura circostante. Nonostante la stanchezza, la nostra sete di meraviglie della natura ci spinge a muoverci ancora verso Sud, vogliamo percorrere ancora un pezzo di costa fino a Big Sur, e raggiungere la Julia Pfeiffer Burns Fall, un getto d’acqua che, al variare delle maree, si tuffa dalla roccia sulla battigia o direttamente nell’oceano. Quest’altra meraviglia non è ben segnalata lungo la strada ma, grazie all’occhio sempre attento di Sam, riusciamo a scovarla e ad ammirarla lasciando l’auto al margine della strada e facendo qualche passo in una pineta fino al dirupo sull’oceano. Forse perché è il nostro primo giorno in America, ma la bellezza di questo pezzo di California, il fascino delle scogliere, delle onde impetuose, la cura con cui vengono tenute le cittadine, e il colore incredibile del cielo, tutto questo ci lascia un senso di stupore e di meraviglia che non conoscevamo, e che sarà il motivo ricorrente del nostro viaggio.

Stanchi e soddisfatti torniamo a Carmel, dove facciamo un po’ di spesa per la colazione del giorno dopo e cerchiamo un posto in cui cenare. Le nostre forti radici (e la Routard!!) ci spingono verso il ristorante “Little Napoli”, dove consumiamo due pizze col sottofondo di una canzone napoletana ($42,54, un’esagerazione!), e subito dopo rientriamo a Monterey, dove pernottiamo al “Padre Oaks”, un motel molto grazioso e accogliente.

26 OTTOBRE 2006, GIORNO 3° (YOSEMITE, IL PRIMO PARCO) Best Value Mariposa Lodge ($97,90) Sveglia alle 6 e colazione in camera con la spesa fatta la sera prima. Non c’è tempo per crogiolarci, mettiamo le ultime cose in valigia e alle 7:30 partiamo, oggi ci aspetta il nostro primo parco nazionale, lo Yosemite! La strada verso Mariposa, dove abbiamo già una prenotazione per la notte, è un primo assaggio di quello che sarà, per la gioia di Fede, il leit-motiv del nostro viaggio: rettilinei infiniti su praterie sconfinate, per chilometri e chilometri un nulla assoluto a cui noi Europei non siamo affatto abituati… Avvicinandosi a Mariposa però la strada comincia a salire, le montagne si avvicinano. Alle 11:30 arriviamo al Best Value Mariposa Lodge, il motel più caro in cui staremo e che ci piace molto per gli ampi spazi e per il grande King size bed. Compriamo due panini farciti di strane salse ($ 12,50) in una bettola vicino al motel, di proprietà di una simpatica signora di origini toscane (anche lei attacca bottone e si mette a chiacchierare nonostante la fila di clienti che aspetta!), e partiamo subito per lo Yosemite. Arriviamo all’ingresso del parco e acquistiamo il National Parks Pass ($50), che ci servirà anche per accedere a gran parte dei parchi che visiteremo. Si tratta di un bellissimo parco caratterizzato da montagne maestose, boschi e cascate, un luogo magico che ci lascia a bocca aperta, e ci sorprende per la varietà dei paesaggi. Trascorriamo la prima parte del pomeriggio nella valle, soffermandoci ad ammirare e a scattare foto all’impressionante El Capitan, alla Bridalveil Fall (la cascata del velo della sposa), e all’Half Dome, una enorme montagna a forma di mezza cupola che Fede non smette più di immortalare. Purtroppo le cascate sono quasi secche per via della stagione, le Yosemite Falls sono addirittura asciutte, ma non restiamo comunque delusi da tutto il resto. Decidiamo di guardare il tramonto dal Glacier Point, un punto di osservazione che domina la valle, e finalmente lassù troviamo quello che ci aspettavamo da questo parco: un panorama mozzafiato, tutto quello che avevamo visto dalla valle, da quassù assume un sapore diverso, sembra di essere in cima al mondo e di esserne i padroni incontrastati. L’emozione è forte quando la luce del tramonto regala al paesaggio dei colori indescrivibili, il nostro primo tramonto in mezzo ad una natura incontaminata che ci ruba il cuore. Dopo il tramonto cerchiamo di tornare a Mariposa, ma tra la stanchezza, tra che il Tomtom ci depista portandoci su strade sterrate impraticabili, usciamo dal parco dall’uscita Sud e allunghiamo di molto, così ci fermiamo per cena in un locale di Oakhurst ($30). Arriviamo al motel alle 22:40, distrutti per la lunga giornata, e crolliamo in un sonno profondo.

27 OTTOBRE 2006, 4° GIORNO (L’ALTRA FACCIA DELLO YOSEMITE) Yosemite Gateway Motel, Lee Vining ($ 77,28) Per le fatiche della giornata precedente (550 km) ci concediamo una sveglia “tranquilla” alle 7. Solita colazione in camera, ormai attrezzatissimi ci facciamo il latte e caffè con tanto di biscotti e muffins. Fede carica la macchina, così alle 8:30 lasciamo il motel e facciamo un giro per Mariposa (proprio carina) in cerca di un paio di occhiali da sole per Fede (persi a Londra), i rullini per la macchina fotografica ed un supermercato per rifare un po’ di provviste. Fatto tutto, ritorniamo allo Yosemite passando dall’Arch Rock Entrance, ma stavolta non andiamo al villaggio. Deviamo verso l’entrata Ovest e cominciamo l’ascesa verso il Tioga Pass, l’uscita Est del parco che spesso durante l’inverso è chiusa per neve. Per fortuna il tempo è stupendo e non ha nevicato, quindi possiamo rispettare la nostra tabella di marcia. All’incrocio con la Tioga Road lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi lungo un sentiero. Dopo un miglio di cammino, maestosa, appare davanti a noi la prima sequoia gigante, seguita subito dopo dalla sequoia tunnel, un enorme tronco in cui è stato scavato un passaggio che potrebbe quasi essere attraversato da un’auto. Siamo a Tuolomne Grove, uno dei pochi punti del parco dove si possono ammirare questi impressionanti alberi vecchi più di 2000 anni, alti fino a 80 metri e con un diametro che può raggiungere gli 8-9 metri. E’ qui che incontriamo il nostro primo scoiattolo, e per noi che viviamo in Sicilia è una bella emozione! Tornati alla macchina, proseguiamo lungo la Tioga Road, e man mano che si sale (arriveremo ad un’altitudine di 3000 metri), la vegetazione cambia. Dai fitti boschi di conifere si passa a paesaggi più brulli, a distese rocciose su cui inspiegabilmente nasce qua e là qualche albero solitario. Fede si innamora di Olmstead Point e delle sue rocce selvagge a picco su burroni mozzafiato. Ci fermiamo poi al Tenaya Lake, un laghetto di un blu intensissimo, e a Tuolomne Meadows, dove gli alberi sono ormai totalmente sostituiti da prati alpini. Nel punto più alto la temperatura scende notevolmente e qua e là si vede qualche ghiacciaio. La discesa oltre il Tioga Pass è una serie di tornanti senza guardrail, fa impressione pensare che stiamo guidando a pochi centimetri dal scarpate impressionanti, ora capiamo perché la strada viene chiusa quando nevica. Usciamo dal parco e alle 17:30 avvistiamo il Mono Lake, nostra tappa del giorno successivo, che con la sua forma di origine chiaramente vulcanica e le sue sponde brulle, è in netto contrasto con i paesaggi che abbiamo appena lasciato. Ci fermiamo a Lee Vining, un posto dimenticato da Dio, con qualche motel, poche case, una stazione di servizio… Cerchiamo un posto per la notte (i motel sono inspiegabilmente cari, la nostra camera è piuttosto modesta, ma in compenso ha la vista sul lago), e alle 19 ceniamo al “Nicely’s”, con i suoi sedili in similpelle e l’atmosfera da Happy Days, dove consumiamo due buonissimi hamburgers e patate fritte ($ 23). 28 OTTOBRE 2006, GIORNO 5° (BODIE E MONO LAKE) Mount Whitney Motel, Lone Pine ($ 53,41) Sveglia alle 6:30, vogliamo ammirare l’alba sul Mono Lake dal terrazzino della camera. Quando prepariamo la nostra colazione in camera, abbiamo però una pessima sorpresa: una colonia di formiche, attirata dal un sacchetto di uva, ha invaso il tavolo, è una bella lotta cercare di cacciarle via! Alle 9 partiamo per Bodie, tappa consigliata dalla Routard che non ci lascia affatto delusi. Ci arriviamo guidando lungo una strada sterrata circondati da un paesaggio brullo e desertico che sembra quasi un preludio a quello che andremo a visitare. Bodie è una città fantasma, sorta nell’Ottocento attorno ad una ricca miniera, e abbandonata a metà Novecento alll’esaurimento dei filoni d’oro. E’ tutto come è stato lasciato, le case in legno con ancora dentro i mobili impolverati, la chiesetta, l’emporio, la banca, l’albergo, il saloon, persino qualche rottame di auto dell’epoca. E’ un luogo pieno di fascino, Fede non smette più di scattare foto!! Alle 12:25 ripartiamo, torniamo a Lee Vining, dove compriamo due panini che consumiamo in macchina, come spesso facciamo per non sprecare nemmeno un minuto del nostro prezioso tempo. Ci dirigiamo poi verso South Tufa, il punto migliore da cui osservare il Mono Lake e i suoi “Tufa”. Si tratta di formazioni rocciose a forma di colonne, createsi per effetto di reazioni chimiche sotto la superficie dell’acqua, e poi emerse lungo le rive del lago a causa dell’abbassamento del livello dell’acqua (il lago è stato risorsa idrica addirittura della città di Los Angeles). L’abuso dell’uomo ha quasi distrutto un ecosistema, e da alcuni anni si cerca di far tornare il livello del lago ad un livello accettabile, ma la strada è ancora lunga. Il luogo ha comunque un certo fascino, le colonne calcaree che si riflettono sullo specchio d’acqua hanno qualcosa di surreale. Vicino alla spiaggia dei South Tufa è segnalata anche “Navy Beach”, dove nel secondo dopoguerra venivano fatti segretissimi esperimenti per conto del governo americano, così cerchiamo di capire di cosa si tratti, ma non troviamo nulla di interessante, così ripartiamo. Dopo una breve sosta in un centro commerciale a Bishop (cittadina piuttosto grande e carina), dove finalmente acquistiamo l’atlante stradale degli Stati Uniti di Rand McNally, si prosegue lungo la 395, una highway impressionante, che scorre dritta verso sud , in un paesaggio brullo orlato a destra e a sinistra da catene montuose piene di ghiacciai. Arriviamo a Lone Pine che è già buio, e facciamo un giro per trovare un motel (qui i prezzi sono più conveniente, abbiamo l’imbarazzo della scelta, e la camera che prendiamo è piccola ma molto accogliente e attrezzata di ogni comodità). Ceniamo in un ristorante messicano ( Fajitas e Chili con carne per $ 35), e poi a letto presto.

29 OTTOBRE 2006, 6° GIORNO (LA DEATH VALLEY) Hotel Excalibur, Las Vegas (€ 102,42 per due notti su Expedia) Sveglia alle 6, ma sono in realtà le 5 perché è tornata l’ora solare, fuori ci sono -4 gradi Celsius. Alle 6:40 si parte per la Death Valley. Appena entrati siamo folgorati dal paesaggio lunare: distese aride con pochi cespugli, qualche Joshua Tree, poi montagne prive di vegetazione. La nostra auto si arrampica sui tornanti, poi ridiscende nella Valle della Morte, e la temperatura sale, sarà la giornata più calda del viaggio (25° C). Il paesaggio non smette mai di stupirci. La prima sosta la facciamo alle Sand Dunes, dune di sabbia finissima identiche a quelle di un qualsiasi deserto e gettate lì in mezzo ad una valle di aride rocce, quasi come se qualcuno ce le avesse messe apposta! Poi proseguiamo per Furnace Creek, dove visitiamo il Visitor Center e mangiamo un burrito acquistato al supermercato del villaggio. Sulla strada verso sud, facciamo una deviazione sulla Artist Palette Drive, una stretta stradina che attraversa una zona di rocce dai colori sorprendenti, dal verde, al marrone, al rosa, al viola, tanto da essere definita appunto la “tavolozza dell’artista”. Poi ci imbattiamo nel Devil’s Golf Corse, un insieme di zolle dalle forme più strane, ricoperte da uno strato di sale. Ma l’effetto più impressionante ce lo fa Badwater, il punto più basso degli USA (-85,5 metri sotto il livello del mare), una sconfinata distesa di sale bianco e accecante che sembra quasi un lago ghiacciato. La destinazione finale della giornata è Las Vegas, che raggiungiamo alle 18:30. Da lontano la città è impressionante, le luci sembrano non avere fine, si stendono per chilometri e chilometri, ed è notevole anche il traffico per le strade. Grazie all’aiuto del navigatore, arriviamo facilmente al nostro albergo, e ci viziamo un po’, approfittando del servizio di valet parking e del facchino che ci consegnerà i bagagli direttamente in camera. La fila al check-in è piuttosto lunga, dopo i bagni di natura dei giorni precedenti, il ritorno ad una civiltà così assordante ed esagerata ci stordisce un po’. Andiamo in camera a rinfrescarci un po’, e poi facciamo un primo girò al casinò del nostro hotel. C’è una notevole confusione, tutta quella gente imbambolata davanti alle macchinette, quei tavoli circondati da uomini e donne che senza battere ciglio, puntano e perdono in pochi secondi quantità di denaro che a noi sembrano incredibili, insomma l’impatto iniziale ci lascia interdetti e quasi sdegnati. Ceniamo nella Food Court dell’Excalibur ad un fast food cinese ($ 18,49), poi facciamo una passeggiata fuori, prima al Luxor (incredibile, una piramide enorme e la Sfinge egiziana a grandezza naturale!), poi al New York New York, dove ammiriamo le ricostruzioni della Statua della Libertà, del ponte di Brooklyn, dello skyline di Manhattan, ed entrando nell’albergo scopriamo che hanno anche ricostruito le vie, i palazzi, i localini tipici della città, insomma tutto quello che New York rappresenta nell’immaginario popolare è lì, davanti ai nostri occhi! Guardiamo da fuori anche il Montecarlo e il Bellagio, e al ritorno giochiamo un $ alla slot machine, ma è mezzanotte passata, la giornata è stata interminabile, è ora di dormire.

30 OTTOBRE 2006, 7° GIORNO (LA FOLLIA DI LAS VEGAS!) Mettiamo la sveglia alle 7, abbiamo tantissime cose da fare oggi. Facciamo colazione al buffet dell’Excalibur ($ 23,68 per un brunch da far paura, così fino a sera non ci pensiamo più!), e poi alle 10 fuori sullo Strip. Prima di qualunque altra cosa, acquistiamo una memory card e delle batterie di scorta per la digitale. La nostra passeggiata inizia dal Bellagio, uno splendido hotel costruito attorno ad un laghetto che si ispira alla cittadina sul lago di Como. La hall, i saloni, il giardino con le piscine, ogni cosa è costruita all’insegna dell’eleganza e del lusso; ci sorprende non poco il mulino circondato di zucche ricostruito all’interno per celebrare Halloween. Visitiamo poi l’Alladin e il suo Desert Passage, un centro commerciale in stile arabo che ricorda tanto i suk delle città mediorientali, con tanto di cielo e nuvolette dipinte sul soffitto. Accanto all’Alladin svetta una ricostruzione della Tour Eiffel, circondata da palazzi della capitale francese, e ovviamente anche l’interno del Paris richiama l’architettura della città. Usciti dal Paris, prendiamo il monorail, il trenino che collega i vari punti dello strip (che da fare a piedi sarebbe piuttosto lungo). Scendiamo al Sahara, alle cui spalle troviamo l’attrazione che manderà Fede in estasi! Con 10$ guida in pista una potentissima Corvette, e con altri 10$ si mette al volante di un enorme Hammer da 85000 $ ( e io mi siedo dietro come passeggera), e percorre un itinerario pieno di salite, discese, curve impossibili, un vero spasso! E per finire con le follie, saliamo sul vicino Stratosphere, e sulla cima di questa torre alta 350 metri, saliamo su tre attrazioni (Big Shot, Exscream e Insanity), i cui nomi fanno già capire quanto siano spericolati! E’ già buio quando scendiamo dalla torre, e per tornare in centro prendiamo un autobus. Un tipo di origine egiziana attacca bottone, ci chiede da dove veniamo e ci consiglia di scendere al Treasure Island per non perderci lo spettacolo dei pirati. Michel, così si chiama, è uno di quegli ambigui personaggi che all’angolo delle strade ti fermano con volantini per promuovere spettacoli a luci rosse, ma è comunque una persona simpatica, e il suo consiglio si rivelerà molto prezioso. Scendiamo dove ci dice lui, e in attesa dello spettacolo, andiamo al Venetian, una impressionante ricostruzione di Venezia con tanto di gondole e Ponte di Rialto, e da lì assistiamo allo spettacolo del Mirage che è proprio di fronte: l’ingegnosa e spettacolare eruzione di un vulcano che si ripete ogni 15 minuti. Torniamo poi davanti al Treasure Island, dove c’è una enorme folla in attesa, e poco dopo inizia uno spettacolo incredibile, la lotta tra pirati e sirene sui loro galeoni, canti, danze, esplosioni, incendi, e addirittura uno degli enormi galeoni che affonda nella piscina! Ancora frastornati, corriamo infine verso il Bellagio, dove sappiamo che alle 21:15 le fontane del lago si animeranno. Arriviamo appena in tempo: l’acqua si solleva fino ad un’altezza di 30 metri, le fontane, le luci e la musica si muovono insieme e creano un effetto molto spettacolare e romantico. E’ la giusta conclusione di una giornata davvero incredibile, la fantasia dell’uomo in questa città si è espressa in un modo straordinario, non si può capire se non vedendola con i propri occhi! Dopo un Hamburger in un fast food ($ 9,34), torniamo in camera con l’intenzione di riprenderci un attimo per poi andare a giocare al casinò, ma crolliamo in un batter d’occhio.

31 OTTOBRE 2006, 8° GIORNO (LA ROUTE 66) Grand Motel, Williams ($ 44,41 colazione inclusa) Sveglia alle 6, ci prepariamo per ripartire ma la prendiamo un po’ comoda. Anche oggi con $ 23,68 facciamo un brunch luculliano al buffet dell’albergo, e poi giochiamo altri 3 $ alle slot machines, per poter almeno raccontare che abbiamo giocato al casinò! Ancora perplessi per tutta quella gente che affolla i tavoli da gioco già dalle 7 del mattino (probabilmente non hanno smesso per tutta la notte), ci facciamo riportare la macchina dal valet e alle 10 siamo pronti per partire. Oggi è una giornata di trasferimento, ci interessa solo arrivare entro sera in prossimità del Grand Canyon, quindi possiamo permetterci di fare qualche breve sosta per ammirare tutto quello che ci sta attorno. La prima fermata la facciamo al confine tra Nevada e Arizona, dove ammiriamo la Diga di Hoover, una incredibile opera di ingegneria eretta per arginare le acque del Colorado e fornire elettricità e risorse idriche ad Arizona, Nevada e California. Purtroppo il livello dell’acqua è bassissimo, così la diga non suscita in noi un gran senso di meraviglia, come invece ci saremmo aspettati. Spostiamo l’orologio un’ora avanti (Arizona Time), e proseguiamo per Kingman, dove invece di prendere la Interstate 40 per Williams, deviamo sulla Old Route 66, la leggendaria strada che costituisce una fetta della storia di questo incredibile paese. Per Fede l’emozione è forte quando ad Hackberry ci troviamo davanti una vecchia stazione di servizio con tanto di cartello arrugginito e cigolante che sembra essere sbucata direttamente dal passato. E’ un vecchio General Store che il proprietario ha trasformato in tappa obbligatoria per i nostalgici della Route 66. Dentro si trovano antichi cimeli, fotografie, targhe, souvenirs, un miscuglio di roba vecchia e nuova che lascia a bocca aperta, e vi incontriamo anche un gruppo di Harleysti con tanto di bandane, gilet in pelle e pance prominenti. Fede non sta nella pelle, è estasiato! Dopo aver fatto qualche acquisto, proseguiamo il più possibile sulla 66, constatando che in effetti, non essendo più una strada di passaggio, si incrociano pochi veicoli, e le cittadine un tempo floride, oramai sono diventate quasi delle città fantasma. Riprendiamo l’autostrada e alle 17 siamo a Williams, ad un’ora di strada dal Grand Canyon. E’ ormai buio, non avrebbe senso arrivare fino al parco, così cerchiamo una camera per la notte, e ci fermiamo al Grand Motel, un po’ vecchiotto ma attrezzato di caffettiera e microonde. E’ Fede a scegliere questo posto, soprattutto perché prova un’istintiva simpatia per l’anziano proprietario, che gli ricorda tanto zio Jesse del telefilm Hazard. E oltre al prezzo davvero conveniente, ci viene offerto un cesto pieno di roba per la colazione del giorno dopo, e anche un coupon di sconto valido per la cena in un ristorante della città. Decidiamo di andare a fare un po’ di bucato in una lavanderia automatica, e un po’ di spesa per l’indomani. Per cena andiamo al locale suggeritoci dal tipo del motel, il “Cruiser’s Cafe 66”, dove incontriamo addirittura un vero cowboy con tanto di cappello in stile, pantaloni in pelle e speroni tintinnanti agli stivali. Ordiniamo un hamburger e delle Spare ribs con la tipica salsa barbecue ($ 21,50 con lo sconto), e poi facciamo qualche acquisto nell’annesso negozio di souvenir sempre in tema con la 66. Alle 21 siamo già in camera e ci abbandoniamo a un sonno profondo.

1 NOVEMBRE 2006, GIORNO 9° (IL GRAND CANYON) Maswick Lodge, Grand Canyon Village ($ 80,95) Sveglia alle 5:30, oggi ci aspetta il Grand Canyon! Fatta colazione e caricati i bagagli in auto, alle 7:15 partiamo da Williams. Ci sono -5 gradi Celsius, ma il sole spunta all’orizzonte e il cielo è limpido, anche oggi sembra che il tempo sarà splendido, come lo è stato ogni giorno fino ad ora. Alle 8:30 entriamo nel parco, e l’emozione è grande quando ci fermiamo al primo vista point, il Mother Point, che sarà il nostro primo approccio a questo parco meraviglioso e pieno di fascino. Ci avviciniamo alla balconata a picco sul canyon, e ci troviamo davanti uno degli spettacoli più grandiosi che abbiamo mai visto. Sognavamo questo momento da tanto tempo, e finalmente siamo qui, al cospetto di questo capolavoro della natura che merita pienamente la sua fama diffusa in tutto il mondo. Dopo le foto di rito, una coppia di Americani, come al solito, si mette a chiacchierare, e ci dice di aver fatto la discesa nel canyon a dorso di mulo il giorno prima, stuzzicando così la nostra voglia di sperimentare cose nuove. Avevamo programmato di restare al Grand Canyon solo una giornata, e di partire per Page dopo il calare della notte, ma l’idea di passare lì un giorno in più ci alletta, così andiamo subito al Visitor Center per raccogliere informazioni, poi cerchiamo una camera per la notte all’interno del villaggio, e prenotiamo per il giorno dopo un “Mule ride” ($ 284,42 due pax, piuttosto costoso, ma quando ci ricapita?), una gita lungo il Bright Angel Trail che durerà tutta la giornata e che ci porterà fino a Plateau Point, posto 1000 metri più in basso rispetto al Rim, da cui si ha una visuale più ravvicinata del fiume Colorado e delle sue rapide. In realtà il Trail è un sentiero percorribile anche a piedi, ma non siamo abbastanza allenati per affrontare un percorso così faticoso, soprattutto al ritorno, che è tutto in salita. D’altro canto non varrebbe la pena di camminare fino a un punto intermedio e poi fermarsi, il panorama non sarebbe molto diverso da quello che si può ammirare dal ciglio del Canyon. Facciamo un giro in macchina nel villaggio, ed è proprio sul ciglio della strada che, con grande emozione, scorgiamo il nostro primo branco di cervi, e subito dopo ci taglia la strada quello che crediamo essere il capo branco, un cervo con un palco enorme che non sembra affatto intimorito dal nostro arrivo, e che continua a camminare lentamente davanti a noi impedendoci di passare. Dopo una veloce sosta al supermercato, e all’ufficio postale per spedire qualche cartolina, alle 13 ci rechiamo allo Yavapai Point, dove sappiamo che troveremo un Ranger che per circa un’ora ci intratterrà parlandoci della storia e della composizione del Grand Canyon. L’incontro è piuttosto interessante, e nonostante si parli solo in inglese, siamo soddisfatti perché ci troviamo a ridere e a partecipare attivamente alla conversazione esattamente come tutti gli altri. Dopo la Ranger Talk, ci rechiamo al punto di partenza di Hermits Rest, dove parte una navetta che lungo il tragitto si ferma in diversi punti panoramici. Appena saliti, una coppia di mezza età ci chiede di dove siamo, e subito si presentano parlando in italiano. Concetta è originaria di Bagheria, Carmine di Napoli, e vivono a Long Island da tanti anni, ma sono felicissimi di passare qualche ora con dei connazionali, così facciamo tutto il tragitto e tutte le fermate assieme a loro, chiacchierando dei diversi modi di vivere in Italia e in America. I panorami che ci fermiamo di volta in volta ad ammirare non smettono mai di stupirci per la bellezza dei colori e la grandiosità delle forme, soprattutto ci piace il Mojave Point, da dove si può vedere un pezzo di Colorado che scorre impetuoso in fondo al Canyon. Ci fermiamo infine a Hopi Point, e lì aspettiamo il tramonto che tinge tutto di rosso e che crea sulle rocce indescrivibili giochi di luci e ombre. Lasciato il tragitto di Hermits Rest e, salutati Carmine e Concetta, con la promessa di andare a trovarli quando andremo a New York, andiamo a prendere possesso della nostra camera, e poi ceniamo al self service dell’albergo ($ 27,27 due secondi con contorno e dolce). Dopo cena giriamo per i negozi del villaggio in cerca di due cappelli che saranno necessari per la gita di domani. Fede sceglie un cappello bellissimo da vero cowboy che gli costerà 50 $, io (Sam) sono un po’ più sobria, ne compro uno semplice di paglia per la modica cifra di 6 $. Purtroppo la giornata si conclude con una nota stonata: mentre portiamo in camera i bagagli, il navigatore satellitare cade e va completamente in tilt, il Tomtom è andato, d’ora in poi ce la dovremo cavare con le cartine e il nostro senso di orientamento. La cosa non mi preoccupa molto, sono abbastanza certa che non avremo problemi, ma Fede ci resta malissimo, ci vorranno un paio di giorni prima che riesca a riprendersi da questo brutto colpo! 2 NOVEMBRE 2006, 10° GIORNO (A SPASSO SUI MULI…) Travelodge, Page ($ 45 colazione inclusa) Ci svegliamo alle 6:15, facciamo colazione in camera e carichiamo i bagagli in macchina, lasceremo il Grand Canyon subito dopo il Mule ride. Alle 7:45 ci presentiamo sul luogo dove partirà il giro, e per circa un’ora il capo della baracca, il cowboy Casey ci spiega come si svolgerà la giornata, dandoci delle indicazioni sul comportamento da tenere col mulo, e insistendo in maniera spiritosa sulla testardaggine di questo animale, sui dolori che dovremo sopportare per via della posizione che dovremo mantenere per diverse ore, sul fatto che non sarà uno scherzo trovarsi costantemente sul ciglio del burrone in groppa a un animale che in realtà non avrebbe nessuna voglia di scarrozzarci in giro… Io (Sam) ho una paura incredibile, Fede invece, spericolato come sempre, non vede l’ora di cominciare! I muli sono più alti dei cavalli, e molto più robusti, e io non riesco ad immaginare come farò a tenere a bada una bestia di quelle dimensioni, così quando arriva il momento di salire, sono tesa come una corda di violino, ma mi rendo subito conto che si tratta di animali molto docili e ben addestrati, bisogna solo far camminare il proprio mulo a pochi centimetri dal mulo che ci precede, una volta capito come fare, ci si può rilassare e ammirare il paesaggio che ci circonda. Partiamo a gruppetti da 6, la nostra guida, una bella ragazza di nome Kim, vestita da vera cowgirl con cappello e speroni agli stivali, ci fa strada e si comincia a scendere lungo il Bright Angel Trail. Facciamo solo un paio di soste lungo il tragitto, e verso mezzogiorno giungiamo a Plateau Point, un piccolo altopiano a picco sul Colorado da dove si può ammirare il fiume da più vicino, e allo stesso tempo guardare il canyon da un’altra angolazione, dal di dentro e non dall’alto come avevamo fatto il giorno prima. Ci danno una scatola con la nostra colazione a sacco, e purtroppo dopo pochi minuti ci tocca ripartire per tornare sul Rim. Ci delude un po’ il fatto di essere rimasti troppo poco laggiù, avremmo voluto restarci un po’ più a lungo, rilassarci e avere il tempo di ammirare la natura con più calma, ma dobbiamo restare col gruppo. Ci sarebbe stata la possibilità di fare un giro più lungo e arrivare fino in fondo al Canyon, in riva al Colorado, ma per poterlo fare avremmo dovuto pernottare laggiù, al Phantom Ranch, spendendo il doppio del tempo e del denaro. Noi abbiamo deciso di farci bastare il giro di un solo giorno, magari la prossima volta, chissà… Il ritorno è tutto in salita, facciamo numerose soste di uno o due minuti per far riposare i muli, e prima delle 16 siamo di nuovo al villaggio. Dobbiamo subito ripartire, se vogliamo arrivare a Page ad un’ora decente, ma lungo la strada che ci porta all’uscita Est del parco, non possiamo fare a meno di fermarci un’ultima volta ad ammirare questo spettacolo meraviglioso: al Desert View Point la vista è indescrivibile, stiamo qualche minuto in silenzio a salutare il Grand Canyon. L’incanto è però interrotto da una famigliola di lingua spagnola che si avvicina rumorosamente, e quando li incrociamo camminando verso la macchina, la bambina dice alla mamma: “ Mira, mira, un vaquero!!”, indicando Fede, che col suo cappello non passa certo inosservato! Da questo momento in poi, non se lo toglierà più dalla testa, e devo ammettere che tante altre volte, in diverse occasioni, gli verranno fatti complimenti che non faranno altro che renderlo ancora più orgoglioso del suo look da perfetto uomo del West!! Ci rimettiamo in marcia e alle 18:30 arriviamo a Page. Ci fermiamo a chiedere il prezzo ad alcuni motels (Fede si lamenta perché faccio scendere sempre lui a chiedere!), e scegliamo il Travelodge, dove ci viene data una grande camera con due letti queen size ad un prezzo molto conveniente. Usciamo poi a cercare un posto per la cena, e ci fermiamo al “Ken’s Old West”, un tipico locale west tutto in legno, pieno di gente allegra, dove un gruppo suona canzoni country e qualche coppia balla al centro della pista. Siamo stanchissimi, la giornata è stata molto pesante, ma questo posto ci riempie di nuova energia, e passiamo forse la serata più bella di tutto il viaggio. Consumiamo due fantastiche bistecche con patate al forno, beviamo birra ($ 51,15 incluso il buffet di insalate a volontà), e ci lanciamo anche noi in pista quando il gruppo comincia a intonare “Hotel California”, la colonna sonora della nostra vacanza. Questa sera andremo a letto distrutti, ma soddisfatti e felici più che mai…

3 NOVEMBRE 2006, 11° GIORNO (LAKE POWELL E L’ANTELOPE CANYON) Best Western Wetherill Inn, Kayenta ($ 63,77 colazione inclusa) Sveglia alle 6:15, prepariamo i bagagli e poi facciamo un’abbondante colazione in albergo. Appena usciti, ci fermiamo ad ammirare il cielo: oggi a Page, una cittadina davvero graziosa a due passi da Lake Powell, c’è una Air Baloon Regata, una regata di mongolfiere, e già nelle prime ore della giornata il cielo è costellato di questi enormi palloni dai colori e dalle forme diverse. E’ davvero uno spettacolo, ma non possiamo soffermarci ad ammirarlo come vorremmo, perché dobbiamo andare a Wahweap Marina, in riva al lago, ad informarci sugli orari delle gite in battello. Per accedervi si deve pagare un pedaggio, ma accettano anche il nostro National Parks Pass, così in pochi minuti siamo già alla Marina e veniamo a sapere che l’unica gita è alle 14:30. Decidiamo dunque di andare subito a vedere l’Antelope Canyon, di cui abbiamo tanto sentito parlare, e di tornare al lago solo nel pomeriggio. Proprio qui ci accade un altro episodio che racconteremo tante volte e che ci ha dato un’altra dimostrazione della disponibilità degli Americani: siamo davanti al cartello del Lake Powell, e come abbiamo sempre fatto davanti ai cartelli dei luoghi e dei parchi che abbiamo visitato, vorremmo fare una foto e cerchiamo di sistemare la macchina fotografica per un autoscatto, ma c’è una larga strada in mezzo, e abbiamo qualche difficoltà. A quel punto un’automobile con una barca a rimorchio passa davanti a noi, rallenta, fa inversione di marcia e si ferma. Un tipo scende e ci chiede se vogliamo che ci scatti una foto. Noi accettiamo il suo aiuto, e subito dopo lo osserviamo rifare inversione e andar via. Questi sono gli Americani! Alle 10:30 siamo all’ingresso dell’Antelope Canyon e paghiamo 12 $ per entrare e altri 30 $ per farci trasportare all’interno del canyon (il nostro Pass non è accettato perché ci troviamo in una riserva Navajo). Una Navajo dall’aspetto e dai modi molto mascolini ci fa montare su un pick-up e ci conduce, lungo una strada sterrata, all’ingresso di questa spettacolare feritoia nella roccia. Ci spiega come questo canyon sia spesso soggetto a improvvise inondazioni che ne cambiano il profilo e la profondità, e poi ci dà un’ora di tempo per la visita. E’ un luogo impressionante, la luce del cielo filtra attraverso la fessura tra le rocce creando dei giochi di ombre e di colori davvero affascinanti. Purtroppo in questo periodo dell’anno i raggi del sole non filtrano perpendicolarmente, ma le sfumature sono comunque incredibili. Lasciamo l’Antelope Canyon e ci fermiamo a mangiare pollo fritto da KFC ($ 10,59) a Page. Dopo pranzo, ci dirigiamo verso la Glen Canyon Dam, la diga che, sbarrando il corso del Colorado, ha dato origine al Lake Powell, e dopo qualche miglio ci fermiamo ad un vista point da cui si può ammirare una spettacolare e romantica veduta del lago dall’alto. Il contrasto tra il giallo e il rosso delle rocce, e l’azzurro del cielo e del lago, è davvero suggestivo, ancora una volta il paesaggio ci lascia senza parole. Alle 14 siamo già al Lake Powell Resort pronti per il Boat tour ($ 65,78 due pax). Il giro in battello ci conduce lì dove l’Antelope Canyon trova il suo sfogo nel lago, permettendoci di osservare da vicino i colori e le striature della roccia, e poi ci porta vicino alla diga, che da sotto sembra ancora più enorme e impressionante. Al termine del giro riprendiamo la macchina e lasciamo il lago, dirigendoci verso Kayenta, la nostra base per il prossimo parco che visiteremo, la leggendaria Monument Valley. Abbiamo un solo rimpianto: non aver avuto il tempo di andare a vedere Horseshoe Bend, ma dobbiamo cercare di recuperare la notte in più trascorsa al Grand Canyon, quindi ci tocca partire. Arriviamo a Kayenta che è già buio, e la città non ci fa una buona impressione: rispetto ad altre cittadine viste, è un po’ più grande, ma non sembrano esserci belle case o un centro città animato, piuttosto ci sembra di scorgere per lo più containers e casette in pessime condizioni, ma forse è il buio che ci suggestiona… Con fatica troviamo il Best Western, e prendiamo subito una camera ad un prezzo ragionevole. Già a Page lo avevamo notato, ma qui abbiamo la conferma: da queste parti sono tutti Navajos, nei motel, nei ristoranti, nei parchi, sembra che l’uomo bianco sia sparito, e si percepisce anche dall’accoglienza che riceviamo in genere. I Navajos sono molto più silenziosi, introversi, con loro si socializza di meno, sembra quasi che non ci tengano ad avere contatti con i turisti. Anche il loro modo di gestire i parchi è molto diverso: poca precisione, pochissima puntualità, sono molto approssimativi, ma non per incapacità, bensì perché sono fatti così, hanno i loro tempi e il loro modo di fare, sono gli altri a doversi adeguare a loro e non il contrario. Per restare in tema, ceniamo in un ristorante alle spalle del motel, suggerito dalla Routard. E’ il “Golden Sand” ($ 17,91), gestito e frequentato quasi esclusivamente da Navajos, un luogo spartano ed economico dove facciamo anche fatica a comunicare con la cameriera, ma mangiamo abbastanza bene: un’omelette per me, e per Fede un navajo tacos, una sorta di piadina ricoperta di un ragù di carne speziato, verdure e formaggio, insomma una vera bomba! Rientrati al motel, ci fermiamo qualche minuto alla reception, dove c’è una postazione internet gratuita, e poi a letto presto.

4 NOVEMBRE 2006, 12° GIORNO (MONUMENT VALLEY, GOOSENECK, VALLEY OF THE GODS) Landmark Motel, Moab ($ 116,74 per due notti, colazione inclusa) Anche oggi sveglia alle 6, abbiamo tanto da vedere e tante miglia da fare. Al motel facciamo la migliore colazione di tutto il viaggio: cereali, latte, caffé, muffins, bagels con la marmellata, frutta, mangiamo talmente tanto che oggi salteremo il pranzo! L’entrata della Monument Valley non è lontana da Kayenta, ma già prima di arrivare al parco, cominciamo ad entusiasmarci per le fantastiche formazioni rocciose che si possono ammirare ai lati della strada, tanto che superiamo il cartello senza accorgercene, e solo dopo qualche miglio ci accorgiamo di essere andati troppo oltre e torniamo indietro. Arrivati finalmente alla guardiola di ingresso paghiamo 10 $ per entrare (il National Parks Pass non è accettato perché anche questa è una riserva Navajo). Nel parcheggio ci sono tanti chioschetti dove gli Indiani promuovono le loro escursioni in jeep e a cavallo, ma decidiamo di entrare con la nostra auto, in totale liberà, e a posteriori capiremo di aver fatto la cosa giusta, perché la strada è sterrata e stare sul cassone di un pick-up avrebbe significato mangiare tutta la sabbia del deserto!! La Monument Valley è forse il parco più famoso e conosciuto, ripreso in decine e decine di film e spot pubblicitari, e proprio per questo abbiamo grandi aspettative, che non vengono affatto deluse. Guidiamo lungo il percorso obbligato, ma ci fermiamo continuamente per scattare foto ai Buttes e Mesas che svettano su questa distesa desertica di sabbia rossa. E’ incredibile, è tutto come lo avevamo immaginato, c’è anche il profilo di un cowboy col cappello a tese larghe… (Fede col suo inseparabile cappello!!)! Ci fermiamo a tutti i vista points, ma i più belli sono sicuramente il John Ford’s Point, e l’Artist Point, da cui si ha la visuale più famosa e immortalata della Valle. Alle 13, dopo aver concluso il circuito e aver fatto una sosta al Visitor Center per le cartoline e i souvenirs, lasciamo il parco e ci dirigiamo verso Nord. Siamo già nello Utah, la nostra destinazione finale oggi è Moab, ma lungo la strada facciamo un paio di deviazioni che ci regaleranno tante altre belle emozioni. La prima è quella che ci porta a Gooseneck, un belvedere che si affaccia su una serie di anse del fiume San Juan, che scavando nella roccia, ha creato un canyon dalla forma sinuosa (a collo d’oca, come dice anche il nome). Non c’è quasi nessuno, la quiete di questo posto è quasi irreale. Ancora più solitaria è la tappa successiva, quella che ci conduce alla Valley of the Gods, un altro altopiano costellato da formazioni rocciose ancora più bizzarre di quelle della Monument Valley. Attraversiamo questa zona percorrendo una strada sterrata lunga meno di 20 miglia, ma talmente sconnessa da rallentare molto la nostra marcia. In questo periodo è tutto secco, ma è assolutamente sconsigliabile venire qui nei giorni di pioggia, perché i torrenti al livello della strada la renderebbero totalmente impraticabile. Torniamo poi sulla strada principale e tiriamo dritto verso la meta, fermandoci solo una volta a Bluff, una cittadina molto graziosa dove compriamo un pezzo di pizza che, forse perché la fame comincia a farsi sentire, ci sembra una delizia sopraffina!! Arriviamo a Moab alle 18:30, facciamo il solito giro per cercare un motel, e ci fermiamo al Landmark Motel, dove ci danno una camera enorme e molto confortevole. Ceniamo da Pizza Hut ($ 28,34), dove la pizza è decente, ma non regge il confronto col trancio consumato nel pomeriggio, e poi a nanna! 5 NOVEMBRE 2006, 13° GIORNO (ARCHES E CANYONLANDS) Sveglia alle 6:30, anche oggi vogliamo sfruttare al massimo le ore di luce e vedere il più possibile. Dopo aver fatto colazione, alle 8:30 siamo già all’ingresso di Arches, un altro parco nazionale famoso per gli impressionanti archi naturali di roccia, ma non solo. Purtroppo abbiamo già fatto 20 miglia all’interno del parco quando ci accorgiamo di aver dimenticato la telecamera al motel, e siamo costretti a tornare indietro perdendo 45 minuti di tempo preziosissimo. Arches è un luogo pieno di meraviglie: rocce dalle strane forme, colori incredibili, e naturalmente archi di diverse dimensioni. Per vedere tanto è necessario incamminarsi lungo sentieri di lunghezze variabili, ma ne vale sicuramente la pena. Noi andiamo a vedere da vicino la Balanced Rock, una roccia in equilibrio su un’altra roccia più piccola, che sembra dover cadere da un momento all’altro, poi The Windows, il famosissimo Delicate Arch, e il Landscape Arch, l’arco con la base più estesa (93 m). Usciamo dal parco alle 14:30, e purtroppo saltiamo il pranzo per mancanza di tempo. Vorremmo vedere Dead Horse Point e Island in the Sky, nel vicino parco di Canyonlands, ma non abbiamo tempo a sufficienza per entrambi, così chiediamo consiglio al cassiere del Visitor Center di Arches, il quale ci indirizza senza esitazione verso Island in the Sky. Entriamo nel parco e ci fermiamo pochi minuti al Visitor Center, solo per prendere una cartina della zona. Island in the Sky è una delle tre aree in cui è diviso il parco di Canyonlands, forse la parte più accessibile e facile da visitare, e a dire il vero non ci aspettavamo molto da questo luogo. Il fatto che sia uno dei parchi meno famosi ci ha portato a sottovalutarlo, ma è stato un errore. Ci addentriamo nel parco guidando lungo una strada che domina a destra e a sinistra burroni vertiginosi e canyons selvaggi. Percorriamo a piedi il sentiero che conduce al Mesa Arch, un grande arco di pietra al di là del quale si apre un baratro che lascia letteralmente senza parole! Nonostante la struttura sia simile a quella del Grand Canyon, questa zona di Canyonlands ha un carattere tutto particolare: i colori scuri, bruciati delle rocce, l’aspetto desertico e quasi lunare della valle, il silenzio, la maestosità di questa distesa sterminata di natura selvaggia e incontaminata… E’ un luogo straordinario e pieno di fascino, e ci dispiace avervi dedicato così poco tempo. Raggiungiamo a piedi anche Enheavel Dome, un altro punto panoramico molto interessante, e infine corriamo letteralmente dall’altra parte del parco (Fede supera ogni limite di velocità, temiamo da un momento all’altro che arrivi una pattuglia, che ci porterebbe in gattabuia senza esitare un attimo!!). Mancano pochi minuti al tramonto, e prima che gli ultimi raggi di sole spariscano dietro l’orizzonte, dobbiamo assolutamente raggiungere Grand View Point. Arriviamo appena in tempo. Non c’è quasi nessuno, il silenzio è totale, e il panorama che si presenta ai nostri occhi ha qualcosa di magico e quasi irreale, non si può descrivere a parole. Andiamo via che è già buio, e torniamo a Moab ancora esterrefatti per tutto quello che abbiamo visto oggi. Ceniamo a base di delizioso cibo messicano al ristorante “La Hacienda” ($ 27), e poi a nanna, distrutti ma felicissimi.

6 NOVEMBRE 2006, 14° GIORNO (CAPITOL REEF E LA SCENIC BYWAY 12) Best Western Ruby’s Inn, Bryce Canyon ($ 61,50) Anche oggi sveglia presto, alle 7 siamo già fuori, pronti per un’altra giornata di meraviglie. Lasciamo Moab e ci dirigiamo verso nord lungo la 191, e poi prendiamo la 70 verso ovest. La nostra destinazione finale è Bryce Canyon, ma lungo la strada faremo qualche sosta. Alle 10 arriviamo a Capitol Reef, un altro parco nazionale completamente diverso da quelli visti finora. Sarà che abbiamo visto così tante cose meravigliose, ma questo parco non ci colpisce particolarmente, sembra avere meno carattere, è meno “breathetaking”, meno maestoso e sorprendente, anche se i colori sono comunque bellissimi. All’inizio del parco attraversiamo la piccola oasi di Fruita, un antico villaggio abbandonato fondato da una comunità mormone nel 1800, dove ammiriamo frutteti dai colori incredibili (giallo, verde, marrone scuro), che contrastano col rosso intenso delle rocce circostanti. Attraversiamo in macchina tutta la vallata, temendo di restare senza benzina perché stavolta abbiamo fatto male i conti! Poi alla fine della strada, proseguiamo a piedi lungo un sentiero che si snoda in una gola strettissima tra alte pareti di roccia. Su una delle pareti si può ammirare il Pioneer Register, una serie di nomi e date incisi dai pionieri che nell’800 si avventuravano nel canyon, e che talvolta non tornavano più indietro… Ci arrampichiamo poi fino alle “Tanks”, piscinette naturali di acqua piovana che si raccoglie nella roccia. Usciamo dal parco e facciamo gli scongiuri con la speranza di arrivare alla città più vicina prima che finisca il carburante. Siamo fortunati, alle 14 siamo a Torrey, dove facciamo il pieno alla macchina, e mangiamo velocemente un panino da Subway ($ 10,46), l’unico posto aperto della cittadina, che ci sembra quasi fantasma, perché in giro non si vede anima viva! Qui comincia la Highway 12, una delle strade più belle e panoramiche d’America, e in effetti è un susseguirsi di paesaggi e colori diversi. Ci intenerisce molto una scena di vita familiare molto lontana da quello a cui siamo abituati noi: un po’ prima di Boulder, in mezzo alla campagna, ci incrocia uno Scuolabus che si ferma alzando un cartello di stop. Noi ci fermiamo in attesa che il pulmino svolga il suo compito: due bambini scendono e vengono accolti da un caso festoso che li scorta mentre attraversano la strada, e poi li accompagna saltando e scodinzolando, verso una strada sterrata che molto probabilmente li condurrà verso una casa sperduta chissà dove nella campagna circostante. Lungo la strada passiamo attraverso Escalante National Park, il più recente dei parchi americani, e dal panorama che ci circonda immaginiamo che anche questo luogo meriterebbe una visita: la strada procede in mezzo a due burroni impressionanti, e fermandoci in una piazzola per qualche foto, incontriamo due Italiani (strano, da queste parti!), che ci dicono di aver fatto a piedi un lungo sentiero nel canyon sottostante, e di aver visto persino una stupenda cascata. Noi purtroppo dobbiamo proseguire, il sole sta calando, e vorremmo arrivare alla meta prima di sera. Siamo ormai a poche miglia da Bryce Canyon quando un branco di cervi attraversa la strada davanti a noi. Io, come al solito, voglio fotografarli, ma mentre abbasso il finestrino succede il guaio: il vetro dal lato del passeggero era stato un po’ difettoso fin dall’inizio, ma stavolta, invece di andare giù con fatica, cade improvvisamente tutto dentro lo sportello, e non c’è modo di farlo risalire! Per fortuna siamo quasi arrivati, ma facciamo il resto della strada imbacuccati per via della temperatura che sta scendendo velocemente. Arriviamo all’ingresso del Bryce Canyon e prendiamo una camera al Best Western, una struttura molto grande che offre ogni comodità, dal supermercato all’ufficio postale, alla lavanderia. Subito dopo telefoniamo alla Alamo, e l’operatore ci dice che hanno un loro referente nella zona dove siamo, ma che ormai è chiuso, quindi ci suggeriscono di chiamare l’indomani per cercare di risolvere il problema. Nel frattempo Fede, sempre pieno di risorse, riesce a riportare su il vetro, bloccandolo in posizione chiusa, così almeno non saremo costretti a svuotare la macchina per la notte. Un po’ più rilassati, e visto che non è ancora molto tardi, facciamo un po’ di bucato alla lavanderia automatica, e poi ci godiamo una bella cena a base di carne al ristorante dell’albergo ($ 41,77).

7 NOVEMBRE 2006, 15° GIORNO (BRYCE CANYON) Zion Park Motel, Springdale ($ 54,64) Stamattina sveglia ancora prima del solito, alle 5 siamo già in piedi, facciamo colazione in camera e carichiamo velocemente i bagagli in macchina. Quando andiamo a pagare il conto del motel, fuori è ancora buio, ed è quello che volevamo, perché non vogliamo perderci lo spettacolo dell’alba nel Bryce Canyon. Entriamo nel parco e ci fermiamo al Sunrise Point, dove notiamo che c’è già un bel po’ di gente imbacuccata fino a sopra le orecchie (mi sono imbacuccata anch’io!) per via della temperatura bassissima, in fondo siamo a 2300 metri di altitudine! E’ il nostro primo approccio al Bryce, lo spettacolo degli Hoodoos che svettano in questo meraviglioso anfiteatro naturale è già affascinante nella penombra che precede il sorgere del sole, ma quando i primi raggi fanno capolino e colorano le rocce di tutte le sfumature del rosso, allora capiamo perché tutti quelli che ci sono stati dicono che questo è davvero il parco più bello di tutti! Oggi, visto che ormai ci abbiamo preso gusto a fare Hiking, vogliamo fare un percorso a piedi di media difficoltà, ma è ancora presto e la temperatura troppo bassa, così riprendiamo l’auto e ci fermiamo anche a Sunset Point, Inspiration Point e Bryce Point, una sorta di palcoscenico a picco sul canyon che ci permette di ammirare tutt’intorno a noi pinnacoli di varie dimensioni e dai colori indescrivibili, dal rosso, all’arancione, al rosa, al bianco accecante. Alle 9:30 torniamo a Sunset Point e partiamo per il sentiero a piedi. Abbiamo scelto di fare il Navajo Loop in discesa, e poi, invece di risalire dalla stessa strada, proseguiremo sul fondo del canyon verso il Queen’s Garden, risaliremo all’altezza del Sunrise Point, e da lì costeggeremo il bordo del canyon fino a tornare al punto di partenza. Il sentiero è lungo circa 3 miglia, all’inizio non è difficile perché è in discesa. Ci fermiamo continuamente per ammirare la natura che ci circonda, e anche qui conosciamo una coppia di newyorchesi di mezza età che simpaticamente attacca bottone col pretesto di scattarci vicendevolmente delle foto. La temperatura sale, e la salita del ritorno si rivelerà davvero faticosa, ma ne sarà valsa la pena! Arriviamo al punto di partenza che è passato mezzogiorno, così mangiamo i nostri panini al prosciutto seduti su una panchina con vista sul canyon, ma non siamo ancora sazi, così riprendiamo l’auto e completiamo la visita arrivando fino a Rainbow Point, fermandoci ai vari punti panoramici. A Fede piace particolarmente il Natural Bridge, un arco di pietra che sembra essere arrivato qui direttamente da Arches. Tornati al Ruby’s Inn, richiamiamo la Alamo, e ci dicono di recarci al “Bryce Canyon Towings” (che scopriamo essere proprio di fronte all’albergo), dove hanno già pronta per noi un’auto che sostituirà la nostra bella Pontiac con la quale abbiamo divorato miglia e miglia di asfalto. Ci fanno aspettare qualche minuto per finire di lavarla, e poi ci consegnano una Chevrolet Impala color grigio argento, ancora più grande e lussuosa della prima. Insomma, anche alla Alamo un bel 10 e lode per come hanno saputo gestire il nostro problema! Dopo gli ultimi acquisti al supermercato e al negozio di souvenir, alle 17 lasciamo Bryce Canyon in direzione di Springdale, base per il nostro ultimo parco nazionale. Purtroppo è già buio quando percorriamo la tortuosa e ripida strada che ci porta verso lo Zion National Park, siamo sicuri che di giorno il panorama deve essere stupendo. Arriviamo a Springdale alle 18:30, scegliamo il motel e poi andiamo a cercare un posto per la cena. Non c’è molta gente in giro, entriamo al “Pioneer Restaurant” perché è l’unico posto dove c’è un tavolo occupato, e in effetti la bistecca la fanno molto bene ($ 42,29), ma qui siamo nel profondo Utah, e questo è l’unico posto dove si rifiuteranno di servirci alcolici: niente birra, solo Coke, pazienza, ci dobbiamo accontentare! 8 NOVEMBRE 2006, 16° GIORNO (ZION NATIONAL PARK) White Pine Motel, Ely ($ 32,48) Oggi sveglia alle 7, facciamo la solita colazione in camera e poi ci rechiamo all’ingresso dello Zion National Park. Dopo una sosta al Visitor Center, dove chiediamo consiglio ai rangers sui sentieri da percorrere, ci addentriamo nel parco in auto, poiché in questo periodo dell’anno le navette non sono operative. Lo Zion è molto diverso dai parchi visitati finora, non si visita ammirandolo dall’alto, bensì dal di dentro: la strada che lo attraversa si trova sul fondo di questo canyon scavato dal Virgin River, e i colori tipici del deserto sono qui mitigati da una natura più varia e dolce. Le mille sfumature di rosso delle imponenti falesie sono qui contrastate dai verdi, dai gialli, dai viola delle foglie degli alberi, e il risultato è davvero uno spettacolo mozzafiato. Decidiamo di andare fino in fondo alla Scenic Drive, e da lì proseguiamo a piedi lungo la Riverside Walk, una rilassante passeggiata di circa 2 miglia lungo le rive del Virgin River, tra le strette pareti del canyon. Ripresa la macchina, torniamo indietro fino alla piazzola dello Zion Lodge, da cui parte il sentiero che conduce alle Emerald Pools, delle piscinette incastonate nella roccia e originate da cascate che in questo periodo sono però piuttosto scarse. La prima parte del percorso è abbastanza ripida, ma arrivati alla Middle Pool, decidiamo di arrivare fino alla fine del percorso per poter ammirare la Upper Pool, il laghetto più alto posto immediatamente sotto una parete di roccia davvero impressionante. Nell’arrampicarsi Fede fa uno scivolone e si fa male a un polso, e purtroppo si porterà dietro il dolore fino alla fine del viaggio. Nel frattempo è già ora di pranzo, così lasciamo il parco, non senza aver fatto una sosta al Visitor Center per gli ultimi souvenirs, e ci fermiamo al supermercato per fare la spesa. Subito all’uscita di Springdale ci fermiamo in un piccolo parco in riva al fiume, dove facciamo un bel pic-nic coi nostri panini e la frutta, e poi si parte, oggi dovremo fare tanti chilometri perché vogliamo arrivare a Ely, sulla Intestate 50. Entrati in Nevada, svoltiamo verso Nord sulla 93, ed è già notte quando ci fermiamo sul bordo della strada: siamo immersi nella più totale oscurità, e il cielo è talmente limpido che riusciamo ad ammirare la Via Lattea nel suo massimo splendore, scorgiamo persino una stella cadente! Torniamo in auto, e alle 19:30 “Nevada Time” giungiamo finalmente a Ely, dove si notano già le prime Slot Machines, per ricordarci che siamo nuovamente nel peccaminoso stato di Las Vegas. Ely è la prima cittadina che visiteremo sulla I 50, la famosa “strada più solitaria d’America”, circa 300 miglia di rettilineo in mezzo al nulla, che nel Nevada attraversa pochissime città, e su cui si rischia di guidare per ore senza incrociare altri mezzi. Domani abbiamo intenzione di percorrerla tutta fino a Carson City, la capitale dello stato, ma per stasera ci basta trovare una camera nel modesto (molto modesto!) White Pine Motel, e cenare al Nevada Hotel ($ 27), dove fatichiamo a trovare un tavolo che non sia circondato da Slot Machines (forse ce ne sono anche in bagno!). 9 NOVEMBRE 2006, 17° GIORNO (INTERSTATE 50, THE LONELIEST ROAD) Qualità Inn Trailside Inn, Carson City ($ 128,68 per due notti, colazione inclusa) Sveglia alle 7 e colazione in camera. Oggi vogliamo percorrere tutta la Interstate 50 in direzione Ovest verso Carson City, la capitale del Nevada, ma prima di lasciare Ely decidiamo di visitare il “Nevada Northern Railway Museum”, una vecchia stazione ferroviaria ormai in disuso dove tutto è stato lasciato esattamente come era, persino la cassiera che ci vende i biglietti e la guida che ci accompagna durante il giro sembrano di quell’epoca! Siamo i soli visitatori, anche per questo il posto ha un fascino particolare, sembra ancora più abbandonato. Visitiamo prima l’edificio degli uffici, scortati da un ultraottantenne che ci guida per le varie stanze trascinandosi dietro un carrellino con la bombola di ossigeno che gli permette di respirare (possibile che un vecchietto così malandato stia ancora lì a lavorare?). Nonostante l’affanno, ci mostra tutto quello che è rimasto, dall’ufficio del capostazione agli archivi dei documenti, dalla sala controllo dei treni alla cassaforte superblindata. Usciti dalla stazione camminiamo lungo i binari e vaghiamo per i capannoni dei pezzi di ricambio, fino ad arrivare a quello dove sono parcheggiate le vecchie locomotive: ci sono dei meccanici che ci lavorano, perché nel weekend i turisti hanno la possibilità di fare un giro su queste vecchie carrozze. Siamo liberi di vagare da soli, i meccanici ci pregano solo di fare attenzione a non farci male, e questo ci sorprende notevolmente. Finita la visita, ci fermiamo al negozio di souvenirs, dove la cassiera ci dà un cartellino che dovrà essere timbrato in ogni città della I 50 che attraverseremo oggi, e dovrà poi essere spedito all’ufficio del turismo del Nevada per poter ottenere l’attestato di “Survivors” della famosa strada più solitaria d’America. Il primo timbro ce lo mette lei stessa, ma l’avventura è solo all’inizio, così alle 11 lasciamo Ely e cominciamo la lunga traversata. La I 50 è davvero come la immaginavamo: miglia e miglia di rettilineo in mezzo al niente, i pochi mezzi che incrociamo li riusciamo a scorgere quando ancora sono a miglia di distanza; per noi abituati ad un mondo più ridotto, queste proporzioni ci sembrano enormi. Dopo più di 130 Km ci imbattiamo nella prima città, Eureka, dove in un locale/casinò pranziamo con un enorme hot-dog ($ 10,92) e facciamo mettere il secondo timbro. Dopo Eureka i chilometri scorrono veloci, la strada è sempre uguale, le poche cittadine non offrono nessuna attrattiva, se non quella di rappresentare in maniera esemplare la profonda provincia americana. Otteniamo il timbro a Austin, e poco prima di Fallon cerchiamo la Sand Mountain, una montagna di sabbia che sembra essere stata portata qui direttamente dal deserto del Sahara, e che stona un po’ col brullo paesaggio circostante. Fede è emozionato, sa che qui ci viene tanta gente a fare acrobazie spericolate con i quad, e vorrebbe affittarne uno. Ci avviciniamo, ci sono tante roulottes e gente che sfreccia su e giù dalle le dune. Un tipo si avvicina, pensiamo che voglia affittarci un mezzo, invece ci dice che i noleggi li fanno solo in città, a 60 km da lì. Si chiama Casey, è lì con la compagna, spericolata quanto lui, e la loro bambina di 6 mesi! Sono venuti da S. Francisco a fare 4 giorni di vacanza, si danno il cambio, mentre uno tiene la piccola, l’altro si diverte col quad. Quando vede la faccia delusa di Fede, Casey gli porge le chiavi, gli spiega come si usa e gli offre il suo quad per un giro. Fede non ci crede, pensa di aver capito male, e invece dopo due minuti è anche lui sulle dune a fare acrobazie! Che forza questi Americani! Otteniamo poi il timbro a Fallon, e facciamo una deviazione per farci mettere l’ultimo a Fernley: Raggiungiamo Carson City alle 19 e prendiamo una camera al confortevole “Quality Inn Trailside Inn”. Dopo un giro di orientamento, per cena ci fermiamo al “Red’s Old 395”, che da fuori sembra un mulino in legno, mentre dentro è un enorme pub in stile rustico, con una collezione di antiche carrozze e un’atmosfera simpatica e chiassosa, c’è persino musica dal vivo e karaoke. Ordiniamo birra e due pizze ($ 26) che si rivelano davvero ottime. E poi a nanna, anche oggi siamo distrutti, abbiamo fatto solo 460 km! 10 NOVEMBRE 2006, 18° GIORNO (VIRGINIA CITY E CARSON CITY) Stamattina niente stress, alle 8:45 facciamo una lauta colazione in albergo e poi partiamo per Virginia City, una caratteristica cittadina mineraria dell’800 che ha conservato ancora la Main Street con i vecchi edifici tipici del vecchio West (stonano un po’ le automobili e i rumori dei tempi moderni, e in effetti, nonostante i palazzi siano davvero quelli dell’epoca, c’è poco di autentico in questo posto dove tutto ruota intorno al turista in cerca di un passato che non esiste più). I porticati in legno, le insegne cadenti, le tipiche porte d’ingresso dei saloon, è tutto come era una volta, tranne che quando si entra, invece di trovare i cowboys che giocano ai tavoli da poker, si viene investiti dal rumore assordante delle slot machines! Visitiamo la chiesetta cattolica ancora in uso, e il Ponderosa Saloon, da cui si accede a una vera miniera d’argento scavata nella montagna. La guida che ci accompagna nei cunicoli è un bizzarro anziano con la barba bianca e la tenuta da minatore, ed il suo inglese è quasi incomprensibile, andiamo ad intuito. Pranziamo con un mega hamburger al Delta Saloon ($ 22,50), dove c’è invece il Suicide Table, che si narra abbia portato al suicidio i vari proprietari del saloon, perché chi giocava a quel tavolo vinceva tutto riducendo sul lastrico il gestore di turno. Dopo pranzo lasciamo Virginia City e torniamo a Carson City. La città, pur essendo la capitale del Nevada, non ha molto da offrire. Per riempire il pomeriggio facciamo l’unica cosa che la Routard consiglia ai turisti che la visitano: percorriamo in macchina il Kit Carson Trail, un itinerario che ci porta a vedere gli edifici storici e le case più belle risalenti alla fine dell’800 e l’inizio del 900. Passiamo anche davanti alla residenza del Governatore del Nevdada, ma il giro finisce presto (per la verità abbiamo visto di meglio), così dopo una spesa veloce al supermercato, torniamo al motel e portiamo a termine l’immane impresa di scrivere le decine e decine di cartoline che dovremo spedire. La stanchezza accumulata in queste settimane si fa sentire, così consumiamo velocemente una pizza all’ormai collaudato “Red’s Old 395” ($ 9,50), e alle 21 crolliamo a letto.

11 NOVEMBRE 2006, 19° GIORNO (SI TORNA A S. FRANCISCO) Francisco Bay Inn, S. Francisco (€ 201,79 per tre notti, colazione inclusa, su Expedia) La vacanza sta per volgere al termine, ci resta l’ultima tappa prima del rientro in Italia, e già ci prende la malinconia al pensiero che presto dovremo lasciare questo splendido paese. Oggi sveglia alle 5:30 e, dopo un’abbondante colazione in albergo, alle 7:15 siamo già in macchina. Finora il tempo è stato sempre bellissimo, il sole ci ha accompagnato dappertutto, ma uscendo da Carson City capiamo che oggi non sarà così. Ci dirigiamo verso Lake Tahoe, al confine con la California, e la strada si inerpica su per la montagna. Sembra incredibile, ma già dopo pochi chilometri il paesaggio cambia, e ci ritroviamo nel bel mezzo di una bufera di neve. Si procede pianissimo, c’è bassa visibilità, e temiamo che la polizia ci fermi perché non abbiamo le catene ai pneumatici. Superato il picco più alto, entriamo in California e la situazione sembra migliorare. Avremmo voluto fare una sosta a South Lake Tahoe, ma il tempo è brutto, il paesaggio sul lago è desolato, e tutto è chiuso per la bassa stagione, così proseguiamo senza fermarci. Facciamo solo un breve stop in un grosso centro commerciale a Placerville, dove ci ristoriamo con una cioccolata calda, e poco dopo l’ora di pranzo arriviamo sulla baia: dopo ore di cattivo tempo, il cielo sembra schiarirsi e riusciamo a scorgere da lontano la sagoma rossa del Golden Gate! Sul Bay Bridge paghiamo il pedaggio per l’ingresso in città ($ 3), e finalmente siamo a Frisco! L’emozione è grande, aspettavamo questo momento da tanto, e sappiamo già che questa splendida città non deluderà le nostre aspettative! Attraversiamo velocemente il centro finanziario, fermandoci solo al Visitor Center per prendere qualche volantino e acquistare una mappa e il Pass di tre giorni per i mezzi pubblici ($ 39,26 per due pax). La città è impressionante: costruita su una serie di colline, è un susseguirsi di salite e discese ripidissime, non esiste una sola strada pianeggiante! Troviamo facilmente il motel prenotato in anticipo su Expedia e, dopo aver scaricato i bagagli, visto che contro ogni aspettativa, il cielo è limpido ed è ancora pieno giorno, ci affrettiamo per andare a vedere da vicino il Golde Gate (dicono che sia raro vederlo tutto a causa della nebbia che spesso lo nasconde, ma noi siamo stati fortunati!). Lungo la strada ci fermiamo in una sorta di fast food, la International House of Pancakes, o IHOP, che diventerà nostra tappa fissa, e compriamo un hamburger e dei pancakes ($ 18,77) da portar via, e poi corriamo verso il Golden Gate Park, dove ci attende uno spettacolo stupendo: da un lato il ponte, che segna l’ingresso della baia, ci appare maestoso nella sua interezza, dall’altro, dentro la baia, l’isola di Alcatraz e lo skyline della città in lontananza. Facciamo il nostro pic-nic sul prato, tra famiglie con bambini e turisti che non smettono di scattare foto, e ci godiamo un po’ di relax dopo la fatica del viaggio. Sulla strada del ritorno ammiriamo le ville, il verde e la tranquillità che caratterizzano questa zona residenziale di S. Francisco. Dopo il tramonto decidiamo di gironzolare un po’ per Fisherman’s Wharf: dopo la pace e l’immensità della natura che ci hanno circondato nelle settimane precedenti, siamo un po’ frastornati dalle luci e dal caos di questo porticciolo turistico che è diventato metà di tutti i visitatori della città. Una folla di turisti si muove in tutte le direzioni tra negozi di souvenirs, ristoranti di pesce e artisti di strada. All’ingresso del Pier 39 (il molo più caratteristico e affollato) c’è un pianista pazzo che improvvisa melodie bellissime lasciandoci senza parole. Ceniamo con una deliziosa crepes al Pier 39 ($ 8) e poi torniamo a prender l’auto, ma prima di rientrare al motel è d’obbligo percorrere i famosissimi tornanti tortuosi di Lombard Street, la strada più fotografata di Frisco! 12 NOVEMBRE 2006, 20° GIORNO (IN GIRO PER FRISCO) Oggi è domenica, e abbiamo deciso di assistere a una messa gospel alla Glide Memorial Cathedral segnalata dalla Lonely Planet. Prendiamo l’autobus e scendiamo all’incrocio con Ellis Street su cui si trova la chiesa. Proseguiamo a piedi e ci rendiamo conto di non essere in una zona molto “tranquilla”: è il quartiere di Tenderloin, per strada si incrociano brutti ceffi da far paura e, qua e là, qualche barbone sdraiato sul marciapiede. Quando dovremmo ormai essere vicini incrociamo una folla di quelli che sembrano evidentemente dei senzatetto, e abbiamo quasi timore di avvicinarci. Pensiamo che siano in fila per un pasto, o per un letto, e scopriamo di essere arrivati all’indirizzo che cercavamo: in realtà la chiesa è un ampio salone al primo piano di un edificio occupato da un centro di accoglienza per senzatetto, e addirittura uno di loro, vedendoci smarriti, ci chiede se stiamo cercando la chiesa, e ci indica dove andare (anche i senzatetto sono cortesi e premurosi qui in America!). Il salone è gremito di gente (ci sono anche tanti turisti), e la messa è un susseguirsi di canti gospel e discorsi proclamati da gente di vario genere. Ci colpisce molto una donna che, parlando di quanto stia realizzando la loro associazione di volontariato sociale, ringrazia Dio per la famiglia che le ha dato, e con orgoglio presenta sua “moglie” (una piccola donna di colore che canta nel coro della chiesa). In una chiesa italiana una cosa del genere non la vedremo mai!! Dopo la messa camminiamo verso Union Square, nel cuore del quartiere finanziario, ma non ne siamo particolarmente colpiti, così prendiamo il famoso tram storico e scendiamo all’ingresso di Chinatown, ben evidenziato da un enorme “cancello” in stile orientale, superato il quale sembra di entrare in un altro mondo. Edifici, insegne, negozi, tutto in stile cinese, anche la gente che cammina per strada è cinese. Ovviamente pranziamo in un ristorante cinese ($ 20), e poi proseguiamo a piedi verso il quartiere italiano, dove visitiamo la famosa libreria “City Lights Bookstore” di Ferlighetti, luogo simbolo e punto di ritrovo degli scrittori della Beat Generation negli anni ’50. Lungo Columbus Avenue le insegne dei ristoranti sono tutte in italiano, persino un cartello col nome della strada declama “Corso Cristoforo Colombo”! Decidiamo di riprendere il tram verso Fisherman’s Wharf, e aggrappati alla sbarra col corpo fuori, proprio come nei film, mentre Fede mi riprende con la telecamera, sentiamo il conducente che strilla contro di noi: un tram sta arrivando contromano, abbiamo rischiato di essere presi in pieno! Scendiamo al capolinea e assistiamo al pittoresco spettacolo del conducente che scende e gira manualmente, a spinta, il tram, che dovrà ora ripartire per la corsa contraria. Ridendo ancora per l’incidente mancato, passeggiamo per Fisherman’s Wharf alla ricerca degli ultimi souvenirs per parenti e amici. Torniamo poi al motel a riprendere l’auto e decidiamo di cenare da IHOP, che ci è piaciuto molto. Forse è un luogo più adatto per la colazione, ma visto che stiamo ormai per ripartire, vogliamo rimpinzarci con le ultime tutt’altro che dietetiche specialità americane! Ordiniamo così dei piatti combinati a base di hamburger, uova fritte, pancetta, e gli immancabili pancakes con sciroppo d’acero, mirtilli e panna montata ($ 26). Ovviamente anche qui il cassiere si mette a chiacchierare, ci racconta dei suoi genitori che vivono in Europa, insomma impieghiamo mezz’ora per pagare il conto! Prima di tornare in albergo andiamo al porto ad informarci per l’escursione ad Alcatraz (non possiamo tornare in Italia senza essere stati nelle carceri più famose del mondo).

13 NOVEMBRE 2006, 21° GIORNO (ALCATRAZ) E’ l’ultimo giorno della nostra vacanza, e la malinconia si fa sentire! Ci svegliamo alle 8, andiamo in reception a prendere i muffins e il caffè come ogni mattina, e poi ci rechiamo al molo 41 da dove parte il traghetto per Alcatraz. Compriamo i biglietti ($ 37,50) e beviamo una cioccolata calda nel bar del molo in attesa che si faccia l’ora. Dopo 20 giorni di tempo stupendo negli USA, oggi nostro ultimo giorno, piove a dirotto e il cielo cupo sembra voler preparare l’atmosfera giusta per la nostra visita all’isola. Il traghetto salpa in orario alle 10.30 e in pochi minuti siamo già ad Alcatraz. Siamo accolti da un ranger che in modo spiritoso (come sempre!) ci illustra come avviene la visita, e ci ricorda gli orari dei traghetti per il rientro. Sulla sommità dell’isola si staglia la sagoma di una delle prigioni di massima sicurezza più temute del secolo scorso. Si dice che nessuno sia mai riuscito ad evadere, chi ci ha provato è sicuramente annegato nelle gelide acque della Baia. All’ingresso ci consegnano delle cuffie che, grazie alla registrazione in italiano, ci guideranno nella visita. Nonostante io (Sam) fossi un po’ prevenuta, convinta che si trattasse di una sorta di Disneyland all’americana, mi devo ricredere. E’ rimasto quasi tutto com’era nel 1963, anno in cui Alcatraz è stata chiusa. La voce ci guida passo passo tra le celle dei detenuti, nella mensa, nel cortile, col sottofondo di rumori che evocano fatti avvenuti, voci dei detenuti che testimoniano le loro esperienze, e delle guardie che vivevano sull’isola con le loro famiglie. Ci indica di proseguire nelle varie direzioni, in una sorta di itinerario prestabilito, ma al ritmo che più ci fa comodo, perché si può fermare e riavviare a piacimento. Ci racconta di detenuti illustri, tra cui Al Capone, ci narra momenti di vita quotidiana, e di tentativi di evasione sfociati in veri e propri bagni di sangue. Verso le 13:30, sotto la pioggia che non ha smesso un attimo di cadere, riprendiamo il traghetto per la terraferma, soddisfatti e ancor più convinti che gli Americani siano davvero bravi a valorizzare le cose che hanno (a tal proposito penso anche all’organizzazione perfetta nei parchi, le cartine con gli itinerari, le toilettes sempre presenti anche nei posti più sperduti, la pulizia ovunque…).

Piove ancora quando, scesi dal traghetto, ci dirigiamo verso il Pier 39. L’ora di pranzo è già passata, la fame si fa sentire, così decidiamo di prendere due deliziose crepes nel localino scoperto qualche sera prima. Poi, stanchi e completamente zuppi di pioggia, torniamo al motel e crolliamo addormentati. Ci svegliamo verso le 18, è già buio, e il tempo è ancora pessimo, tutta questa pioggia rende ancora più triste l’ultimo giorno di questo viaggio fantastico. Cerchiamo di sistemare le valigie, poi andiamo a cena per l’ultima volta alla IHOP ($ 35), e dopo cena facciamo un giro in macchina per la città, dalle famose Seven Sisters, le case vittoriane immortalate in molte cartoline di S. Francisco, e poi i quartieri di Castro (centro omosessuale di S. Francisco), e di Mission, dove in realtà, tranne un vicoletto pieno di murales, non vediamo niente di interessante, forse perché è sera e non c’è molto movimento per le strade.

Andiamo a letto che è passata mezzanotte, dopo aver fatto le valige ed esserci preparati per la partenza.

14 NOVEMBRE, 22° GIORNO (SI TORNA IN ITALIA) Sveglia alle 8, colazione in camera e poi, dopo aver lasciato il motel, ci fermiamo in un ufficio postale per spedire le ultime cartoline. Il nostro volo per Londra parte nel primo pomeriggio, così prima di lasciare la città, torniamo in Lombard Street a percorrere i tornanti e scattare le ultime foto, e poi alle Seven Sisters, ultima immagine vivida che rimarrà nelle nostre menti a conclusione della nostra vacanza. Arriviamo senza difficoltà in aeroporto, riconsegniamo la macchina e facciamo il check-in. Siamo molto in anticipo, così mangiamo il nostro ultimo hamburger americano ($ 21,72), e aspettiamo l’imbarco. Alle 16: si decolla! 15 NOVEMBRE, 23° GIORNO Il volo da S. Francisco arriva a Londra in orario, prendiamo poi la coincidenza per Roma, ma arrivati lì, al ritiro bagagli abbiamo una sorpresa: il solito baule militare di Fede non è arrivato, facciamo la denuncia e poi andiamo a prendere il volo Windjet che ci porterà finalmente a Catania. Il bagaglio arriverà a casa due giorni dopo (sembra che in queste cose la British sia molto precisa, però noi un po’ di paura l’abbiamo avuta, nel baule c’erano anche tutti i regali!).

Si torna alla solita vita, arrivederci al prossimo viaggio negli United States of America!!



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