Le cicogne del ponte di Orbigo

Domenico P. PIRONDINI LE CICOGNE DEL PONTE DI ORBIGO (Sul Camino de Santiago de Compostela – SPAGNA) Signore, io sono Irish, quello che verrà da te in bicicletta. (Senza orario senza bandiera/De Andrè-Mannerini) PROLOGO Ricordo che quando ho cominciato a pensare ad un viaggio in solitario con la bicicletta, avevo solo un’idea vaga e...
Scritto da: Domenico Pirondini
le cicogne del ponte di orbigo
Partenza il: 05/08/1998
Ritorno il: 16/08/1998
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
Domenico P. PIRONDINI LE CICOGNE DEL PONTE DI ORBIGO (Sul Camino de Santiago de Compostela – SPAGNA) Signore, io sono Irish, quello che verrà da te in bicicletta.

(Senza orario senza bandiera/De Andrè-Mannerini) PROLOGO Ricordo che quando ho cominciato a pensare ad un viaggio in solitario con la bicicletta, avevo solo un’idea vaga e indefinita di un posto chiamato Santiago de Compostela. Una sera poi aprii l’atlante d’Europa su una pagina a caso, chiusi gli occhi e orientai il dito su un punto qualsiasi della carta. Se fu un semplice effetto della legge di casualità piuttosto che la manifestazione di una legge superiore non so dire, so solo che la meta che mi venne indicata era proprio Santiago de Compostela. Fu quindi sufficiente digitare il nome di questa citta’ su Internet, per cominciare a raccogliere informazioni in abbondanza ed entrare nel mondo del “Camino” e dei suoi pellegrini. Scoprivo cosi’ un aspetto della storia medioevale europea, argomento per il quale non avevo mai nutrito particolare interesse, e prendevo coscienza dell’esistenza di un fiume di persone che, per motivi religiosi, percorreva e percorre a piedi distanze incredibili. Ma devo dire in tutta onesta’ che la vera molla che mi aveva convinto a realizzare il progetto era stata la voglia di conquistare la famosa “Compostela”, ovvero la certificazione ufficiale su pergamena dell’avvenuto pellegrinaggio. Niente a che vedere con la fede quindi, ne’ tantomeno con chissa’quale desiderio di ricerca interiore. Ciò che mi spingeva era soprattutto il desiderio di riprovare a me stesso d’essere in grado di realizzare un mio progetto, al di la’ delle sue difficolta’ oggettive. Eppure, in un angolo remoto della mia mente, c’era anche il sospetto che quella potesse rivelarsi un’ esperienza umana straordinaria, non fosse altro per il fatto che il Consiglio d’Europa aveva dichiarato il Camino di Santiago de Compostela “primo itinerario culturale europeo”.

05/08/1998 mercoledì THEOULE SUR MER Qui al sole, nel giardino di casa mia a Theoule sur mer, tra le mie comodità, cerco già di astrarmi e creare dentro di me l’atmosfera giusta; quante volte ho immaginato questo viaggio, alla sera prima di addormentarmi, e quante volte mi sono lasciato prendere dalla paura di non farcela. E’ la prima volta nella mia vita che viaggero’ da solo, che non avro’ qualcuno con il quale condividere le difficolta’ o i piaceri, ma soprattutto e’ la prima volta che cerchero’ di vivere il mio tempo con un ritmo lento.

Ora m’è difficile concentrarmi anche solo sulle poche righe che sto scrivendo, perchè vengo continuamente distratto da chi mi circonda e non comprende cosa sto provando. Principalmente ciò che non so, o forse non voglio spiegare è il perche’ ho deciso di fare una cosa di questo genere e mi guardano strano, pensando che la mia sia solo una mattana.

Domani mattina presto partirò per St. Jean Pied de Port. La roba e’ pronta. Sono io che non mi sento particolarmente pronto.

06/08/1998 giovedì ST. JEAN PIED DE PORT Sono in autostrada e sto attraversando il Sud della Francia per arrivare a St. Jean Pied de Port, ai piedi dei Pirenei, punto di partenza ufficiale del mio viaggio in bicicletta sul “Camino Frances”. Nello specchietto retrovisore ogni tanto do un’occhiata alla bicicletta coricata nel bagagliaio e non posso fare a meno di chiedermi se sara’ cosi’ affidabile da portarmi alla meta.

E’ una mountain bike senza grandi pretese, che nell’ultimo anno ho trascurato per dedicarmi esclusivamente alla bici da corsa.

Arrivo a St. Jean nel tardo pomeriggio e all’improvviso mi sento solo: non mi sarei certo aspettato mi assalisse quest’angoscia che ora mi coglie indifeso, quasi fosse una pugnalata alle spalle. La sensazione che provo è resa ancor piu’ sgradevole dall’incapacita’ di poterla controllare, come si fa con un’ esperienza abituale. Potrei ricorrere al telefono e chiacchierare un po’, ma questo non sarebbe certo un bell’ inizio per uno che dovra’ affrontare chissa’ quali traversie. Lo so, sto parlando della Spagna e non del deserto o della jungla, ma come per tutte le prime volte c’e’ sempre l’ansia dell’incognito. Domani partiro’ per Roncisvalle, ma se dovessi dare ascolto al mio cuore, tornerei indietro. Avrei anche una ragione valida per farlo, visto che non riesco a trovare un posto per dormire nel primo albergo che contatto. “E’ così dappertutto in agosto” mi dico. Ma il padrone si attacca al telefono per cercarmi un alloggio e finalmente lo scova in un paesino che si chiama Lasse o Lasa per i baschi, a 2 Km. Da St. Jean.

E’ insieme una casa, una taverna, una pensione. Mentre scrivo, fuori stanno giocando a pelota contro il muro adiacente alla mia camera. Lo scrittoio ha il ripiano in marmo, il letto e’ il classico lettone alto a due piazze che mi ricorda l’infanzia a Gonzaga da mia nonna. Tutto questo mi fa scivolare in un tenero languore, e calma un po’ l’ansia per domani. Il paesaggio comunque e’ stupendo: intorno sono colline molto dolci e verdi, tutto e’ ordinato e pulito e ti viene comunicata una tranquillita’e pace che alla fine ti coinvolge (a parte quella pallina maledetta).

Parlavo prima della solitudine e devo ammettere che acuisce i miei sensi e mi rende oltremodo piu’ osservatore. I turisti che ho intorno recitano la vita vacanziera, con i soliti riti che probabilmente ho compiuto anch’io per tanti anni. E’ naturale che io mi senta diverso, ma non so se questa gente si accorga della mia diversità così come io mi accorgo della loro normalita’. Il ristoratore, per esempio, deve aver percepito qualcosa di speciale in me, perche’ altrimenti chi glielo farebbe fare di preoccuparsi cosi’ tanto della mia sistemazione per la notte e, soprattutto, del parcheggio in cui lasciare la mia macchina durante tutto il tempo della mia assenza.

A quanto leggo sulla guida, da St. Jean a Roncisvalle ci sono due alternative di percorso: uno, passa per Valcarlos ed è la strada principale, l’altro, più bello dal punto di vista paesaggistico, segue il sentiero originario, ma presenta tratti di salita molto impegnativa.

E’ ancora chiaro, così decido di uscire dalla stamberga, per verificare in auto un tratto del secondo itinerario lungo il quale in effetti trovo pendenze anche del 25%. “Domani passerò per Valcarlos”, non ho più dubbi. Mi rimane del tempo per passeggiare attraverso il borgo, cammino rasente alle case che si specchiano sul fiume Nive che mi rimanda la mia immagine scura. I miei passi risuonano nitidi sul selciato reso lucido dagli innumerevoli passi che mi hanno preceduto. Mi ritrovo di fronte al Refugio dei Pellegrini sulla cui porta noto subito il cartello che esclude l’accesso a persone “avec le velo”. Fastidiosa discriminazione. Riprovo lo stesso disagio che mi aveva colto leggendo il libro di Lee Hoinacki “Il Cammino”, nel quale l’autore esprimeva insofferenza verso i pellegrini sulle due ruote, che erano definiti vivacemente vestiti, chiassosi,…In una parola, dei gran rompiscatole.

Davanti al Refugio c’è un locale adibito ad ufficio informazioni per i pellegrini, entro e chiedo ad un signore, che mi viene incontro premuroso, se ha del materiale sull’itinerario del Camino; risponde seccato che posso trovare quello che cerco in una libreria perche’ la sua funzione è un’altra. Mistero. “Che funzione avrà? Forse non riconosce in me la sofferenza del candidato all’espiazione. Probabilmente devo togliermi dalla faccia l’espressione del turista altrimenti andrà a finire che dovro’ dormire in tenda anziché nei famosi rifugi dei pellegrini”.

07/08/1998 venerdì ST. JEAN PIED DE PORT – PAMPLONA Km. 90 Questa mattina mi sono svegliato alle sette, e ora sono qui nel silenzio, a sbirciare dalla finestra. La nebbia avvolge ogni cosa, ed io non sono certo entusiasta al pensiero di dovere pedalare sotto la pioggia. Quando scendo le scale, in giro non vedo nessuno, dormono tutti, tranne un anziano che sta facendo colazione per conto suo. Deve essere il nonno di casa e gli chiedo se posso avere un po’ di caffè, ma lui non mi risponde nemmeno.

Aspetto un po’ nella taverna e intanto leggo due manifesti attaccati al muro che raffigurano, con disegni tipo scuola elementare, come si fa il vino e che cosa si può ottenere dalla lavorazione del latte. C’è sempre da imparare.

Finalmente si sveglia anche la proprietaria che mi prepara la colazione, con tanta calma che nel frattempo riesco anche a fare due passi fino alla chiesetta e al municipio.

Nei paesi baschi la gente è rinomata per essere sempre molto calma e tranquilla. Io invece non vedo l’ora di partire, di iniziare l’avventura; sono teso come la corda di un violino e mi accorgo di muovermi a scatti.

Devo essere ordinato, almeno alla partenza: prima cosa, fissare le due borse laterali al portapacchi posteriore della bicicletta e sistemarvi sopra la stuoia, la tenda, il sacco a pelo; seconda cosa, agganciare sul manubrio la borsa contenente i documenti, la macchina fotografica, il telefono, il diario e le cartine bene in evidenza; terza cosa,azzerare il contachilometri e ora …Partenza. Un momento, ho dimenticato di riempire le mie tre borracce, delle quali una è una Laken in alluminio, fasciata nel loden per conservare fresca l’acqua.

In verità, per i primi chilometri sono un po’ incerto nel mantenere l’equilibrio. Devo abituarmi al peso che mi sto portando dietro e capisco che certe cose potevo anche evitare di prenderle con me. “I ferri per riparare i guasti a che cosa servono se non so adoperarli?” All’ingresso di Valcarlos mi appare il primo cartello stradale con su scritto “Camino de Santiago” e accanto il disegno della conchiglia, simbolo del pellegrino: ho la conferma di essere sulla strada giusta. Fino ad ora la salita non è stata dura, ma so che il bello deve ancora venire, perché mi mancano circa quindici chilometri allo scollinamento. Intorno a me boschi di conifere e tanta ombra che mi rende più gradevole il pedalare, benchè comincino i tornanti e la pendenza si faccia più dura. Guardo continuamente il contachilometri e ora mancano 1300, 1200, 1000 metri; dopo quella curva dovrei scollinare, ma qualcosa non va perché c’è un’altra curva ed un’altra ancora. Mi sta prendendo il nervosismo. “Chi me lo ha fatto fare di iniziare da St. Jean quando potevo partire da Roncisvalle ed evitare questo passo?” Continuo a salire e finalmente vedo il cartello che segna 1057 metri dell’Alto de Ibaneta. Mi lascio dietro tutte le recriminazioni e mi godo la soddisfazione di avere attraversato i Pirenei.

Ho compiuto il rito del passaggio, da una nazione ad un’altra con sofferenza attraverso una catena montuosa. Ora sono nato nuovamente, forse diverso, e perché no, spero migliore. Pensarci mi da’ un breve, sottile piacere. Qui sul passo l’atmosfera è magica: due stele in pietra e una chiesetta ricordano l’eroismo di Rolando e della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno attaccata dai baschi 1220 anni fa, giusto in agosto. Seduto su un muretto sento il clangore delle spade che si incrociano, le grida del paladino che incita i suoi al coraggio, i lamenti dei feriti che stanno per morire con gli occhi rivolti al cielo. “Chissà se quella laggiù è la roccia sulla quale Rolando ha tentato invano di spezzare la sua Durlindana per non farla cadere nelle mani del nemico. “Bel posto per morire questo; io di chi sarò mai il paladino e che ideali mi sono rimasti per cui valga la pena di combattere e, perché no, morire?” Meglio non porsi queste domande. Meglio continuare, inconsapevole, a pedalare. E’ più facile far girare le mie ruote che il mio cervello.

Credevo che Roncisvalle si trovasse alla fine di una discesa di 15 Km. Ed invece, dopo solo due o tre curve, ecco il famoso Monastero: comincio a sospettare che la mia cartina delle distanze chilometriche abbia, nella migliore delle ipotesi, delle imprecisioni. Ho la frenesia di farmi rilasciare dai frati la Credencial del Peregrino, una sorta di passaporto che va timbrato tutti i giorni per poter ottenere la “Compostela”. Entro in un ufficio dell’ala esterna del Monastero; un frate mi fa accomodare e mi interroga sul perché del mio viaggio: so benissimo quale sia la risposta che si aspetta da me, ma non ho il coraggio di raccontargli delle balle. “Sono alla ricerca di me stesso” gli rispondo, “Ma lei è cristiano?” incalza, “Sono stato battezzato, cresimato e mi sono sposato in chiesa”. Lo vedo perplesso, ma neanche interessato piu’ di tanto ad approfondire l’argomento. Comincia a scrivere i miei dati su un librone, da un cassetto prende una Credencial, la compila, la timbra e me la consegna chiedendomi 25 pesetas.

Ho il morale alle stelle. Seduto su una panchina mi godo il sole e in un attimo mi rendo conto di essere ufficialmente un pellegrino; c’è anche scritto sulla Credencial che Pirondini Domenico è “en peregrinacion, hacia Santiago de Compostela en bicicleta”.

So che dovrei visitare questo Monastero, ma ho fretta, devo andare. Ormai ho con me la Credencial e voglio arrivare il piu’ presto possibile a Santiago. Non ho ancora capito niente di questo viaggio, non e’ cosi’ che dovrei fare, ma non posso cambiare il mio carattere in due giorni. La strada e’ buona, si sale, si scende e poi si risale, il paesaggio e’ incantevole e i piccoli paesi che attraverso sono pieni di vita come tutti i villaggi di montagna nei mesi estivi. Ad Espinal alcuni ragazzi stanno dipingendo di un bel rosso vivo la cancellata di un giardino e al mio passaggio mi salutano festosi. In senso contrario al mio, ogni tanto incrocio dei ciclisti che si allenano su questi passi e mi viene spontaneo pensare a Indurain il Navarro e al perche’ fosse cosi’ forte.

Cerco un ristorante nel paese di Linzoain, lasciandomi guidare dal suono di una fisarmonica, ma trovo solo chi la suona, un ragazzo seduto sul balcone di una vecchia casa, con accanto una donna anziana, forse la madre. Per un momento mi viene in mente la scena del banjo nel film “Un tranquillo week end di paura” dove però ad essere suonati erano i protagonisti. Il paese è deserto, non vedo negozi, davanti ai portoni e alle finestre delle case, tutte perfettamente restaurate, ci sono vasi di fiori, come se gli abitanti si preparassero a ricevere una sposa.

Il problema del pranzo lo risolvo in un piccolo bar solitario sulla strada, dove mangio il “componido”, un piatto unico composto da uova, pancetta cotta, insalata e pomodori. Doppia razione di birra fresca, naturalmente, perche’ me la sono proprio meritata; ho superato in successione l’Alto de Mezquiriz e l’Alto de Erro che, insieme all’Alto de Ibaneta, saranno registrati nella mia lista dei “colli” conquistati da quando vado in bicicletta. Quest’anno festeggio tre anni di passione ciclistica e posso vantare, tra l’altro, di avere scalato il Mont Ventoux e il Galibier.

Sono arrivato a Pamplona (Iruna per i baschi): oggi ho percorso circa 80 Km. Nel traffico cittadino cerco di dirigermi verso la Cattedrale, ma dopo aver girovagato a vuoto per un po’, mi ritrovo nella parte nuova della citta’. A questo punto tanto vale cercare subito il Refugio; qui a Pamplona ce ne sono due e solo uno di questi accetta pellegrini in bicicletta. Trovo agevolmente il mio, che è allestito in un complesso scolastico ora deserto di alunni per la chiusura estiva. Il dormitorio e’ nella palestra. Sistemata la bicicletta nel corridoio, entro per cercarmi un posto: ci sono molti letti a castello, con la struttura in metallo smaltato di nero, qualche branda e materassi, per lo più sgualciti, sparsi ovunque. Occupo una branda nell’angolo piu’ lontano dalla porta d’entrata: mi sembra la soluzione piu’ appartata. Vedo molte persone affacendate per lo più a medicarsi le piaghe dei piedi, altre distese a leggere sui letti oppure a scrivere; qualcuno prega. C’e silenzio, nonostante il numero di persone. Srotolo il sacco a pelo e lo distendo con accuratezza per evitare ogni mio possibile contatto con il materasso. “Chissà quanti corpi hanno premuto questo precario giaciglio, e quanti pensieri si sono stratificati nell’aria circostante per effetto di un’ alchimia misteriosa”. Disteso, con gli occhi che cercano i confini del soffitto tanto lontano, provo a concentrarmi su di me e sul mio essere qui, in questo posto. Prima di partire pensavo che durante il “Camino” mi sarebbe stato facile immergermi in grandi riflessioni e mi riempivo la testa sul significato più profondo e autentico del viaggiare. Ora invece provo solo una gran fame e soprattutto una gran sete, mentre la mia capacità di introspezione si affievolisce sempre più. Attribuisco tutto ciò all’ambiente che mi circonda: “In una palestra generalmente si fa ginnastica e non filosofia e poi francamente chi lo avrebbe mai detto che avrei dormito con tanti sconosciuti, quasi fossi un profugo tra i profughi”. In fondo pero’ tutto questo non mi dispiace. Mi sembra di essere in viaggio da una vita.

Mi preparo per andare alle docce, quando mi accorgo di aver dimenticato a casa l’asciugamano, il sapone, il deodorante, le ciabatte, mentre le uniche magliette della pelle e le mutande di ricambio che ho sono al momento inutilizzabili, visto che l’acqua fresca della Laken le ha inzuppate. “Eppure la borraccia mi sembrava ben chiusa quando era nella borsa”. Esco nel cortile della scuola per stendere su una panchina la roba bagnata. Fa caldo, mi brucia la pelle, e quando prendo la bicicletta per andare in centro a mangiare, il semplice spostamento dell’aria mi dà sollievo. Percorro viali ampi ed alberati, tra palazzi moderni e ben tenuti, cercando di memorizzare punti di riferimento per il ritorno al Refugio.

Sono le diciannove e trenta, nei ristoranti si serve cena dalle 21 in poi. Costretto a girovagare con lo stomaco che reclama, entro nei bar del centro storico per bere Coca Cola e birra in abbondanza, ma la fame non si placa, è di quelle vere, da esaurimento delle scorte. Nella zona pedonale le vie sono piuttosto ampie, le case dai colori vivaci hanno grandi finestre circondate da balconcini in ferro battuto.

Spingo la bicicletta guardandomi intorno ed è passando davanti ad una vetrina che noto la mia immagine riflessa: quella di un uomo con il fondo dei calzoni arrotolato sopra le caviglie che tiene teneramente per mano la sua bicicletta.

Un negozio vende esclusivamente T-shirts: su alcune sono stampate versioni umoristiche della folle corsa dei tori per le strade di Pamplona durante la festa di San Firmin, su altre compaiono gli antichi simboli della cultura basca con scritte in un alfabeto ricco di X, K, Z, e U. In un attimo decido di comprarne tre, ma altrettanto velocemente, mi rendo conto che non era il caso di aggiungere ulteriore peso a quello che ho già, ma ormai ho pagato.

Finalmente, passando davanti ad una birreria, vedo al suo interno alcune persone che mangiano piccoli panini imbottiti. Considerato che sono le otto, non ho dubbi nell’entrare e cominciare a servirmi al bancone.

Nell’ordine ripulisco: il vassoio dei panini al prosciutto crudo, il vassoio dei tramezzini alle verdure, il piatto degli stuzzichini per chi beve l’aperitivo e, infine sei polpettine di cui non so precisare la natura. Il conto naturalmente è salato, ma usando il criterio meritocratico senza venir meno all’obiettività del giudizio, penso proprio di potermi concedere questa spesa, tenuto conto che il Refugio mi costa solo 300 pesetas per dormire.

Ora la vita ha un gusto diverso: sento la citta’ piu’ in sintonia con Hemingway piuttosto che con Ignazio di Loyola, e le stesse vie che ho percorso poco prima, ora mi appaiono piu’ vivaci e festose. In questa serata che sta rinfrescando la gente e’ uscita di casa per mettersi in mostra e le piazzette che prima mi sembravano abbandonate risuonano ora del vociare dei giovani felici di incontrarsi. I tavolini dei bar all’aperto si sono popolati di famiglie golose di gelati enormi e a me non rimane che ritornare al Refugio, con il pensiero rivolto all’Alto del Perdon che dovro’ affrontare domani.

08/08/1998 sabato PAMPLONA – LOGRONO Km. 105 Potrei raccontare che mi sveglio alle sette del mattino se avessi dormito, ma non e’ stato proprio cosi’. Tra quelli che russavano, quelli che incominciavano a preparare gli zaini alle quattro ed io che restavo immobile per non scoprire il materasso, posso solo dire che alle sette mi alzo dalla branda per prepararmi a partire. In bagno mi faccio la barba con il rasoio a pile: mi sono ripromesso di radermi tutti i giorni per non ridurmi a sembrare un vagabondo.

Esco dal rifugio che il cielo comincia a schiarire, l’aria e’ fresca, quasi frizzante, e indosso il K-Way. Per strada ogni tanto mi passa accanto un bus con il suo carico di persone che vanno al lavoro. Se guardo dentro, i miei occhi incontrano quelli ancora vuoti di sconosciuti che mai piu’ rivedro’. Destini diversi i nostri, che per una frazione di secondo si incrociano.

Attraverso la periferia seguendo la freccia per Logrono e quando esco definitivamente dalla città provo un po’ di malinconia. Pamplona mi ha conquistato per i suoi spazi verdi, i suoi giardini, i suoi viali alberati; mi ha comunicato il senso di alta civiltà che la città esprime, per esempio, con l’abolizione delle barriere architettoniche e con la pulizia delle sue strade.

Nell’elenco alfabetico delle città nelle quali vorrei vivere la metterò certamente tra Oslo e Parigi.

Davanti a me c’è una distesa di campi di grano, mossi e biondi come i capelli di mio figlio quando aveva cinque anni. In lontananza il profilo dei monti e una schiera di pennoni con enormi eliche per sfruttare l’energia del vento.

La strada passa accanto a paesini arroccati su collinette, sembrano abbandonati e mi viene voglia di entrarvi per sentire il pulsare dell’antica prosperità, di quando il “Camino” li attraversava. Cizur Menor, Genduleain, Zariquiegui…, leggo i loro nomi su freddi cartelli segnaletici. Sto sfiorando il Medio Evo, mentre la strada maestra ora li ignora per proseguire dritta, imperterrita, indifferente alla decadenza che ha generato intorno a sé.

La salita dell’Alto del Perdon non è particolarmente impegnativa ed io sono ancora sufficientemente riposato, ma quando arrivo allo scollinamento una freccia mi indica che la sommità, dopo sei Km., si raggiunge per un’altra stradina sulla destra. Non ho voglia di salire ancora, così inizio la discesa che mi porta dritto verso Puente de la Reina, il cui il nome richiama il famosissimo ponte dei pellegrini dell’XI secolo fatto costruire dalla Regina Dona Mayor, moglie di Sancho III, per agevolare i pellegrini nell’attraversamento del fiume Agra.

Nella storia del Camino la cittadina è importante anche perché qui confluisce l’altro ramo del Camino Frances, quello che proviene da Somport e attraversa l’Aragona. Raggiungo subito il ponte, tralasciando le altre cose da vedere: è dall’inizio del viaggio che ho in testa questo momento e non rimango deluso. E’ in condizioni perfette, lo percorro a piedi fino al centro, dove si inarca, per poterlo ammirare in una unica visione insieme al nucleo urbano. Dalla strada principale invece lo posso vedere in tutta la sua estensione, con i piloni di sostegno che insieme agli archi si riflettono specularmente nell’acqua immobile del fiume a formare cinque ovali perfetti. Ci sono solo io in giro e cerco di qualche suono in questo silenzio irreale. Mi sento appagato, ho il cuore leggero ma la strada chiama inesorabile; in questo mattino di sole, pedalo seguendo il ritmo ondulante dell’asfalto che si srotola sotto le ruote.

Entro a Villatuerta perché è ora di fare la spesa per pranzo. Seguendo la stradina principale tra le case antiche, arrivo alla chiesa di Santa Maria de la Asuncion. Appena scendo dalla bicicletta un’anziana mi si fa incontro chiedendomi se desidero il timbro sulla Credencial.

Non voglio altro e, alla sua proposta di visitare la cripta che custodisce non so quali reliquie, mi limito ad avere il timbro e me ne vado ringraziandola.

Nella piccola bottega che ha la presunzione di chiamarsi supermercato, acquisto pane, prosciutto, frutta e birra aiutato da alcune massaie che si prodigano nel facilitarmi le cose. Impiego cinque minuti a comprare e mezz’ora a pagare per colpa della cassiera che con ogni cliente intavola una vera e propria conferenza sui fatti della vita del paese.

Devo trovare un posto all’ombra per mangiare e vicino ad un autolavaggio self service c’è l’unico albero della zona: è così che posso osservare l’ottimo rapporto che si instaura tra l’uomo e la sua macchina. Le coppie giovani, di fidanzati o sposati, generalmente arrivano insieme e trattandosi della loro prima auto, acquistata con grandi sacrifici, sono meticolosi nel pulirla. A mano a mano che l’età aumenta, il lavaggio diventa più essenziale, magari finalizzato ad un evento straordinario in famiglia.

Dopo l’ultimo sorso di birra, sono di nuovo sulla strada, attraverso Estella, la bella, la stella del “Camino”, e ora il paesaggio mi regala in prevalenza vigneti.

Un po’ perché sto pedalando in salita, un po’ perché esso mi appare imponente, decido di fermarmi al monastero di Irache. E’ un complesso che deve ospitare chissà quanti frati viste le dimensioni, ma ora, alle due del pomeriggio, la guardiola è vuota. Cammino per il chiostro che sui muri ha una serie di immagini raffiguranti gli antichi fasti del monastero. Quando chiedo ad un prete di passaggio a che ora posso farmi timbrare la Credencial, questi mi prega di aspettare un attimo e mi invierà un incaricato.

Fuori, a fianco della chiesa, c’è una rivendita di vini della zona e non mi dispiacerebbe acquistarne due bottiglie. Adoro il vino imbottigliato con la sua bella etichetta. Provo piacere nel possederlo e vederlo allineato, come in parata, su una mensola, pronto per essere scelto all’occasione giusta.

Mi viene in mente il primo incontro con il mosto, quando i nonni si divertono a fartelo bere per ridere delle sciocchezze che dici.

La mia faccia padana sorride da sola a quel ricordo, in Via Ferrante 21 Gonzaga, dove si concentrava la mia esistenza di bambino: da un lato la strada e il mondo esterno resi inaccessibili da un portone di legno massiccio sempre chiuso, dall’altro lato la campagna, delimitata e chiusa da un filare di vigna o da un fosso. Tre mesi fa sono tornato là, in Via Ferrante 21, ed è stato come guardare la terra da un astronave.

A Los Arcos mi concedo per la prima volta la pennichella pomeridiana, e in questo caso niente di meglio che il porticato della chiesa monumentale di Santa Maria. Stendo la stuoia sui lastroni irregolari del pavimento, vicino al muretto perimetrale e, con il sacco a pelo arrotolato per cuscino, mi addormento beato. E’ lo scalpiccio di decine di piedi intorno a me a svegliarmi dopo un oretta; scarpe di uomini, di donne, di tutti i modelli, si agitano davanti al mio punto di vista. Scopro che si tratta di una rimpatriata di ex compagni di scuola che oggi si sono riuniti in questo posto per assistere alla Messa celebrata dal loro ex compagno, ora sacerdote in questa parrocchia. “No amici, non mi avete disturbato, anzi vi ringrazio perché ho ancora molta strada da fare ed è stato bello vedervi così festosi, scherzosi nonostante i vostri capelli bianchi”.

Torres del Rio, che bel nome per un paese. Quel pezzo di cartone legato ad un palo con su scritto a mano “Bebide fresche -Hospital de Peregrinos-” lo rende ancora più attraente.

Fuori dalla locanda ci sono una decina di biciclette appoggiate al muro; entro anch’io e alla proprietaria chiedo dell’acqua minerale “con mucho gas”. “Italiano?” mi chiede e mi dice che anche lei e’ italiana. Siamo in famiglia, perche’ anche quella decina di ragazzi al tavolo lungo sono italiani, così va a finire che in questo paese di sei anime trovo perlomeno una quindicina di connazionali. Questa e’ stata forse la prima di quelle che in seguito chiamero’ “fortunate coincidenze” e devo dire grazie alla mia inesauribile sete se passo un pomeriggio felice.

Dopo i primi convenevoli mi siedo accanto ai ragazzi e su richiesta, comincio a raccontare loro perche’ mi trovo li da solo. Forse eccedo nel romanzare la mia vita, sta di fatto che tutti pendono dalle mie labbra.

Il giovane sacerdote che li accompagna mi ricorda i chierici salesiani conosciuti nel collegio di Alassio ai tempi del liceo e tra noi si instaura subito una certa simpatia.

Insistono perche’ visiti con loro la chiesa del paese a base ottagonale e cosi’, seduto al fresco nell’interno di questo gioiello, la mia fantasia vola tra le sue volte in stile mudejar. Ho vicino una bella ragazza che mi sussurra qualcosa nelle orecchie; forse mi sta spiegando il perche’ le chiese siano rivolte a Est e dell’eterno conflitto tra il bene e il male, tra la gioia e il dolore, e ancora come tutto questo venga rappresentato simbolicamente con l’uso del bianco e nero. Ma piu’ di tutto sento la dolcezza nei miei confronti che la spinge a chiedermi di rimanere a dormire con loro nel successivo Refugio.

Che bella avventura da raccontare poi a casa; magari agli amici, ma c’è qualcosa di magico che mi sta avvolgendo in questo posto per cui preferisco riprendere il viaggio da solo, cosi’, lasciandomi dietro una foto di gruppo e un’ illusione.

Arrivo a Logrono, capoluogo della Rjoa, e non ho difficoltà a trovare il Refugio che è ubicato nel centro storico, in una antica casa nobiliare. Il responsabile non mi assicura la disponibilità di un posto perché prima deve dare la precedenza ai pellegrini a piedi. Aspetto così per un ora e finalmente mi si dà l’OK per sistemarmi in una camera al secondo piano, stracolma di letti a castello.

C’è un sacco di gente che va e viene, si saluta, si aspetta per uscire in città; il principale punto d’incontro è il patio dove, attorno ad una vasca con al centro uno zampillo d’acqua, la gente si siede con i piedi a bagno. E’ una esperienza che non mi voglio perdere e poi fa piacere stare in compagnia così, tutti in cerchio, ad ascoltare le storie dei camminatori.

Esco per visitare la citta’ e capito nel giorno dei matrimoni: in ogni chiesa che vedo se ne sta celebrando uno. Passo tra gli invitati e i parenti, cercando di rubare un po’ dell’emozione del momento.

Questa sera, in un bar pieno di luci al neon, ceno offrendomi una bottiglia di vino rosso, alla salute degli sposi. Mi assale il dubbio se continuare o tornare a casa domani, ma poi guardo la Credencial coi suoi quattro timbri e mi viene voglia di aggiungerne qualcun altro, cosi’, per curiosità.

09/08/1998 domenica LOGRONO – SAN JUAN DE ORTEGA Km.109 Neanche stanotte ho chiuso occhio, stavolta per il gran caldo; sono convinto che se avessi dormito su una panchina per strada, avrei goduto almeno della brezza della notte. La sentivo, solo a tratti entrare dalla finestra, insinuarsi tra i numerosi letti a castello per raggiungermi e sfiorarmi la pelle.

“Frequentare i Refugios è rivivere un pezzo di storia del pellegrinaggio, un’ esperienza nell’esperienza”, mi dico ma, da quello che vedo, sono eccessivamente affollati in agosto.

Faccio colazione in un bar con una fetta di torta e un cappuccino e ora, uscito da Logrono, davanti a me si apre la valle del fiume Ebro.

Quelli della Sierra de la Demanda a sud, e della Sierra de Cantabria a nord, sono i profili montuosi che mi accompagneranno fino a Santo Domingo de la Calzada. Non c’è vento contrario e comincio la giornata di buon umore.

Sto acquisendo piccole malizie, soprattutto per bere, e quindi non sono mai sprovvisto delle 125 pesetas in monete da introdurre nei distributori di Coca Cola che trovo alle stazioni di servizio del carburante.

Nei pressi di Najera, storica capitale della Rioja, squilla il telefono, rispondo a Carlo, amico e fratello nello spirito, e mi è difficile nascondere la commozione.

Sarebbe stato il mio compagno di viaggio ideale e ora, in mezzo alla strada con la bicicletta tra le gambe, sotto il sole di Spagna, ho tanta voglia di raccontargli le mie emozioni più intense. Lui capirebbe, ma mi limito a scherzare e a dirgli: “Ti perdono, perdono tutti”.

Arrivo a Santo Domingo de la Calzada, altra città simbolo del Camino e al Rifugio compio il rito della timbratura Credencial.

Vedo che vengono vendute T-shirts,conchiglie, portachiavi, bastoni, distintivi, tutti oggetti legati al tema del pellegrinaggio, ma la cosa non mi disturba più di tanto. Anzi, compero anch’io la conchiglia per 200 pesetas e la T-shirt “Amici del Camino” da 900 pesetas. Penso sia giusto finanziare questi Refugios che vengono gestiti da volontari: si occupano di tenerli puliti, di pagare il consumo dell’energia elettrica e di accogliere i pellegrini a qualsiasi ora. L’offerta che gli ospiti fanno è generalmente di 300 pesetas, 3500 lire.

Entro nella Cattedrale dove si sta celebrando la Santa Messa e, dopo aver girato intorno al sepolcro di San Domingo decido di sedermi per seguire la funzione: “In fondo è domenica, quale migliore occasione di questa per riavvicinarmi a Dio, nella sua casa, e pregarlo come un tempo”.

Mi volto, distratto dalle persone che guardano in alto, alle mie spalle, e vedo anch’io un gallo e una gallina, in una gabbia illuminata e incassata nel muro, che razzolano tranquillamente, direi quasi a proprio agio. Rimango colpito dal loro piumaggio bianchissimo. La loro presenza ricorda ai fedeli una antica vicenda miracolosa che un foglio incorniciato al muro, e che mi cimento a leggere sebbene sia scritto in spagnolo, rievoca.

Tutto avvenne intorno all’anno mille, quando una famiglia di pellegrini, composta da madre, padre e figlio, transitò per questa zona diretta a Santiago. I tre entrarono in una locanda per cenare e dormire quando la figlia dei proprietari che li serviva si innamorò follemente del bellissimo giovane. Purtroppo questi rifiutò l’offerta d’amore e la ragazza, offesa, si vendicò nascondendo nel suo bagaglio una coppa d’argento.

Il giorno dopo, quando la famiglia partì per Compostela, la ragazza fece il diavolo a quattro per la scomparsa della coppa d’argento e accusò il giovane di averla rubata. Il giovane fu processato e condannato, in modo sbrigativo, all’impiccagione, tra la disperazione dei genitori che comunque proseguirono per Compostela. Qui giunti, essi pregarono San Giacomo e questi li confortò, rassicurandoli che il ragazzo era vivo. Ritornarono dal giudice che aveva emesso la condanna e gli espressero la certezza che il loro figlio non fosse morto. Il giudice, che stava mangiando un gallo e una gallina arrosto, rispose: “Vostro figlio e’ vivo come l’arrosto che sto mangiando in questo momento”. Improvvisamente i due polli misero le ali e volarono via; il giudice esterefatto si recò sul luogo dell’esecuzione, insieme a genitori constatò che il ragazzo godeva di ottima salute e così lo riconsegnò loro.

Mi sarebbe piaciuto avere notizie più circonstaziate dell’episodio. Per esempio, come era la figlia dei locandieri? Se era brutta, quale virtù attribuire al ragazzo che la rifiutò? E se era bella, siamo sicuri che il giovane fosse OK? Meno male che la ragazza di Torres del Rio non si e’ offesa con me.

Rimane una bella storia di grande fede, fede che in fondo è quello che spesso mi manca: crederci nonostante tutto e tutti, crederci perché potrebbe avverarsi.

Uscito dalla chiesa, incontro due famiglie di italiani con i quali scambio due parole sulla mia esperienza e come sempre in questi casi ci raccontiamo delle cose viste. Quando mi dicono della fonte dell’acqua e del vino al Monastero di Irache, che non ho visto nonostante mi ci fossi fermato, sento un sottile dispiacere, quasi un senso di colpa. Non posso farne a meno: anch’io da buon turista sento d’aver fatto il mio dovere fino in fondo solo se seguo le indicazioni scritte sulla guida che suggerisce le cose da vedere.

L’essere stato in un posto ha valore non per noi stessi, ma per coloro ai quali si raccontano i nostri viaggi. Imparare a viaggiare invece significa anche lasciarsi trasportare dagli eventi o dalle circostanze e provare uno stupore sincero per le cose che capitano casualmente alla nostra attenzione. Altrimenti diventa un lavoro, con la sua tabella di marcia e con l’ansia di non riuscire a rispettare i tempi programmati.

Oggi mangio in un ristorante vicino alla Cattedrale. Sono il primo avventore e, al momento di pagare, mi rendo conto che spendo pochissimo; la cameriera mi porta il registro delle presenze, lo firmo e aggiungo anche un “Dio benedica la Spagna”.

Il riposo del dopo pranzo è su una panchina della plaza Major, sotto un albero striminzito, ma che bello godersi l’abbioco dell’uomo sereno. Questi sono i momenti che preferisco, quelli in cui mi sento veramente libero. Probabilmente in me c’è un’anima da barbone di cui quando tornerò a casa non mi dovrò dimenticare. Un poliziotto mi passa accanto benevolo.

Al risveglio vedo una ragazza che dopo aver sistemato la bicicletta vicino alla fontanella, si sta preparando la panchina a fianco alla mia. Proviene dalla Svizzera e a quanto dice è in giro da un mese. La saluto frettolosamente e cerco di portarmi avanti col lavoro di oggi, perché va a finire che questa giovane segaligna è capace di raggiungermi e magari anche darmi la polvere.

Sono entrato nella regione della Castilla y Leon, passando dalla provincia di La Rioja a quella di Burgos. Ho davanti a me i monti de Oca e sono tentato di fermarmi per la notte nel Refugio di Villafranca, cioè prima di affrontare l’Alto de la Pedraja posto a 1150 m di altitudine. Vicino ad una fontana anche altri due ciclisti con la bici da corsa discutono sul da farsi e, alla mia domanda sul grado di difficoltà della salita mi rispondono “Dura”.

Il Refugio di Villafranca però non mi ispira gran chè anche perché su un prato lì vicino intravedo delle tende e sinceramente non vorrei essere costretto a fare il campeggiatore. Inizio così la salita, circondato da quella che è l’ultima foresta che attraverserò da qui fino alle montagne del Bierzo. La mia meta è San Juan de Ortega. Giunto sul passo, una freccia gialla mi indica che devo svoltare a destra, ma io non mi fido e preferisco godermi la discesa. Ma quando arrivo in fondo mi rendo conto di avere già superato San Juan. Panico, rottura di scatole; tornare indietro significa rifare la salita e onestamente per oggi ne ho abbastanza. Più avanti vedo alcune case e le raggiungo per chiedere informazione ad alcuni ragazzi che stanno giocando vicino ad una fontana.

Mi rispondono che il Refugio di San Juan è a tre chilometri da qui, tornando indietro per una strada secondaria. “C’è salita?” chiedo io, “Certamente” mi rispondono divertiti, “E’ dura?” li incalzo sgomento, e loro sbellicandosi dalle risate “Muy dura”.

“Mi voglio fermare qui, c’è una locanda?” “No senor, tutto quello che c’è qui, è quello che sta vedendo”.

A San Juan de Ortega ci sono solo un Monastero e una chiesa, fondati da un giovane prete -di nome Juan- agli inizi del XII secolo. Era un discepolo di Santo Domingo che, come lui, dedicò la propria vita a costruire strade e ponti per rendere più agevole il cammino dei pellegrini verso Compostela. La chiesa romanica è come ti immagini debba essere: sembra uscita da un romanzo medioevale e da un momento all’altro ti aspetti di sentire un coro di canti religiosi. E’ una vera oasi di pace, e non mi è difficile comprendere perché esistano persone che decidono di passare la propria vita in posti come questi. Penso di essere uno degli ultimi pellegrini per oggi. Ad un primo sopralluogo nelle camere all’interno del convento non vedo letti liberi. Mi dicono che devo chiedere al prete, ma in questo momento sta dicendo Messa. “Va a finire che stasera devo montare la mia tenda” penso e provo una certa riconoscenza verso il mio buonsenso che mi aveva suggerito di portarmela dietro. Avendo visto che non ci sono problemi nei Refugios per dormire, ero stato più volte tentato di buttarla via e alleggerirmi un po’.

Una cosa che mi affascina è il via vai di persone che vanno alla fonte per farsi il bucato ed è ora che anch’io compia il rituale anche se non ho molto da lavare. Tolgo la T-shirt che ho indosso, mi faccio prestare un pezzo di sapone di marsiglia e goffamente cerco di strofinare in ogni sua parte; il risultato è la maglietta sporca come prima, ma bagnata e con una sgradevole puzza di sapone.

Improvvisamente c’è un po’ di agitazione in giro e vedo gente dirigersi verso la casa del prete che ha appena terminato di dire Messa. Sento dire che la zuppa di cipolle è pronta e a me non rimane che andare al bar per la cena. Anche la zuppa di cipolle mangiata in compagnia in un Monastero ha il suo fascino, come farsi il bucato, ma se c’è un piatto che mi nausea al solo pensiero è proprio quello. “Vero, mamma, quando mi dicevi che mi faceva tanto bene”.

Secondo sopralluogo alle camere del convento e gioia nell’individuare libera la parte alta di un letto a castello che è’ nell’angolo, in penombra, e che per questo non avevo visto prima.

Mi sento come se avessi sempre vissuto in questa maniera, la trovo congeniale al mio carattere e mi chiedo se sarò mai capace di rinunciarvi quando questa esperienza sarà finita. Sento una serenità nuova, e ho la consapevolezza che esiste un modo di vivere alternativo, più in armonia con il mondo che mi circonda.

A casa faccio un lavoro basato per sua natura sulla capacità di ascoltare le sofferenze altrui, e che per reazione mi rende sordo verso i miei disagi. Questi si accumulano giorno dopo giorno fino a divenire qualcosa di indistinto, incomprensibile, un’ombra perenne che vela il gusto di vivere. La continua tensione del voler dimostrare che sono bravo, di essere approvato anche dal gatto di casa che poi se ne frega… “Ah, come sto bene qui, da solo, io e me stesso, lontano dalla guerra”.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

10/08/1998 lunedì SAN JUAN DE ORTEGA – CARRION DE LOS CONDES Km.125 Basta con i monasteri.

E’ notte a San Juan de Ortega. Mi sveglio con una sete terribile e nel buio cerco di raggiungere l’esterno del monastero dove, vicino al bar, so di poter trovare un distributore di bibite fresche.

Il problema è nella chiusura dei due portoni e i miei tentativi di aprire i chiavistelli producono un notevole rumore di ferraglia.

Notte stellata questa, limpida e soprattutto gran silenzio, rotto soltanto dal risuonare delle monete introdotte nella macchina delle bevande e dallo sfrigolio della lattina piena di bollicine.

Stamattina forse sono uno degli ultimi a partire e il prete mi offre una tazza di latte e caffè nella sua cucina.

Sono vicino a Burgos, ma dedicherò poco tempo alla città perché i grandi centri mi infastidiscono.

Certo non rinuncio a timbrare la mia Credencial; infatti è la prima cosa che faccio appena arrivo nel centro storico, passando attraverso l’Arco di Santa Maria.

Il complesso della Cattedrale, “magnifico tempio gotico” come dicono le guide turistiche, è maestoso. Stanno restaurando la facciata, mentre io, in questa mattina fresca, mi godo il sole seduto in un caffè – pasticceria della piazza principale e faccio colazione con la solita fetta di torta e un cappuccino.

I turisti non sono ancora arrivati ed è ora che io riprenda la strada prima che il traffico diventi caotico.

Ogni tanto vedo, disegnate per terra o su pietre, le frecce gialle che indicano il percorso attraverso i campi, e che vengono seguite dai pellegrini a piedi. Vedo le loro teste oscillare sul mare dorato del grano per poi svanire nel nulla. Io, se non si fosse già capito, preferisco l’asfalto. Il mio motto è “Non lasciare la strada vecchia per la nuova”.

Ho informazioni vaghe sui paesi che dovrò attraversare e cerco di vedere almeno i più significativi, per cui, quando leggo il cartello stradale “Castrojerez 11 km.”, non ho dubbi nel deviare.

Campi di grano a destra e a sinistra, immensi, e poi quei rilievi piatti: le mesetas.

Undici Km. In bicicletta non sono pochi se si pensa che sbagliare strada significa doverli rifare anche per tornare indietro, ma Castrojerez è famosa perché nell’antica collegiata di Santa Maria del Manzano è conservata una scultura medioevale in legno della Vergine patrona.

Sulla strada un uomo a piedi, vestito di scuro, grida contro il nulla. Sarà sulla trentina. Scalzo, con la barba incolta e la camicia fuori dai pantaloni, ha in testa un cappello di paglia a larghe tese. Siamo soli io e lui nella canicola di mezzogiorno. “Potrebbe essere pericoloso”, penso, quindi sto guardingo e lo supero veloce. Fatti pochi metri però, non resisto alla tentazione di voltarmi, incontro il suo sguardo e non so se leggervi il vuoto più assoluto o al contrario un tumulto indomito di pensieri. In un lampo mi appare evidente la sua storia, come se conoscessi bene la sua vita.

“Ho condiviso anch’io quella disperazione?” Quando tutto sembra essere perduto, non vedi vie d’uscita e gridi perché hai un groppo alla gola che ti sta soffocando. Chi non ha mai provato momenti simili? Con quell’uomo urlavo io e con me quella parte di umanità sconfitta, sbandata, scalza, a piedi e senza punti di riferimento, se non quel cielo, da cui aspetta di ricevere un segno, qualunque esso sia, per poter continuare a sperare.

Castrojerez non mi entusiasma e cerco subito un posto per mangiare. In un bar l’unica cosa che il proprietario mi può servire a quest’ora è una pizza surgelata, buona però, “Potrebbe farmene un’altra por favor?”.

Intravedo la Cattedrale, passo dal Refugio per timbrare la Credencial e mi sento in obbligo di fare qualche fotografia anche se non sono ispirato, perchè la vera voglia e’ quella di andarmene.

Non ho visto segnali precisi, non sono molto sicuro della strada da prendere, per cui mi dirigo verso la Mesa che vedo lontana.

La strada non è asfaltata anche se il fondo e’ accettabile, ma solo quando incomincia la salita mi rendo conto di aver fatto uno sbaglio.

Devo spingere la bicicletta a piedi tra crepe profonde del terreno e su una pendenza che mi lascia senza fiato.

Questo e’ un calvario e ogni tanto, alzando lo sguardo, cerco di indovinarne la fine.

A mano a mano che salgo lascio dietro di me la sterminata pianura gialla che ora domino dall’alto; questo e’ il vero Cammino, quello che i pellegrini percorrono a piedi.

Pedalando sullo sterrato, mi preoccupo per la tenuta del mezzo così carico, sento le vibrazioni e gli scossoni sulle braccia e quando comincia la discesa cerco le traiettorie meno traumatiche.

“Dove sono? Dove sto andando? Riuscirò a ritrovare l’asfalto senza dover tornare indietro? Se viene buio e sono ancora disperso nella piana mi toccherà dormire in tenda. E avrò acqua a sufficienza?” Incontro una ragazza a piedi, con il viso paonazzo, che mi chiede da bere. Da generoso quale sono, le allungo la borraccia dell’acqua oramai calda che non avrei mai usato per me, e tengo ben nascosta quella con l’acqua fresca.

E’ giusto così, non mi smentirò mai. Ancora un chilometro e non solo ritorno sull’asfalto, ma trovo anche una fonte d’acqua freschissima. Un’altra “coincidenza” non c’è dubbio, perché se uno è stronzo non è necessario che lo scopra dopo soli pochi minuti.

Visito il paesino di Itero, che ha una gran bella chiesa ed è quasi deserto, con le case fatte di pietre, fango e paglia disposte sui fianchi della collinetta da cui svettano le rovine del castello.

Oggi fatico più del solito a pedalare, ho bisogno di riposare e cerco un po’ d’ombra per sdraiarmi. Stendo la stuoia sotto un albero vicino al ponticello che attraversa un canale e, usando il sacco a pelo come cuscino, cerco di dormire.

A intervalli regolari un venticello leggero mi accarezza la pelle, dandomi piacere, e così la mia mente vaga verso i ricordi, non segue alcuna logica e mi porta là dove i progetti si confondono con i sogni. Progetti e sogni…

Vent’anni. Ero sdraiato sull’argine del Po e come adesso mi perdevo ad osservare le foglie che scorrevano lente sull’acqua, immaginando che ciascuna portasse con sé un progetto e un sogno che io affidavo al loro casuale destino. Oggi rileggo su una foglia che scivola via l’antico sogno di un viaggio.

Sono le suore clarisse di Carrion de los Condes a gestire il Refugio che si trova proprio nel loro Convento. Appollaiata su una sedia di paglia, c’è una vecchia suora, rotonda e con un sorriso ammiccante, che sembra aspetti da tempo proprio me, uno che ogni tanto la va a trovare e le racconta qualche bizzarria che la mette ancor più di buon umore. Sono dibattuto tra il desiderio di non deluderla e quello di dormire in un letto decente, per cui prima di decidere sul da farsi, le chiedo di poter vedere il dormitorio. Considerata la solita concentrazione di letti e valutata l’offerta di 1000 pesetas che dovrei fare, preferisco defilarmi dicendole che sarei tornato più tardi. Intanto mi aspetterà una volta di più.

Questa sera sono in albergo dopo aver percorso 125 Km. Di una tappa che si presentava facile, ed ora è piacevole starmene nudo sul letto, dopo la doccia.

Ceno al ristorante dell’albergo, che si chiama Hostal de la Corte, e comincio ad abituarmi ad essere a tavola da solo.

Tutti quelli che incontro si meravigliano del fatto che viaggi solo, sembra loro una stranezza, mentre io mi sto convincendo sempre più che sia la carta vincente.

Sono l’unico padrone di me stesso, qualsiasi cosa faccia va bene a tutti, i ritmi e i tempi non devo concordarli con nessuno.

Stasera dormirò alla grande, ne sono certo. Prendo la chiave della camera e con stupore mi accorgo di avere difficoltà a inserirla nella serratura. Non riesco a tenerla ben stretta tra l’indice e il pollice né a ruotarla per poter aprire la porta. Entro nella stanza, vado allo specchio per pettinarmi, ma non mi riesce nemmeno di tenere il pettine in mano. In un secondo mi è tutto chiaro: ho un tumore al cervello che sta comprimendo la zona cerebrale sinistra, quella deputata al controllo motorio e sensoriale dell’arto superiore destro. Mi scappa da ridere. So di gente che va in pellegrinaggio per chiedere una grazia, mentre io, che sono a posto, ricevo una disgrazia. “Cosa faccio ora? Posso continuare il viaggio?” Penso di sì poiché a me basta riuscire ad appoggiare la mano sul manubrio. “E se durante la notte la compressione cerebrale progredisce e viene coinvolta anche l’attività motoria della gamba?” Allora dovrò farmi aiutare da qualcuno per salire in bicicletta. Il vino mi è stato amico stasera, ora ho solo voglia di dormire e poi domani si vedrà.

11/08/1998 martedì CARRION DE LOS CONDES-VIRGEN DEL CAMINO Km.128 Dopo aver fatto colazione cerco sulla mia mappa la prima città importante che devo raggiungere e quando parto, alle sette del mattino, non c’è nessuno in giro.

Ho raccolto alcune note sulle cose più significative da vedere, ma so già che sarà la strada a decidere, quella strada che finora mi ha sempre guidato bene, a parte qualche piccola deviazione rivelatasi inutile.

La gamba destra e’ a posto, mentre la mano non ce la fa ad impugnare il manubrio. Poca roba in definitiva, e’ solo questione di abituarsi alla nuova condizione. Mentre pedalo, ogni tanto, non posso fare a meno di dare un’occhiata a questa benedetta mano. “E’ inutile recriminare, quando saro’ a casa vedro’ il da farsi”. L’ipotesi del tumore al cervello mi sembra cosi’ assurda visto che non ho problemi al viso e alla gamba. Guardo il manubrio che preme tra tra l’indice e il pollice e capisco tutto: la compressione prolungata ha provocato una semplice sofferenza del nervo radiale e mi sara’ sufficiente muovere frequentemente le dita per recuperare la funzionalita’ completa della mano. Guariro’! La regione che attraverso è la Castilla y Leon con capoluogo Burgos, ma da queste parti c’e’ qualcuno che preferirebbe essere “solo” del Leon viste le cancellature e le scritte su muri e cartelli che sono molto esplicite in questo senso.

Il paesaggio crea un insieme piuttosto austero e mentre penso a come debba essere duro vivere da queste parti, e’ proprio qui che ritrovo la maggiore intimita’ con me stesso. Sto bene e sento che comunque andrà a finire questa storia, valeva la pena d’essere vissuta.

E’ strano come l’idea della morte ogni tanto faccia capolino nei miei pensieri, senza un motivo preciso, inopinata, senza legami apparenti con il fluire ininterrotto delle idee. Non mi mette paura, angoscia, anzi direi che mi trasmette una certa dolcezza. Evidentemente ci sono luoghi ed anche giorni in cui è meno sgradevole morire, come ho già sentito dire. Ripenso con amara consapevolezza a quante volte mi sia sentito chiedere ”Dottore la prego, non mi mandi in ospedale, mi lasci morire nel mio letto”. Io vorrei morire qui se potessi scegliere, in questo letto naturale e accogliente, tra il giallo della terra e il blu del cielo.

Visito la Cattedrale di Leon e rimango senza fiato di fronte alle sue vetrate. Nei miei viaggi avro’ visto decine di chiese, ma non mi era mai successo prima di provare lo stupore che ora mi coglie, mai ho sentito le vibrazioni che adesso mi fanno entrare in piena sintonia con la spiritualita’ che emana da questo luogo sacro.

“Che faccio ora? Prego?” Riemergono le emozioni antiche del giovane liceale che disperato si affidava a Dio, ricevendone conforto.

Passo e ripasso davanti ad un confessionale, ma se non so parlare spagnolo, come faccio a raccontare tutte le cose che avrei da dire, cose sedimentate in tutti questi anni?.

Avrei da visitare la Basilica di San Isidoro e l’Hospital di San Marco, ma è ora che esca dalla città e che cerchi un posto per dormire, visto che il cielo non promette nulla di buono.

Guardo le nuvole e penso che pedalare sotto la pioggia potrebbe avere il suo fascino, aggiungerebbe quel pizzico di eroismo che non guasta mai.

Mi fermo a Virgen del Camino in un Hostal di recente costruzione che mi sembra l’ideale punto di partenza per il giorno dopo perché è proprio sulla strada che mi aspetta.

L’Hostal si rivela anche confortevole perciò, invece della solita doccia, stasera mi faccio un bel bagno caldo.

La tappa di oggi è stata abbastanza facile, a parte il solito caldo e la solita sete, in più ho incontrato dei ragazzi baschi di Victoria che mi hanno dato qualche utile informazione su come tornare a casa da Santiago.

Penso spesso a come organizzare il ritorno con la bicicletta al seguito e dubito sempre più che il treno sia una soluzione facilmente praticabile.

Alla televisione stanno trasmettendo una corrida ed io non ho dubbi nel parteggiare per il toro che però, alla fine, soccombe con una spada infilzata alla base del collo.

Dopo cena la locandiera insiste nello sconsigliarmi l’uso della carta di credito, per le eccessive commissioni da pagare; l’accontento per non dispiacerle e per avere, domani, l’occasione di andare in banca a cambiare le mie lire. Un alibi perfetto e inaspettato per una pausa fuori programma.

Guardando dalla finestra, scopro per caso che davanti al mio Hostal c’è il santuario della Vergine Maria e che quelle figure giganti di bronzo che si stagliano sulla facciata sono i dodici apostoli.

Le chiese qui in Spagna chiudono molto tardi per cui vado a visitarla ed è solo per uno strano e inatteso pudore che questa volta non mi faccio timbrare la Credencial.

12/08/1998 mercoledì VIRGEN DEL CAMINO – CACABELOS Km.119 Anche stanotte mi alzo per andare in strada a cercare un distributore di bibite, quasi fossi un tossicodipendente in cerca della dose.

Stamattina appena salito in sella vengo inglobato da un gruppone di ciclisti che sono impegnati in una gara e, pur rimanendo nelle retrovie, mi difendo come un leone.

Per alcuni chilometri pedalo forte insieme agli ultimi e ricevo i complimenti dall’equipaggio di un ambulanza, ma poi mi rendo conto che dò solo fastidio, così riprendo il mio passo turistico.

Cavolo, ora ho le gambe che mi fanno male! A Hospital de Orbigo c’è uno dei più importanti ponti del cammino da vedere e mi fermo per fare le solite fotografie di rito. La sua fama nasce nel 1434, ai tempi in cui il Rinascimento era scenario di tornei cavallereschi, e il “grande cavaliere” di Leon, Suero de Quinones, lanciò la sfida del “Paso Honroso” (passaggio dell’onore). Di essa ho letto varie versioni, ma quella che preferisco racconta della difesa del ponte da parte del Suero, che arrivò a spezzare 300 lance di altrettanti cavalieri, per permettere così ad una dama di raggiungere Compostela indisturbata.

Ci sono anche due ragazze in mountain bike che ho già incontrato in precedenza, ma è già tanto se ci scappa un “Ola”.

Mentre vado avanti e indietro per il ponte cercando una inquadratura ottimale per la foto, su un campanile vedo le cicogne ed è qui che faccio la figura del deficiente nell’esclamare verso le ragazze un forte “Guardate, le cicogne!!!” Chissà di quale nazionalità sono quelle due e come si dirà cicogna nella loro lingua, per me sarà difficile dimenticare l’espressione del loro viso alle mie parole piene di fanciullesco entusiasmo. “Complimenti per l’educazione”, se le incontro nuovamente non le saluto più alla faccia dei cavalieri e delle dame.

Ho comunque la conferma che è difficile stabilire un contatto con le persone che stanno tentando la tua stessa impresa e poi… non è colpa mia se le cicogne mi hanno sempre affascinato! Ognuno è chiuso in se stesso, sia a piedi sia in bicicletta e non c’è pericolo che a qualcuno venga in mente di fare un pezzo di strada insieme. Quelli a piedi, poi, camminano tutti in fila indiana, distanziati l’uno dall’altro, anche tra gruppi di amici. E’ normale, se pensi che non stanno facendo una scampagnata e che probabilmente tra loro ci sarà anche chi sta soffrendo fisicamenete.

Sono nella Magarateria e, superata la catena montuosa che vedo all’orizzonte, entrerò nella regione del Bierzo.

Ora c’è Astorga davanti a me, l’Asturica Augusta romanica e seguo la freccia che mi porta al centro. Il rito è quello di posteggiare la bicicletta all’entrata della Cattedrale fidando nel via vai di gente che mi auguro scoraggera’ i malintenzionati. D’altra parte questi non avrebbero gran che da rubare, a parte la bicicletta stessa, perché la borsa, che in viaggio tengo sul manubrio e che contiene tutte le cose di valore, la porto con me a tracolla durante le soste. Guardo con piacere i pilastri a fascio, che leggeri e slanciati si aprono in alto in nervature a raggiera e sento il bisogno di fotografarle, venendo subito redarguito da un visitatore. “No foto” mi dice, ed io: “Chi lo dice che non posso fare una foto? Il parroco? Dio?” Eccolo il mio spirito polemico, insofferente ai richiami di chicchessia, ecco che devo rispondere sgarbatamente a un signore che magari avrà letto da qualche parte del divieto e civilmente me lo fa presente. Andiamo avanti così che andiamo bene.

Davanti alla banca alcuni pensionati mi chiedono da dove provengo e appena sentono Italia scattono in coro con un bel “Pantani”.

E’ destino che quest’anno “italiano in bicicletta” sia sinonimo del grande Marco e comunque è sicuramente meglio che il binomio spaghetti e mafia.

Devo cercare un supermercato per fare la spesa e risolvere il problema del pranzo, prima di affrontare la salita che mi porterà alla Cruz de Ferro a 1504 metri di altezza.

Un bel pezzo di pane croccante (bocadillos) riempito di prosciutto (jamon) fino a scoppiare, una mela, una banana una arancia e un litro di birra fresca. Ora ci vuole una panchina vicino ad una fontanella di questo piccolo paese di cui non ricordo il nome. Mentre mangio ascolto le recriminazione di due anziani a proposito dell’estratto conto di non so quale banca. Mi chiedono se sono francese, e quando rispondo che sono Pantani, loro sono contenti, perché è dai tempi di Napoleone che “quelli” gli stanno sulle balle.

Stendo la stuoia sulla panchina e buonanotte a tutti.

Ho letto che da queste parti la gente è speciale, non se ne conosce il ceppo etnico. Anticamente avevano una organizzazione sociale di tipo tribale, assolutamente impermeabile alle influenze esterne almeno fino all’arrivo della ferrovia. Il paese di El Ganso è interamente costruito con pietre di porfido rosso e mi impressiona l’uniformità del colore visto nel suo insieme. Sembra tutto finto.

Ora però si sale. Mi metto il cuore in pace, con pazienza devo guadagnarmi il Paradiso e lentamente penetro in un paesaggio piuttosto brullo, a tratti coltivato, a tratti boschivo.

Il cartello stradale mi dice che sono a Foncebadon, ma io vedo solo un gruppo di case in pietra mezze diroccate e alcune persone che stanno facendo lavori di ristrutturazione.

La strada continua a salire e mi sembra strano, perché ho la sensazione di essere giunto sulla cima, ma poi dopo ogni curva la pendenza addirittura si inasprisce.

Ed è all’improvviso, proprio quando comincio a essere stanco, a non averne più voglia, che vedo la Croce di Ferro.

E’ un palo di legno che si alza da un cumulo di pietre e che porta alla sommità una croce che sembra esistere addirittura da prima del cristianesimo, dalla civiltà Celtica.

La tradizione vuole che chi passa di lì debba porre la sua pietra sul cumulo per trarre buona sorte sul Camino. Questo rito fa sì che la montagnola si innalzi sempre più. E’ uno di quei momenti in cui provo il massimo della stima in me stesso e dimentico subito la pena appena provata, assaporando il piacere della vittoria sulla naturale tendenza a schivare la fatica. In fondo, il senso del mio Camino sta semplicemente in queste domande: “Sono in grado di mantenere un impegno prefissato nonostante le difficoltà che posso incontrare?”, “Sono ancora in grado di stringere i denti?”.

Ora sul monte Irago, con la conca verde del Bierzo davanti a me, posso rispondere di sì, anche se sotto sotto ho un piccolo dubbio su cosa siano veramente le cose difficili da affrontare nella vita.

C’è più eroismo nell’alzarsi tutti i giorni per andare a fare il proprio dovere sul lavoro, a sopportare la gente fastidiosa, a essere calmo con i prepotenti e gli arroganti, o a scalare una montagna in bicicletta con 30 Kg. Di peso sul portapacchi?.

C’è la discesa, la mia speranza è che sia lunghissima, il contachilometri gira gratis, l’aria mi accarezza la faccia, e ho la quasi certezza che per oggi il lavoro è già finito.

Mi fermo a Manjarin per timbrare la Credencial e scopro che gli eremiti esistono ancora. Come un eremita infatti vive in questo posto isolato dal mondo il proprietario del Refugio. E’ un uomo di mezza età, piuttosto trasandato, che, alla bene e meglio, ha reso agibile la solita vecchia casa in pietra, facente parte di un nucleo antico ormai disabitato, e che campa preparando pasti caldi ai pellegrini che passano.

Sono le quattro del pomeriggio quando, tra gli applausi entusiastici di una decina di persone sedute a tavola sotto un pergolato, l’uomo esce dal suo tugurio con una pentola colma di zuppa di pesce.

Riciclarmi in eremita è un idea per il futuro, uno sbocco per i miei sogni, quando avrò perso completamente la voglia di giocare al dottore.

Curva dopo curva scendo verso Ponferrada ed è all’ improvviso che sento quel profumo intenso.

L’aria si sta facendo sempre più calda e sono impreparato a questa sensazione che non so definire se gradevole o fastidiosa. Non è sentire un’ onda di profumo, ma è proprio come essere dentro al profumo stesso, esserne avvolti, quasi imprigionati.

Sto scendendo velocemente, guardo solo la strada con attenzione per cui non so che tipo di vegetazione abbia attorno e sopra di me, però ricordo che nel refugio di Logrono, oltre a T-shirt e conchiglie, vendevano anche un flacone con su scritto “Profumo del Camino”. Allora mi era sembrata una sciocchezza, ma ora so di cosa si tratta.

A Molinaseca mi fermo a guardare i ragazzi che fanno il bagno in un laghetto e quando cerco le cartine per fare il punto della situazione, mi accorgo di averle perse. Sicuramente erano utili, ma il dispiacere che provo è legato piuttosto alla sensazione che si sia rotto l’incantesimo della mia invulnerabilità.

Di Ponferrada non c’è molto dire, a parte il bel castello dei Templari che sembra uscito dalle favole. Esco dalla città con difficoltà, non vedo cartelli stradali che mi indichino la direzione giusta e cerco di seguire i segni gialli segnati sull’asfalto o sui muri e che però non mi portano a niente. Giro e rigiro tornando sempre più o meno nello stesso punto.

Dopo aver seguito due ciclisti credendoli pellegrini e che invece andavano a casa loro, finalmente trovo il bandolo della matassa. Ora procedo lasciandomi guidare unicamente dalla fretta di trovare un albergo, sono innervosito come un cavallo di razza.

Oggi c’è qualcosa che non gira per il verso dritto, sono stanco, irritato e intanto comincia anche a scendere qualche goccia di pioggia. Non vedo alberghi in questi paesini con le case allineate sulla strada e, quando chiedo ad un benzinaio mi dice che la prima cittadina si trova quattro Km piu’ avanti.

E’ Cacabelos.

Al solito quando chiedo una camera singola la risposta e’ che sono tutte occupate, per cui sono rassegnato alla doppia, ma nel primo Hostal che trovo il prezzo di 6000 pesetas mi sembra eccessivo.

Figurarsi che a Carrion mi avevano chiesto 4000 pesetas ed era considerato caro dalla gente del posto.

Nel secondo Hostal, che raggiungo dopo aver rovinato una borsa laterale della bicicletta per la smania di passare tra un camion e il marciapiede, la signorina dietro il bancone del bar mi chiede 2500 pesetas per la doppia; accettato, aspetto che il padrone mi accompagni a vedere la stanza.

E’ un signore gentile che si sforza di dire qualche parola in italiano, e’ allegro, e io penso di avergli fatto una buona impressione. Mi fa vedere la doccia e mi raccomanda di asciugare con lo straccio l’acqua che uscira’ nel corridoio, per non allagare di sotto. Gli spiego che forse dovrebbe risolvere in un altra maniera quel problema, ma lui ride e quando apre la porta della mia stanza rimane inorridito. “Ma come, una doppia, non c’erano stanze singole per l’amico italiano?” Piomba dalla signorina al bar, la sgrida, ed eccolo qua con la chiave di una singola fantastica.

Quando esco a fare due passi mi sento felice e un po’ in colpa per avere dubitato della mia buona sorte, non ho il coraggio di dire che ho dubitato del mio Angelo Custode perche’ ci credo veramente.

Sul campanile della chiesa di Santa Maria ci sono tre nidi di cicogne, due dei quali sono abitati dai piccoli che reclamano il cibo.

La gente che passa mi guarda stupita nel vedere che fotografo le cicogne, ma come faccio a spiegare che ho una passione antica per quei trampolieri. Mi metterò un cartello al collo con su scritto: “Amo le cicogne”.

Vado a vedere come e’ il Refugio e visto che ci sono mi faccio timbrare la Credencial, contento al pensiero della notte che passero’ nella mia stanzetta, da solo, con le mie comodita’.

All’ora di cena rientro nell’Hostal e mi metto a tavola, aspettando di mangiare quello che il mio amico albergatore ha deciso di darmi a sua discrezione. Che tipo simpatico, lui e il suo italiano storpiato che mi tocca correggere. Mi mette sul tavolo una bottiglia di Carpal, un rosado freddo al punto giusto, e un piatto di polpettine che sono una meraviglia solo a guardarle; mi dice che sono quelle che aveva preparato per sé. Dio, come ha ragione, sono come quelle che mi faceva mia madre tanto tempo fa, forse piu’ saporite; devo essere piuttosto convincente nel gustarle perche’ un altro cliente con la sua famiglia al tavolo vicino chiede lo stesso per sè. L’oste risponde “Non ce ne sono altre perche’ l’italiano si è divorato le mie, ma io sono ben contento di avergliele date”. Finisco il rosado e rido contento, ora me ne vado a dormire come un gatto sicuro di essere amato dal padrone.

Che giorno della settimana e’ oggi? Sto per alzare la mano destra e mondare l’albergatore dai suoi peccati, ma alla fine gli do’ solo una pacca sulla spalla.

13/08/1998 giovedì CACABELOS – SARRIA Km. 90 Kg. 74.8, herpes labialis esteso, algie all’emirima mediale del ginocchio destro, vasta e dolorosa irritazione perineale, ipoestesia con ipostenia alla mano destra, ulcera da sfregamento secondo dito piede sinistro. Sono felice.

Raggiungo velocemente Villafranca del Bierzo dove faccio colazione, prima di iniziare la mitica salita del O Cebreiro.

E’ già un conforto sapere che l’aver raggiunto questa cittadina valga come indulgenza a tutti gli effetti, anche se si decide di non proseguire. Quasi quasi.

L’aspetto tecnico delle indulgenze non mi tocca in modo particolare e non vorrei dire una bestemmia se penso di non avere commesso chissà quali peccati. Oddio, a questo punto potrermmo discutere su alcune cose che mi stanno venendo in mente, ma non è il caso perché se le scrivo poi qualcuno si offende.

Se la festività di San Giacomo, che è il 25 luglio, cade di un giorno feriale, l’indulgenza è di un terzo dei peccati, mentre se cade di domenica allora è Anno Santo con indulgenza plenaria. Quest’anno cade di sabato. Chissà se si possono scegliere i peccati da condonare.

Abbandonata subito la superstrada, seguo la freccia gialla della via originaria, pressochè deserta a quest’ora, che attraversa piccoli paesi popolati soprattutto da cani. A volte li scorgo immobili davanti alle case, ne vedo addirittura due morti sul ciglio della strada; ad un certo punto sento dei latrati strazianti giungere dal fondo della valle.

Che cosa sta succedendo da queste parti? Che gente è questa che non ti saluta quando passi e che sospetto uccida i cani? Continuo a salire di buona lena, ma non mi sento a mio agio, provo sensazioni negative e non vedo l’ora di arrivare sulla cima. Tutto intorno a me boschi di castagno, ideali per andare a funghi. Sbuco finalmente sulla superstrada, a Pedrafita (un altro Alto), ma il bello deve ancora venire perché il cartello mi avverte che l’Alto do Cebreiro è sette chilometri più avanti, di salita naturalmente.

Si può dire che arrivo al passo sui gomiti, con la lingua tra i raggi della bicicletta e, nonostante il paesaggio da cartolina, il mio primo pensiero è: “Sono in Galizia, ora avrò solo discesa”.

Questo posto a 1300 m. Di altitudine è rinomato per le “pallozas”, case primitive molto simili ai castri celtici, e per il miracolo del calice o Santo Gral Gallego.

Il racconto che si tramanda dagli inizi del ‘400 narra di un frate il quale, mentre celebrava Messa nella Cappella sulla cima nevosa della montagna, aveva ironizzato tra sé e sè nel vedere un umile paesano giunto fin lassù “solo” perché spinto dalla propria fede. Ma al momento dell’Eucarestia tra le mani dello scettico monaco si verificò la miracolosa trasformazione in Carne e Sangue di quel pane e di quel vino sul valore dei quali egli stesso non aveva creduto profondamente.

E’ l’ora del pranzo per cui vado nell’unica locanda che c’è, l’Hospedaria Carolo, per mangiare.

Non so come nasca la trattativa con la padrona, una donna anziana ma energica, sta di fatto che per 1000 pesetas mi offre del pollo arrosto; io per quella cifra chiedo anche le patatine, ma lei alza il prezzo a 1100, allora le dico che il conto deve comprendere anche il vino. Sono l’unico avventore e ho capito che il gioco la diverte, ride, fa l’offesa, si arrabbia, ma poi, sorpresa delle sorprese, mi porta anche un piatto inatteso di salumi che divoro in un attimo.

Cosa faccio, benedico anche lei? E’ una bella giornata di sole e l’unica nube è portata da due motociclisti di Padova che, provenienti da Santiago, mi dicono che avrò ancora delle belle salite da affrontare. Va bene, si parte, e così in successione passo l’Alto de San Roque 1270 m., e il Porto de Poyo 1335m., che mi ha costretto, mio malgrado, a percorrere gli ultimi 500 m. A piedi. Che vergogna! Riguardo sulla cartina il profilo altimetrico: la descrizione dice testualmente:”O Cebreiro – Sarria … Se ben sobre o papel esta etapa parece de comodo descenso (saese a 1300 metros de altitude e chegase a 480), non hai que fiarse.” Memore delle precedenti esperienze no, non mi fido, ma ora la discesa c’è veramente ed è anche “vertixinosa”: d’un fiato arrivo a Samos, e vado dritto al Refugio per farmi timbrare la Credencial. Prima di me ho un signore di mezza età, in tuta da ginnastica, con quattro Credencial in mano che si fa timbrare, per poi andarsene su una macchina con tre persone a bordo. Il sangue mi sta ribollendo dentro, vorrei corrergli dietro per dirgli di tutto, ma, come folgorato, lo perdono e così sia.

Sono stato messo alla prova, come quella volta a Carrion, quando in un piccolo supermercato, una coppia di italiani comprando della frutta si comportavano come se fosse dal gioielliere. Analizzavano la banana nei dettagli, discutevano sul prezzo e alla fine per poi acquistare solo la banana in questione e una mela. La donna, poi, era di un antipatia allucinante con gli occhiali da sole su un naso alla Cirano e la bocca con gli angoli all’ingiù, in segno di perenne disgusto. Ero preso dalla voglia di mandarla a quel paese e l’avrei fatto, in un altro contesto, se cioè non stessi cercando di migliorare il mio livello di tolleranza nei confronti del prossimo.

Arrivo a Sarria che sono quasi le diciannove, ho fatto 90 km., e più o meno ho pedalato per sette ore e mezza, come tutti i giorni. Sono un operaio della bicicletta, timbro il cartellino d’inizio alle sette e timbro la fine alle diciannove. Mio padre avrebbe scritto sulla sua agendina otto più quattro, le quattro ore di straordinario degli ultimi anni che gli avrebbero permesso di avere una bella pensione.

Il mio fiuto dice che all’Hostal Londres mi troverò bene e quindi senza cercare altrove chiedo una stanza… miracolo, mi viene data una singola! La bicicletta la metto in un ripostiglio dell’albergo chiuso a chiave e, dopo averla salutata e accarezzata sul sellino, vado a fare la doccia.

Mi piacerebbe parlare del rapporto che si è creato con la mia bicicletta, ma ora ho ancora il timore di essere considerato pazzo.

Mi metto la divisa della sera: un paio di pantaloni blu da trekking (Quechua), una polo rossa (Adidas) e un paio di sandali comperati a Valencia nel 1982, quando italiano in vacanza era sinonimo di Paolo Rossi. Esco a fare due passi e poi devo comperare lo Zovirax per l’Herpes, perché il burro di cacao mi ha fatto una pippa, se non ha peggiorato la situazione. La farmacia è dall’altra parte della strada e la dottoressa è una biondina carina che mi chiede da dove vengo, avendo intuito che sono sul Camino nonostante la mia divisa da ganzetto.

“Sono un medico di Genova, non sono un pellegrino, e ho notato che il prezzo di un burrocacao è di 450 pesetas, mentre lo Zovirax costa solo 400 pesetas (4500 lire)”.

Mi risponde che in Spagna le puttanate costano tanto, mentre i medicinali seri costano poco.

Grande civiltà, grande paese, e via con il mio manifesto entusiasmo per questa terra che ho già adottato come mia patria ideale, tradendo la Francia per la quale fino ad una settimana fa nutrivo una vera e propria venerazione. L’ho sempre detto che a forza di spostarmi verso Ovest un giorno sarei arrivato in Portogallo per poi annegare nell’Atlantico.

Gironzolo per le vie del centro, fino ad arrivare alla chiesa di Santa Marina dove aspetto che il parroco finisca di dire il Rosario per timbrare la Credencial. E’ un prete anziano che mi invita a casa sua ed insieme al suo gatto attraversiamo i giardini della parrocchia chiacchierando del più e del meno.

Non so perchè mi prende nuovamente l’impulso di confessarmi, e incomincia ad essere seccante questo bisogno di raccontare i fatti miei ad un estraneo, a meno che il sacerdote non sia veramente l’intermediario con il mio Dio.

Non ricordo di essermi mai posto con impegno il quesito dell’esistenza di Dio perché, credo, dò per scontato che esista. O forse sono stati quei cinque anni di liceo nel collegio dei salesiani di Alassio dove era pane quotidiano sentire parlare di Dio. La Messa tutti i giorni, le preghiere prima e dopo i pasti, prima e dopo le ore di studio, la buonanotte con il Direttore che ci raccontava un episodio della vita di Don Bosco… Molto semplicemente credo in Dio, non mi torturo l’esistenza nella sua ricerca, nè lo frequento nei luoghi dove lo celebrano e soprattuto non gli rompo le scatole con mille richieste.

Diciamo che siamo amici, un amico non ti giudica, non ti punisce, non ti crea sensi di colpa e non ti rende la vita difficile. In questo Camino mi rendo conto di averlo incontrato un sacco di volte e se ci penso, mi si accapona la pelle.

A spasso per la cittadina, dove quasi tutte le attivita’ commerciali sono all’insegna del “Camino”, capisco che molti di questi paesi sono fioriti, se non addirittura nati, in funzione dei pellegrini. Una fiumana di gente che da inizio millennio si e’ diretta verso Santiago, con il proprio carico di aspettative e che ha condizionato lo sviluppo socio-politico delle regioni attraversate.

14/08/1998 venerdì SARRIA – ARZUA Km.80 Buon compleanno.

Se pedalo forte va a finire che oggi arrivo a Santiago e festeggio due eventi in uno; mancano solo 120 Km.

Faccio colazione seduto al bancone del bar dell’Hostal e sto ad ascoltare le pene d’amore che una ragazza racconta alla sua amica. Lei è sui trent’anni, è innamorata di un uomo che probabilmente è sposato perciò i due non si possono frequentare come desidererebbero; ieri sera è stata ad aspettarlo per ore e lui non si è fatto vivo. E’ agitata, gesticola, fa raffreddare il suo cappuccino e ad un certo punto le si inumidiscono gli occhi.

Fuori una leggera nebbiolina sottolinea la tristezza della giornata che sta per nascere, per cui non posso neanche dirle:”Su, coraggio signorina, guardi che bel sole c’è oggi, non si avvilisca che la vita è bella e poi quell’uomo non la merita”.

Appena fuori da Sarria, la strada comincia a salire e io mi ritrovo completamente avvolto nella nebbia, tanto che non riesco a vedere niente attorno a me; altro che leggera nebbiolina, altro che Galles spagnolo, qui è bassa Padana schietta.

Per tre chilometri di salita ci metto una vita, per la discesa pochi minuti, non recupero la fatica e non mi sembra di andare avanti.

Sono le undici di mattina e la speranza che la situazione migliori se ne è andata con quella di arrivare a Santiago in giornata. Ho le gambe dure, pesanti, e questa successione di sali e scendi mi sta completamente svuotando di ogni energia.

Sono bagnato fradicio, con la bandana messa attorno al collo, anziché sulla fronte, quasi come segno di resa, e comincio a preoccuparmi del mio stato di salute, a pensare a chissa’ quale virus stia insidiando il mio corpo.

Sto costeggiando un fiume, e questo mi dice che sono arrivato a Portomarin, rinomato per il trasferimento della sua Cattedrale, pietra dopo pietra, sull’attuale altura. In origine il paese era nato ai bordi del fiume Mino, ma negli anni sessanta, la costruzione di una diga, rese necessario lo spostamento dell’intera comunità.

Sotto i portici della piazza del paese, senza pudore, cerco di cambiarmi i vestiti che pesano il triplo, abbandonandomi su una panchina vicina all’ufficio postale; non ho fame, non ho voglia di niente, mi sento sperduto e senza risorse per venirne fuori. Nei dintorni della Cattedrale di San Nicola vedo la ragazza svizzera che avevo già incontrato a Santo Domingo della Calzada. Sta morsicando una mela e sbircia verso di me. Oggi non è giornata, lasciatemi stare, sono io il pellegrino in panne, quello che ha i musi lunghi e non vuole parlare con nessuno.

La chiesa è chiusa a quest’ora e non so dove timbrare la Credencial, quando mi si avvicina un ciclista spagnolo, superato qualche ora prima, che in un italiano quasi perfetto mi chiede se so dove sia il Refugio, perché per oggi anche lui ha finito di pedalare. Proviene da Leon, ed è felice di avere fatto i suoi 40 Km. Anche oggi, tenuto conto che è poco più che un neofita della bicicletta. Ha lavorato parecchi anni in Italia, a Montaldo di Castro e ha la mia età, è sposato con due figli e non ha ancora capito cosa lo abbia spinto ad intraprendere questa avventura sul Camino, vista la fatica che sta facendo. E lo dice a me… Mi fa notare che qui in Galizia, il Municipio non si chiama Ayuntamiento come nel resto della Spagna, ma Concello e gli scappa un sorriso ironico su quello che lui considera un vezzo, una mania di autonomia linguistica che rasenta l’esagerazione. Fatti loro, a me basta essere autonomo dentro, nelle mie idee e nei miei comportamenti, ho addirittura dichiarato l’indipendenza dai luoghi comuni e mi sono nominato presidente del mio spazio vitale.

E’ nel Concello de Portomarin che una simpatica segretaria mi mette il timbro sulla Credencial e mi presenta all’Alcade che gentilissimo mi chiede le solite cose.

Signori, si parte, altra salita, altra Coca Cola e, cavolo, ora che ci penso, questo distributore di bibite è addirittura appoggiato al muro di una fattoria qualsiasi. Così come in molte regioni del Nord Italia in ogni casa c’è un lavoratore in nero che arrotonda le entrate familiari facendo le cose più disparate, qui in Spagna si può ben dire che l’attività principale sia la vendita delle bibite.

Vedo la freccia gialla che indica un viottolo sulla destra e allora… crepi l’avarizia e avanti per l’inferno della strada sconnessa, in compagnia dei pellegrini a piedi che come una armata brancaleone affrontano una salita niente male.

Mi rendo conto di non aver più a disposizione rapporti agili per questa salita e che da un momento all’altro potrei mettere il piede a terra, davanti a tutti, soprattutto a quel gruppo di giovani che sembra percepire il dramma che si sta consumando davanti ai loro occhi. No amici, il piede a terra non lo metto, non lo avrei mai messo; anche se non lo sapete, questo campioncino si è fatto il “Giro delle Regioni 1998” classificandosi 45° nella categoria Master 4, ha conquistato il Brevetto dell’Appennino 1998 ed infine si è fregiato del Brevetto Aliparma, sempre nel 1998 .

Questa stradina secondaria mi fa attraversare piccole fattorie sperse tra le verdi colline galiziane, mi fa aspettare che un gregge di pecore abbia sgombrato la via o mi fa procedere lento, assieme alle svogliate mucche che non vogliono saperne di scostarsi. Il fondo è sconnesso e pieno di buche, ma mi piace zigzagare, recuperando un po’ di morale e incominciando allo stesso tempo a sentire l’ora del pranzo.

Mi fermo davanti al cartello appeso ad un albero che elenca le specialità della casa, una casa privata a quanto vedo, trasformata dal proprietario in un punto ristoro. Sono un po’ perplesso, ma un signore basso e grasso mi invita ad entrare e mi fa strada nella sala da pranzo di casa sua dove, attorno ad un tavolo, trovo altri quattro pellegrini.

E’ un simpaticone che per trent’anni ha lavorato come cameriere in Argentina e adesso che è in pensione si diverte a rifocillare i pellegrini in questo paesino dove ha comprato casa.

Va bene, oggi mangio il solito bocadillo e bevo la solita birra e intanto ascolto i discorsi degli altri commensali, due coppie di cui gli uomini viaggiano a piedi, mentre le mogli si spostano su una Land Rover con funzioni di appoggio.

Sono tutti ben vestiti, si vede subito che in loro c’è una certa cura della persona e che al contrario manca sui loro visi quella tensione riconosciuta sui volti dei tanti pellegrini meno organizzati. Ne ho vista tanta di gente viaggiare in quella maniera e non nascondo che non mi sarebbe dispiaciuto avere un mezzo al seguito, e la tranquillita’ che cio’ comporta, ma è evidente che il succo dell’avventura sta proprio nel dover fare fronte agli imprevisti da solo e senza aiuto.

Pedalo ringalluzito, continuando per questa strada indecente anche se potrei rientrare sulla via principale, quando centro un buco enorme e mi si blocca la ruota posteriore, sbando e vado a finire dritto in un fosso al lato della strada. Accidenti che botta! Chissà la bicicletta che danno ha subito; cerco di spingerla verso uno spiazzo più avanti, dove c’è una Land Rover targata Madrid, posteggiata con le due signore del ristoro sedute sull’erba a chiacchierare.

Se avessi un danno irreparabile potrei chiedere loro di accompagnarmi da un meccanico al paese più vicino.

Tolgo le borse, smonto il portapacchi e vedo subito che si è rotto nel punto di fissaggio con la forcella e che, cadendo sulla ruota, l’ha bloccata. Mentre cerco di capire bene che cosa fare, le signore si alzano da terra, salgono sulla macchina e se ne vanno senza neanche dire ciao.

Incredibile. Rimango qui come un fesso, amareggiato. Questa non me l’aspettavo e me la prendo con un ragazzo che è venuto a curiosare. Riesco a riparare il tutto, perche’ il danno non e’ così grave come temevo e riprendo la strada con più cautela, arrivando a Palas de Rei senza altri problemi.

Sto proseguendo in maniera disperata. Il continuo salire e scendere mi ha veramente rotto le gambe, brisè jambes dei francesi, rompepernas degli spagnoli, e non vedo l’ora di fermarmi, anche se sono solo le quattro del pomeriggio.

C’è un Hostal carino alla periferia di Arzua ed a questo punto getto la spugna per andare a rifocillarmi. Sono a quaranta chilometri da Santiago.

Oggi c’è stato un calo di tensione generale da parte mia, me lo aspettavo dopo otto giorni ininterrotti di pedalare. Il fatto che questo viaggio stia per terminare mi immalinconisce e, forse inconsciamente, cerco di prolungare al massimo la mia permanenza in questa terra, allontanando il momento della fine. Potrei proseguire per il Portogallo, potrei continuare all’infinito questa esperienza che mi ha dato giorni indimenticabili, ma ora non è proprio il momento per fare questi discorsi, c’è ancora domani, c’è il trionfo, c’è la “Compostela”.

15/08/1998 sabato ARZUA – SANTIAGO DE COMPOSTELA Km.40 AEREOPORTO Km.14 Uno dei motivi per cui non siamo felici è che passiamo la vita a prepararci per domani; facciamo sacrifici oggi perché “un domani” non si sa mai; quando è domenica ci rattristiamo perché domani è lunedì. Non riusciamo a vivere il presente, l’attimo in cui siamo, così come non riusciamo a vivere lo spazio che stiamo attraversando in quel momento; stiamo sempre andando da qualche parte e quello che conta è arrivarci.

Ora il problema di come e con che mezzo ritornare a casa, mi fa dimenticare che sono ancora sul “Camino”, e soprattutto che sono su una strada che dovrò continuare a percorrere, ma all’interno di me stesso. Stamattina pedalo facile, quasi allegro; vedo i chilometri che scorrono e mentalmente procedo con il count down: meno trenta, meno ventinove, meno ventotto… Sto salendo verso il Monte do Gozo, il Monte della Gioia, chiamato così perché dalla sua cima si vedono le due cupole della Cattedrale di Santiago che indicano la fine del pellegrinaggio. Io non le vedo, c’e’ foschia, ma sono felice lo stesso.

Sulla vetta c’è un grande Refugio, un accampamento composto da tante casermette capaci di ospitare fino a ottocento pellegrini. Il supermercato, la mensa, la lavanderia, la posta offrono tutto il conforto possibile a chi vuole fermarsi per qualche giorno.

Mancano cinque chilometri alla meta, ormai sono alla periferia quando mi supera un furgone rosso, targato Torino, che riconosco essere quello dei ragazzi di Torre del Rio con il loro prete. Non si ferma, accidenti, forse non mi hanno riconosciuto, o forse non avevano voglia di salutarmi. E’ un attimo e si accendono gli stop, tutti saltano giù e mi corrono incontro, mi circondano festosi e io li bacio tutti, sono bellissimi e mi scappa una lacrima.

Lei, felice, mi offre una bottiglia di Coca Cola: “Te la sei meritata”, io ho il cuore in tumulto e non so bene per che cosa.

Ti ringrazio, Dio, per le rinnovate emozioni che avevo dimenticato chissà in quale angolo del mio cuore. Quella che tocco è gioia allo stato puro e nei momenti difficili cercherò di portare la memoria insieme al ricordo in questo posto, sulla strada di periferia di una città che il mio dito indice scoprì per caso su un atlante.

“Ci vediamo alla Cattedrale, allora siamo d’accordo, staremo un po’ insieme e, visto che dovete ritornare domani in Italia, parleremo meglio di come organizzarci”.

Arrivo veloce sulla plaza de l’Obradoiro. La facciata della Cattedrale è coperta dai ponteggi per il restauro e, salita la scalinata, entro nel Portico della Gloria per appoggiare la mia mano destra sull’impronta della mano che si è creata, dopo milioni di gesti analoghi al mio, sulla colonnina che sorregge la statua di San Giacomo. Così andava fatto e tutto il resto non mi interessa, neanche il gesto tradizionale di appoggiare la fronte sul “Santo dos croques”, delle “capocciate”, per ricevere il dono della saggezza. C’è una folla incredibile in questa Cattedrale, è Ferragosto e qui a Santiago è anche la festa del Patrono: è da stamattina che sento il botto dei fuochi d’artificio e che vedo gente vestita con i costumi galiziani andare in giro cantando motivi tradizionali. Esco quasi subito e, nuotando tra famiglie vestite a festa, mendicanti, venditori di cianfrusaglie e raggiungo il centro della piazza. Mi si avvicinano due ragazzi di Parma che, riconosciuti i miei calzoncini della “Matildica”, -una granfondo che ho fatto a Reggio Emilia a maggio-, mi chiedono se davvero vengo dall’Italia in bicicletta.

Devo andare all’Oficina del Pellegrino per ricevere la “Compostela”, ed entrato in un antico palazzo, una suora mi compila la pergamena dopo aver visto e timbrato la mia Credencial.

“ La paz de Dios este’ con todos y mantenga la esperanza del Peregrino para bien de la Cristiandad. Cumplio’ la Peregrinacion.

Santiago, a 15 de agosto de 1998”.

Mentre sto uscendo vedo un uomo che sta raggruppando in una stanza delle biciclette ed e’ a lui che mi rivolgo, per chiedere come fare per tornare a Roncisvalle. “E’ un problema” mi dice, lui non sa bene, crede si debba spedire la bicicletta per ferrovia e che comunque bisogna aspettare lunedi’. Sono sconsolato, incontro la ragazza svizzera e anche a lei chiedo cosa intenda fare per il ritorno; e’ pacifica come sempre, e mi dice che ritornera’ in bicicletta seguendo tutta la costa.

La soluzione arriva improvvisa mentre guardo un cretino vestito da frate e con una enorme bandiera italiana sulle spalle che sta chiedendo l’elemosina, saltellando e gesticolando come un arlecchino. Posso noleggiare una macchina e rientrare comodo con la mia bicicletta nel bagagliaio.

Chiedo ad un poliziotto dove posso trovare un autonoleggio e questi mi fa notare che a Ferragosto sarà difficile trovarne uno aperto. Ormai sono deciso, devo cominciare il rientro oggi stesso, per cui faccio un tentativo all’albergo più importante di Santiago, all’Hostal de los Reyes Catolicos.

Il Concierge è un uomo efficiente, si vede subito. Comincia a telefonare a tutti gli autonoleggi annotati sulla sua agendina; si sta impegnando al massimo, non si scoraggia se nessuno risponde e contemporaneamente distribuisce chiavi di camere e rincorre turisti che scambiano l’albergo per un museo, intrufolandosi da tutte le parti. Probabilmente nota la delusione che si sta dipingendo sul mio volto, perché mi rassicura e mi fa capire che se gli lascio un paio di orette, quella stramaledetta macchina me la prenota.

E’ l’una, sarà meglio che vada a mangiare, tanto qui non c’è niente da fare e mi sto rendendo conto che il viaggio è veramente finito. Domani non pedalerò più, non avrò un altro pezzo di strada da fare.

Quando ritorno all’Hostal, il Concierge riprova a telefonare e finalmente risponde l’Avis che mi riserva un’auto all’aeroporto di Santiago, a condizione che mi presenti entro mezz’ora. Cerco di spiegare che sono a 14 Km. E sono in bicicletta e poi c’è il Monte do Gozo da fare, ma vedo che la sua fiducia nei miei confronti è illimitata, per cui è inutile deluderlo.

Saluto il mio salvatore che si chiama Enriquez e gli lascio una banconota da mille pesetas sul banco; sono un po’ imbarazzato così come lo è lui, ma subito apre un cassetto e mi restituisce una moneta da 500 pesetas e altre cinque da cento pesetas dicendomi:”cambio”. Grande Enriquez, ti ricorderò per sempre.

Addio Santiago de Compostela e addio anche a te dolce giovane amica che forse mi stai aspettando davanti alla Cattedrale, ma non ti sei persa niente, o meglio hai perso qualcuno che è esistito solo su questo Camino e che solo lì potrai reincontrare se mai avrà voglia di ritornarci.

Arrivo all’aeroporto trafelato e mi viene consegnata una Megane blu che subito carico del mio bagaglio.

Sono già sulla strada del ritorno, voglio fare la stessa dell’andata e guardo incredulo i chilometri a ritroso come se si stesse riavvolgendo velocemente il nastro di un film. Non è possibile che io abbia fatto queste salite, non è possibile che abbia percorso tutta questa strada e quando incrocio qualche ciclista che sta spingendo sui pedali mi viene un groppo alla gola.

Ci sono dei nuvoloni in lontananza e all’improvviso entro in un temporale che oscura tutto quanto, che mi isola ancora di più all’interno della macchina. Arrivo a Shagun e non trovo un buco per dormire, sento che il mio Angelo è andato in vacanza e dovrò arrangiarmi da solo; poi mi ricordo che da queste parti avevo visto un campeggio e così è venuto anche il momento di utilizzare la mia tendina che era sembrata solo un peso inutile. Ceno al ristorante del camping e buonanotte a tutti.

16/08/1998 domenica St. JEAN PIED DE PORT Parto da Shagun che è ancora presto e per strada ci sono solo gli spazzini che puliscono dai rifiuti lasciati in abbondanza dalla festa del giorno prima.

All’aeroporto di Pamplona lascio la macchina e di nuovo salgo in bicicletta per andare in centro, alla stazione degli autobus, e cercare così di arrivare almeno a Roncisvalle.

Ma è domenica e la città è deserta.

Trovo un taxista al quale chiedo quanto mi costa un passaggio fino all’Alto de Ibaneta e per 7500 pesetas facciamo l’affare.

Ora dal passo a St. Jean è solo discesa.

La mia macchina è lì che aspetta di riportarmi alla realtà ed io ubbidiente l’assecondo, senza voltarmi indietro, verso i Pirenei.

EPILOGO Non so se sia stato più difficile scrivere questo diario o compiere materialmente il viaggio verso Santiago de Compostela in bicicletta. Gli appunti che avevo scritto su un taccuino, soprattutto alla sera mentre aspettavo che mi portassero la cena, mi sono apparsi subito condizionati dalla stanchezza fisica.

E’ stato necessario quindi ricostruire mentalmente tutto il viaggio, riviverlo interamente, nei pochi spazi che la mia giornata lavorativa mi concedeva.

La cosa certa è che se dovessi compiere un altro viaggio del genere, sarò sicuramente più smaliziato nel prendere appunti, più tempestivo nell’annotare le emozioni nel momento stesso in cui si provano.



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