Il viaggio di Vittorio e Patrizia

Periodo di viaggio: 25 settembre / 09 ottobre 2009 Costo (compreso di souvenir e stampa foto) €. 2.300,00 a testa Viaggio Fly and drive organizzato in proprio rubando idee agli altri viaggiatori tramite i loro resoconti pubblicati in internet. Come per ogni viaggio è utile anche la lettura (se non proprio studio) di libri sulle popolazioni e...
Scritto da: Vittorio A
il viaggio di vittorio e patrizia
Partenza il: 25/09/2009
Ritorno il: 09/10/2009
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
Periodo di viaggio: 25 settembre / 09 ottobre 2009 Costo (compreso di souvenir e stampa foto) €. 2.300,00 a testa Viaggio Fly and drive organizzato in proprio rubando idee agli altri viaggiatori tramite i loro resoconti pubblicati in internet.

Come per ogni viaggio è utile anche la lettura (se non proprio studio) di libri sulle popolazioni e la storia del paese.

Voli, albergo e campeggi prenotati tramite Internet. Alcuni hanno un proprio sito presso cui prenotare mentre per altri è necessario utilizzare il tramite di organizzazioni che si occupano di turismo. In ogni caso il servizio è molto efficiente. Noi per alcune prenotazioni ci siamo avvalsi della collaborazione di Erika della Cardbox travel shop (lodges@namibian.Or) .

Anche il fuoristrada può essere tranquillamente prenotato su internet. Tutte le maggiori società di noleggio del paese hanno un proprio sito. Ne esistono moltissime, specializzate nel noleggio di fuoristrada con attrezzatura da campeggio, vagliate con ognuna i costi e le attrezzature che più fanno al caso vostro e considerate che con ciascuna di loro per tutto ciò che non è chiaro, non è riportato sul sito, od anche solo per le domande varie, basta scrivergli. Avrete risposte sempre molto veloci e precise.

Tra le cose utili da avere c’è il frigorifero alimentato da una seconda batteria, il compressore 12 V alimentato con l’accendisigari e le taniche di riserva per acqua e benzina. Per tutto il resto dell’attrezzatura, dal numero di posate ai cuscini, scegliete quello che volete dagli elenchi di materiale messo a disposizione dalle società di noleggio.

La nostra scelta di viaggiare, laddove possibile, in modo autonomo senza tour operator nasce dalla voglia di libertà di movimento. La libertà di non dover rispettare rigidi orari, sequenze e comportamenti. La libertà, quindi, di potersi fermare un’ora in più in un villaggio o di allungare una sosta per gustarsi meglio un panorama, di saltare un pasto per recuperare il tempo passato a parlare con una persona o di andare a mangiare nel locale che più ci colpisce sul momento. Quello in Namibia, da soli con un fuoristrada ed una tenda, è un viaggio adatto agli amanti della natura ed ai curiosi delle altre culture. Un viaggio che può essere apprezzato in pieno da chi ama gli spazi aperti ed il silenzio, sa adattarsi alla vita del campeggio ed è pronto ad affrontare gli imprevisti. Un viaggio che deve riconciliare con il ritmo della natura e che deve essere fatto senza fretta e senza preconcetti e giudizi sulle popolazioni e le loro culture.

Non presenta particolari difficoltà a meno che non scegliate quei percorsi particolarmente impegnativi che presuppongono una buona esperienza di guida in fuoristrada. In quel caso oltre alle conoscenze tecniche, meccaniche e di orientamento è bene avere il supporto/appoggio di più mezzi, quindi da non fare se si vuole andare da soli. Seguendo la normale viabilità non troverete particolari problemi, le strade sono tutte ben segnalate ed anche i distributori ed i market, benché non numerosissimi, sono sufficientemente distribuiti.

Assolutamente sconsigliato a chi, da un viaggio, vuole il divertimento ed il brio dei locali alla moda, la confusione dei centri commerciali, la sicurezza di un ambiente simile a quello in cui ci muoviamo tutti i giorni. Sconsigliato a chi non trova bello viaggiare per ore ed ore nel mezzo allo stesso paesaggio, a chi non sa apprezzare il piacere di stare a sedere sotto una pianta nella solitudine e nel silenzio di una natura incontaminata.

Un compromesso può essere rappresentato dai quei viaggi organizzati in cui non si deve pensare a nulla, che prevedono comodi trasferimenti e pernottamenti in strutture ricettive con molte stelle.

Ma riteniamo che questa soluzione impedisca di avvicinarsi in modo soddisfacente al paese visitato, di avere contatti diretti con la realtà che si osserva da dietro i finestrini dei fuoristrada o degli autobus.

Per quanto riguarda il bagaglio molto dipende dalle proprie abitudini di viaggio, comunque volendo dare un indicazione per questo periodo, possiamo dire, prima di tutto, che viaggiare in Namibia non richiede abbigliamento ed attrezzatura da eroe di film d’avventura. E poi ci sono i negozi. Che spesso, all’estero, sono anche una buona occasione di contatto e conoscenza della cultura locale. Se lo avete già, come nel nostro caso, portate pure anche abbigliamento da trekking (leggero, comodo e funzionale) ma in mancanza vanno benissimo i normali pantaloni, bermuda, magliette e scarpe che indossate nella nostra primavera/estate.

Tranne il caso in cui programmiate una o più lunghe escursioni a piedi (dove e con chi è possibile farle) vi troverete a passare molte ore del giorno in auto e le sere e le notti in campeggio. E nelle altre situazioni camminerete, tanto nei paesi quanto nel bush, su terreni molto facili. Nella capitale, nell’Etosha e nel Nord fa da caldo a molto caldo sia la notte che il giorno (le notti non siamo mai scesi sotto i 18/20 gradi). Quindi abbigliamento estivo, al limite una felpa di cotone per un eventuale sera più fresca e qualcosa per una possibile pioggia (ci avviciniamo alla prima delle stagioni piovose). Da tenere presente che in caso di pioggia difficilmente starete fuori dal fuoristrada o dalla tenda; Sulla fascia costiera e nel deserto con il tramonto la temperatura inizia a scendere fino ai 5/10 gradi della notte. In questo caso qualcosa di più pesante e’ necessario. Già con la metà della mattina le temperature tornano accettabili e poi calde.

Con tutto ciò vogliamo dire che, anche se chi viaggia in campeggio e non frequenta alberghi a 4 o 5 stelle lo sa bene, è inutile portarsi ricambi numerosi e firmati.

Una cosa che consigliamo è questa: ridurre il più possibile il bagaglio per portare con voi materiale da regalare. Noi abbiamo portato materiale scolastico ma vi chiederanno molto spesso anche magliette, ciabatte, pantaloncini. Se volete fare dei doni optate per queste cose e non per i soldi. Sarete più sicuri che la vostra generosità non finisca in bottiglie di birra. Per una buona fetta di popolazione l’alcolismo rappresenta una piaga sociale.

Un indicazione sull’abbigliamento può essere: • Giacca a vento / Pile / Maglia di media consistenza / T Shirts manica lunga / T Shirts manica corta / Pantalone lungo e corto (molto comodi i pantaloni per trekking con cerniera per trasformarli in pantaloni corti) / Costume da Bagno / Intimo / Intimo termico / Pigiama / Berretto / Cappello / Scarpe (scarponcino trekking e scarpa ginnastica) / Ciabatte / Asciugamano Per gli oggetti utili: • Occhiali da sole / Macchina Fotografica / Schede di memoria / Caricabatterie da auto universale per macchina fotografica, cellulare e lampada frontale / Zainetto Supplementare / Crema solare / Set per l’igiene / Phon da viaggio / Salviettine / Repellente insetti (mai usato, in questa stagione se ne può fare a meno) / Dopopuntura / Gel disinfettante (tipo Amuchina) / Torcia Elettrica (meglio lampade frontali) / Piccolo Dizionario Inglese / Mini-Kit per cucito / Coltello Multi Uso (Da Non Mettere Nel Bagaglio A Mano) / Sveglia da Viaggio / Adattatore Corrente / Occhialini e cuffia piscina / Buste plastica per proteggere indumenti ed accessori (la sabbia del deserto entra ovunque) / kit di vari medicinali, cerotti e garze, disinfettanti

1° giorno 25.09.2009 • Partenza da Grosseto con il treno delle 13:32 • Arrivo a Roma Trastevere alle 15:30 • Trastevere – Fiumicino • Check-in • Volo Roma – Francoforte: partenza 19:35 / arrivo 21:35 • Volo Francoforte – Joannesburgh: partenza 22:35 – arrivo 10:10 (del 26.09) • Volo Joannesburgh – Windhoek: partenza 13:20 – arrivo 15:20 Finalmente ci siamo. È arrivato il grande giorno, quello della partenza. L’inizio del viaggio che ci deve rinfrancare dalla stanchezza di mesi passati alternandosi tra il lavoro e l’impegno tra i terremotati in Abruzzo.

Per arrivare ad Windhoek abbiamo dovuto prendere 3 voli: prima tappa Roma-Francoforte, seconda tappa Francoforte-Joannesburg, terza tappa Joannesburg-Windhoek.

Il primo volo parte da Fiumicino alle 19:30. Abbiamo deciso, per maggior tranquillità di prendere il treno che parte da Grosseto alle 13:30. Arriveremo a Roma con molto anticipo, ma non si sa mai…! E puntuale l’imprevisto si materializza. A poche fermate da Fiumicino, per la precisione a Ponte Galeria, il treno si ferma e ci viene comunicato che non ripartirà! Due fermate più avanti un ragazzino è finito sotto il treno. Linea interrotta. Non rimane che ricorrere a mezzi alternativi. Con immenso piacere, ed anche stupore, dei molti passeggeri diretti a Fiumicino, ci viene detto che non ci sono autobus per l’aeroporto. Solo una compagnia effettua la corsa ma non ci è dato di sapere se e quando passa. Di colpo la strada di fronte alla stazione si trasforma in una scena da attacco alla diligenza nel miglior stile western all’italiana. Tutti i taxi vengono praticamente costretti a fermarsi e caricare numeri incredibili di persone e bagagli. Finalmente, dopo l’immancabile discussione con il burino di turno, riusciamo a conquistare, insieme ad altre tre persone, il nostro mezzo di trasporto. Riusciamo ugualmente ad arrivare in orario sulla tabella di marcia prevista anche se al costo di 7 euro cadauno. Ma ci vogliamo rovinare la vacanza per così poco? È solo il secondo inconveniente. Stavo dimenticando di dire, infatti, che il giorno prima di partire sono dovuto rimanere mezza giornata a letto per uno sconosciuto malessere che mi ha procurato vertigini e nausea. Malessere che unito al problema menisco e legamenti, acuitosi proprio nella settimana della partenza, ha fino all’ultimo messo in dubbio la stessa.

Ma abbiamo tutta la vacanza davanti e quindi la forza ed il coraggio sono con noi. Così come è con noi pure la paura per il rischio smarrimento bagagli. Tre aerei, uno dei quali che parte a solo un’ora dall’arrivo dell’altro non aiutano certo ad avere la tranquillità di rivedere subito le nostre valigie arancioni a destinazione. Non possiamo far altro che sperare!!!! Quindi check-in, metal detector e imbarco. Ci siamo. Il volo parte.

Dopo la cena ed un piccolo riposino inizia la fase di atterraggio a Francoforte. Dalle informazioni prese su Internet il volo per Joannesburgh sembrava dovesse partire dallo stesso terminal a cui arriviamo. Proprio per niente. Noi arriviamo al Terminal A e l’altro volo parte dal Terminal C. Speriamo che non siano molto distanti perché un’ora non è poi tanta, considerando un possibile ritardo e la necessità di imbarcarsi almeno 20 minuti prima. Quindi un’ora diventa mezz’ora!!!! Ebbene, per chi non lo sapesse, e noi lo abbiamo appreso nell’occasione meno opportuna, l’aeroporto di Francoforte è enorme e andare dal terminal A al C è come farsi una passeggiata da Lucca a Viareggio. E come se non bastasse, tra gli oltre 60 gate del terminal A, il nostro aereo ha visto bene di parcheggiare al 48. Così ci siamo fatti una maratonina per i corridoi, sfrecciando sui tapis-rulant, ansimando sulle scale mobili e riprendendo fiato sul trenino. Passando per le “forche caudine” del controllo al metal detector. La serietà ed il rigore tedesco trovano applicazione anche in questo caso. Ogni bagaglio è guardato con accuratezza, fotografato per tutti i versi e riguardato “un si sa mai…”. Così nel tempo che loro controllano una persona a Roma passa un intero autobus di persone (con armi di tutti i tipi ).Giusto il tempo di rinfilarsi la cintola in corsa (mica facile!) e via per lo sprint finale che ci vede arrivare all’imbarco come una coppia di velocisti sulla linea del traguardo, accompagnati dallo sguardo divertito degli addetti. A questo punto una comoda poltrona per riposarsi è quel che ci vuole e quindi … Sorpresa!!!!! L’aereo non è dei più moderni, non ha il televisorino per guardarsi due film, ma soprattutto a me capita una poltrona morbida come una panca di legno. Meno male che non usano quell’ aria condizionata esagerata che spesso troviamo negli aerei; così posso usare coperta e cuscino per ammorbidire la seduta e dare un pò di sollievo alle mie chiappe.

2° giorno 26.09.2009 • Noleggio auto: African Tracks – Pettenfoker Street nr. 10, Windhoek West (www.Africantracks.Com); Toyota Hilux 4×4 single cab, equipaggiamento da campeggio per due persone, doppia batteria, frigo, compressore, taniche di scrota per benzina ed acqua, doppio serbatoio, copertura assicurativa completa. Costo per 12 giorni 13.030,00 Nad • Noleggio Gps: all’aeroporto “Be local” (www.Be-local.Com). Costo per 13 giorni 1.090,00 Nad • Pernottamento al Rivendell Guest House – Beethoven Street – costo N$ 290 a testa Dopo 10 ore di volo arriviamo a Joannesburgh. Qui il tempo di attesa per il volo successivo è maggiore (3 ore) e quindi ce la possiamo prendere calma. Ne approfittiamo anche per un giro nei negozi, tanto per avere un primo contatto con la realtà del continente Africa.

Giusto un’osservazione. Ancora una volta ci dobbiamo stupire della pulizia dell’aeroporto, in tutti i luoghi, dai corridoi ai bagni, dai finestroni alle poltrone. Possibile che debba succedere tutte le volte che abbandoniamo l’Italia? È proprio impossibile, da noi, tenere puliti i luoghi pubblici???? Comunque, dopo l’ulteriore controllo al metal detector (mi devo ricordare di cercare una cintola di gomma) si parte per la destinazione finale. In volo iniziamo a prendere visione di ciò che nei giorni successivi diverrà una linea costante. La linea delle strade. Una linea appunto!!!!!! Chilometri, chilometri ed ancora chilometri di linee rette sperse nel nulla che ogni tanto, ma molto tanto, si incontrano con altre che arrivano da chilometri, chilometri ed ancora chilometri di linea retta. E non c’è una macchina!!! Mah!!!!! L’aeroporto di Windhoek è un’altra sorpresa. Non si vede!!! Mi spiego meglio. Durante tutta la fase di atterraggio si vede solo savana e deserto. Solo nel momento in cui l’aereo tocca terra si inizia ad intravedere qualche manufatto umano. Una staccionata, una via asfaltate ed il terminal. Sembra di dover atterrare in un campo. Scendiamo dall’aereo nel mezzo alla pista, ci facciamo una passeggiatina nel caldo africano (che sole!!!!!!) e nel giro di 5 minuti sbrighiamo le pratiche per l’ingresso in Namibia e ritiriamo i bagagli. Ci sono. Ma con i tedeschi non poteva essere diversamente.

Sono quasi le tre di pomeriggio. Quindi quasi 26 ore da quando siamo partiti da Grosseto.

Nell’atrio dell’aeroporto ci attende il ragazzo di colore della Africaan Tracks (la compagnia presso cui abbiamo noleggiato il fuoristrada). Prima ci accompagna a fare il cambio dei soldi e poi via verso la città (che dista 40 minuti) a ritirare il nostro mezzo. Neanche il tempo di partire che riceve la telefonata di quella che capiamo essere la sua “capa” durante la quale si ricorda, anzi gli viene ricordato, che all’aeroporto dovevamo prendere il Gps. Ops!!!! Dietrofront!! Ariparcheggio!!!! E via a ritirare la “signorina Garmin”. Meno male che si sono ricordati, altrimenti saremmo dovuti tornare il giorno dopo. Che culo!!!! Belli soddisfatti con il prezioso navigatore tra le mani ripartiamo per la capitale. 30/40 minuti in cui prendiamo visione di un primo scorcio di Namibia e “ci”, mi correggo, Patrizia si fa raccontare qualcosa dal ragazzo.

Il primo impatto con Windhoek ci mostra in tutta la sua crudezza, per il significato che ha in se, cosa è una città segnata dall’apartheid e dalla conseguente violenza e lotta di classe. Tutte le case e gli immobili dove sono le attività dei “bianchi” sono cinte da muri altissimi sui quali corrono fili spinati e fili elettrificati. Una vita in trincea a difesa del potere di sfruttamento!!!!! E ci stupisce a fa sorridere la presenza, in pieno deserto come siamo, di case in puro e perfetto stile bavarese, con tanto di tetto spiovente (un si sa mai la neve potesse creare problemi) e giardini curatissimi. Un affronto nei confronti delle case dei neri. Una lunga sequenza di case simil-baracche che sembrano cubi con le finestrelle.

Al di là di questo, il sabato pomeriggio, in cui è tutto chiuso come da noi la domenica, ci regala una città dagli ampi viali senza traffico. Il nostro autista ci porta prima al nostro albergo in modo da mostrarci la strada per ritornarci una volta presa l’auto. Ce la dovremmo fare, non sembra difficile. Sono appena due vie di distanza.

Alla African Trucks conosciamo Valerie, la ragazza con cui abbiamo, Patrizia ha avuto, rapporti per e-mail.

Professionale ed efficiente. Peccato che per uno come me che non parla inglese molto bene, anzi per niente, non è proprio un giochetto capire le spiegazioni per l’utilizzo di un fuoristrada e dell’attrezzatura da campeggio. Speriamo che capisca qualcosa Patrizia. Io mi affido alle mie conoscenze in campo motoristico per il fuoristrada, alle settimane al camping Bazzano per l’aspetto campeggio ma anche, e soprattutto all’intuito ed al buon senso. Tutte cose che però non hanno impedito di porre le basi per uno dei brividi di questa vacanza.

Comunque, dopo un controllo accurato, ci consegnano la nostra Toyota Hilux single cab. Peccato che non è diesel come avrei voluto da buon amante delle macchine a gasolio. Anche perché un 2700 a benzina non è certo il massimo di economicità in quanto a consumo. Meno male che il costo della benzina non è come da noi. E via per l’avventura, che poi sarebbe il ritrovare l’albergo a due isolati di distanza. Con mio stupore mi rendo conto di non essere a disagio nella guida a sinistra. Le varie precedenti esperienze riemergono fuori inconsciamente.

Il Rivendell Guest House è molto carino ed accogliente. La nostra camera è a piano terreno, con una grande vetrata che da sul posto dove abbiamo parcheggiato la macchina, un lettone morbido con tanto di piumino (che dormita che ci aspetta!!!!) ed un angolo bagno a cui si accede con una porta stile saloon.

Da menzionare il fatto che a Windhoek è vivamente sconsigliato parcheggiare per strada.

Il resto della Guest house comprende una rilassante piscina, una cucina comune ad uso dei turisti ed una serie di viottoli ricchi di piante dai molti colori.

Per la cena vogliamo andare in centro in un ristorante molto menzionato nei resoconti di molti viaggiatori ma da una parte il consiglio, per motivi di sicurezza di non avventurarsi da soli di notte in centro città, dall’altro la stanchezza, ci inducono ad una scelta ben diversa. L’albergo offre, in collaborazione con ristoranti vicini, un servizio di prenotazione e consegna pasti. Senza dover affrontare la fatica della scelta prendiamo il primo della lista. E così ci mangiamo due pizze a bordo piscina e poi a tuffo nel lettone. La nostra schiena ringrazia. Noi invece ringraziamo un po’ meno gli autori di tante riviste e guide che indicano per il periodo fine settembre inizio ottobre temperature molto più fredde di quelle che abbiamo incontrato. Per la prima di tante volte li malediremo pensando a tutti i vestiti più pesi che sicuramente non metteremo. La notte in camera ci saranno stati 25 gradi. Io da buon freddoloso d.O.C.G. Ho goduto per il caldo imprevisto. Ma una valigia più leggera l’avrei portata volentieri.

3° giorno 27.09.2009

Windohek – Etosha (Namutomi) • Windhoek – Okahandja: B1 dir. Nord per 66 km • Okahandja – Otjiwarongo: B1 dir. Nord per 171 km • Otjiwarongo – Otavi – Tsumeb: B1 dir. Nord/est per 181 km • Da Tsumeb B1 dir. Nord/ovest per 74 km fino ad incrocio con C38 • Proseguire sulla C38 per 36 km fino ad ingresso al Namutomi • Totale di 528 km su strada asfaltata. Limite sulla B1 di 120 km/h • Ingresso al parco N$ 510 (N$ 80 al giorno per persona + N$ 10 al giorno per la macchina) • Pernottamento al Namutomi Camping: Costo tot. N$ 400 (N$ 199 per la piazzola + N$ 99 a persona) La tabella di marcia, scrupolosamente preparata a casa, prevedeva la partenza alle ore 7:00 e la colazione durante il tragitto. La tappa odierna è molto lunga e la prima su strade sconosciute. Ma presi da un attacco di ottimismo decidiamo di regalarci una calma colazione al Rivendel con la conseguenza che solo verso le otto siamo pronti alla partenza. Valigie in macchina, animo su di giri e via con la prima destinazione da dare alla signorina Garmin … ma … Sorpresa!!!!! Il Gps non conosce nessuna località lungo la strada per l’Etosha e … Neppure le altre città della Namibia e … Neppure la stessa Windhoek. Il nostro Gps conosce la Namibia meno di noi!!!! Con lo sconforto che inizia a prendere campo ci dobbiamo arrendere all’idea che non ha la mappa caricata. Tanto siamo in Austria a che ci serve quella della Namibia!!!! Che fare? Ce ne freghiamo ed andiamo con le cartine stradali? Beh si potrebbe fare ma la signorina Garmin l’abbiamo pagata! Non è giusto che venga in giro a conoscere la Namibia senza rendersi utile. Quindi con la consapevolezza che il ritardo sull’orario previsto aumenta inesorabilmente, andiamo alla African Trucks. Non potranno far niente per far tornare la memoria al Gps ma perlomeno ci aiuteranno a parlare con la società di noleggio all’aeroporto. Ed infatti anche Valerie, dopo un pò di tentativi, non può far altro che dare la sentenza che aspettavamo ma che non volevamo sentirci dire. Dobbiamo tornare in aeroporto per cambiare il navigatore. Ci aspettano. Non sappiamo se darci dei coglioni per non averlo provato ieri sera od essere arrabbiati con chi in Namibia noleggia Gps senza la mappa della Namibia. Mentre cerchiamo di scegliere quale delle due partiamo per l’aeroporto con l’occhio che non si stacca dall’orologio. 30/40 minuti ad andare e altrettanti a tornare; e sono passate le 9:30. Così quando ritorniamo a Windhoek con una “signorina Garmin” che conosce le strade sono già le 11:00. E pensare che alle 7:00, massimo le 8:00, dovevamo essere già per la via.

Ma quando uno è Coglione con la “C” maiuscola trovare un navigatore satellitare che non conosce la strada è il minimo che può capitare. Quello che di peggio può accadere si materializza alle 11:30 con le parole “non c’è più benzina nel serbatoio”!!!!!!! Per spiegare bene il mio stato d’animo in quei 30/40 secondi in cui la macchina si è lentamente fermata sul ciglio della strada è necessario tornare indietro a ieri. A quando Valerie ci ha consegnato il fuoristrada e a quando nel discorso, sull’argomento carburante e funzionamento dei due serbatoi, ha spesso detto la parola Empty. Io che di inglese conosco forse 5 parole ma in più occasioni ho noleggiato auto ho fatto un ragionamento logico del tipo: le società di noleggio danno e vogliono indietro la macchina con il pieno (così mi è sempre capitato in tutto il mondo), Valerie ci dice questa cosa in inglese, quindi empty vuol dire pieno. Così forte dei 140 litri nei due serbatoi, che ero sicuro ci fossero, del fatto che la lancetta fosse, dopo tutti i km già fatti, vicina a quella grossa “E “sul cruscotto e che “E” uguale “empty” non mi sono preoccupato di fare il pieno. Anzi ero pure orgoglioso di aver tradotto bene. Un piffero!!!! Alle 11:30 la nostra Toyota mi ha dato la giusta traduzione della parola Empty: VAI A PIEDI!!!! È il caso di dire che mi sono sentito crollare il mondo addosso. Ma senza dolore. La rabbia per il modo ingenuo in cui è successo tutto mi ha come anestetizzato. Cosa fare??? Dopo i primi 2 minuti di inevitabile smarrimento abbiamo realizzato che la soluzione è, fortunatamente, non troppo lontano. Una quindicina di km fa (che culo che è successo qui) abbiamo attraversato il paese di Okahandja e li abbiamo visto un distributore. Passandoci davanti Patrizia mi ha anche chiesto “facciamo benzina?” ed io, con la tranquillità dei miei litri di benzina immaginari, gli ho risposto “no, ce la facciamo ad arrivare al Namutomi, la facciamo li”. Basta tornare indietro con le taniche e siamo salvi. Si, ma come ci arriviamo?? Con la forza che solo la disperazione può dare Patrizia si fionda fuori a fermare una macchina che sopraggiunge in senso contrario. Gli spiega la nostra necessità ma quello non ha il tempo per poter tornare indietro. Ed è in questo momento che arriva il nostro salvatore. Pochi chilometri prima abbiamo sorpassato un fuoristrada con un carrello carico di operai. Nel sorpassarlo ci siamo salutati. Ed ora eccolo che ci raggiunge. Non rimane che tentare. Patrizia ci parla e l’autista, un ragazzo nero che poi sapremo essere un Sudafricano in Namibia per lavoro, dice che ci aiuterà. Sgancia il carrello con gli operai all’ombra di una pianta e ci porterà al distributore. E qui il dilemma: chi va? E chi rimane a guardia della macchina? Da buon Italiano allenato nelle palestre Napoli e Roma il primo pensiero è stato: il capo accompagna uno di noi al paese e gli altri, in gruppo, rubano la macchina. Avremo fatto bene ad accettare l’invito? Oramai ci siamo e poi non abbiamo molte altre possibilità. Decido quindi che Patrizia andrà a prendere la benzina, anche per evitare che io ricombini casini con la lingua mentre rimarrò a guardia della macchina. In quei 40 minuti trascorsi ad aspettare, una volta capito che gli operai non hanno nessuna cattiva intenzione, inizio a preoccuparmi per Patrizia, da sola con uno sconosciuto in un paese sconosciuto. Forse era meglio se andavo io a prendere a riempire le taniche. Si però così l’avrei lasciata sola non con uno ma con molti e nel mezzo al nulla.

I minuti passano e ancora non tornano. Che faccio? Niente di più di quello che sto facendo. Aspettare. E finalmente vedo tornare Patrizia con il nostro benefattore. Vuotiamo le taniche nel serbatoio, 40 litri di preziosissima benzina, ringraziamo e diamo una mancia a chi ha speso un’ora del suo tempo per aiutare due incauti turisti. L’Africa ha iniziato a mostrarci il suo lato migliore. Quello di popoli che pur nella loro povertà e difficoltà di vita non hanno dimenticato valori oramai ignoti a noi “civili occidentali”.

Siamo pronti per ripartire ma in che direzione? Torniamo indietro per fare il pieno per bene o procediamo per arrivare al distributore successivo? Il prossimo è a Otjiwarongo, tra 130 km, ma il nostro angelo custode ha detto che dovremmo riuscire ad arrivarci. Tentiamo, anche perché la mia bischerata ci è costata un’altra ora di ritardo e quindi tornare indietro non ce lo possiamo permettere. Per tutti i chilometri successivi non posso far a meno di pensare al rischio che abbiamo corso e che ho fatto correre a Patrizia. Mi risveglia da questa meditazione il segnale che siamo nuovamente in riserva. Meno male che stiamo entrando in paese. Il distributore è la nostra oasi. Che sollievo imbarcare 173 litri di benzina. A pieno ne abbiamo 180 il che vuol dire che eravamo nuovamente rimasti con soli 7 litri. E con una macchina che (andando piano, in discesa e con il vento a favore) fa da 5/6 a 8/9 km con un litro non è molto!!!!! e non per battuta: i 130 km fatti con 33 litri vogliono dire una media di 4 al litro(facendo i previsti 120 km/h) Ora non rimane che comprare un po’ di cibo (lo dovevamo fare in prima mattina ma i due piccoli inconvenienti ci hanno distolto dagli acquisti mangerecci) e partire per la meta. Meta che è ad ancora 4 ore di viaggio. Chilometri e chilometri su strada, fortunatamente, ancora asfaltata , per cui in barba ai limiti di velocità cerchiamo di recuperare qualche minuto. Non tanto per il gusto di arrivare presto ma perché il campeggio chiude i cancelli al tramonto, che a questa latitudine arriva molto presto (in questo periodo dell’anno intorno alle 18:30-19:00) e se non entriamo in tempo dobbiamo dormire fuori nella savana. Che in zona frequentata da leoni, rinoceronti ed elefanti non è il modo più sicuro di riposare. Da segnalare che sulla strada abbiamo incontrato veri e propri posti di blocco della polizia per il controllo di chi transita. La strada è letteralmente chiusa da un cancello che obbliga a fermarsi. La polizia, in tuta mimetica ed armata, controlla i documenti e prende nota della targa, dopodichè apre il cancello ed è possibile ripartire. Questi si che sono controlli. Certo non è un aiuto da poco il fatto che su questa che può considerarsi la più importante autostrada passa, in media, una macchina ogni dieci minuti.

Sono un paio di ore che non succede nessun imprevisto. Ci stiamo quasi annoiando senza la carica adrenalinica delle difficoltà. Ed è così che quel santo che ci ha voluto regalare tutte le belle emozioni della giornata si accorge della nostra calma e corre ai ripari. Ci fa dono di un bel controllo autovelox con tanto di macchina della polizia, agente ed apparecchio nascosti nella fossa accanto alla strada. Ritengo di averla scampata ma solo per un caso accidentale. Un chilometro prima dell’imboscata ho visto un pick-up fare inversione ripartendo lentamente e quindi ho iniziato a decelerare. Quel tanto che mi ha portato a rallentare intorno ai 130 dai 150 a cui stavo andando. Per la cronaca il limite in quel punto è 120. Ho raggiunto il pick-up a poche decine di metri dal poliziotto ed ho iniziato a sorpassarlo quando ho visto di sfuggita il tetto dell’auto nel fosso. Li per li ho pensato ad un incidente (ecco perché il pick-up è tornato indietro) ed il mio spirito di volontario mi ha fatto dare un’inchiodata per fermarmi a prestare soccorso. La frenata che mi ha permesso, spero, di essere passato davanti all’autovelox sotto al limite di 120.

Quando sono passato ed ho realizzato che non era un incidente ma un poliziotto intenzionato a ricordare a tutti che non si deve correre ho ringraziato il santo del giorno per l’ulteriore palpitazione.

L’ho però anche pregato di scordarsi di noi perché oramai ne ho le tasche piene di colpi al cuore. Sono in vacanza, se volevo stare preoccupato a giornate intere me ne sarei rimasto a casa.

Finalmente arriviamo al Namutomi. Sono le 17:30. E questo campeggio qui è quello che chiude più tardi di tutti, le 19:00. Averlo saputo qualche pulsazione in meno al minuto l’avrei potuta avere!!!!! Il campeggio, pochi chilometri dentro al parco, è una vasta area con piazzole molto ampie dotate (sarà una costante in tutti i posti) di barbecue in muratura e punto luce. Parcheggiamo ed apriamo la tenda sul tetto del fuoristrada. Sembra di vivere una scena di un documentario. Ci sono un’altra di decina di pick-up con tenda sul tetto ed altri con tenda tradizionale. Appena sistemato il nostro alloggio, con lenzuolo e cuscino, andiamo subito alla pozza dell’acqua con la speranza di vedere qualche animale. La natura questa sera ci offre un gruppo di facoceri, in pratica i cugini brutti dei nostri cinghiali. In televisione sono brutti ma dal vivo sono ancora peggio.

Il tramonto alla pozza ci fa fare la conoscenza di quello che rimarrà l’animale simbolo di questo viaggio. Ancora non ho capito come si chiama ma per noi sarà sempre la “faraona della savana”. Ha la forma ed il piumaggio di una faraona grassa, il collo blu con bargigli rossi, ma la cosa più buffa e simpatica è che non vola ma corre. E mai da sola ed in silenzio ma sempre in compagnia di tanti altri esemplari senza mai smettere di chiacchierare tra loro. Sembrano un allegro gruppo di vecchie comari che vanno a fare la spesa spettegolando di continuo su tutto e tutti, correndo veloci con le loro zampette secche. Da subito capiamo che saranno loro il tormentone del viaggio.

A questo punto la fame reclama attenzione e cosi torniamo alla tenda per una cenetta veloce e li incontriamo nuovamente i cugini brutti dei cinghiali. Saranno anche brutti ma di sicuro non sono scemi. Hanno capito che turista + tenda = scarti di cibo facilmente disponibile. Con i facoceri a giro sotto la tenda ci andiamo a coricare. Prima notte in tenda. Favolosa.

Anche questa notte a dispetto delle indicazioni di molte guide, io, il freddoloso per eccellenza, ho dormito in mutande fuori dal sacco a pelo. Una goduria.

4° giorno 28.09.2009 Namutomi – Halali: 75 km di strada sterrata ben battuta • Nelle strade interne al parco il limite di velocità massimo è di 60 km/h ma, considerando che c’è il tempo sufficiente per tutto, è preferibile viaggiare più piano. È più facile scorgere gli animali mimetizzati e si gode maggiormente la bellezza del luogo. Non è male concedersi anche qualche sosta nei posti che più affascinanti.

• Pernottamento all’Halali Camping: costo tot. N$ 400 N$ 199 per la piazzola + N$ 99 a persona).

Sveglia alle 6:30.

Andiamo subito alla pozza. Questa mattina ci troviamo un branco di zebre, antilopi e gnu.

Sarà anche perché è la prima volta ma vedere gli animali che si abbeverano placidi è uno spettacolo. È bellissimo perdere lo sguardo nella sequenza di strisce bianche e nere delle zebre che bevono una accanto all’altra.

Le zebre sono dei veri e propri asini, solo più grasse e tonderelle. E dell’asino hanno anche un po’ il verso che, a dirla tutta, è piuttosto bruttino. Una via di mezzo tra il raglio di un asino e l’abbaiare di cane fioco. È meglio guardarle che sentirle.

Finito l’abbeveraggio degli animali torniamo alla tenda per la nostra colazione. Caffé, frutta e yogurt. Ripieghiamo la tenda, carichiamo tutta l’attrezzatura e via per l’ Halali, il campeggio nel mezzo all’ Etosha., 70 km di strada sterrata, ben tenuta e quindi facilmente percorribile. Purtroppo molte delle strade secondarie che si dipartono dalla principale sono chiuse per lavori di rifacimento. Questo ci limita molto nei giri che possiamo fare ma nonostante tutto le emozioni non mancano. È infatti un continuo alternarsi di animali che attraversano la strada o che pascolano tranquilli sul bordo. E così il tragitto è una continua sosta per fare fotografie, per attendere il passaggio dei branchi od anche solo per ammirare i veri padroni del territorio ed il loro habitat. Per noi abituati a vivere in città sovraffollate, circondati da campagne sempre più urbanizzate, il primo spettacolo è quello della savana. Spazi immensi e silenziosi che danno il senso della grandezza, terra arida e vegetazione rada e scarsa che danno il senso della difficoltà della vita. Pian piano che avanziamo il numero degli animali, tra antilopi di varie specie, gnu, gazzelle e struzzi aumenta sempre più fino quando incontriamo anche le giraffe.

La prima cosa che colpisce, oltre all’altezza, è la signorilità con cui si muovono e la dolcezza degli occhioni. E molto buffo è vedere da lontano, quando sono più di una nel mezzo alla savana, quella fila di lunghi colli che spuntano sopra alla vegetazione come tanti pali della luce. Subito dopo le giraffe è la volta degli elefanti. Un intero branco di molti capi attraversa la strada passandoci davanti al cofano della macchina. Pur avendo un pick-up è molto forte la sensazione di impotenza di fronte ad uno di quei colossi arrabbiato.

Sono enormi, con i loro orecchioni, la loro pelle rugosa e quella proboscide con cui fanno veramente tutto. Dal mangiare, al bere, all’aprirsi il varco tra gli arbusti per passare.

Ci attraversano maschi, femmine e piccoli e di tutti ci colpisce la calma e la lentezza dei movimenti. A pensarci bene è un elemento comune a tutti gli animali visti fino a ora.

Che dire. Nessun circo o zoo potranno mai rendere giustizia al fascino di tutti questi animali. Vederli nel loro territorio naturale, liberi di muoversi secondo la loro natura, senza nulla di artefatto intorno ha un fascino enorme che lascia senza parole.

E che non viene meno neppure negli avvistamenti successivi. Ogni volta lo spettacolo si rinnova e regala nuove emozioni.

Peccato per le strade interrotte. Avremmo voluto girare di più. Oltretutto oggi non siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Ma non tutto il male viene per nuocere. Arriviamo al campeggio all’ora di pranzo e questo vuol dire che abbiamo tutto il tempo per qualche ora di piscina!!!! Quindi scegliamo la nostra piazzola, apriamo la tenda e scarichiamo il necessario per un veloce pranzetto. Non vogliamo perdere neppure un minuto di sole.

Mentre mangiamo provo, per pura curiosità, a mettere il termometro sul tavolo. Dopo i 45 gradi il display non funziona più. Aiuto mi è morto di caldo!!!! Per rianimarlo lo metto un paio di minuti nel frigorifero e quando lo ritiro fuori e riprende a funzionare riparte da 46,3 gradi. Curiosità soddisfatta ed appagata. Il pomeriggio ci bruciacchieremo ben bene a bordo piscina. E così sarà, con grossa soddisfazione per il mio braccio destro che dopo aver preso il sole durante la guida, inizia a dare segni di bruciore da insolazione. Che pacchia!!! Sole, libro e piscina calda (acqua ad una temperatura accettabile anche per me) per un po’ di nuoto nei momenti di maggior caldo.

Quando si avvicina il tramonto ci facciamo una doccia, cenetta veloce e via alla pozza per assistere all’arrivo di qualche altro animale. E la fortuna ci assiste anche questa volta. Questa sera tocca al rinoceronte, uno degli animali più bizzarri con il suo aspetto da “carro armato” su zampe. Non ci assiste invece il tempo. Intorno a noi è tutto un susseguirsi di lampi e tuoni che non promettono niente di buono. Con questo tempo inutile sperare nell’avvistamento di altri animali e poi è meglio correre a mettere al riparo tutto quello che è fuori dal fuoristrada. Mentre risistemiamo si alza un vento piuttosto forte ed i lampi ed i tuoni arrivano anche da noi. Non piove, solo 4 gocce distanziate di molti minuti l’una dall’altra, ma nel buio e nel silenzio della savana i fulmini, i tuoni ed il vento risultano come “amplificati” e fanno ancora più paura. E non aiuta certo il pensare di affrontarli in una tenda sotto un albero. Così passiamo una prima mezz’oretta in macchina, ma i sedili di un single-cab non sono il massimo in fatto di comodità quando si vuole dormire. Per questo, vinti dalla stanchezza e dal mal di schiena, rinfrancati da un momentaneo momento di calma, decidiamo di salire in tenda. Ci giochiamo la carta “calcolo delle probabilità”; che il fulmine debba colpire proprio noi? Ma no!!! La nostra parte di sfiga l’abbiamo già avuta nei giorni passati. Ci addormentiamo di botto. Nonostante il tempo fa ancora molto caldo, questa volta usiamo il sacco a pelo ma lasciamo alcune delle finestre aperte. Continuo a non crederci. Ho solo una vaga percezione che sia piovuto, ma se anche è stato, non si è certo trattato di molto visto che la mattina la terra è appena umida. Comunque non scorderemo tanto facilmente la potenza della natura vista da una tenda montata sul tetto di un fuoristrada. 5° giorno 29.09.2009 Halali – Okaukuejo: 62 km di strada sterrata ben battuta • Pernottamento all’ Okaukuejo Camping: costo tot. N$ 400 N$ 199 per la piazzola + N$ 99 a persona).

Sveglia alle 6:30. Il tempo è ancora nuvoloso, andiamo alla pozza ma capiamo che è inutile e quindi caffé rinvigorente e via con destinazione Okaukuejo, il terzo campeggio all’interno dell’ Etosha all’ altro cancello di entrata. Nel percorso abbiamo modo di rivedere tutti gli animali in gran quantità, anche perché in questa parte del parco le strade sono tutte aperte e quindi possiamo girovagare di più allontanandoci dalla via principale verso i luoghi di più probabile avvistamento. Il paesaggio è bellissimo, un continuo alternarsi di savana più o meno brulla con tutte le possibili tonalità dei marroni e dei gialli. Continua a stupirci la calma e la quiete con cui si muovono gli animali ed il cauto rispetto con cui stanno vicini e dividono gli stessi spazi razze diverse. E la massima espressione di tutto ciò la troviamo nell’ultimo posto che visitiamo prima del rientro in campeggio. Una vastissima depressione affollata da zebre, giraffe, gnu, antilopi, orici, springbok, struzzi etc. Etc … ed anche loro … Leo e Lea!!!! Due esemplari, maschio e femmina, di leone. Possenti e regali, guardati con rispetto ed occhio guardingo dagli altri animali.

Da un punto di vista naturalistico abbiamo raggiunto il massimo concentrato in un unico posto.

Ad una visione di insieme sembra un’ambientazione tratta da “L’era glaciale” o “Madagascar”, una di quelle scene in cui animali di varie razze si mischiano insieme nell’affaccendarsi quotidiano. Sembra davvero di essere tornati a qualche era passata, a quando l’uomo non era altro che un altro attore della quotidiana lotta per la sopravvivenza. Lotta della quale abbiamo avuto una indimenticabile manifestazione la notte verso le 23:00. Rientrati al campeggio siamo andati a goderci il tramonto alla pozza e siamo stati allietati da un branco di elefanti, con tanto di due piccolini, che sono venuti ad abbeverarsi. Non ho scelto il termine “allietati” a caso. Sembrava di essere al circo. Sono arrivati apparendo all’improvviso dalle piante, si sono avvicinati alla pozza, l’hanno girata quasi tutta, come in una passerella intorno alla pista di un circo e hanno iniziato a bere dal canale di alimentazione della pozza stando, quindi, rivolti verso di noi come in segno di saluto. Come se ci stessero mostrando il loro spettacolino per turisti “umani”. Dopo delle belle sorsate sparate in bocca con la proboscide c’è stato il tempo per lo scambio affettuoso di qualche carezza tra mamma e piccolino e poi via. Calmi, lenti e pacati come sono arrivati sono ripartiti.

Così siamo andati a mangiare al ristorante del campeggio, tanto per provare una volta la loro cucina. Li abbiamo assistito allo spettacolo dei bimbi della locale scuola che hanno cantato e danzato per il piacere del turista e per racimolare qualche soldino. E se non fosse per il pensiero che con quei pochi spiccioli riusciranno a comprare libri e quaderni non rimarrebbe, nel cuore, che l’amaro per la finzione di uno spettacolo, fatto “apposta” per i turisti, a cui questi bimbi sono costretti da una condizione di bisogno che non nasce solo dalla sfortuna di essere nati in un paese caratterizzato da condizioni di vita più difficili delle nostre. …

Finito lo spettacolo, complice la stanchezza, decidiamo di andarcene a letto. Anche domani mattina ci dobbiamo alzare presto e poi il forte vento invoglia ad accucciarsi nel sacco a pelo. Ed è proprio mentre ci gustiamo il rumore del vento che sembra voler portare via la tenda che ci troviamo a vivere uno dei momenti che più caratterizzeranno i ricordi di questo viaggio. La lotta tra elefanti e leoni. Tutto è iniziato con i primi barriti che hanno sovrastato il vento per potenza e che ci hanno fatto chiedere quale potesse essere il motivo di tale agitazione. La risposta l’abbiamo avuta quando dopo un po’ abbiamo sentito alternarsi a quei gridi di allarme il ruggito del leone. E da quel momento, per una mezz’oretta la natura ci ha regalato i suoni dello scontro per la sopravvivenza. Suoni che è difficile spiegare a parole. Il barrito dell’elefante che impressiona per potenza ed esprime la paura e la rabbia della preda o, più probabile, della madre che cerca di proteggere il piccolo. Il brontolio sommesso del leone che pur su note basse arriva tra i rumori del vento come il rombo di un terremoto, capace di farti sentire quasi una vibrazione fisica sulla pelle e che poi esplode in un ruggito che esprime la forza e la potenza del cacciatore. Nella mezz’oretta che è durata la lotta i suoni si sono allontanati e riavvicinati più volte. Anche per colpa del vento non posso dire quanto metri ci separassero da loro, ma penso che in alcuni momenti sono passati molto vicini al recinto del campeggio ed alla pozza che avevamo accanto.

Buio, vento, spazi aperti immensi, il barrito dell’elefante ed il ruggito del leone, impossibile non pensare alla debolezza dell’essere umano, alla sua impotenza di fronte a questi animali, al terrore atavico che ancora il ruggito ci scatena dentro.

Tanto che durante una pausa Patrizia ha iniziato a scendere le scalette per andare a fare pipi. Il ruggito del leone “l’ha fatta persuasa”, per dirla alla Montalbano, che non era necessario arrivare ai bagni. Preferibile, con la fifa di un morsetto nel sedere, un veloce adempimento vicino alla macchina e poi di nuovo in tenda.

Passato tutto ciò la notte è proseguita con un’altra bella dormita nel calduccio (nonostante le finestre aperte) della notte africana.

6° giorno 30.09.2009 Okaukuejo – Opuwo • C38 dir. Sud per 105 km fino ad incrociare la C40 (9km prima di Outjo) • C40 dir. Nord/ovest per 155 km fino a Kamanjiab • C35 dir. Nord per 187 km fino all’incrocio con C41 • C41 dir. Ovest fino ad Opuwo: 56 km • Pernottamento al Kunene Villane Restcamp –da Opuwo 2 km sulla gravel road D3703: costo totale N$ 80 (N$ 40 a persona) Ancora con l’emozione della notte nella testa e nel cuore, ed una buona dose di caffé in pancia, alle 7:15 siamo partiti per Opuwo. Lasciamo il parco naturale e ci dirigiamo a Nord. La nostra destinazione è la regione del popolo Himba, una delle etnie della Namibia, che ha deciso di vivere ancora allo stato seminomade, vivendo di pastorizia e dell’allevamento di qualche capo di bovini.

Sosta nel paese di Outjo per fare il rifornimento di benzina e generi alimentari. Scegliamo il supermarket dove non vediamo persone bianche. Appena scesi dal pick-up veniamo assaliti da una folla di bambini e ragazzi che ci chiedono i nostri nomi e quelli dei nostri genitori o parenti. Li intagliano su palline di legno (che scopriremo poi essere il frutto delle palme) per vendercele all’uscita dal negozio. Nel Market c’è pochissima roba, comunque acquistiamo uova, pane, wurstel, salcicce, latte, biscotti e frutta (buonissime le arance). Usciamo quasi di corsa per tagliare il cordone di ragazzi che ci attendono al varco per venderci i souvenir, montiamo in macchina al volo e via per Opuwo. Il pranzo sarà uno dei pic-nic più in aperta campagna mai fatti (battuto forse solo da quello fatto al ritorno da Opuwo due giorni dopo), in una delle tante piazzole di sosta lungo gli interminabili rettilinei. Caldo secco, silenzio, traffico inesistente, spazi vuoti e semiaridi, la consapevolezza che Otujo, l’ultimo centro di un certo rilievo, è oramai a centinaia di Km, e con tre caprette che ci fanno compagnia e con cui dividiamo l’ombra dell’unica pianta nel raggio di molti metri.

Ripartiamo per l’ultima tappa e proseguendo su quello che è il rettilineo più lungo che abbia mai visto. La C 35 fa impallidire anche i rettilinei americani, decine, anzi, centinaia di Km senza una curva, con i giochi ottici del sole e del caldo che rendono la strada vaporosa e “finta”.

Arrivati ad Opuwo ci rendiamo conto di essere arrivati nella vera Africa. Nella ricerca del nostro campeggio percorriamo il chilometro della strada principale. Un susseguirsi di misere bancarelle, negozi scalcinati e dall’aspetto di baracche, pretenziosi market e take-away, officine, panetterie e locali di ritrovo. Un insieme di persone appartenenti a varie etnie e culture a passeggio da sole, in coppia, in famiglia o ferme in gruppi a parlare, ognuna con le sue caratteristiche. Bambini vestiti di pochi stracci; donne Herero con i loro coloratissimi vestiti vittoriani; donne Himba vestite solo con un gonnellino e tante collane e monili, con la pelle ed i capelli del caratteristico rosso della mistura di fango e burro con cui si cospargono tutto il corpo; uomini Himba con il loro gonnellino, il mantello, il bastone ed il machete; uomini e donne in semplici vestiti occidentali. Ma tutti con una caratteristica comune. Il sorriso e lo sguardo fiero di chi, pur nella povertà, sa essere, se non proprio felice, comunque più sereno di quanto spesso riusciamo ad essere noi con i nostri agi.

Il campeggio è sul versante opposto della collina su cui si arrampica la città di Opuwo. È molto semplice; la piazzola per il fuoristrada, un tavolo di cemento per mangiare, un bagno ed una doccia ridotti al minimo indispensabile (stile carcere turco). Ma la cosa particolare è che siamo soli. Noi ed i ragazzi che lo gestiscono e fanno da guardiani.

Senza neppure scaricare il materiale da campeggio decidiamo di tornare al paese a piedi. Per arrivarci dobbiamo attraversare una zona di periferia che ci fa dubitare che andare a piedi sia la scelta giusta. Case povere di una zona più isolata sono il luogo perfetto per un furto od anche di peggio. Sarà la paura infantile inculcataci dai genitori con le minacce “dell’omo nero?”. O peggio sarà l’effetto della paura del diverso della cultura cosiddetta “civile”? O sarà che abbiamo traslato in quell’ angolo di mondo i vizi ed i peccati di quelle realtà a noi molto vicine per chilometri, ed a loro per condizioni di vita? Ma la curiosità dei bambini che ci vengono a vedere, i saluti delle donne nelle case (baracche in muratura) ed i sorrisi degli uomini a lavoro ci convincono che forse ci siamo lasciati condizionare da troppi preconcetti. Non che il pericolo non ci sia, anche se più concreto nelle città, ma la passeggiata in quella periferia del paese di Opuwo è stata la prima dimostrazione, confermata nei giorni successivi, che la povertà, gli stenti, la difficoltà di usufruire della cultura, la mancanza di lavoro, il confronto perdente con il benessere dei bianchi, anni di apartheid, soprusi e sfruttamenti, non hanno generato più delinquenza di quella che possiamo trovare passeggiando per Napoli, Bari o Palermo. Sono convinto che abbia più senso temere tante borgate di Roma o quartieri di Milano.

Probabilmente avremmo avuto anche fortuna, non lo metto in dubbio, ma forse abbiamo anche saputo porci nel modo giusto. Li abbiamo rispettati. Rispondendo ai loro saluti; fermandosi a fare una carezza e parlare con i bimbi; salutando per primi le persone anziane; evitando, anche se a malincuore, di usare la macchina fotografica. Guardandoli come nostri simili. Senza lo sguardo stupito di chi vede un animale raro allo zoo, di chi vede nell’altro un fenomeno da baraccone, di chi vede nell’altro un malfattore.

E tutto è partito da li. Da quell’insieme di misere casette che da noi sarebbero usate come pollai (sempre che ne esistano ancora di così malandati), lungo strade sterrate affollate di bimbi che giocano nella polvere con … Niente!!!! O con quel poco che può diventare un gioco … Un copertone, una bottiglia, un filo di ferro, un bastone di legno.

Tornati sulla strada principale passiamo davanti alla scuola che, come tutte quelle che troveremo in seguito, è rigorosamente recintata e tappezzata sui muri esterni di disegni che promuovono la conoscenza del pericolo Aids e l’orgoglio della propria identità etnica. L’Aids è infatti un grosso problema in un paese in cui è molto frequente lo stupro e la poligamia ma non ancora l’uso del profilattico. In questa scuola bambini dai 4/5 ai 10/11 anni giocano tutti insieme con un pallone di stracci poco più grosso di un pompelmo, mentre altri bimbi giocano alla guerra con fucili ricavati utilizzando i tubi di scarico dei lavandini. Dall’altra parte della strada un’altra classe sta facendo educazione fisica in quello che dovrebbe essere il campo di calcio. L’unica cosa corretta è l’uso del termine “campo” perché tale è. Un campo con due porte senza la rete. E come in una scena da commedia “fantozziana”, sotto la guida di un professore, si allenano ragazzi e ragazze di varie età, chi con la gonna, chi con i pantaloncini e chi con i pantaloni lunghi, quasi tutti scalzi, qualcuno con le ciabatte.

All’inizio del centro del paese incontriamo gli altri due unici turisti presenti quel giorno ad Opuwo.

Una coppia asiatica, non gli abbiamo neppure chiesto di dove precisamente, troppo occupati a manifestarci, reciprocamente, lo stesso sentimento di smarrimento e senso di essere noi gli “strani”, gli extra-comunitari fuori luogo. E ridiamo del fatto che anche loro, come noi, hanno iniziato il giro del paese con la paura di essere aggrediti. Paura poi sparita di fronte alla gentilezza delle persone ed alla bellezza di tutto il contesto. Peccato che loro pernottino dalla parte opposta del paese. Un po di compagnia non ci sarebbe stata male. Non sono neppure 24 ore che abbiamo visto l’ultimo bianco e già iniziamo a capire quanto si debbano sentire spaesati, deboli, indifesi, aggredibili, tutti quei poveri ragazzi che dopo mesi di faticosi viaggi (altro che 15/16 ore di aereo come noi) arrivano nel nostro paese nel mezzo a gente ed ambienti che non hanno mai visto e non capiscono.

Salutati i due ripercorriamo a piedi la strada fatta prima in macchina. Incontriamo uno pseudo – computer shop (così recita la scritta sulla porta), che avrà appena una calcolatrice, market meno forniti di tante cucine dei nostri appartamenti, barbieri che hanno al massimo un paio di forbici e tutta una serie di attività che pur nella loro semplicità garantiscono quel che serve per la vita del paese. Ciò che più colpisce sono comunque le donne Herero e quelle Himba. Le prime con i loro vestiti di stile vittoriano ed il buffo cappello con due punte tipo corna di mucca. Le seconde disinvolte nella loro nudità, con il corpo completamente ricoperto, capelli compresi, da uno strato di una crema rossastra che gli conferisce l’aspetto di una statua di creta.

Entriamo anche in un negozio di abbigliamento e Patrizia non resiste alla tentazione di provare qualche capo, mentre io rimango in attesa nel mezzo a donne ed uomini che si chiederanno cosa cavolo ci faccio io, bianco e quindi con i soldi, in un negozio come quello. Purtroppo le taglie non vanno bene e quindi Patrizia non può avere la soddisfazione di un “souvenir”.

Ad un certo punto il tempo peggiora repentinamente e quindi decidiamo di tornare indietro, saltando una visita più approfondita delle vie che si dipartono da quella principale, tutte rigorosamente sterrate e cosparse di mucchi di rifiuti. Ma il tempo volge veramente al brutto e ci troviamo immersi nella polvere sollevata dal vento. Per noi è veramente fastidiosa, non si vede più niente e fa male agli occhi. Per loro è la normalità tanto che la lezione di educazione fisica sta continuando regolarmente con tanto di partita in corso nonostante la visibilità sia limitata a pochissimi metri.

Tornati in campeggio consumiamo la nostra veloce cenetta e poi mi fermo a scrivere qualche appunto: seduto sotto una tettoia di rami, alla periferia di un villaggio in una remota zona dell’Africa, alla luce di una lampada a gas fa tanto esploratore dell’800. Sembra proprio la scena di uno di quei film nei quale l’avventuriero, alla fine di una dura giornata di viaggio e scoperte, riporta nel diario di viaggio gli appunti da riferire in patria. Che emozione!!!!! E siccome la luce della lampada a gas, sommata a diversi km di guida, concilia notevolmente il sonno arriva molto presto l’ora della nanna. Questa notte non avremmo certo problema di rumori. Da soli in un campeggio fuori dal paese. E infatti ci facciamo l’ulteriore grossa dormita.

7° giorno 01.10.2009 Opuwo – epupa falls • C43 dir. Nord per 200 km • Pernottamento all’Omarunga camp: tot costo N$ 152 (N$ 76 a persona) Oggi il programma prevede l’arrivo alle Epupa falls. Prima di metterci in marcia facciamo un salto al supermercato per fare la spesa. Da fuori ci dava l’idea fosse più fornito, invece riusciamo a trovare poco per fare scorte per i prossimi due giorni. Così ci fermiamo alla “bakery” (da dire che almeno nei nomi delle insegne sembra di essere in una qualunque città europea) per un paio di panini ed in un altro market che, da fuori, appare molto più povero dell’altro, e dentro è proporzionalmente molto più vuoto e sfornito. Il problema pranzo rimane aperto. Così Patrizia decide di tentare con un “take away” di fronte al quale stazionano, ridenti, vari ragazzi e ragazze. Anche qui poca roba, la scelta si limita a qualche pallina di pasta fritta. Per non correre rischi ne prende due per assaggio e torna alla macchina. L’aspetto e invitante e così decidiamo di usarle non per pranzo ma per colazione, anzi per subito. Ingredienti sconosciuti, frittura in chissà quale sostanza liquida ma sapore buono. Possono rappresentare una buona idea per il pranzo e così Patrizia torna dentro per comprarne altre, tra le risa dei ragazzi che sembrano divertiti dal nostro apprezzamento per il loro cibo.

Tra una cosa e un’altra partiamo che sono già le nove ma non è un problema, la tappa, anche se su strada sterrata è di soli circa 200 km ed in Namibia su queste strade il limite è di 100 km/h.

Fin da subito notiamo quello che sarà il filo conduttore delle due giornate nel nord. Lungo la strada incontriamo tantissime persone che chiedono passaggi, chi per andare in un altro villaggio, chi per andare a trovare qualcuno, chi, come i bambini fuori dalle scuole, per tornare a casa. Peccato che noi abbiamo un pick-up con soli due posti e un cassone chiuso per buona parte occupato dall’attrezzatura da campeggio. Quanto avrei voluto avere un mezzo con più posti!!! Solo pochi racconti, dei tanti letti prima del viaggio, parlavano di passaggi dati agli abitanti del luogo, ma sempre descrivendoli come eventi particolari ed isolati. Noi possiamo dire che è diffusissima (oltre che obbligata in un paese in cui i possessori di auto sono molto pochi) la pratica dell’autostop e che è quasi, non dico un dovere o un obbligo, ma comunque un uso e consuetudine il mettere a disposizione il proprio mezzo per trasportare chi ne ha bisogno. L’altro filo conduttore sarà l’essere raggiunti lungo i bordi della strada dai bambini che vengono a chiedere soldi, acqua, vestiti, od anche solo una penna od una qualsiasi cosa possa rappresentare per loro un gioco o un motivo di interesse. Una macchina che corre a 100 km/h lungo una strada sterrata alza una nuvola di polvere e fa un rumore tale che sanno del nostro arrivo molti km più avanti e quindi con molto anticipo. E così si avvicinano alla strada, in attesa, arrivando dai villaggi di capanne di fango o di baracche di legno e lamiera, che sono nascosti e mimetizzati tra la scarsa vegetazione, oppure dai campi dove stanno a guardia dei piccoli greggi. Siamo consapevoli che l’elemosina non è il miglior modo per aiutare questi popoli ma dopo un po’ non resistiamo a quegli occhioni che ci guardano imploranti. E così prima ci fermiamo per dare da bere a due fratellini e poi, con la scusa di una foto e di due parole, ci fermiamo per dare qualche Nad ad un altro gruppo di bimbi.

E per chiudere con i rimpianti decidiamo anche di dare un passaggio ad un uomo Himba. Siamo ancora novellini nel ruolo di taxisti e quindi ci sembra brutto farlo accomodare nel cassone come un animale. Così Patrizia va a fare il cagnolino dietro con i pochi bagagli dell’uomo e lui verrà davanti con me. Lo accompagniamo a casa sua nel villaggio di Okongwati. Entrando dentro al villaggio vediamo che c’è una scuola, così chiediamo al nostro compagno di viaggio se è possibile andarci e per consegnare le penne, le matite ed i pennarelli che ci siamo portati dall’Italia. L’uomo, di cui non ricordo il nome, ci dice che non ci sono problemi e così parcheggiamo davanti casa sua e ci avviamo verso l’istituto. Nel cortile ci sono vari bimbi che giocano nella polvere e ci facciamo indicare dove poter trovare gli insegnanti. Ci accompagnano verso le aule dove si stanno tenendo le lezioni e qui possiamo consegnare il materiale. E, nuovamente, malediciamo tutte le guide che ci hanno convinto a portare troppi di quegli indumenti pesanti, mai utilizzati, che hanno rubato posto in valigia a più materiale da donare.

Salutati gli insegnanti ed i ragazzi torniamo alla macchina passeggiando per le strade del paese che altro non sono se non sentierini battuti tra le baracche. Alla macchina troviamo l’uomo a cui abbiamo dato un passaggio, ci facciamo alcune foto insieme, ci salutiamo e siamo pronti per ripartire.

Arriviamo alle Epupa falls verso le 12:30. Già il primo impatto è qualcosa che lascia sbalorditi. Una vera e propria oasi. Dopo centinaia di chilometri di territorio caratterizzato dalle varie tonalità di giallo e marrone delle zone di deserto sassoso, delle savane di erba quasi secca, del bush di radi alberelli ed arbusti, appare tutto ad un tratto il verde rigoglioso delle palme. Impossibile non riflettere sull’importanza dell’acqua, su cosa voglia dire averla o meno, su quali riflessi possa avere sullo sviluppo della vita. Solo dopo giornate passate nel mezzo a territori aridi riusciamo a comprendere appieno il valore dell’acqua. Alle Epupa non c’è nulla oltre un posto di guardia militare, i due campeggi per i turisti e le poche baracche o tende in cui vivono gli inservienti dei campeggi. Il campeggio, non molto grande, è proprio sulla sponda del fiume, cento metri a monte delle cascate, immerso nell’ombra delle palme. Preso possesso della piazzola ci fermiamo ad ammirare il paesaggio. Sembra di essere nell’Eden. Vegetazione rigogliosa, acqua calma, uccellini di varie razze che svolazzano cinguettanti, poco lontano il vapore prodotto dalle cascate che sale in alto ed un silenzio rilassante. Tutto concorre ad ispirare un senso di pace e serenità. Siamo oramai lontanissimi dalla modernità della città, alla fine di una strada che dopo centinaia di chilometri finisce li, in un oasi nel mezzo al deserto. Di fronte, sull’altra sponda del fiume, l’Angola, uno dei paesi più tormentati dalla guerra civile nell’epoca contemporanea.

Mangiamo ed andiamo a vedere da vicino le cascate, passeggiando sulle rocce a strapiombo sul fiume sottostante, ammirando la maestosità e la particolarità dei Baobab. Oltre che enormi e buffi per la forma stupiscono per i posti dove crescono, abbarbicati alle rocce nei punti più impensabili per la vita di una pianta e, quando sono giovani, per l’aspetto da patata con la buccia fina e qualche getto.

Quello che lascia estasiati non è tanto la bellezza della cascata di per se, perchè non raggiunge la spettacolarità di tante altre nel mondo, ma la visione d’insieme che trasforma un remoto angolo del mondo in un luogo di quiete e pace.

Alle 15:00 parte il tour nel villaggio Himba che il campeggio mette a disposizione. Un pò perché iniziamo ad essere fuori stagione turistica e quindi siamo proprio in pochi all’Epupa, un po’, forse, per la pigrizia degli altri pochi turisti più attratti dalle panchine in riva al fiume, al tour partecipiamo solo noi due con la guida e l’autista.

Per visitare i villaggi Himba, benché quelli vicino alle Epupa siano abituati a queste visite, è comunque necessario andare con un guida locale che chiede il permesso al capo villaggio e lo omaggia di doni per conto nostro. Il dono che è usanza portare è preferibile che venga scelto dalle guide e non lasciato alla libera idea del turista perché, come ci dice il gestore del campeggio, si evita di correre tre rischi. Il primo è quello di portare cibi troppo diversi dai loro gusti e quindi per loro immangiabili. Il secondo di portare cibi od oggetti “occidentali” che piacciono ma che non potranno ritrovare, rischiando di generare invidia ed aspettative impossibili da realizzare. Il terzo l’inquinamento. Nella cultura Himba non esiste il concetto di conservazione del territorio. Sono abituati a gettare la roba per terra in ogni posto. E questo comportamento, nel momento in cui entrano in contatto ed in possesso di oggetti “occidentali” fatti con materiali non degradabili, rischia di trasformare i villaggi in enormi pattumiere.

Per spiegare chi sono gli Himba riportiamo una delle tante descrizioni attinte da Internet prima di partire “Il popolo Himba è un sottogruppo del gruppo etnico Herero. Questo comprende diversi sottogruppi tra cui i Tjimba (o Ovatjimba) , provenienti dall’Angola e gli Himba (o Ovahimba) , due espressioni dello stesso ceppo con caratteristiche e abitudini di vita pressochè uguali.Quando gli altri Bantù di lingua Herero, nel corso del XIX secolo, furono messi in fuga dai guerrieri Nama e migrarono verso il centro della Namibia, gli Himba restarono nel nord, in un’area di difficile accesso, continuando a praticare la pastorizia seminomade. Isolati per lungo tempo in zone inaccessibili, non subirono, come i fratelli Herero, l’influenza della colonizzazione europea riuscendo così a conservare intatti costumi e tradizioni ancestrali. Il loro territorio è il Kaokoland, la cui capitale è Opuwo, ove vivono allevando bestiame, e per tutto il territorio è possibile incontrare enormi mandrie di bovini che rappresentano la loro ricchezza. Il bestiame è la vita per gli Himba, in un modo che va al di là del nostro modo di pensare e svolge un ruolo fondamentale nelle cerimonie e nei rituali. Per tale motivo le vacche sono sacre al punto da costituire un tabù alimentare: una vacca viene uccisa, per essere usata come cibo, secondo un complesso rituale arcaico, solo in occasione di eventi solenni come matrimoni, funerali, la comparsa dei primi denti o il primo mestruo. La morte di un capo tribù è occasione per sacrificare una vacca mediante decapitazione: la testa viene impalata su lunghi rami e deposta sulla tomba mentre il resto della carcassa viene abbandonato agli animali predatori. In sostituzione gli Himba si cibano di carne di capra. Le vacche sono considerate animali “sacri” perché rappresentano la ricchezza e pertanto chi possiede un numero grande di capi acquista prestigio e guadagna posizione sociale e potere politico. I bovini sono usati per “comprare” una sposa o anche per pagare multe o indennizzi : l’adulterio, ad esempio, è punito con l’ammenda di sei tori, l’omicidio con quindici. I Tjimba vivono in villaggi più vicini alla capitale Opuwo, gli Himba, invece, pur essendo sparsi su tutto il territorio , sono concentrati soprattutto nella zona più a nord ovest, nei pressi delle Cascate Epupa. Gli Himba , etnia di lingua herero, in seguito ad intricate vicende storiche, furono costretti ad abbandonare le terre di origine perdendo nella diaspora il bestiame. Fu così che si videro attribuire il soprannome di “miserabili”. Il nome Himba o Ova-Himba vuol dire, infatti, “coloro che chiedono” perché, nell’ottica del pastore africano, un uomo senza vacche non può essere altro che un mendicante. E la vacca per gli Himba è qualcosa di più che una macchina per produrre proteine : è il perno intorno a cui ruota la vita familiare e sociale. Gli Himba rappresentano l’etnia più caratteristica della Namibia mantenendo ancora le tradizioni ancestrali da 5000 anni ad oggi : sono pastori seminomadi che vivono tuttora in capanne molto rudimentali ed essenziali. La loro cultura è oggi a rischio e dipende anche dalla responsabilità individuale del viaggiatore se la loro società tradizionale, rimasta sino ad ora isolata, sopravviverà all’impatto col mondo moderno. Finora, vissuti di allevamento di sussistenza in aree remote della Namibia , si sono largamente sottratti alle influenze occidentali e mantengono orgogliosamente i costumi degli antenati. Essi si ostinano a rifuggire dal mondo moderno e la “polizia del pudore”, istituita dai missionari , non è mai riuscita a persuadere le donne Himba a coprirsi il seno. Di conseguenza le donne di questa tribù hanno mantenuto il loro delizioso e inconfondibile abbigliamento tradizionale : un gonnellino corto formato da più strati sovrapposti di pelle di capra tenuto in vita da cinture che si differenziano in relazione all’età e allo stato civile : una cintura bianca, braccialetti bianchi o collarini anch’essi bianchi indicano che la ragazza non ha raggiunto la pubertà e non è ancora sposata. Il bianco è praticamente il segno che la ragazza è ancora molto giovane. La donna sposata porta invece una cintura di metallo. Gli Himba non conoscono il metallo ma se lo procurano, barattandolo con le tribù vicine , come gli Ovambo. Poi lo lavorano e ne fanno soprattutto delle cavigliere utilizzando dei tondini di acciaio e dei fili di cuoio; alla nascita del primo figlio aggiungono un filo e così questo alto gambale di perle in ferro battuto, infilate in lacci di cuoio, continua ad alzarsi, ricoprendo caviglie e polpacci, non solo a scopo estetico ma anche per protezione contro i morsi dei serpenti. Anche gli avambracci sono avvolti da fili di rame e da molti bracciali mentre i piedi sono nudi. Hanno il seno nudo e il resto del corpo ornato di gioielli che consistono principalmente in pesanti collane realizzate con rame, piccole palline di ferro, conchiglie e ossa infilate in sottili stringhe di cuoio. Soprattutto le conchiglie sono i monili più preziosi; dopo la nascita del primo figlio le donne possono adornare il petto con l’ “ohumba”, la grande conchiglia sacra proveniente dalle coste dell’Angola, a forma di cono, levigata e resa lucente, simbolo di fecondità, gioiello prezioso ereditato dalla madre. Anche la cura della pelle del corpo e dei capelli è fuori del comune: la donna Himba si cosparge tutto il corpo, per più volte al giorno, con un impasto di ocra e grasso animale cui vengono aggiunte erbe aromatiche: un impasto di color rosso, una vera “crema di bellezza” che viene messa sulla pelle, sui capelli e sugli abiti, con lo scopo di proteggere l’epidermide dal torrido sole del giorno, dal freddo della notte e dall’assalto degli insetti e per contrastare il naturale invecchiamento (evidentemente funziona, visto che anche le donne più anziane conservano una pelle meravigliosamente liscia). Rappresenta, inoltre, quasi un rito iniziatico per essere più seducenti, un “richiamo sessuale”. L’ocra usata per la preparazione della “crema” proviene da una pietra morbida di origine dell’Angola, il burro è il derivato del latte di capra. Gli ingredienti, mescolati tra loro e con un’erba profumata preventivamente pestata, vengono conservati in contenitori ricavati da corna di vacca e rivestiti sopra e sotto con pelle. Le donne non si lavano mai, si cospargono 2-3 volte al giorno con questo impasto e, mensilmente, per eliminare i vari strati, cospargono la pelle con una mistura di ocra e farina di polenta, che ha la funzione di “abrasivo” come uno scrub, mentre i capelli vengono ripuliti con la cenere. Quasi maniacale è l’attenzione che gli Himba pongono alle loro acconciature costituite, sia nei maschi che nelle femmine, da trecce che essi identificano con le corna lunate degli zebù e sono espressione del loro status sociale. Le acconciature intrecciate delle donne sono molto complicate, delle vere opere d’arte: le bambine portano due treccine davanti che ricadono sul viso oppure due treccine davanti e due dietro; le fanciulle nubili si acconciano con tante treccine. L’ornamento sulla nuca sta a simboleggiare l’arrivo del mestruo perché si capisca che la ragazza è pronta per prendere marito e, comunque, per mettere al mondo figli. Le donne sposate lasciano cadere i capelli sulle spalle in lunghe trecce attorcigliate e tempestate di nastri e, per farle apparire più lunghe, intrecciano le chiome con fibre di piante. Al centro della testa portano una sorta di diadema a forma di U (erembe) realizzato con pelle di capra. Anche l’acconciatura, come tutto il corpo, è coperta con l’impasto di ocra. Fino al primo mestruo le bambine rimangono in famiglia, poi passano una settimana davanti al fuoco sacro per essere purificate e quindi iniziano a vestirsi e ad acconciarsi i capelli come le donne adulte e sono pronte per il matrimonio. Il matrimonio può avvenire a qualsiasi età; per assurdo, la bambina può avere anche 5 anni, ma, in questo caso, fino alla pubertà rimane con i genitori. Per potere sposare una ragazza è ancora in vigore l’uso dei “lobola” ossia il prezzo, in bestiame, vacche e pecore, che la famiglia dello sposo deve pagare ai genitori della futura moglie per dimostrare che è in grado di mantenerla. Gli uomini sono alti e muscolosi e vestono quasi tutti all’occidentale, infatti, anche se portano il gonnellino, indossano sopra una maglietta. I piccoli portano treccine che vengono intrise di sterco e urina fino all’età di 10 anni, poi vengono rasati ai lati mentre sulla sommità della testa viene lasciata una cresta di capelli da cui parte un codino che ricade sulla nuca che infilano entro un “cappellino” che ricopre i capelli; un codino singolo segnala la loro condizione di adolescenti non ancora maturi per il matrimonio; quando raggiungono la maggiore età si aggiungerà una nuova treccina: questa acconciatura con doppio codino segnalerà che i giovani sono in età da accasarsi. L’uomo sposato si distingue da quello scapolo per una folta capigliatura , che non taglierà mai, raccolta in due trecce attorno alla testa e rinserrata entro un berretto di pelle triangolare che toglierà solo in situazioni particolari come, ad esempio, un funerale durante il quale questa fascia viene tolta e i capelli ricadono sciolti. Il lutto dura un intero anno. Anche le donne mantengono il lutto per un anno intero e durante questo periodo non portano gli ornamenti più evidenti (ad esempio la conchiglia) ma tengono solo quelli che possono essere facilmente nascondibili.

L’abbigliamento degli uomini è uguale per tutti: perizoma di pelle di capra o di bovino pieghettato sul davanti e decorato con perline, sandali di cuoio, collanine al collo. Essi si cospargono il corpo con grasso misto a cenere. Un rito specifico degli Himba consiste nell’ ablazione degli incisivi inferiori: verso i 13-14 anni, appena raggiunta la pubertà, si fanno saltare questi denti tramite un pezzettino di legno apposito colpito in maniera decisa con una pietra mentre quelli superiori vengono limati. Questa ritualità un tempo era obbligatoria ma oggigiorno è facoltativa. Nonostante questo i giovani Himba sono pronti a dimostrare a tutti gli altri di essere fieri di appartenere a questo popolo e quindi accettano di sottoporsi a questo rito. Sebbene agli europei ciò possa sembrare crudele esso deve necessariamente essere visto come una ritualità legata alle tradizioni di un popolo, al pari delle scarificazioni in alcune popolazioni della valle dell’Omo, le collane attorno al collo delle “donne giraffa” o i tatuaggi che ricoprono quasi interamente il corpo dei Maori in Nuova Zelanda. La vita del popolo Himba della Namibia, selvaggia e pastorale, è scandita da consuetudini che si ripetono uguali da sempre ed è segnata dalle transumanze degli animali che costituiscono la ricchezza del popolo. La loro struttura sociale è molto complessa e dettata da una forte commistione di un sistema di tipo patriarcale con uno stampo matriarcale. Mentre, infatti, gli uomini sono formalmente i capi clan, è la discendenza matrilineare a determinare le parentele. I villaggi, su base familiare, ospitano poche decine di persone e conservano usi e costumi tradizionali grazie anche al loro lungo isolamento dovuto alla presenza dell’esercito sudafricano. Solo con la recente indipendenza della Namibia i territori Himba si sono aperti al turismo. L’unità abitativa è il “kraal”, di forma circolare, entro cui si svolge la vita; è composta da due cerchi concentrici: da un recinto per gli animali e da capanne a cupola, molto semplici , che , come quelle dei Masai, sono costruite con rami di mopane o di acacia e fango e ricoperte con un impasto di argilla e sterco bovino. Sul tetto delle capanne sono posti tutti gli arnesi da lavoro. All’interno della capanna c’è una sorta di cono fatto con stecchetti ed erba intrecciata , sotto il quale viene messo il carbone acceso per profumare gli indumenti e gli ambienti. Il capo villaggio ha più mogli: la prima viene scelta dalle rispettive famiglie quando i futuri sposi sono ancora in fasce. Le due famiglie di origine sono lontane e in questo modo si evitano incroci fra consanguinei. Le altre mogli le sceglie lui ma esse possono anche rifiutare. L’uomo già sposato e in cerca di altre mogli può decidere di sposare anche una bambina ma la giovane fanciulla va a stare con lo zio materno finchè non è pronta al matrimonio, ed è lei l’unica moglie a dormire con il marito, le altre hanno ciascuna una propria capanna. Durante la notte dormono nelle capanne per ripararsi dal freddo; normalmente quella del capo villaggio ha il retro che guarda verso est ma l’uomo si muove e ogni notte va in una capanna o l’altra.In ogni villaggio Himba, tra la capanna del capo e il recinto degli animali è posto il “fuoco sacro”: è questo un luogo di culto legato alla sfera religiosa. Gli Himba credono che il fuoco metta in comunicazione gli uomini con il dio, attraverso gli spiriti degli antenati; ritengono che le anime dei morti abbiano poteri sovrannaturali e influenzino i viventi riuscendo a metterli in contatto con il dio Mukuru. Da ciò deriva la necessità di mantenere buoni rapporti con le anime attraverso il fuoco sacro. Il fuoco è, generalmente, un unico ceppo che arde giorno e notte, ed è cura della prima moglie e della prima figlia vegliare perché non si spenga. Secondo un rito preciso il fuoco deve essere acceso la mattina e la sera mentre durante il giorno le braci sono conservate nella capanna del capo. Intorno al fuoco si celebrano tutti i rituali della comunità: si tengono assemblee, si prendono le decisioni più importanti, si invoca la guarigione di un malato (se il fuoco si affievolisce non è un buon segno). E durante le cerimonie sarà questo ceppo a dare vita al fuoco tribale per simboleggiare un contatto con le anime. E’ vietato camminare sulle braci ma anche attraversare la linea che unisce il fuoco e la capanna del capo.Una grande cerimonia viene fatta quando gli animali rubati vengono ritrovati. Gli uomini raccolgono molte foglie di mopane e ne fanno una catasta; il capo tribù “lava” con le foglie il volto dei bimbi e delle donne che procedono in fila inginocchiate. Alla fine della cerimonia viene sacrificato un montone.Nel villaggio e in tutto il territorio ci sono recinti fatti di canne che racchiudono gli orti nei quali vengono coltivati vari vegetali: mais, sorgo, spinacio selvatico e zucche. Molto spesso questi villaggi vengono abbandonati perché, per assicurare pascoli e acqua sufficienti alle mandrie, gli Himba sono costretti a spostarsi continuamente. Questo popolo ha un’economia quasi soltanto di sussistenza; con la vendita di qualche capo di bestiame si procurano gli alimenti che non producono e qualche lusso, come il thè e il tabacco. Per il resto fanno tutto con le loro mani e le risorse ancestrali, gli animali domestici e la vegetazione spontanea. Le abitazioni cilindrico-coniche costruite con rami sigillati con argilla, le recinzioni fatte intrecciando magistralmente rami di acacie spinose, gli attrezzi per la preparazione del cibo: tutto è come nei secoli scorsi. Alle donne spetta un ruolo importante all’interno del clan, dalla cura dei figli alla gestione dell’alimentazione che non è molto varia.La dieta degli Himba consiste principalmente di latte cagliato e di carne di capra, pecora o zebra cacciata a colpi di lancia e con l’ausilio di un potentissimo veleno, tratto dalla linfa dell’arbusto Adenium boehmianum. La mattina i ragazzi mungono le vacche e poi le portano al pascolo. Anche alle donne è permesso mungere il bestiame, ma tocca al capo del villaggio assaggiare per primo il latte di ogni secchio : gli viene porto il recipiente colmo, egli vi bagna le labbra e vi intinge un dito della mano destra, per affermare il controllo sugli armenti e sui prodotti da essi derivati. La sera la cena è rappresentata da latte, mais e uova. Il latte viene spesso mescolato a farina di mais così da formare una sorta di polenta bianchissima che essi mangiano con le mani direttamente dalla pentola in cui è cucinata. Le donne, tutte bellissime, sono onnipresenti nel villaggio e, insieme agli anziani e ai bambini non si allontanano mai dal villaggio mentre gli uomini si dedicano alla cura del bestiame. Alle donne delle singole comunità spetta la proprietà collettiva delle mandrie, sotto il controllo del fratello della madre. Proprio per questo gli uomini, una volta sposati, lasciano la loro tribù per quella della sposa. Però l’autorità politica e religiosa è sempre nelle mani di un uomo, solitamente il capo famiglia o il capo villaggio.Le faccende domestiche sono ben divise anche se alle donne toccano i lavori più duri : ad esse spetta il compito ricavare la quantità giornaliera di farina necessaria, operazione che si esegue strofinando il mais su una pietra appuntita , di pestare il mais e di fare il burro; gli uomini hanno invece l’onere di occuparsi del pascolo del bestiame. L’acqua è spesso insufficiente e deve essere pompata dagli strati più profondi dei fiumi, ma se questo non è possibile gli Himba lasciano il loro kraal alla ricerca di migliori condizioni di vita. Alle donne è anche affidata la cura dei figli verso i quali hanno un rapporto molto tenero. I bambini accompagnano la madre in ogni momento della giornata appesi dietro le spalle, sostenuti da un ingegnoso sistema di cinghie di cuoio, e imparano fin da piccoli ad accudire il bestiame e a rispettare i valori delle tradizioni del popolo. Ridotti a poco più di 7000 individui, gli Himba della Namibia hanno un’indole pacifica e vivono di pastorizia nei loro villaggi ove hanno tutto ciò di cui necessitano e quando questo viene a mancare, abbandonano il villaggio e si spostano in aree più favorevoli. Hanno una grande resistenza e un metabolismo che consente loro di fare a piedi 120 km in un giorno solo (dall’alba al tramonto).”

Il capo del villaggio che abbiamo visitato, tramite la guida, ci spiega che generalmente in ogni villaggio c’è un solo uomo, il capo, che vive con le sue mogli, le loro sorelle, la propria progenie in linea femminile ed i figli. Ogni altro membro maschio, nel momento in cui si sposa, fonda il proprio villaggio. Un villaggio che si sviluppa attorno ad un recinto circolare, fatto di rami di arbusti spinosi e con tanti piccoli igloo di terra quanti sono gli adulti del villaggio. Uno per l’uomo, uno per ogni moglie. Come ci dice una delle mogli, nei momenti passati dentro la sua “casa”, queste capanne vengono costruite dalle donne intrecciando rami di alberi per la struttura portante ed impastando il tutto con argilla e sterco. Ognuna richiede in media un mese di lavoro. Al loro interno giusto qualche pelle di animale per materasso e coperte e le poche suppellettili necessarie per la loro semplice vita. Un recipiente per l’acqua, gli attrezzi per conciare e cucire le pelli, un piccolo fuoco per scaldarsi e bruciare sostanze aromatizzanti, come in un grande incensiere e, nel caso delle donne, i contenitori delle creme che usano per truccarsi. Quello che appare subito evidente e stupefacente per la nostra mentalità occidentale, è la serenità nelle facce di queste persone. Una serenità che lascia pensare che siano più felici di noi. E non meno forte risalta, nei loro occhi, l’orgoglio di essere ciò che sono. Una dimostrazione pratica è la gentilezza e la convivialità che dimostrano con noi turisti, senza né segni di invidia né di disprezzo o rancore. Ed è anche impossibile non rimanere affascinati dai bambini. Non solo sono bellissimi ma sono anche bravissimi e buoni. Durante la visita e pure nei giorni successivi non abbiamo mai visto e sentito i pianti, le bizze ed i capricci come fanno i nostri bambini. Giocano, lavorano o se ne stanno quieti accanto alle madri senza l’ isterica frenesia che il mondo “civile” genera in loro.

Di fronte a tanta fierezza mi vergogno a fare le foto. Sono loro stessi a dire che se voglio posso farle. Ne approfitto per riprendere le donne ed i bimbi del villaggio ma poi richiudo la macchina fotografica. Decido di non fare molte foto, soprattutto dentro alle capanne, non me la sento proprio di violare le loro case e di offenderli con un atteggiamento da visitatore di uno zoo. Hanno dimostrato un’ orgoglio tale da meritarsi di essere trattati come uomini e non come oggetti alla fiera delle stranezze. Le immagini più belle le terrò nella memoria, non nell’ album.

Nelle ore passate con loro ci rendiamo conto della distanza che esiste tra le nostre culture, ma anche di come non necessariamente sia la nostra la migliore, o quantomeno quella da imporre a tutti. Una cosa che ci stupisce è la difficoltà che loro hanno, e la stessa guida ha, di comprendere la struttura sociale del nostro mondo, i meccanismi che regolano il lavoro, la famiglia, le amicizie, cosa sia una città, un quartiere od un condominio. Si preoccupano di sapere se abbiamo un fiume vicino a dove viviamo e se nelle sue acque ci sono i coccodrilli. Non riescono a capire che siamo partiti (loro non conoscono il termine turismo) chiudendo casa. Qualcuno nel villaggio dobbiamo aver lasciato per forza. Chi fa la guardia? E quale gradino occupiamo nella scala gerarchica del nostro villaggio? Siamo veramente tornati indietro di secoli, forse millenni, ma non abbiamo trovato mostri orribili e stupidi. Abbiamo trovato persone bellissime con la nostra stessa intelligenza, solo con un diverso modo di vivere.

Prima del rientro al campeggio la guida ci porta a visitare un cimitero Himba. Semplici tumuli, solo pochi capi villaggio particolarmente ricchi od importanti hanno una sorta di lapide, circondati da pali che sorreggono i teschi delle vacche a simboleggiare l’onore e l’importanza del defunto.

Qui la nostra guida ci spiega un altro aspetto della cultura Himba. Lui è un ex ragazzo Himba che ha deciso di studiare e diventare maestro. Una volta finito gli studi ha dovuto decidere se tornare alla vita della sua tribù o rimanere nel “mondo dei bianchi” come guida turistica, sapendo che nel secondo caso la scelta sarebbe stata definitiva. Una volta abbandonata la famiglia non possono più rientrarvi.

La sera al campeggio ci gustiamo il tramonto sul fiume e sulle cascate, con tutti i suoi colori e le sue atmosfere. E riflettiamo. Di la dal fiume l’Angola, siamo a 180 km dal primo paese, 500 km dall’Etosha (primo posto con uomini bianchi), ed ancora più km dalla prima città che tale si possa chiamare.

8° giorno 02.10.2009 Epupa falls – Palmwag • C43 dir. Sud fino ad Opuwo 200 km • C43 dir sud fino a Sesfontein 123 km • C43 dir sud fino a Palmwag 101 km • Pernottamento al Palmwag lodge: costo totale N$ 190 (N$ 100 per il veicolo e N$ 45 a persona) Partiamo dalle Epupa con il rammarico di lasciare un posto speciale. Un Eden. Rifacciamo la strada all’indietro per arrivare ad Opuwo. Questa volta vogliamo dare quanti più passaggi possibile. E l’occasione non tarda ad arrivare. Un ragazzo Himba con tanto di bastone, pugnale e machete. Non capita tutti i giorni di guidare con un machete accanto al freno a mano (anche se servirebbe più sulle nostre strade che sulle loro). Dopo poco prendiamo a bordo anche un altro ragazzo che deve raggiungere un villaggio lungo la strada per portare delle bacche ed altri prodotti a Okongwati. E dopo pochi altri chilometri facciamo salire anche una ragazza con la mamma e la bimba piccolina.

Così non soffriamo di solitudine. Io davanti con il giovane pastore Himba, Patrizia dietro, nel cassone, con le altre quattro persone. Lungo la strada ci fermiamo un paio di volte per permettere a qualcuno di loro di salutare, amici o parenti non lo abbiamo capito, nei villaggi lungo la strada.

Poi arriviamo a Okongwati. Qui i due ragazzi scendono, sono arrivati, mentre le due donne devono proseguire per Opuwo. La ragazza approfitta per un giro nel villaggio e noi rimaniamo ad attendere con la nonna e la nipotina, una bimba di tre anni di nome Linda. Una bimba bellissima, lineamenti da principessa, una dolcezza enorme. Mentre aspettiamo diamo delle mele a Linda, alla nonna e ad una giovanissima ragazza Himba che è venuta a vedere cosa facevamo. L’immagine, forse più bella del viaggio, è quella di Linda che mangiando la mela, si toglie di bocca le bucce e le mette nelle mani di Patrizia perché le butti. Non so cosa avrei dato per potermela portare a casa e rivedere quegli occhini tutti i giorni. Nell’attesa vengono a salutarci anche alcuni vecchi del paese. Probabilmente è circolata la voce che stiamo dando passaggi e sono venuti a vedere chi è che si ferma 30 minuti tra quelle povere capanne a mangiare mele insieme a loro in attesa di ripartire.

Adeguarsi alla loro visione della vita vuol dire anche questo. Dare un diverso senso al tempo, lasciare da parte la velocità che regola imperante la nostra società e riappropriarsi della lentezza e della calma dei gesti. Sinceramente ci dispiace ripartire. Non sarebbe stato male rimanere più tempo ma il viaggio deve procedere.

Lungo la strada, visto che riabbiamo nuovamente posto, prendiamo a bordo un’altra ragazza con un bimbo piccolissimo. Anche loro vanno ad Opuwo.

E qui invidio Patrizia. Deve subire la scomodità del cassone di un pick-up che fa 100 km/h su una strada sterrata ma si può godere Linda che gli si addormenta in braccio. Portare queste persone a casa ci ha permesso di vedere un’ Opuwo diversa rispetto a due giorni prima. Ci addentriamo in un labirinto di baracche e capanne passando per strette strade piene di cumuli di rifiuti e buche. Ma anche qui la gente si fa da parte e ci saluta con enormi sorrisi. Siamo rimasti nuovamente soli. Io continuo a ripensare a Linda, a quella bimba bellissima che durante tre ore di scomodo viaggio non ha mai aperto bocca per un capriccio. Me ne sono innamorato.

Comunque dobbiamo andare avanti e per prima cosa serve fare rifornimento; di benzina e di cibo.

Prima tappa il take-away dove riprendere la pasta fritta e le patate. I ragazzi si ricordano di noi e ridono ancora più della prima volta nel vedere che abbiamo sicuramente apprezzato. Seconda tappa al distributore ed al market. E qui è veramente dura rintuzzare l’attacco di tutte le ragazze che vogliono vendere qualcosa e dei ragazzi vestiti di stracci che chiedono acqua, scarpe, magliette od anche solo le taniche o le bottiglie vuote.

E per la seconda volta rimpiango di non aver portato tutte quelle magliette che a casa non metto mai e rimangono anno dopo anno ad occupare spazio nell’armadio. Gli lascio un paio di T-shirt e via per il resto della tappa. Lungo la nuova strada prendiamo a bordo cinque bimbi, di età varie, che tornano a casa dopo la scuola. Sono tutti dietro e li sentiamo ridere e scherzare di continuo. L’allegria dei ragazzi è uguale in tutto il mondo.

I primo due, più piccoli scendono dopo 45 minuti / 1 ora. Li vediamo correre, scalzi, veloci come gazzelle per raggiungere le loro capanne nel mezzo alla savana. Gli altri tre scendono dopo altri 30 minuti. Ci chiediamo. Ma se non gli davamo un passaggio quando tornavano a casa? Vorrei risposta dai nostri ragazzi, quelli che non vanno a scuola se non hanno il motorino, il cellulare ed i vestiti e le scarpe “firmate”.

Passato Opuwo la strada continua ad essere sterrata ed in alcuni tratti un po’ più dissestata. L’importante è riuscire a trovare quella velocità che permette alle ruote di passare da una sommità all’altra di tutte le ondulazioni che ci sono nel manto stradale. Ed è per questo che non solo è consentito dai limiti ma diventa naturale pigiare sull’ accelleratore fino a superare gli 80/90 km e spesso anche i 100km/h. Una velocità inferiore vuol dire che le ruote invece di saltare da una gobba all’altra scendono e salgono tutte le ondulazioni. Con il risultato che il fuoristrada diventa un enorme vibratore, un po’ come quelle fasce vibranti che promettono miracoli dimagranti nelle tv private.

Quindi il consiglio è quello di non intimorirsi per la velocità e l’inevitabile tendenza del fuoristrada a micro sbandate dovute alla scarsa aderenza. Non sarà un problema abituarsi a controllarle, anzi alla fine diventa molto divertente guidare in queste condizioni. Molta attenzione è poi da prestare quando si incontrano gli avvallamenti del terreno. Nella stagione delle piogge si allagano ma anche quando sono asciutti non sono da prendere sotto gamba e costringono a bruschi rallentamenti. Molti sono talmente profondi e bruschi nel cambio di pendenza che arrivarci troppo veloci vuol dire picchiare una botta enorme sul fondo dell’avvallamento con il rischio di toccare il terreno con il muso del pick-up che mentre scende per l’abbassamento degli ammortizzatori incontra il terreno che risale. In alcuni il cambio di pendenza è così ravvicinato che mentre le ruote anteriori iniziano a salire quelle posteriori devono ancora arrivare sul fondo. E ce ne sono un’infinità. Quindi serve tanta attenzione ai cartelli che ne segnalano la presenza e capacità di valutazione del tipo di avvallamento per capire in anticipo a che velocità affrontarlo.

È principalmente questo aspetto che rende consigliabile l’uso di un fuoristrada. La sua maggiore altezza da terra e la sua robustezza permettono maggiori velocità e perdonano più errori alla guida.

Nella stagione secca infatti, anche per l’attenzione che hanno nella cura del fondo stradale, sono pochi i casi in cui è necessario ricorrere alle quattro ruote motrici od addirittura alle ridotte.

Una di queste è stata proprio su questo tratto della C35 che in un punto per circa 100/150 metri attraversa e segue il fondo di una specie di torrente (chiaramente secco) con pietre e buche difficilmente superabili da un’auto.

L’arrivo al Palmwag ci riserva la sorpresa di un bellissimo campeggio con tanto di pista per elicotteri e piccoli aerei.

Ci assegnano una piazzola lungo le sponde di un Wadi in secca, bella comoda e completa di tutto, dal barbecue, alla luce, al piano cottura, al lavandino. Purtroppo, come spesso capita, il fatto che sia un posto per turisti ricchi e comodi non vuol dire che attiri persone educate. E così verso le 22:30 / 23:00 Patrizia è costretta ad andare a chiedere il rispetto delle regole sul silenzio a qualche turista un po’ troppo “ilare” per il tasso alcolemico oltre i limiti. Il riccone andrà a sud con l’elicottero, noi con la macchina e quindi vogliamo dormire.

Da segnalare che questa nottata ha segnato l’inizio del calo della temperatura notturna. 14 gradi.

9° giorno 03.10.2009

Palmwag – Uis • C43dir. Sud per 39 km • C39 dir. Est per 43 km • Poi prendere la D2612 dir. Sud-est per 77 km • C35 dir sud per 55 km • Pernottamento a Uis al Brandberg rest camp: costo tot. N$ 120 (N$ 60 a persona) Oggi partiamo per Uis.

Ancora una volta il paesaggio cambia radicalmente. Abbandoniamo le distese piatte e le dolci colline dominate dai colori gialli e marroni per un paesaggio di cime tagliate di netto, come se fossero tante formine di panna cotta o budini, dominate dai rossi. Un paesaggio che per qualche aspetto rammenta la Monumet Valley americana.

Abbandoniamo la strada principale. Uis non è eccessivamente lontano e ne approfittiamo per arrivarci facendo strade minori che si addentrano nel territorio del Damaraland. Lungo una di queste deviazioni ci fermiamo a comprare alcuni souvenir. Sul bordo della strada vedo un piccolo banchetto custodito da una bambina piccola che vende bamboline vestite da donne Herero. Al di là della bellezza delle bambole, fatte di panno, ci attrae il contesto in cui vengono vendute. Siamo nel mezzo di un ampia vallata semidesertica, quasi per niente abitata, nella quale spiccano i colori delle bambole. Appena ci avviciniamo la bimba viene raggiunta dalla sorellina maggiore e poi dalla madre, che stava stendendo i panni fuori dalla loro baracca di lamiera di 3 metri per 3. Ne compriamo 3 per trecento Nad (circa 25 euro) ed in pratica gli svuotiamo il negozio. In tutto erano 5 bambole.

Su un’altra deviazione, quella per Sorris Sorris, incontriamo un altro fuoristrada con una coppia. Ci chiedono di fare quel tratto insieme perché dovremmo affrontare un guado a forte pericolo insabbiamento. In certe situazioni la solidarietà è spontanea perché poter contare su un secondo mezzo di appoggio da tanta sicurezza in più. In caso di necessità può rappresentare la differenza tra l’uscire da una situazione di difficoltà e rimanere fermi per ore o giorni in attesa che passi un aiuto.

La strada è molto più dissestata e anche se non assolutamente indispensabile uso le quattro ruote motrici. Abbiamo un fuoristrada, sfruttiamolo per quello per cui è stato progettato. Nel guado, che poi è più una specie di fangose sabbie mobili, le quattro ruote motrici sono assolutamente necessarie.

Un ammissione la devo fare. Guidare in queste condizioni mi ha divertito tantissimo.

Dopo un po’ ci separiamo dall’altra coppia, loro proseguono diretti per Swakopmund, noi ci fermiamo ad Uis. Nel campeggio dobbiamo incontrare Basil, il proprietario che quando abbiamo prenotatoci ha chiesto di portargli una birra dal nostro paese. È così che da 9 giorni mi porto in giro per il mondo una bottiglia di birra di castagne, tipica dell’Amiata, che ritengo proprio Basil non abbia nella sua, sicuramente vasta, collezione.

Basil, un tedesco di circa 50 anni, è un incrocio tra Conan il barbaro, Federico barbarossa e Mangiafuoco di Pinocchio, ma con la faccia di chi si sa godere la vita con allegria e simpatia senza farsi mancare niente. Insomma un orco godurioso.

Grande figurone con la birra. Grazie, oltre che alla particolarità di una birra fatta con le castagne, delle grosse figurone di c—a fatte dagli italiani che ci hanno preceduto e che gli hanno portato solo la Peroni.

Il pomeriggio lo passiamo ad oziare in piscina. Sole, caldo secco, venticello ed una piscina solo per noi per nuotare. Una pacchia. Unica nota stonata il sentirsi come padroni colonialisti ogni qualvolta vediamo le ragazze di colore fare le pulizie mentre noi ce la godiamo sdraiati sui lettini.

Questa sera proviamo il nostro primo barbecue. Prima di darci all’ozio abbiamo fatto un salto al market ad acquistare un po’ di carne. La scelta è caduta su due pezzi di ossobuco, visto che nel banco della carne solo quelli c’erano. Non era proprio la nostra Coop o l’Esselunga. Ma nel mezzo al nulla anche il poco è già tanto. Meno male che abbiamo trovato anche una confezione di wurstel. Il nostro salvacena. Infatti la carne si è rivelata ottima come pneumatico o cavo da traino per autoarticolati. Abbiamo avuto difficoltà anche a tagliarla con il coltello, figuriamoci masticarla.

L’unico che ha dimostrato di apprezzarla è stato il cagnolino che ci ha fatto compagnia.

Dopo cena, mentre scrivo, approfitto della brace che è rimasta, in pratica sono a sedere sul braciere, ma la temperatura sta calando velocemente. Questa notte 9 gradi.

10° giorno 04.10.2009 Uis – Swakopmund • C35 dir. Sud per 114 km fino a Hentiesbaai • C34 (asfaltata) dir. Sud per 72 km fino a Swakopmund • Pernottamento all’Alternative Space (guest house): costo totale N$ 500 (N$ 250 a apersona) • Mondesa tour: costo tot. N$ 800 (N$ 400 a persona) Oggi andiamo a Swakopmund. Durante la prima parte del viaggio la temperatura rimane molto bassa e siamo costretti ad attingere, per la prima volta, alla scorta di maglioni.

Il paesaggio cambia nuovamente. Il bush e la savana , con la loro vegetazione scarsa e rada, lasciano il posto ad un deserto di sassi punteggiato qua e là di qualche cespuglio, spesso neppure da quelli. Immense distese piane, senza fine all’orizzonte, di breccino colorato composto da frantumi di varie pietre e minerali, nelle quali vivono quasi esclusivamente i licheni che riescono ad attingere acqua dall’umidità portata dall’oceano atlantico, che è a soli 50 / 60 chilometri. Una caratteristica di questa zona è infatti la nebbia che è presente tutti i giorni fino a tarda mattina, inizio del pomeriggio. Una nebbia che avvicinandosi al deserto si mostra come un muraglione nero che avvolge tutto. Arrivati al mare ci fermiamo ad Hentiesbay per vedere l’oceano. Il tempo rimane brutto con una fitta foschia e vento freddo. Sorprende che un posto così vicino al mare e con tante nuvole sia un deserto.

Arriviamo a Swakopmund verso le 12:00, facciamo la spesa ed andiamo a mangiare qualcosa di veloce in un parcheggio in riva al mare. Swakopmund è la città balneare della Namibia, la città delle seconde case e delle ville dei bianchi ricchi, abitate in estate od i fine settimana per andare a pesca. Molte case sono in puro stile bavarese, qui più che altrove si trovano i segni della passata colonizzazione tedesca, altre sono in uno stile a metà strada tra europeo ed africano, ma in ogni caso parliamo di ville bellissime, con ampie vetrate in faccia all’oceano ed interni da riviste di arredamento. E come in una piccola Las Vegas l’essere sorta nel mezzo al deserto non impedisce, grazie ai soldi, di avere giardini verdi e fioriti, sia quelli privati che quelli pubblici.

Molte case sono chiuse e le strade quasi deserte, siamo ancora a fine inverno inizio primavera, per le strade si vedono solo poche macchine, tutte rigorosamente Suv o Pick-up enormi.

Alle 14:00 andiamo all’hotel. Ci dobbiamo preparare per il giro con Charlotte nel sobborgo di Mondesa. L’Hotel, a conduzione familiare, è momentaneamente chiuso, la proprietaria Sybille si è assentata per andare in città. Approfittiamo, visto che siamo all’estrema periferia della città verso l’interno per andare a vedere le dune di sabbia che cingono Swakopmund. Il primo contatto con il deserto di sabbia.

Poco prima delle 15:00 torniamo all’hotel.. L’Alternative space è molto particolare e carino e la nostra camera, enorme e particolarissima per impostazione ed arredamento ha una grande vetrata che affaccia su un giardino interno. Non facciamo neppure in tempo a guardare tutto che arrivano a prenderci per il tour. Apprendiamo che Charlotte, la ragazza con cui abbiamo preso contatti prima di partire, è morta in un incidente stradale il mese scorso. Al suo posto ci accompagnerà la figlia con due suoi cugini. La ragazza ha 16 anni e parla correttamente inglese, tedesco, afrikaners e la lingua dei Damara (quella fatta di schiocchi). E se consideriamo che vive in una baracca in un sobborgo e che si fa ogni giorno due ore di cammino per andare a scuola è impossibile non sorridere pensando alla nostra italica pigrizia per le lingue straniere.

Il tour offerto dalla famiglia di Charlotte ha lo scopo di promuovere il turismo oltre le dune, portarlo verso la città nera per far conoscere la vera Africa, quella delle etnie indigene. Con l’intento di riscuotere soldi che verranno utilizzati per la promozione ulteriore del turismo e per aiutare le attività locali, principalmente quelle legate all’istruzione. Il tour infatti costa 400 Nad (35 euro) ed una percentuale di questi soldi verrà distribuita alle persone che andremo a conoscere.

Prima tappa la casa della nonna. Siamo a Mondesa, sobborgo di Swakopmund che conta circa 4000 abitanti. L’altra faccia di Swakopmund, quella dei neri, quella povera. Quella che vive nascosta alla vista dei ricchi bianchi dalle dune di sabbia. La casa è poco più di una baracca in muratura con tetto in ondulato di ethernit, composta da tre stanze per un totale di forse 30 mq arredate con poche cose logore e cadenti. Ci accoglie la nonna con tre delle nipotine piccole. Una di queste ha gli occhi strabici, uno strabismo che in Italia sarebbe stato tranquillamente corretto, ma con un sorriso che la fa diventare ugualmente bellissima.

La nonna ci racconta la vita della famiglia, di come sono arrivati a Mondesa e della loro felicità quando il governo ha assegnato loro quell’alloggio. Una felicità che hanno voluto condividere con tutti aprendo la propria casa al prossimo, con quello spirito che poi ha portato la figlia Charlotte a voler far arrivare a casa loro il turismo straniero che si fermava di la’ dalle dune, dove sono gli alberghi belli da ricchi. Una felicità che ancora si vede negli occhi e si sente nella voce della donna che, nonostante la vita non facile i lutti ed i sacrifici di tutti i giorni, ride con gusto.

Fuori ci fanno provare come si fa la farina pestando i semi in un mortaio con un enorme pesto fatto con un grosso ramo. Pochi minuti sono per noi una fatica mostruosa. E le donne lo fanno per ore, per la precisione ne servono 3 in due persone o 6 da sole per raggiungere il giusto punto di macinazione.

La seconda tappa è la casa di una ragazza Herero che ci accoglie vestita con il loro tipico abito di stile vittoriano. Ci spiega la cultura Herero e la sua vita di ragazza aperta alla modernità ma fortemente legata ed orgogliosa della propria identità etnica. Fino a qualche anno fa indossava abiti occidentali ma ora indossa con piacere il vestito tradizionale che pur essendo più scomodo per tante attività giornaliere, la fa sentire elegante, rispettata dagli altri e felice di essere una Herero.

Salutata la ragazza ci dirigiamo verso DRC (Democratic Republic Community) una baraccopoli ancora più povera di Mondesa, nata intorno alla discarica della città di Swakopmund, popolata da circa 2000 persone che in buona parte vivono della discarica stessa. Da lì riciclano tutto ciò che può essere utilizzato per costruire le baracche, dai laminati alla plastica, dal compensato al ferro o all’ethernit, dalle vecchie finestre alle porte. Lì recuperano quello che può essere riutilizzato per arredare, dai frigoriferi alle cucine, dai divani ai tavoli. Oppure tutti gli oggetti per la vita quotidiana, dai piatti ai catini, dalle scarpe ai vestiti, dalle bottiglie alle suppellettili. DRC è una sequenza infinita di baracche multicolori e multimateriali nella polvere del deserto. I più fortunati hanno pantaloni, magliette e scarpe, ma molti sono vestiti di stracci e sono scalzi. Prima di addentrarci nel mezzo a quell’espressione di povertà ci fermiamo ad ascoltare un gruppo di ragazzi che guadagna qualcosa cantando e vendendo i loro cd registrati. Rimaniamo affascinati dalle loro voci “nere”, potenti e calde allo stesso tempo. Dal loro senso del ritmo che si manifesta nel ballo. Come solo i neri sanno fare, bastano loro pochi semplici movimenti per esprimere grazia ed armonia.

Dentro DRC andiamo a visitare la stravagante baracca di quello che potremo definire un artista, un Cimabue nero. Tutta la struttura, dalle pareti esterne a quelle interne, dal soffitto alla mobilia è come un’unica grande tela su cui ha dipinto coloratissimi motivi geometrici, segni tribali o semplici macchie di colore. All’interno il padrone di casa ha sapientemente riciclato e disposto mobili da cucina, armadi, divani, tavoli ed altro arredamento in un modo da dare un senso di comodità ed accoglienza. Ma il tocco dell’artista si ritrova anche nella miriade di oggetti, i più disparati ed improbabili possibili, che affollano gli spazi come in un caleidoscopio di colori e forme. Così si vedono poster di Bob Marley, zampe di elefante imbalsamate, cristalli e pietre, monitor di computer, tappeti, dischi in vinile cuciti alle tende od incollati al soffitto, cartoline, libri, statue di legno, vecchi mangianastri e tutto ciò che una discarica può dare. Ed artista lo è anche nello spirito. Conosciamo una persona che come lui stesso ama dire, parlando in un miscuglio di inglese, damara e chissà quante altre lingue, incarna, rappresenta e vive secondo lo spirito di “mama Africa”. Non a caso è un seguace di Bob Marley. Una persona serena con se stessa e con il mondo, allegro e gioviale, felice della sua vita. Prova con poco, anzi nessun risultato ad insegnarci la lingua degli schiocchi tipica dei damara. Quattro tipi di schiocchi fatti con la lingua che da soli, o nelle varie combinazioni tra loro, anteposti alle medesime parole danno loro significati diversissimi. La tappa successiva è l’asilo di DRC. Una stanza di lamiere di quattro metri per sei in cui studiano insieme bambini di pochi anni e ragazzi di 13 / 14 anni. Al nostro arrivo i bambini piccoli che stanno giocando fuori ci saltano in collo. La voglia di contatto fisico, di carezze e di coinvolgerci nei loro giochi è fortissima e contagiosa. È impossibile non abbracciare quei corpicini mal vestiti e fare una carezza, dare un bacio a quei visetti sporchi, con gli occhi lucidi e lacrimosi ed il naso col “moccichino”per il raffreddore. Sono tutti bellissimi ed ognuno di loro è l’espressione di un sentimento. In quegli occhi abbiamo visto tutto. Dopo l’asilo andiamo a casa dei nostri “ciceroni” dove ci aspetta una prova molto impegnativa. Tra i vari piatti della cucina tipica che ci offriranno ci saranno pure i vermi dell’albero del Mopane. Iniziamo con polenta di farina di mango, spinaci e pollo, ma poi non possiamo rimandare più di tanto l’appuntamento con il piatto dei vermi. Mettere in bocca il primo richiede un po’ di sforzo ma il sapore è buono. Hanno la consistenza, ed anche la grandezza, di un gamberetto mangiato con il guscio. Alla fine ci prendiamo gusto e ce li mangiamo come se fossero una delizia a cui siamo da sempre abituati.

Alla cena conosciamo altri membri della famiglia tra i quali un ragazzetto fan sfegatato di Michael Jackson (balla continuamente il moon walking) ed una ragazzina che oltre alla bellezza dei lineamenti lascerà nella nostra mente il ricordo del suo sorriso della bocca ma anche, e soprattutto, degli occhi. Arriva poi il momento di salutare i nostri amici e tornare all’albergo, nella nostra stanza comoda, ben arredata, con tanto di bottiglia di champagne (usuale dono di benvenuto che la proprietaria offre ai propri clienti). Impossibile non pensare al contrasto tra quei due mondi fisicamente così vicini da sfiorarsi, ma poi così lontani nel modo di vivere.

11° giorno 05.10.2009 Swakopmund – Sesriem (Namibia Naukluft park) • B2 dir. Sud fino a Walvis bay per 30 km • C14 dir. Sud/est fino a Solitarie per km 230 • C19 dir. Sud per 82 km • D826 (anche chiamata C27) per 12 km fino a Sesriem • Pernottamento al Sesriem camp site: costo totale per 2 notti N$ 1.200 (N$ 150 per persona al giorno + N$ 300 al giorno per la piazzola) Colazione fai da te nella cucina, fornitissima, dell’Alternative Space: uova, pancetta ma anche e soprattutto Nutella. Mirabile visione!!! Questa mattina ce la prendiamo proprio comoda, anche per il viaggio, almeno fino a quando ci accorgiamo, guardando gli appunti, che i chilometri da fare sono molti di più di quelli che avevamo in mente.

Come se non bastasse un altro errore “bischero” alla fine della tappa ci costringe a 50/60 chilometri in più. La nutella ci ha rincoglioniti.

L’arrivo al Sesriem ci riserva quella che sul momento è una brutta sorpresa.

Un po’ per colpa di uno scivolone linguistico di Patrizia ma ancora di più per la non troppo simpatica, cordiale ed efficiente accoglienza della ragazza alla reception ci sentiamo richiedere un pagamento di 300 Nad che capiamo non essere l’ingresso al parco ma un ulteriore permesso di transito. Inviperiti (il vero termine è censurabile) neri per non aver trovato traccia in nessun sito di questa sovrattassa, con la convinzione quindi di dover pagare il conosciuto e dovuto ingresso il giorno dopo, ci avviamo a visitare un canyon all’interno del campeggio. Ma la testa è sempre lì. Per cosa è quella tassa? Permesso di transito per dove? Per girare dentro il campeggio ed arrivare al cancello del parco (500 metri)? E quelli che non dormono al Sesriem ma nelle altre sistemazioni fuori lo pagano ugualmente? Eppure Patrizia gli ha chiesto molto precisamente se quel pagamento era per il biglietto di ingresso al parco. E la risposta è stata altrettanto precisa: no! È una tassa di transito. Ma la domanda deve avere una risposta, ci arrovelliamo troppo il cervello. Così decidiamo di tornare indietro e fare un tentativo al cancello di ingresso del Parco. Proviamo a chiedere al guardiano. E lì la notizia meravigliosa. Quello che abbiamo pagato è il biglietto di ingresso al deserto valido per due giorni.

Al di là della contentezza per la buona notizia ci chiediamo come mai di loro iniziativa ci abbiano fatto pagare il biglietto per due giorni. Potevamo anche voler rimanere il pomeriggio in tenda e entrare nel parco solo il giorno dopo. Ma a questo punto cercare di capire è inutile. È andata così. Prendiamo la parte buona di ciò che è successo. Possiamo andare ora a vedere il tramonto e domani l’alba. Ad aver capito subito come stavano le cose ce la potevamo prendere più calma, visto che per le 20:00 dobbiamo uscire dal parco, ma tanto vale sfruttare il giorno il più possibile. Così entriamo e senza badare troppo al limite di 60 km cerchiamo di raggiungere le prime dune. Per i primi 20 chilometri non si vede niente poi arriviamo all’inizio del deserto sabbioso. A questo punto tiriamo ancora un po’ per arrivare alle tre dune al km 35. Per chi non si ricorda di prendere nota del contachilometri ci sono cartelli indicatori ogni 5 km. Come letto in molti resoconti e confermato da una guida incontrata mentre stavamo ancora interrogandoci sulla tassa di transito la duna 45, benché sia la più famosa, conviene lasciarla come seconda scelta. È perennemente troppo affollata di turisti che rovinano l’atmosfera magica con pic-nic, urla, risa e la confusione di squadroni d’assalto. La guida ci ha consigliato di guardare l’alba alle tre dune al km 35 e poi tirare dritti fino a Soussuvlei. Considerato il vantaggio del doppio ingresso faremo le dune 35 e la 45 questa sera ed il resto domani mattina. Così dopo una prima sosta di fronte alle tre dune al km 35 per ammirarne il loro lento cambiare di colore, ci dirigiamo alla duna 45. Capiamo che è la più famosa non solo per la vista che si gode dalla sua sommità ma anche e soprattutto perché l’ascesa inizia in prossimità della strada. È quindi la più comoda per i gruppi di turisti pigri e sovrappeso. Ed anche questa sera ce ne sono tanti, molti dei quali già pronti con birre, vini o champagne da gustare al tramonto. Tutti in fila a sedere lungo la cresta e … Accidenti a molti di loro… Non si scansano neppure a tirargli le cannonate. Come se non fosse evidente che per camminare quella è la linea migliore, l’unica, perché molto battuta, in cui è possibile tenere i due piedi quasi sullo stesso piano. Cosa gli cambierà stare a sedere 40 centimetri più in basso. E poi si lamentano se camminandogli addosso sollevi la sabbia che gli rovina l’aperitivo!!!!! Quanta voglia di dargli una bella spinta e vedere chi rotola più velocemente.

La prima salita su una duna è un esperienza molto particolare. La sabbia è molto fina, affondiamo fin sopra le caviglie. Procediamo lenti lungo la cresta che divide in modo netto il versante al sole, con sabbia calda e di un bell’arancione, dal versante all’ombra con sabbia fredda e di color rosa scuro. Poco prima della sommità, in un punto dove non ci sono altri turisti, ci mettiamo a sedere ed aspettiamo il tramonto gustandoci il silenzio ed il vento, con lo sguardo che abbraccia un’enorme vallata contornata da alte dune che al variare del sole, ed a secondo della loro forma, assumono tutte le sfumature dei rosa e degli arancioni. Una caratteristica di questa latitudine è che il sole tramonta con una velocità impressionante. È possibile coglierne distintamente il movimento nella fase di discesa sotto la linea dell’orizzonte. Si vede che gli spettacoli belli devono durare poco.

Oramai si è fatto buio e così torniamo velocemente al campeggio. La Namibia oggi ci ha regalato un altro spettacolo.

Barbecue, due buone birre e nanna. Prima però ci rilassiamo nelle comodissime sedie da campeggio della Ferrino guardando in silenzio le stelle nel cielo. Nell’emisfero Australe se ne vedono molte di più che da noi.

12° giorno 06.10.2009

Questa mattina ci alziamo presto, anche se non così tanto come altri turisti. Quando alle 5:30 beviamo il nostro caffè quotidiano alcuni sono già partiti. Ma abbiamo gia visto la prima parte del parco e quindi ce la prendiamo comoda.

Da segnalare che mentre per chi campeggia al Sesriem il cancello di ingresso al parco apre alle 5:30 per chi pernotta nelle altre strutture, più o meno lontane, l’ingresso è permesso solo dopo le 6:30.

Considerando che le prime dune degne di essere osservate sono dal trentesimo km in poi ed il limite è di 60 km/h , quell’ora in più permette di arrivarci con tutta calma ma anche, soprattutto, prima che si riempiano di turisti. A meno che nelle vostre foto non vogliate immortalare folle tipo suk arabo.

Oggi ci gusteremo i colori della mattina ma dalla macchina. Non ci fermeremo per strada. La nostra meta sarà direttamente Soussuvlei e la duna più alta del mondo.

La mattina è molto fredda, questa notte la temperatura è scesa a 6 gradi, e ciò non invoglia ad uscire dalla macchina per passeggiare nella luce dell’alba. Quindi ci guardiamo le dune con il calduccio del riscaldamento acceso.

Per arrivare a Soossuvlei ci sono 60 km di strada asfaltata fino ad un parcheggio. Gli ultimi 4/5 km sono su sabbia e quindi percorribili solo con fuoristrada. Chi non vuole rischiare con il proprio può lasciare la macchina nel parcheggio e sfruttare delle staffette che fanno continuamente avanti e indietro. Severamente vietato (prevista una multa) fare quell’ultimo tratto con macchine normali. Massimo 100 metri e vi dovrebbero venire a tirare fuori.

Noi decidiamo di farci quei chilometri a piedi. Ancora oggi non riesco ad essere arrabbiato con Patrizia per aver pensato una cosa del genere. Lo sono con me stesso che l’ho assecondata. Soprattutto nel non voler portare ciò che è più importante quando si vuole fare i “ganzi” nel deserto: L’ACQUA!!. Quante me ne ha dette perché volevo mettere un po’ di bottiglie e panini nello zaino. Stavo perdendo tempo per qualcosa di inutile!!!! Ripensandoci, pur da sostenitore della non violenza, in questi casi giustifico l’uso di un sano ed educativo cazzottone sulla bocca!!!!! Sono riuscito a prendere giusto un litro d’acqua e neppure un biscotto. I primo chilometri hanno dato ragione a Patrizia. Temperatura ancora fresca nonostante due magliette e un pile. Ogni tanto passa qualche fuoristrada e chissà cosa penseranno gli occupanti nel vedere due buffi pedoni che vagano alla ricerca dei punti in cui la sabbia è più compatta per non affondare troppo. Sia all’andata che al ritorno abbiamo avuto modo di vedere che solo noi abbiamo fatto quella scelta. Che per tanti aspetti si è però rivelata premiante. Ci siamo goduti la bellezza del luogo non solo con la vista dall’abitacolo di un’auto ma anche fisicamente camminandoci nel mezzo. Solo in questo modo è possibile capire la fragilità dell’uomo e l’immensità e la potenza della natura.

La camminata per arrivare a Soussuvlei non è semplice anche se nulla in confronto alla scalata alla duna più alta del mondo. Salire in linea retta dalla base alla sommità e pressoché impossibile vista la pendenza e la consistenza della sabbia che cede continuamente. Per salire è quindi necessario camminare lungo le creste che una dopo l’altra portano sempre più in alto. E ciò vuol dire chilometri in perenne salita sotto un sole che inizia a farsi sentire sempre più. I pile sono già finiti nello zaino. E così anche per persone allenate come noi la fatica esige, di quando in quando, alcuni secondi di riposo. Per camminare meglio e per un maggior senso di libertà ci siamo tolti le scarpe e procediamo a passi lenti e costanti come in una scalata in alta montagna. Razionare le energie è la prima regola. Ma la fatica è ampiamente ricompensata da ciò che ci circonda. Un mare di sabbia modellata dal vento, dune altissime ed i fondali di antichi laghi prosciugati. Ma il massimo lo si ha arrivando sulla cima. Comodamente seduti e rinfrancati da una bella bevuta osserviamo la vastità del deserto, i rosa, i rossi e gli arancioni delle dune in contrasto con il bianco accecante del fondo secco del lago di Soussulvei e con il blu del cielo. La potenza e la spettacolarità della natura al massimo grado.

Obbligatoria una mezz’oretta di silenzio e riflessione. Poi, anche se a malincuore, dobbiamo ripartire. Per il ritorno non seguiamo le creste ma scendiamo dritti per il versante della duna che porta al lago di Soussulvei. Per centinaia di metri, con una pendenza impressionante, corriamo a balzelloni affondando nella sabbia soffice fino ai polpacci. Ogni tanto ci fermiamo per osservare quanto siamo piccoli in quell’enorme montagna di sabbia e quando arriviamo in fondo ci ritroviamo sulla crosta secca, indurita e screpolata dal sole di Soussulvei. L’attraversiamo e sembra di passeggiare per un luogo che appartiene ad un altro pianeta o ad un’altra era. Le dune, il sole battente che rende tremula l’aria, il bianco della terra in contrasto con il nero dei tronchi secchi di quella che sembra una foresta oggetto di un incantesimo, rendono il luogo quasi soprannaturale. Quando torniamo sulla sabbia è obbligatorio rimettere le scarpe. Il sole oramai l’ha portata ad una temperatura da ustione.

Tutto il ritorno, benché bellissimo si rivela una vera faticata perché, ringrazio ancora Patrizia, l’acqua è finita; e 4/5 chilometri nel deserto, alle 13:00, con il sole che picchia duro, i piedi che affondano e già diversi chilometri nelle gambe non sono la prospettiva migliore quando la sete inizia a farsi sentire forte.

Quando arriviamo alla macchina grossa bevutona d’acqua, tante arance e poi, in barba all’aspetto fisiologico che non lo consiglierebbe, ci facciamo due birre fresche stando comodamente seduti nel cassone del pick-up.

Una volta rinfrancati non resisto alla voglia, che ho con difficoltà tenuto a freno questa mattina, di fare la pista sabbiosa fino a Soussulvei con il fuoristrada. Non posso tornare a casa senza aver guidato sulla sabbia. E quando mi ricapita!!!!. E quindi via, anche se la mia esperienza di guida su sabbia si limita alla lettura di alcuni siti internet ed il nostro pick-up non è, per gommatura ed assetto, il più adatto a quel tipo di terreno. Ma tanto abbiamo la pala!!!! E nelle prime centinaia di metri, almeno in un paio di occasioni, qualche rischio insabbiamento lo abbiamo corso, soprattutto quando per incomprensione con una delle staffette mi sono trovato a dovermi fermare fuori dalla traiettoria più battuta. Poi una volta capito l’uso delle marce e la consistenza e reazione del fondo è stato un divertimento. Altro che auto-scontro al luna park. Un continuo di sbandate, sbalzi, ruote che affondano, sterzo che sembra vivere di vita propria e, sottopelle, la continua apprensione per il rischio di dover usare quella pala che abbiamo a bordo.

Patrizia di tutto ciò ha vissuto solo la paura per della pala!!!!!! E per questo non ho potuto fare quel bis che mi sarebbe piaciuto provare.

Ma va già bene così.

Anche se ciò vuol dire che è veramente finita. Non solo la giornata nel Namib ma proprio tutto il viaggio!!! Per l’ultima sera in campeggio salsiccia alla griglia, birra e la compagnia delle stelle e della luna.

13 giorno 07.10.2009

Rientro a Windhoek • D826 (oC27) per 12 km • C19 fino a Solitarie per 82km (per il pieno) altrimenti 11 km prima prendere la D1273 • C14 dir sud per 14 km • C24 dir. Nord/est per 174 km • B1 dir. Nord per 87 km • Pernottamento al Rivendell guest house: costo tot. N$ 580 (N$ 290 a persona) Giornata sottotono. La tappa ci ricondurrà nella capitale per l’ultimo pernottamento prima della partenza. Ci alziamo con calma, puliamo tutta l’attrezzatura da campeggio e partiamo con destinazione Solitarie dove faremo l’ultimo rabbocco di carburante.

Riavvicinadosi alla capitale iniziamo a ritrovare le aziende agricole dei bianchi e poco prima della città torniamo sulla strada asfaltata.

All’arrivo a Rivendell riprendiamo possesso della camera del primo giorno.

La sera, nella cucina comune, cuciniamo ciò che è rimasto nel frigo e poi a letto. Non prima di aver imprecato per incastrare tutti i souvenir nelle valigie. Meno male che nell’ennesima donazione lascio in Namibia anche un paio di scarpe. Giusto il posto per le scatole di tè.

14 giorno 08.10.2009 Verso le 9:30 andiamo a riconsegnare il fuoristrada. Tutto ok. Non ci sono danni.

Il ragazzo che ci era venuto a prendere 13 giorni fa ora ci riaccompagna all’aeroporto. Consegniamo il navigatore e ci avviamo al banco per il check-in.

Inutile dire con quale stato d’animo ci apprestiamo a lasciare la Namibia e l’Africa. Possiamo solo fare una promessa a noi stessi. Di ritornare, nei prossimi anni, nel continente che ha dato la vita all’uomo. Non so se sia giusto parlare di mal d’Africa. Di sicuro non è un continente che lascia indifferenti. Indipendentemente dal tipo di vacanza preferita e dal senso del bello e dell’affascinante che ognuno di noi può avere.



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