Aotearoa, a testa in giù tra i Maori

Per arrivare in Nuova Zelanda ci sono volute 24 ore di volo e tre aerei diversi, con scali a Francoforte e Singapore prima di atterrare a Auckland. A volerla vedere da un’altra angolazione, ci ho invece messo oltre quindici anni, perché era dal 1988 (colpa, o merito, di un servizio su un giornale) che sognavo di andare fin laggiù. Mi ero anche...
Partenza il: 03/02/2004
Ritorno il: 22/02/2004
Viaggiatori: in coppia
Per arrivare in Nuova Zelanda ci sono volute 24 ore di volo e tre aerei diversi, con scali a Francoforte e Singapore prima di atterrare a Auckland. A volerla vedere da un’altra angolazione, ci ho invece messo oltre quindici anni, perché era dal 1988 (colpa, o merito, di un servizio su un giornale) che sognavo di andare fin laggiù. Mi ero anche dato una specie di time limit, il 2000, ma non sono riuscito a rispettarlo. Per un motivo o per un altro – troppi soldi, troppo lontano, troppe poche le due canoniche settimane di ferie – mi sembrava un’impresa impossibile. Poi, di colpo, ci siamo decisi (perché nel frattempo ho contagiato la mia ragazza): prima la richiesta di tre settimane di vacanza, poi la prenotazione in agenzia. In fondo bastava volerlo, e il 5 febbraio eravamo arrivati a destinazione.

5-7 FEBBRAIO: AUCKLAND Il viaggio è stato lungo, e massacrante. Ma anche un’avventura nell’avventura, perché noi italiani, insieme ad altri europei, siamo i più lontani in assoluto (12 ore di fuso orario), e pochi hanno voglia di arrivare fin qui. «Down under», giù di sotto secondo la definizione degli stessi neozelandesi, noi siamo merce rara, talmente rara che in venti giorni non abbiamo incontrato nessun altro italiano: onestamente, meglio così.

Sfuggiti alle fauci dell’inflessibile servizio doganale verso l’una del pomeriggio, dopo 45 minuti di fila, sotto un sole estivo ma appena tiepido andiamo a noleggiare la macchina: la Toyota Corolla super accessoriata costa 50 dollari al giorno (meno di 30 euro), un prezzo ottimo. Presa rapidamente confidenza con la guida alla rovescia, pedaggio alle origini anglosassoni del Paese, partiamo in direzione di Coockle Bay, periferia di Auckland, dove ci aspetta il nostro bed and breakfast, prenotato via Internet. Due chiacchiere coi proprietari, simpatici e disponibili, camminata sulla spiaggia, cena a base di pesce in un ristorante lì attaccato, e poi finalmente a letto. Il mattino dopo scopriamo perché la Nuova Zelanda in lingua maori si chiama Aotearoa, che significa «terra della lunga nuvola bianca». Qui infatti arrivano, praticamente senza sosta, tutte le masse nuvolose che si formano nel mare di Tasman, in quei 2.000 km che separano l’Australia dalla Nuova Zelanda. Non trovando ostacoli, le nuvole diventano una presenza stabile: non piove troppo spesso (almeno non su di noi), non è un cielo grigio, ma la nuvolaglia bianca è una costante.

Per il nostro primo giorno a Auckland il cielo invece era proprio coperto e scuro, ma perlomeno non ha fatto una goccia. Seguendo la Tamaki Drive, che offre una bellissima veduta della skyline della città, siamo arrivati in centro, dove abbiamo visitato il porto, i moli dell’America’s Cup (c’erano ancora due barche di New Zealand, credo quelle d’allenamento), l’Università e poi l’immancabile Sky Tower. Alta 328 metri, vicino alla sommità ha uno spettacolare terrazzo panoramico. Per salire si usa un ascensore esterno, di vetro: è impressionante, ve l’assicuro. Una volta arrivati all’Upper Deck si gode di una bellissima vista, a 360°, della città e del golfo di Hauraki, costellato di isolette. Si può anche camminare su un pavimento di vetro, spesso 80 cm, che ha il vuoto sotto. Impressionante anche questo, ma non come vedere la gente che si butta dalla torre (a piedi in giù, non come nel bungee jumping) tra i grattacieli, e atterra nella piazza sottostante. Partito dall’Italia con l’idea di buttarmi anch’io, ho rinunciato subito dopo aver visto le facce di quelli che volavano di sotto. Scesi dalla Tower, dopo un po’ di shopping, optiamo per il Museo, che ci dicono bellissimo: ma è un week-end lungo, di festa, e la zona del museo, un parco, ospita una manifestazione: ci sono centinaia se non migliaia di ragazzi, e non riusciamo nemmeno ad avvicinarci. Vedere tutta questa gente insieme ci permette di capire quanto sia cosmopolita questa città, dove si incrociano persone di ogni tipo: bianchi, neri, gialli, polinesiani. Frequentissime le coppie miste, anche tra anglosassoni e maori, una rarità nel resto del Paese. Mentre il sole fa la sua comparsa torniamo a Coockle Bay: cena e a letto presto: il jet-leg fa ancora sentire i suoi effetti.

8-9 FEBBRAIO: ROTORUA Il sabato mattina salutiamo i padroni di casa e il loro fox-terrier Jessy (qui se si vuole dormire nei b&b bisogna amare gli animali, perché tutti ne hanno almeno uno) e partiamo verso la Coromandel Peninsula, che dista un centinaio di chilometri. C’è un bel sole e possiamo così farci la prima e unica giornata di mare: a Hot Water Beach faccio anche il bagno, il mio esordio nel Pacifico, ma la sabbia bianca, l’acqua celeste e il tunnel naturale roccioso di Cathedral Cove restano il ricordo più vivo di una giornata che segnala anche il nostro primo impatto con il terribile sole di questa zona. Non so se siano la rarefazione e la pulizia dell’aria, o se solo colpa del buco dell’ozono che ha qui sopra il suo epicentro, fatto sta che il sole è implacabile: nonostante le creme mi sono bruciato fronte, naso, mani, braccia e collo, e per una settimana ho perso pelle a brandelli (in faccia mi sono pelato fino alle guance). Ma anche Virna, di chiare origini marinare e abituata al sole, non è stata risparmiata.

Causa questo maledetto week-end di festa, per dormire troviamo posto solo in un bungalow sulla spiaggia che offre troppi servizi che non ci servono: cucina attrezzata, giardino per cenare fuori. Noi, invece, per mangiare qualcosa dobbiamo aspettare il secondo turno al ristorante: un’onesta pizza che arriva verso le 10 di sera.

Il mattino successivo macchina verso sud, in direzione Rotorua, città simbolo della civiltà Maori (gli indigeni di origine polinesiana, primi abitatori di queste isole), dove arriviamo a mezzogiorno. Piove, ma per l’alloggio andiamo a botta sicura (fondamentale la guida «Charming», con indirizzi e foto di centinaia di b&b): il Deer Pine Lodge è pulito e carino, però troppo fuori città (15 km) e ci resteremo solo una notte. Il resto della giornata lo riserviamo alla visita ai bellissimi stabilimenti balneari d’inizio ‘900, i Governement Gardens, ora diventati un museo: questa infatti è una zona vulcanica attiva (il vapore esce persino dai tombini) e quindi termale, con ovunque piscine d’acqua calda e minerale. All’interno del museo c’è pure un settore dedicato al 28° Battaglione Maori, che durante la 2ª guerra mondiale ha combattuto anche in Romagna: molte foto illustrano avvenimenti e protagonisti, comprese quelle dei soldati (ricordo un nome, Werewere Rakuraku) morti a Faenza. Il giorno dopo visitiamo il parco «Rainbow Spring» (flora e fauna locale) dove vediamo il nostro primo e ultimo kiwi, un uccello che vive unicamente in Nuova Zelanda. Non vola, è grosso, lento e impacciato, e quando con l’immigrazione dall’Europa sono arrivati cani, gatti e altri predatori che qui non esistevano, è stata una strage. Per evitarne l’estinzione li stanno trasferendo nelle isole più piccole, alla larga dai loro carnefici. Nel primo pomeriggio andiamo a Hell’s Gate, zona vulcanica per eccellenza, dove è tutto geyser, fanghi bollenti, piscine d’acqua calda, getti di vapore: proviamo un bagno rilassante nell’acqua calda (circa 40 gradi) e fangosa. Ma tra il sole che scotta e l’acqua che bolle, dopo 20 minuti andiamo a farci una doccia fresca.

Alle cinque del pomeriggio partiamo in pullman per la visita al villaggio maori di Tamaki: è tutto ricostruito ad uso e consumo dei turisti, ma bellissimo e suggestivo. Come bellissimo e suggestivo è tutto l’ambiente, che esprime una identità culturale molto forte, e lo spettacolo che ci propongono, che comprende anche l’Haka, danza di guerra resa famosa dagli All Blacks. La serata prosegue con la cena a base di Hangi, carne e verdura bolliti nelle sorgenti calde naturali del terreno. Segue lo show degli autisti dei pullman, rigorosamente maori, che dopo averci insegnato qualche parola nella loro lingua originaria (ricordo solo «kia ora», buona fortuna), si esibiscono in una personale interpretazione dell’Haka.

Una splendida giornata si conclude in un b&b orrendo, che ha pure il letto sfondato: colpa nostra, che volevamo risparmiare e ci siamo accontentati di una camera da 35 euro in due.

10-11 FEBBRAIO: ECCO IL LAKE TAUPO E WELLINGTON Il mattino successivo andiamo ancora a sud, verso il Lago Taupo. Sono solo 90 chilometri, durante i quali ci fermiamo a vedere le rapide di Aratiatia e le cascate chiamate Huka Falls. Verso mezzogiorno siamo a Taupo, troviamo un b&b ad Acacia Bay (molto bello, tutto di legno scuro) e poi andiamo a fare un giro di un paio d’ore in barca sul lago. Niente di speciale se non fosse per la Mine Bay, dove c’è un’incredibile, enorme scultura maori ricavata da una roccia che strapiomba sull’acqua. Ottima cena, merito delle gigantesche cozze verdi che si trovano in questi mari, poi a letto. Quando ci alziamo piove, ma non è un problema, perché oggi in programma ci sono solo i 400 chilometri che ci separano da Wellington, la capitale. Arriviamo nel primo pomeriggio, senza nessuna tappa intermedia, e subito troviamo il b&b: ci ospita Francesca (in realtà Frances), allegra 70enne che non sembra aver paura di niente, tanto che lascia sempre la porta di casa aperta, ma proprio spalancata, anche quando se ne va. Il primo pomeriggio trascorso a Wellington, città francamente poco bella, è un disastro: piove a dirotto e si fatica ad uscire dalla macchina, la colonia di pinguini promessa dalla guida è una chimera (in vita sua non li ha mai visti nemmeno Francesca): per fortuna il Fisherman’s Wharf cucina del buon pesce. Il giorno dopo invece c’è il sole, e possiamo visitare la città con tranquillità: non che ci sia tantissimo da vedere. Il centro è solo carino, e passiamo tutta la giornata dentro a due musei: il Museum of Wellington, incentrato sulla storia e lo sviluppo della città, ed il Te Papa, che ci porta via oltre quattro ore. Sviluppato su sei piani, nei primi si occupa soprattutto di animali e piante locali, mentre i settori più interessanti sono quelli relativi alla cultura maori e alla colonizzazione europea dell’800. Carini anche gli ultimi piani, riservati ad artisti contemporanei kiwi (che vuol sempre dire neozelandesi). La cena a base di pesce della «Tug boat», rimorchiatore trasformato in ristorante, è semplicemente fantastica.

13 FEBBRAIO: LO STRETTO POI ARTHUR, ABBONATO LONTANO Venerdì mattina salutiamo la North Island, lasciamo la Toyota (dopo 1.330 km e non senza rimpianti), e traghettiamo verso l’isola del Sud superando lo stretto di Cook. Per attraversare il tratto di mare che separa le due isole principali della Nuova Zelanda ci vogliono circa tre ore. Prima dell’una siamo a terra, e l’addetto della «AeB» ci aspetta (il cartello recita «Mr Baravelly») per consegnarci la nostra macchina: una Nissan station vagon stagionata ed ammaccata, che emette strani cigolii. Costa poco, nemmeno 20 euro al giorno, e si capisce il perché, ma col senno di poi dobbiamo ammettere che si è ben comportata. Caricati i bagagli partiamo verso Nelson. Sono impaziente perché in quella città ho un compito da svolgere: portare l’ultimo numero di «sette sere» ad Arthur Gladstone, il nostro abbonato più lontano.

Arriviamo a casa sua verso le 3.30 del pomeriggio: quando viene ad aprire, ovviamente diffidente, gli mostro la copia del giornale, ed il ghiaccio è rotto. Ci invita ad entrare, e restiamo lì per un paio d’ore a chiacchierare in italiano. Due bellissime ore in compagnia di una persona disponibile e gentile: vuole sapere tutto su Faenza, sui suoi amici romagnoli, su Giuliano Bettoli e famiglia. Quando accenniamo alla moglie faentina, Antonietta Dalmonte (che ha conosciuto durante la guerra) morta lo scorso anno, la sua voce si rompe per l’emozione, e quindi successivamente cerchiamo di evitare l’argomento. Verso le cinque arriva Timothy, uno dei dieci figli di Arthur: di questi solo tre abitano nella zona di Nelson, mentre gli altri sono sparsi per la Nuova Zelanda e tre in Australia. Un po’ di chiacchiere anche con lui, che non capisce minimamente l’italiano, poi dopo le foto di rito togliamo il disturbo e lasciamo Arthur alla lettura di «sette sere»: quando siamo arrivati aveva in mano la copia datata 31 gennaio, stavolta il postino, devo ammettere anche con una certa emozione, gli ha consegnato un numero più «fresco». 14-17 FEBBRAIO: WEST COAST La nostra direzione originaria è il sud, ma ci concediamo una breve digressione verso l’Abel Tasman Park, famoso per le spiagge dorate. Ha piovuto tutta la notte, ma quando ci arriviamo c’è il sole ed il panorama, tra l’oro della sabbia, l’azzurro del cielo e il celeste dell’acqua, è mozzafiato. Ci concediamo un’ora di sole e poi ripartiamo. Direzione West Coast, la zona più fredda e spopolata della Nuova Zelanda. Riusciamo a percorrere circa 400 chilometri di strade strette e deserte, spesso scavate nella roccia delle Alpi neozelandesi, che praticamente finiscono in mare. Curiosi e pericolosi i ponti: sempre a una corsia anche se i sensi di marcia sono due, spesso tre. Infatti ci sono anche le rotaie, perché da lì può passare anche il treno…

Verso mezzogiorno inizia a piovere, alle due è un diluvio, che in pratica ci impedisce di vedere le Pancake Rocks, una scogliera famosissima. Ci si arriva a piedi dopo una breve passeggiata: ma viene giù talmente forte che in cinque minuti siamo fradici, mentre la visibilità si azzera. Per fortuna un’ora dopo arriviamo a Greymouth, dove ci aspetta un b&b accogliente e soprattutto caldo, perché abbiamo acceso il riscaldamento elettrico. Ci stiamo avvicinando all’Antartide (solo la Patagonia ha una latitudine più bassa) e la temperatura è scesa parecchio. E’ il sabato sera della morte di Pantani, cioè San Valentino: ma nel nostro ristorante, più che altro una tavola calda, non frega niente a nessuno.

Il mattino successivo la West Coast ci mostra la sua faccia gentile: c’è il sole e la temperatura è buona, tempo ideale per i 520 km che dobbiamo affrontare per arrivare a Wanaka, porta d’ingresso del Fiordland, il parco naturale più meridionale dell’isola, una specie di Norvegia australe.

Nel tragitto vediamo prima la città mineraria di Shantytown, poi i 3.700 metri del Monte Cook, i ghiacciai Fox Glacier a Franz Josef, l’Haast Pass, le altissime cascate Thunder Creek Falls e il lago Hawea, azzurro come il cielo. Arriviamo a Wanaka verso le sei, stanchi e affamati. La cena è discreta, il b&b bellissimo, ed i proprietari incarnano perfettamente quello che sembra essere lo spirito kiwi. Rilassati, tranquilli, vivono una vita decisamente meno stressante della nostra. Non sembrano particolarmente interessati a far soldi: dopo averci accolto in casa, nonostante abbiano altre camere libere, piazzano il cartello «no vacancy»; resteremo da loro due notti, e non lo caveranno più. Ci chiedono dell’Italia, di noi, delle nostre occupazioni. Quando gli dico che abitiamo vicino a Bologna la moglie confessa di non conoscere nessuna città italiana: solo quando tento con «e Roma?» gli occhi le si illuminano per un attimo.

Il mattino dopo sveglia anticipata perché ci aspetta il tour del Milford Sound, uno dei fiordi più belli e visitati. Andremo con un piccolo aereo (sei posti) in un’ora di volo, poi gita in barca (due ore) nel fiordo e ritorno sempre in aereo. Partenza prevista alle 9. Ma non si decolla: hanno sbagliato con la prenotazione, è ovvio, ma l’impiegato se la prende col maltempo. Che non c’è e non c’entra nulla: infatti alle due del pomeriggio, nuovo orario di partenza, è decisamente brutto, ma si va lo stesso. Per arrivare al fiordo bisogna attraversare montagne piuttosto alte: il nostro piccolo aereo non può sorvolarle, e quindi ci passiamo in mezzo. Solo che piove, ci sono nebbia e nuvole, insomma si vede poco o niente. Il pilota dice che è normale, che lì il tempo è sempre così. Ma non ci crede nessuno: dopo venti minuti l’allegra brigata (noi due più tre austriaci) si è trasformata in un gruppo di musoni che non vedono l’ora di scendere.

In qualche modo all’ora prevista, e tra i sorrisi del pilota, arriviamo a destinazione. Ma piove anche là, e nonostante la faccia tranquilla ci annuncia che la gita in barca ce la possiamo scordare: ci concede una passeggiata di 20 minuti, poi si torna a casa. Così abbiamo giusto il tempo di scattare qualche foto, di vedere il Milford Peak, una montagna di 1.600 metri che si alza dal mare proprio all’ingresso del fiordo, e di capire che questo Milford Sound non è un posto da umani. Qui gli uomini ci vengono, sorvolando o attraversando (c’è anche una tortuosissima strada di 120 km) una foresta fitta e talmente umida da apparire nera, lo visitano, lo ammirano, poi se ne vanno. Non c’è niente, solo la pista per l’atterraggio, il molo per le barche e un piccolo Lodge per quelli che per qualche motivo sono costretti a passarci la notte. Il resto sono montagne, fiumi, decine di cascate, foreste di felci (la pianta simbolo della Nuova Zelanda). Il trionfo della natura, semplicemente.

Dopo i nostri venti minuti d’aria ripartiamo: facce scure al decollo, e per il primo quarto d’ora. Poi all’improvviso le nuvole si alzano: piove ancora un po’, ma possiamo attraversare le montagne in scioltezza e il nostro pilota, ormai asceso al ruolo di eroe, si concede anche qualche numero, come dei giri a 360° per farci ammirare meglio il panorama. Una volta tornati a Wanaka ci rimborsano i soldi della crociera saltata.

Verso sera spunta fuori il sole, e ce lo ritroveremo anche il giorno dopo, quando lasciamo la West Coast per puntare verso la costa orientale. Salutiamo le Alpi, tagliamo in due l’isola attraverso l’Ida Valley (location del Signore degli Anelli, in particolare del villaggio di Rohan) ed arriviamo nell’Otago Peninsula. Ci fermiamo a vedere Dunedin, città bellissima i cui edifici non nascondono l’origine dei fondatori scozzesi; poi entriamo nella penisola, un vero paradiso naturale, dove vediamo, tra gli altri, i pinguini dagli occhi gialli. La sera, dopo una sosta a Moeraki Beach (ci sono enormi massi perfettamente rotondi adagiati sulla sabbia da qualche milione di anni) dormiamo a Oamaru, atipica città con stupendi palazzi di arenaria bianca. La cena, invece, causa una salsa indegna, è stomachevole.

18-19 FEBBRAIO: FINALMENTE LE BALENE DI KAIKOURA Mercoledì 18 ci aspetta l’ultimo trasferimento: 440 chilometri fino a Kaikoura, dove speriamo di vedere le balene. Non ci siamo riusciti in Sud Africa, ma giovedì 19, verso le tre del pomeriggio, arriva il nostro turno. Siamo a bordo di una barca provvista di sonar: dopo diversi minuti d’attesa e qualche giro a vuoto, una balena emerge e si lascia vedere. La seguiamo, a circa 50 metri di distanza, per mezz’ora. Fotografie come se piovesse da parte di tutti i turisti, specialmente quando si immerge mostrando la sua gigantesca coda. Nel corso della giornata ne vedremo anche un’altra, ma appena scovata si è inabissata. Tra una balena e l’altra avvistiamo anche un albatros reale, uccello che ha un’apertura alare di circa tre metri, e soprattutto un branco di delfini «dusky». Per colorazione più simili alle orche (sono bianchi e grigio-neri), quando ci vedono circondano la barca e sembra di essere finiti al circo: salti, spanciate, tuffi carpiati, corse a zigzag, passaggi sotto la barca. Sono circa 400 esemplari, ci dicono, e lo spettacolo è veramente emozionante, indimenticabile.

Dopo una sbornia del genere non ci resta che tornare in porto: un successo su tutta la linea, anche la tenuta dei nostri stomaci nonostante il mare non proprio piatto. 20-21 FEBBRAIO: L’ULTIMO GIORNO A CHRISTCHURCH Siamo quasi arrivati alla fine: venerdì mattina partiamo verso Christchurch, dove sabato prenderemo l’aereo per l’Italia, e ci arriviamo in mattinata, dopo circa 200 chilometri. Passiamo qualche ora in centro per una rapida visita della città, di chiaro stampo anglosassone anche questa, poi dopo cena (bruschetta, zuppa di pesce e ciliegie) cerchiamo un motel. Ne troviamo uno un po’ scassato, ma è vicino all’aeroporto e alla compagnia di noleggio dove dovremo restituire la macchina (questa dopo 2.400 km). La proprietaria del motel sembra la strega cattiva, tutta vestita di nero e con stopposi capelli grigi che vanno da tutte le parti tranne che in quella giusta. Ma è molto gentile, e ci prenota anche il taxi che il mattino seguente, alle 6, ci porta in aeroporto. Ci aspettano altri quattro aerei (scali ad Auckland, Singapore, Francoforte e Bologna) per un totale di 26 ore. Durante l’interminabile ed insonne viaggio di ritorno, mentre la Nuova Zelanda sta già assumendo i tratti di un fantastico ricordo, sento che la tristezza affiora: un sogno realizzato è un sogno finito, andato, perso per sempre, e nel mio cassetto ora si sta più larghi. Ma mentre sorvoliamo il deserto australiano mi ritrovo a pensare, citando uno che conosco bene, che la ruota gira velocemente, e noi con lei. Domani, sono sicuro, sarà già tempo di sognare qualcos’altro. massimiliano p.S. Ho letto reportage, pur molto interessanti, dove si critica la qualità dei b&b neozelandesi e si consigliano i motel. Non sono d’accordo per due motivi: il primo è che basta non scendere sotto uno standard minimo (tipo 90 dollari nz, cira 50 euro a camera) per trovare sistemazioni davvero ottime. Camere pulite, eleganti, colazioni eccellenti. Il secondo: la gente nei b&b è a dir poco ospitale. Ci hanno aiutato in un sacco di modi, sempre gentili volevano fare conversazione, raccontare ed alcoltarci. Nei motel un tipo di familiarità così non lo si può trovare, in nessun caso. Io tornerei in Nz solo per la gentilezza della gente che ho conosciuto nei b&b durante quelle splendide tre settimane.



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