Cronaca di un safari annunciato

Sottotitolo: Nairobi, Nakuru e le leonesse del Mara Diario di sopravvivenza di 24 giorni in Africa, da sola e col solo bagaglio a mano, senza uno straccio di Lonely Planet, in un fai-da-te che spesso ha rasentato la disorganizzazione e l'anarchia totale, altro che "insostenibile leggerezza" dei tempi che furono.... L'Africa dolce e selvaggia,...
Scritto da: Medialuna
cronaca di un safari annunciato
Partenza il: 03/08/2004
Ritorno il: 25/08/2004
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Sottotitolo: Nairobi, Nakuru e le leonesse del Mara Diario di sopravvivenza di 24 giorni in Africa, da sola e col solo bagaglio a mano, senza uno straccio di Lonely Planet, in un fai-da-te che spesso ha rasentato la disorganizzazione e l’anarchia totale, altro che “insostenibile leggerezza” dei tempi che furono…

L’Africa dolce e selvaggia, l’Africa bella e crudele. L’Africa santuario della natura, l’Africa della malaria e dell’aids.

Scrivo queste righe con l’amarezza mista a nostalgia tipico di chi è tornato da poco e non è ancora rientrato nel personaggio…

Settembre 2004 … Che cosa mi è rimasto… Adesso…

Colore rosso. Come il sangue dello gnu sbranato sotto i miei occhi, come lo zenzero. Come i tramonti del Masai Mara, che dimostrano in maniera lampante l’esistenza di Dio, per rubare le parole a De Gregori.

L’olezzo acre degli scarichi dei tubi di scappamento, ovunque, su qualsiasi strada.

Il silenzio perfetto delle serate al campo di Nakuru, il fuoco che crepita, la pioggia sulla mia tenda. Il sapore forte delle spezie e quello dolciastro del latte di cocco, matrimonio sublime, delirio di squisitezza sulle mie papille gustative, una perfezione unica.

La Stoney, l’aranciata speziata, mio Dio che mi abbia creato dipendenza? Tangawizi, ossia zenzero, una delle prime parole imparate in Kiswahili.

Ecco, questo è quello che mi è rimasto… Adesso… Dell’esperienza vissuta che cercherò di raccontare nelle prossime pagine 4 agosto 2004 Atterro a Nairobi alle 5.30 di mattina con un volo proveniente da Roma-Asmara della Eritrean Airlines, pagato 700 euro tasse comprese. Di per sé sembrava troppo bello, all’inizio, poca spesa tanta resa, tempi di coincidenza perfetti, un’attesa intermedia di appena due ore, nella scarna non-esteticità di una sala illuminata da tristi neon, con secchi ovunque per raccogliere l’acqua piovana che filtrava dai tetti. Una parte di viaggio su un aereo di seconda mano della Egypt Air, quasi vuoto, allungata su una fila di 3 sedili e avvolta in una coperta che qualche hostess pietosa mi ha disteso sulla schiena senza che neanche me ne accorgessi.

Troppo bello, dicevo, infatti, all’arrivo, del bagaglio nessuna traccia. Fortunatamente nello zainetto a mano ci ho messo l’indispensabile, ossia un bikini, qualche mutanda, magliette, un altro paio di pantaloni. Ma altri oggetti di vitale importanza, ad esempio la zanzariera, la torcia ed il sacco lenzuolo, mi sa che me li son giocati..

Ho seguito i consigli di viaggio di Silvia, incontrata su questo sito, ed ho prenotato la prima notte al Flora Hostel, nella prima periferia di Nairobi, in Ngong Avenue, sulla strada che, molto più avanti, porta nella direzione della casa di Karen Blixen ed, appunto, alle Ngong Hills, i primi avamposti della colonizzazione bianca in questa terra.

Con me ho soltanto alcune fotocopie di una Routard che ho trovato in biblioteca, con tutte le informazioni che reputavo utili prima della partenza, e che invece adesso mi rendo conto rivelarsi ben lungi dall’esserlo.

Ad un chiosco, nell’atrio arrivi, mi procuro una cartina del centro città.

Dopodiché mi ritrovo circondata dai soliti procacciatori di affari. 1500 ksh per il trasporto in taxi, state scherzando, vero? dico ironicamente con la mia voce da contralto. L’importante è sempre far finta di essere sicuri. Ora sembrano meno agguerriti e molto ansiosi di cambiare argomento. 55 USD al giorno per un budget safari in tenda, l’operatore è Planet Safari che, via internet, fra parentesi, me ne aveva quotati 80. Niente da fare, liquido la faccenda con una sola parola, “Gametrackers”, non serve altro fiato, nessuno insiste.

Un taxi mi porta al Flora Hostel per 1000 ksh, che è il prezzo che pagano tutti i mzungu che sanno il fatto loro. Grazie, Silvia, per avermi avvisato. A detta di tutti, nei forum, se avessi preso il famigerato autobus 34 mi avrebbero ripulita in un batter d’occhio.

Rimaniamo intrappolati in un ingorgo. Non me ne cruccio, ascolto la vecchia autoradio gracchiante musica tipicamente africana, cerco di aggiustare lo spinotto del caricabatteria del cellulare del taxista, osservo le acacie da cui planano enormi marabù in cerca di immondizia. Il sole si sta alzando. Le acacie sono Africa, mi dico. Non mi sento a disagio. Affatto.

Il Flora Hostel è decisamente, col senno di poi, il posto più pulito che frequenterò durante questa vacanza. Pulito e tranquillo. Nel prezzo di 1300 ksh sono inclusi anche i 3 pasti.

Lascio i bagagli in stanza, e passo nel bagno in comune a fare il primo bucato della vacanza. Dopodiché, è tempo di uscire a dare un’occhiata, e saldare il debito con Gametrackers.

La receptionist dell’ostello mi conferma che un Metro Shuttle della Kenya Bus Service ferma proprio vicino all’ostello, e porta in centro direttamente.

Scendo sulla Ngong Road. Un fiume di gente cammina ai bordi della strada trafficata, nella terra rossa. Piedi, scarpe, vestiti, alberi, foglie, tutto ne è impregnato.

Fino a due minuti fa ero preoccupata delle condizioni del mio scarsissimo guardaroba, ma qui siamo in Africa, e che cavolo, i vestiti sono una praticità, mica un vezzo. Ho nascosto i miei capelli lunghissimi sotto la felpa per non farmi notare troppo, ma il colore della pelle mi marca inesorabilmente, nonostante i miei sforzi di passare nell’ombra. Sono una bianca, l’unica bianca, che aspetta un autobus in mezzo ad un oceano di volti scuri.

Nairobi, anzi Nairobbery, contende a Johannesburg il primato di città più pericolosa d’Africa. Niente zainetti, marsupi, mappe sventolanti. Meglio essere scambiata per una sgamata expat piuttosto che un’ingenua turista appena arrivata.

I primo due Metro Shuttle mi passano davanti al naso senza fermarsi, alla fine mi scoccio e salto sul primo bus, costo della corsa 20 ksh. Una ragazza mi indica dove scendere. Il resto del tragitto a piedi me lo sono imparato a memoria.

Stringo la mano a Mr Vincent Maingi, in doppio petto blu, con cui ho tenuto i contatti via email. Mi pare un po’ sorpreso che sia arrivata in centro da sola ed in autobus, considerato il fatto che sono ancora fresca d’aereo. Spesso mi ero domandata se fosse il caso o no di prenotare il safari prima di partire, anzi, mi ero addirittura spinta a cercare informazioni per cercare di esplorare il Masai Mara senza l’appoggio di nessuno. Saggiamente, ho desistito. Troppo scarse le mie cognizioni di etologia per riuscire ad orientarmi in una riserva così ampia con esiti soddisfacenti. Troppo esose le tariffe di noleggio dei fuoristrada, troppo rischioso affidarsi alla richiesta di un passaggio a degli sconosciuti.

Questa però sarà l’unica volta, per Nakuru ed il resto vedrò di arrangiarmi da sola, se riesco.

Gametrackers è un tour operator che riscuote consensi pressoché planetari, sia sul web che sulle guide cartacee, LP, Routard, Bradt. Se proprio devo appoggiarmi a qualcuno, almeno che abbia una buona fama… I prezzi sono nella media dei safari economici, 70 USD al giorno, comprendenti il cibo, la sistemazione in tende, le entrate nei parchi, e la tassa d’ingresso ai campeggi; i partecipanti invece devono portarsi acqua, pila, cuscino, asciugamano e sacco a pelo. A detta di molti, il cibo che danno è fra i migliori, sia come qualità che come quantità. Tutte queste cose sono sicuramente importanti, ma ciò che fa la differenza, ed è secondo me il loro punto forte, è che Gametrackers è l’unico operatore economico che per i gruppi usa jeep e camionette 4WD anziché i pulmini. Questo è fondamentale, perché questi veicoli vanno pressoché dappertutto, sono meno sensibili alle buche, si rompono meno, ecc ecc. Grazie alla trazione integrale, guadando un torrentello con cime ripide e piene di sassi, saremo gli unici a vedere un leopardo da molto vicino, mentre il resto dei turisti in minivan si è dovuto accontentare di guardarlo col cannocchiale dall’altra sponda, eh eh. Soltanto questo basta a farmi felice di averli scelti.

Dopo aver salutato Vincent, e alleggerito il portafogli, mi faccio un giretto in centro. Abbastanza sgradevole, devo ammettere, coi suoi palazzi anonimi di cemento, non c’è nulla che si possa definire bello, che so, un monumento, un edificio, anche solo un particolare. Nairobi dowtown mi ricorda Jo’burg non solo nel presunto tasso di criminalità, dunque.. Nella zona intorno all’Hilton ci sono parecchi negozi e ristoranti, butto qua e là un’occhiata distratta alle vetrine di vestiti, sperando di trovare qualcosa a prezzi ragionevoli. Nada de nada. Raccolgo depliants per strada, mi faccio fare qualche offerta per un 2 giorni/1 notte a Nakuru, il parco che ospita nel suo lago milioni di fenicotteri. Prezzi agghiaccianti, niente a meno di 200 USD.

Al supermercato Uchumy di Tom Mboya Street compro un asciugamano, una torcia, ed un bidoncino da 5 lt di acqua. Ritorno nelle vicinanze dell’Hilton, poiché da quella piazza transita la maggior parte degli autobus pubblici. Morire se riesco a trovarne uno che va in direzione Karen o Ngong! Chiedo a degli autisti/controllori che mi fanno rimbalzare da una parte all’altra. Grr. Mentre aspetto, un tizio piuttosto vecchio accanto a me si accovaccia per allacciarsi una scarpa, mentre una signora elegante mi fa capire, con cenni e mezze parole, che costui vuole fregarsi il contenuto della mia busta di plastica.

Vorrei proprio vedere, malandato com’è, quanta strada riesce a fare col bidoncino dell’acqua, prima di schiattare… Visto che non riesco a trovare uno straccio di bus o neanche un matatu che mi riporti al Flora, mi incammino col mio pesante fardello. Alla posta centrale, in Kenyatta Avenue, sfinita dal peso, mi arrendo e salgo su un taxi. Sono così stanca e sudata che neanche contratto il prezzo e pago i 300 ksh senza fiatare.

Arrivo tardi per il pranzo, e passo il resto del pomeriggio in stanza.

L’inizio del pasto serale viene annunciato da una scampanellata che mi riporta ai tempi del liceo. Le vivande sono servite a buffet, c’è una minestra, patate al forno, patate bollite, polpettine al sugo di pomodoro, una sbobba di riso e non so che, deliziosa, e poi banane. L’acqua nelle caraffe è quella del rubinetto e lì mi viene qualche remora, ma poiché non ho altro da bere, faccio buon viso a cattivo gioco e spero nella buona sorte. I gruppi, anziché fare storia a sé, si sparpagliano qua e là, come se ci fosse una regola non scritta che impone che nessuno di quelli che è arrivato non accompagnato mangi da solo. E così capito al tavolo di una ragazza norvegese che sta studiando antropologia a Nairobi, un reverendo missionario, ed un ragazzo di Varese, Simone, che lavora da qualche anno in una missione a Isiolo, nel nord del paese.

Al momento, si trova a Nairobi perché è venuto a prendere in aeroporto i suoi genitori, per la prima volta giunti dall’Italia a trovarlo. Dopo cena facciamo qualche chiacchiera, unendoci ad un gruppo di boy-scouts venuti in Kenya per costruire una scuola.

L’unica turista sono io, insomma. E questa situazione capiterà spesso.

La mamma di Simone, impietosita dal fatto che ho in programma di frequentare gli altipiani dormendo in tenda coperta soltanto da una felpa, mi regala uno dei suoi maglioni.

5 agosto Arrivo alle 9 di mattina negli uffici di Gametrackers, e conosco i partecipanti al mio safari. Una coppia di francesi, un’altra ragazza francese, poi due americane ed una inglese. La coppia francese indossa abiti da safari molto eleganti. Sono del genere costosissimo che è fatto di tessuto tecnico particolare che non fa sudare, non si spiegazza, asciuga subito, ecc ecc. Lei, Ludivine, ha l’aria un po’ perfettina e petulante, una specie di signora so-tutto. All’apparenza gentilissima quando parla in inglese al gruppo, rampogna invece in continuazione quando si esprime nella lingua madre con i connazionali. Meglio metterla al corrente da subito che capisco quello che dice… Il nostro driver è Robert, di etnia Samburu, un bell’uomo dalla pelle ambrata e dai lineamenti regolari. La nostra 4WD non è una Jeep sullo stile Landcruiser, ma una camionetta tipo militare a 9 posti, 3 file da 3, con telone trasparente al posto delle finestre, completamente avvolgibile. Il tetto è apribile nella prima e ultima fila, per cui ha una parte solida nel centro che permette di sedercisi sopra e avere ancora una visuale migliore che non dai lati. Il veicolo è parecchio vecchio, sollevando la copertura attorno alla leva del cambio si opera direttamente sul motore, in strada è lento e fa un gran casino, ma sui terreni scoscesi e difficili va che è una meraviglia.

Partiamo con i finestrini tutti aperti per guardare il paesaggio e penso a come avrei fatto senza il maglione regalatomi ieri. Vediamo la periferia di Nairobi e le baraccopoli, di nuovo una marea immensa di persone che camminano ai lati della strada, immondizia dappertutto, i bimbi che ci sgattano dentro, le capre che ci brucano in mezzo. I negozi, semplici cubi di lamiera, hanno nomi fantasiosi, così come le insegne dei matatu. USA F1, Rambo, Juventus, e via discorrendo. Il primo premio lo aggiudico mentalmente ad una società di pompe funebri, annunciata dall’altisonante targa “Montezuma e Monnalisa”, (sono ancora qua adesso a chiedermi il nesso..) con sottotitolo “ampia esposizione di bare”. Le macellerie sono uno spettacolo, quarti di bue e capre appese ai ganci senza alcun riparo, praticamente sulla strada, in mezzo alla polvere, agli scarichi ed alle mosche. Particolare interessante, in tutti i villaggi che attraverserò, sia in Kenya che in Tanzania, esse sono al 90% affiancate ad un hotel. Hotel è, come la macelleria e qualsiasi altra casa, un capanno di ondulato della dimensione di 10 mq.

Mi viene in mente che in realtà la macelleria può di fatto essere considerata ristorante per coloro che stanno in hotel, e nel frattempo mi domando come si faccia a definire hotel una capanna di 10 mq, e soprattutto come facciano persone che non si conoscono a condividerla.

Ci fermiamo nel mezzo del niente per la pausa pranzo, insalata mista, formaggio, pane in cassetta, banane.

Dopo di che la strada diventa un inferno, buche, anzi crateri, terra e detriti che si infilano dappertutto.

Facciamo una sosta a Narok, per rifornirci di carburante.

Narok è un posto su cui avevo fantasticato parecchio, nei momenti in cui ragionavo di visitare anche il Mara in fai-da-te. E’ infatti il villaggio più vicino alla riserva. Avrei dovuto arrivare sin qua in matatu, e poi trovare un passaggio, o pagare una guida locale reperita in qualche bar, come mi aveva suggerito di fare forse l’ultimo dei romantici turisti non-organizzati incontrato in un forum della Lonely Planet. Osservando la gran calca di gente che si agita nella ressa totale al suono di musica assordante fra i carretti del mercato, le bancarelle masai ed i materassi e le bacinelle impilati direttamente in strada, penso che stanare una guida qui sarebbe forse stato come trovare un ago in un pagliaio, senza contare tutti i dubbi relativi alle sue effettive abilità…

Meno male che ho deciso di fare un tour organizzato…, avrei potuto perdere un sacco di tempo in questo buco di posto dimenticato dal mondo… Giungiamo al Sekanani Gate quasi al calar del sole. Il Masai Mara è una Riserva, non un parco nazionale, quindi non è recintato. Confina con il Serengeti tanzaniano, e gli animali migrano da una parte all’altra seguendo i cicli delle stagioni. Al momento, milioni di erbivori dovrebbero essere in arrivo, appunto, dalla Tanzania. Attorno ai campeggi, lungo il fiume Talek, sorgono dei villaggi di Masai, li vedo che accompagnano i loro greggi avvolti nelle loro tipiche coperte rosse.

Mentre arriviamo al campo, a parte un tramonto spettacolare, facciamo i primi avvistamenti, due ghepardi che si rotolano per strada e si scansano al nostro arrivo, e poi due leonesse. E’ già quasi buio e non riesco a fotografarli.

Al campo, a parte noi non c’è nessuno, quindi possiamo appropriarci delle tende permanenti. Sono canadesi spaziose, nel centro riesco a stare in piedi. Contrariamente a quanto pensavo, non si dorme per terra. C’è una specie di panca di legno, su cui poggiano due materassini di gomma piuma, e sopra di essi ci si adagia il sacco a pelo. Le docce sono delle baracche in lamiera, ma hanno l’acqua calda. I bagni invece sono semplici buche nel terreno. Non c’è luce elettrica, per cui, vista l’ora tarda, impossibile fare la doccia. Mentre uno a turno regge la pila, gli altri come possono si ripuliscono la faccia.

I pasti vengono serviti in un capanno al centro del campo. I viveri sono contenuti in un frigo da campeggio, e i cibi cucinati sulla brace.

Il menù della serata consiste in spaghetti e frutta. Il cuoco si scusa ma, essendo arrivato con noi, non ha avuto tempo di preparare altro.

La cena e la conversazione con i ragazzi sono piacevoli. Mi limito a tacere e ad ascoltare i racconti degli altri con molta attenzione e curiosità. A parte i tre francesi, turisti come me, le altre tre ragazze lavorano in Kenya, Selina e Sarah nella foresta del Kakamega a studiare i primati, invece Lidia, a Kisumu sta filmando per un documentario le varie tribù del posto.

E’ interessante conoscere le esperienze di persone che vivono nel paese, bello conoscere i loro punti di vista, come si sono adattate. Affascinante discutere di politica con un’americana progressista come Lidia, che ipotizza scenari apocalittici in vista delle prossime elezioni. Bush si attira una lunga sequela di anatemi, come solito. Robert lamenta di essere ora molto discriminato per il suo aspetto. La pelle chiara ed i tratti somatici fanno sì che venga scambiato per un arabo, con tutte le perquisizioni e le noie che ne conseguono da parte della polizia, in una città di fatto iper-controllata come Nairobi, dopo la serie di attentati alle ambasciate.

Ho visto fare le stesse cose a Mosca, con qualunque creatura umana di carnagione scura che potesse essere seppure anche solo lontanamente somigliante ad un ceceno..

La questione etnica sembra avere una certa importanza in Kenya, immagino, anche se Robert si limita a parlarne come di un fatto meramente fisico ed economico. In alcuni alberghi che frequenterò durante la vacanza, mi ha incuriosito, sul registro presenze, accanto ai soliti spazi relativi all’indirizzo, passaporto, ecc, una colonna intitolata “tribe”, che ovviamente non ho compilato…

La serata scorre via tranquilla. Di notte, anziché i ruggiti dei leoni, come avrei desiderato, sento invece a tratti i belati dei greggi dei Masai.

6 agosto – The Cheetah and Leopard Day La colazione è abbondante, uova strapazzate, the e caffè, pane, miele, marmellate, burro di arachidi, e frutta.

Secondo me è meglio fare 4 giorni al Masai Mara. Sembrano tanti, in realtà non lo sono. Soprattutto perché, anche se le agenzie cercano di far credere il contrario, il primo e l’ultimo giorno, di fatto, vanno via solo per gli spostamenti. Si arriva così tardi che non c’è tempo per la afternoon game drive tanto decantata sui depliants. Non l’abbiamo fatta noi che siamo partiti presto e tutti assieme da Nairobi, figuriamoci quelli i cui pulmini girano di hotel in hotel a raccattare tutti i partecipanti.

Quattro giorni si riducono così a due pieni nella riserva. In caso di guasti alla macchina (sempre probabili), almeno si ha un giorno di scorta. Sennò, son davvero soldi sprecati. E poi, ne vale proprio la pena.

Il Masai Mara, a luglio/agosto, è il parco più bello dell’Africa. Di meglio, c’è soltanto il Serengeti d’inverno. Così almeno ho letto sulle guide. Non a caso, i tour che comprendono più di una destinazione lo tengono sempre da ultimo.

Partiamo verso le 8.30, dirigendoci a nord, verso la Hyppo Pool, al confine con il Serengeti. Vediamo fiumi e fiumi di gnu, giraffe dalle lunghe ciglia e dagli occhi dolci, antilopi eleganti, nervose ed aggraziate gazzelle. La nostra camionetta guada il primo fiume della serie. Abbiamo qualche difficoltà nel risalire la riva, bisogna tornare indietro, spostare qualche masso, prendere la rincorsa e sgasare un po’. Facciamo parecchio rumore, quando finalmente torniamo in piano un folto gruppo di zebre ci guarda incuriosito, o seccato, come a volerci dire “Ma la volete piantare..” La Hyppo Pool è l’unico posto in cui si può scendere dai veicoli, ci sono guardie armate dappertutto per proteggere dagli attacchi degli ippopotami, che han fama di essere molto aggressivi e di uccidere più esseri umani dei leoni. Nel fiume ci sono anche molti coccodrilli. Sono enormi, alcuni misurano 4 o 5 metri. Di ritorno verso il campo per il pranzo, la prima vera grande sorpresa. Mi scuso con gli erbivori per averli declassati ad animali a minor impatto emotivo, ma non si può davvero rimanere indifferenti di fronte ai grandi felini. Sotto una acacia, ai bordi della strada, sono distesi pigramente 4 giovani leoni maschi, con una criniera ancora soltanto abbozzata. Due sono immobili, paiono morti, uno invece muove le orecchie, si tira su, si gratta, sbadiglia, e poi si abbiocca nuovamente.

Selina è tutto un “oh oh”, in stile very British indeed, noi sorridiamo, ma fanno davvero tenerezza. Io, fra l’altro, è da quando ero bambina che sognavo di venire in Kenya a vedere i leoni. Ho sempre avuto questa fissa, chissà perché… Poco più in là, vediamo dei pulmini fermi e capiamo che c’è qualcosa di interessante. Infatti, in mezzo ad un grosso cespuglio, è coricata una femmina di ghepardo con cinque cuccioli. Pare inquieta e impaurita dalle auto. Come se non bastasse, dal tetto di un minivan dei deficienti si mettono ad urlare, e l’animale inizia a dare chiari segni di nervosismo. Robert si allontana commentando “It’s unfair”. I ghepardi, i miei preferiti, sono fra i predatori che più di tutti sono disturbati dai turisti. Cacciano di giorno per evitare la concorrenza di leoni e leopardi, e quindi più di questi devono tener conto ed avere a che fare con carovane di gente che tagliano loro la strada o spaventano le prede. Di fatto, il loro numero è in diminuzione. Su 8 cuccioli partoriti, uno solo riesce ad arrivare all’età adulta.Che tristezza.

Rientriamo per il pranzo, e troviamo ad attenderci pesce e patate fritte, le patate non sono quelle a bastoncino dei supermercati, sono “vere” e tagliate a spicchi.

Dopodiché, approfittiamo della luce pomeridiana per fare la doccia ed il bucato. Nelle tende non si riesce a stare, sono roventi, si soffoca. Quindi, ci si sparpaglia nel prato, chi all’ombra e chi al sole. Ci sarebbe pure la rete per il volley, ma nessuno ha voglia di giocare perché fa caldo. Per cui François esegue palleggi da solo come un bimbo imbronciato, mentre le due primatologhe cercano di fotografare dei babbuini attratti dall’odore del pranzo che abbiamo appena consumato. Queste ore di piacevole ozio sono necessarie in quanto, uscendo a quest’ora, tutti gli animali sono infrattati e non si riesce a vedere niente.

Risaliamo in camionetta verso le 16 e, per un bel po’, incrociamo soltanto facoceri ed i soliti erbivori a cui dopo un po’ ci si fa l’abitudine.

François, sul tetto, si prodiga in avvistamenti e ci dà le coordinate seguendo il metodo delle lancette dell’orologio. Robert ci interroga. Se si ferma davanti ad un topi, una specie di grossa antilope, e vuol sapere cos’è, non basta dirgli “antilope”, si deve proprio specificare “topi”, altrimenti son dolori. Idem se si fa confusione fra gazzella di Thompson e gazzella di Grant.

Ad un certo punto, proprio sulla strada, vediamo venirci incontro un gruppo di leonesse con asilo-nido al seguito. I cuccioli sono molto giocosi. A turno, usano i loro fratelli per saltare alla cavalletta. Ci passano vicinissimo, praticamente sfiorano il nostro fuori strada. Potrei fotografargli anche le pulci, volendo… Poco dopo, già prossimi al tramonto, scorgiamo dei pulmini sulle rive di un piccolo canyon, tutti guardano verso l’alto, fra gli alberi. Ci avviciniamo curiosi. L’askari masai del nostro campo, con un binocolo riesce ad intravedere un leopardo arrampicato su un’acacia, dall’altra parte del fossato. Noi siamo gli unici, con la nostra jeep, in grado di guadare. Attraversarlo non sarebbe difficile, il problema è risalire le ripide rive, piene di enormi sassi. Comunque ce la facciamo. I minivan delusi, se ne vanno. Non facciamo in tempo ad arrivare sotto l’albero che il leopardo già è sparito. Siamo tutti così attenti e col naso all’insù, così presi a cogliere la men che minima vibrazione, che nessuno si è accorto che invece è proprio ai piedi dell’acacia, a due metri da noi, accovacciato a terra tipo sfinge e silenziosissimo. Che animale fantastico. Che mantello, che occhi. Ascetiche pupille, direbbe Baudelaire. Appena giriamo le teste verso di lui, ci osserva con una espressione che ci gela. Mi sporgo appena dalla finestra, con un movimento forse un po’ troppo brusco, mi guarda e mi soffia contro. Tum tum tum tum, silenzio perfetto, sento solo il mio cuore che batte. Robert dice a bassa voce di stare fermi, è un ottimo saltatore ed è vicinissimo. Rientro con cautela la testa dalla finestra e, fuori dalla sua visuale, mi arrampico lentamente sul tettuccio, mi sdraio, e inizio a fotografarlo. L’animale si tranquillizza, e non bada più a noi. Nel frattempo, sull’altra riva, sta arrivando un gruppo di elefanti. Il leopardo scende per bere, e li osserva immobile, dalla sua pietra. I pachidermi all’inizio non se ne accorgono. Interessante notare come si muovano silenziosi nonostante la loro mole e le rive scoscese. Finalmente, uno di essi scorge il leopardo, e, agitando minaccioso le orecchie, gli si fa incontro barrendo. Il felino scappa a coda bassa.

Selina pensa che adesso ci vuole proprio una sigaretta… Seduta sul tettuccio accanto a me, tira fuori tabacco e cartine e si rolla la sua paglia.

Torniamo al campo soddisfatti; ci aspettano spezzatino, spinaci, riso, e macedonia di frutta fresca.

7 agosto – The Big Hunt Day Il tempo è nuvoloso, e fa freschino. Con due maglioni addosso, ancora batto i denti. A tratti, pioviggina. Non facciamo in tempo a superare il cancello di entrata, che ci troviamo di fronte 4 leonesse e 4 cuccioli che stanno divorando resti di gnu, ucciso durante la notte, immaginiamo. La carcassa è già decisamente spolpata, si vedono distintamente le costole, e ancora qualche pezzo di carne rossa, che i piccoli azzannano con gusto. Le leonesse si leccano i baffi sornione e sonnecchiano.

Ora inizia a piovere. Proseguendo, incontriamo, in mezzo a dei cespugli, una leonessa sdraiata, poi 4 cuccioli, poi un grosso maschio dalla foltissima criniera, che attraversa la strada quasi sfiorandoci. Non fa una piega. Dopodiché, un altro gruppo di tre leonesse, alcune iene e sciacalli, che però, al contrario dei leoni, sono molto timidi e scappano subito appena ci avviciniamo.

PS: la contabilità faunistica l’ho scopiazzata dagli appunti di Ludi. Col cavolo che mi ricorderei con tanta precisione, altrimenti… Descrizione del diario di Ludi: una vera moleskin originale di chatwiniana memoria, corredata di portapenne pieno di biro di tutti i colori, ogni giorno scrive con un inchiostro diverso, con la sua bella calligrafia dai caratteri panciuti e regolari. Descrizione del diario di viaggio di Cristina, che sarei poi io: un quaderno del Carrefour spiegazzato e pieno di orecchie, sopravvissuto a diverse avventure, dove appunti del Kenya si sovrappongono in apparente casualità a quelli di altre località, numeri di telefono, messaggi d’amore ed attestati di simpatia; scrive con quello che trova, a volte si fa prestare le penne; della sua calligrafia parlerà in seguito, per ora basti sapere che la direzione sinistra-destra per lei è un optional.

Rientriamo al campo, nel frattempo esce il sole, per fortuna. Riso, involtini di carne fredda, piselli, papaye e frutti della passione per pranzo. L’afternoon game drive ci regalerà le emozioni più grosse della vacanza. Giriamo per almeno un’ora senza vedere un emerito cacchio, a parte qualche carcassa scheletrica qua e là. Facciamo il giro di tutti i gruppi di arbusti. Niente di niente. Ma dove sono tutti andati a finire?? Verso le 17.15, François, improvvisamente, ci segnala una leonessa in direzione ore 2. In realtà noi vediamo solo un gruppetto di circa venti gnu. Strizzando molto gli occhi, scorgo anche la leonessa, anzi la punta scura delle sue orecchie. Evidentemente è sdraiata nell’erba, e avanza strisciando per tendere l’agguato. Siamo abbastanza lontani ma non possiamo procedere. Sono le regole del gioco, che tutti dovrebbero seguire alla lettera. Mai avvicinarsi ad un predatore che sta cacciando, mai interferire.

All’improvviso: 1) la leonessa scatta, corre, spicca un balzo 2) contemporaneamente si solleva un gran polverone, rumore di zoccoli che battono il terreno, il gruppo di gnu scappa 3) la leonessa acchiappa lo sfigato della situazione 4) la leonessa e lo gnu, per una frazione di secondo, come al rallentatore, volano nell’aria, avvinghiati, e ripiombano a terra 5) una seconda leonessa, in direzione ore 9, si avvicina a dar manforte.

Ora possiamo avvicinarci, la caccia è finita. Le leonesse sono state fortunate.

Siamo a pochi metri. Assistiamo all’agonia dello gnu. Qualcuno gira la testa per non guardare. Io, nonostante mi ritenga un tipo impressionabile, giuro a me stessa che questo non me lo devo perdere per nessuna ragione al mondo.

Una leonessa azzanna lo gnu per la gola, per farlo soffocare, l’altra lo tiene per i testicoli. Non so perché. Immagino che sia forse il posto più tenero dove iniziare ad incidere i tessuti. Lo gnu respira affannosamente, inspira, espira, con forza, e con disperazione. Ad un certo punto zampe e corpo sono percorse da un tremito violento ed incontrollato, la vita che se ne va. Lo gnu ora è immobile con gli occhi spalancati, la leonessa molla il collo e si allontana. L’altra inizia il pasto. Mi aspettavo uno spettacolo macabro. Invece, tutto il contrario. Robert ci spiega che se lo gnu fosse stato attaccato da un branco di sciacalli, o altri animali di piccola taglia, tipo iene o licaoni, allora, sì, sarebbe stata una carneficina con sangue da tutte le parti. I leoni invece sono molto “puliti”. Masticano, si sente proprio il rumore, tipo sgranocchiare di crackers, leccano, aspirano, risucchiano. Qualche pezzo di colon qua e là, e il duodeno… In lontananza, vediamo un gruppo di leonesse, leoncini, ed un maschio che si stanno avvicinando, richiamati da colei che ha ucciso l’erbivoro e che, generosamente, ha abbandonato il pasto per andare a prenderli. Ci domandiamo dove diavolo fossero nascosti tutti questi leoni, dal momento che abbiamo girato intorno ai cespugli da dove provengono per almeno mezz’ora, prima, senza riuscire a vederli.

Sarà strano, non so, ma questa scena mi ha emozionato profondamente. Non sono assolutamente schifata, è parso tutto così naturale. Selina e Lidia avevano le lacrime agli occhi, ora sono di nuovo lì ad arrotolarsi il tabacco. Nessuno, a parte Lidia, è stato in grado di documentare la scena di predazione. Tutti ammettono che volevano soltanto guardare, non staccare gli occhi nemmeno un istante.

Lidia mi ha poi scritto in seguito, a settembre, cercando di descrivermi la foto che ha fatto. Non ne è uscito un granchè, ha ammesso con una certa delusione.

Robert ci fa presente che abbiamo avuto un gran botta di fortuna, come ieri col leopardo. Fortuna, ripete, soltanto fortuna, niente altro. La buona sorte di essere al posto giusto nel momento giusto. In tutta la sua carriera, non ha assistito a più di 10 eventi così.

Comunque, un enorme grazie va a François, che per primo ha scorto la leonessa.

Lui si schermisce; ci spiega che, da piccolo, andando a caccia col padre, ha affinato la tecnica. Fra l’altro, avendo problemi di udito, la natura lo ha compensato donandogli una vista da rapace.

L’ultima sera al campo ci vede allegri e tronfi del nostro bottino: 31 leoni, 1 leopardo, 7 ghepardi, notifica Ludi. Io e François siamo dispiaciuti di non aver visto un ghepardo correre. Lo spezzatino al curry è ottimo, il riso con cipolle pure, e la torta a sorpresa una sorpresa, appunto, tanto gradita quanto inaspettata.

Confermo le lodi che avevo visto tessere sul web a proposito del cibo fornito da Gametrackers. A parte l’enorme quantità di frutta/verdura propinateci, in cui in genere nei tour economici si tende ad andare al risparmio, mi commuovono finezze tipo la macedonia, la torta e la crema pasticciera accompagnatoria. Dopo cena, altre discussioni politiche, nuova serie di invettive contro Bush, scambi di email e numeri di telefono.

8 agosto Partiamo dal campo verso le 8.30. Poco dopo, il camioncino subisce un’avaria ai freni, che Robert ripara in un quarto d’ora. Nel frattempo, veniamo attorniati da giovani Masai che stavano pascolando i loro greggi nelle vicinanze. Uno dei ragazzi tenta di barattare l’orologio Nike di Sarah con una coperta, un altro vende a François un dente di leone. Che si rivelerà poi essere di ippopotamo, con grande disappunto della moglie che gli dà del deficiente davanti a tutti. La pausa pranzo la facciamo nei pressi di Narok, dove di nuovo una parte del gruppo perde del gran tempo contrattando alla morte per l’acquisto di collane tipiche di perline. Arriviamo nella capitale alle 17.30 circa.

La cena d’addio è prenotata al Carnivore, uno dei ristoranti più famosi di Nairobi, dove si serve carne di selvaggina. Poiché non sono riuscita a prelevare al bancomat, e mi rimangono 10 USD in tasca per l’ostello, mi chiamo fuori dal gioco. Ragguardevole prova d’amicizia dei miei compagni che si offrono di pagarmi il pasto pur sapendo che non potrò restituire loro i soldi dato che l’indomani ognuno riparte per la sua strada. Il problema vero è il bagaglio, e devo darmi da fare per rintracciarlo.

Ringrazio quindi con un gran magone i membri della spedizione, e mi accomiato da loro.

La mattina della partenza per il safari, avevo prenotato per questa sera al Nairobi Backpackers Hostel. Ho deciso di lasciare il Flora perché qua hanno pure un’agenzia che organizza safari, e la loro escursione a Nakuru di 1 notte/2 giorni ha un prezzo accettabile, 120 USD, rispetto ai 200-250 che mi chiedevano in centro città.

L’ostello è un po’ fatiscente, le stanze sanno di vecchio; ci sono solo bagni in comune, e per giunta con poca privacy, per cui è tutto un andirivieni di gente con asciugamani attorcigliati alla belle e meglio mentre altri si pettinano, si fanno la barba, si lavano i denti; alcuni scarichi delle docce sono intasati. Una meraviglia, insomma.

Per fortuna il gestore, Ken, un inglese trasferitosi in Kenya da oltre 10 anni, è molto gentile e disponibile.

Per intanto telefona subito lui in aeroporto e del mio bagaglio nemmeno l’ombra… Il tour di Nakuru non me lo può organizzare, perché al momento sono l’unica interessata. Però mi dice che, al Mbweha Camp, lui ha una tenda e, se mi accontento, me la presta. Il passaggio me lo procura il suo amico Robert, il padrone del campo stesso. Per il ritorno, mi arrangerò. Aggiudicato.

La cena dell’ostello consiste in un piccantissimo piatto etiope, che sono obbligata a mangiare con le mani, poiché non danno le posate. 9 agosto Ho tutta la mattinata libera. Devo essere a casa di Robert per partire per Nakuru alle 14.30. Per prima cosa, telefono di nuovo in aeroporto e del mio zaino nessuno ha notizie. Dopodiché, decido di cercarmi qualcosa per rimpinguare il bagaglio. Ken mi dà le indicazioni per raggiungere lo Yaya Centre, un centro commerciale che, secondo lui, è raggiungibile in 20 minuti a piedi. La parte di Milimani Road dove si trova l’ostello non è asfaltata, fuori dal cancello trovo individui dai vestiti consunti e laceri che lavano macchine, viottoli polverosi fiancheggiati da cumuli di immondizia e alti cespugli. Mi tocca percorrerne uno. All’inizio sono un po’ timorosa, mi pare infatti l’ambiente ideale per tendere un’imboscata, ma di fatto non mi calcola nessuno. Finalmente approdo ad una strada asfaltata, dove si affacciano eleganti ville circondate da alti muri e filo spinato, passo davanti all’ambasciata russa e quella egiziana.

Poi, cambiando direzione ad un incrocio, l’atmosfera diventa nuovamente più africana ed animata, ma io, stanca di camminare, salto sul primo matatu che va nella giusta direzione.

Lo Yaya Centre è un centro commerciale simile ai nostri, ad esempio le Gru a Torino. Al supermercato compro crema solare, shampo e zanzariera. Mi pare sovraffollato di commessi, alcuni dei quali sembrano aver poco da fare, e passano il tempo ordinando con precisione maniacale la merce sugli scaffali, o spolverando i tappi delle confezioni di balsamo. La zanzariera costa 4 USD, nei negozi tipo Coronel Tapioca qui in Italia ce le fanno pagare 40… Mi guardo attorno fra i negozi della galleria per l’abbigliamento. C’è pure un Woolworth. I vestiti fan schifo e costano come in Italia. Compro dei calzini, avendone solo due paia non posso farne a meno: 3 Euro. Passo in un’agenzia di viaggi e domando se l’Eritrean Airlines ha un agente o un GSA a Nairobi. So infatti per certo (ho guardato sulla guida telefonica) che non hanno uffici veri e propri. Mi annotano un numero su un pezzo di carta.

Al ritorno in ostello, chiedo a Ken dove diavolo li compri, gli abiti, la gente del posto. Risposta, nei mercati, tutta roba di seconda mano. Bene, seguirò l’esempio. Dopotutto, viaggiare non significa anche immedesimarsi nei costumi locali? Alle 14.30 sono davanti alla casa di Robert, a Lansington, un distretto periferico per ricchi mzungu. Ville e filo spinato. Lo stile degli edifici ricorda i cottages inglesi, i giardini sono un tripudio di jacarande e bouganvillee.

Non so se Robert creda di essere Schumacher, comunque copriamo la distanza Nairobi-Nakuru in un’ora e 40 minuti. La guida è da brivido, sorpassi pericolosi in curva con tanto di strombazzate ed abbaglianti sparati in faccia per intimidire e far accostare/rallentare quelli che sopraggiungono in direzione contraria. Passiamo il primo lago della Rift Valley, Navaisha, dopo aver attraversato per un tratto un paesaggio di tipo alpino. Noto che dappertutto, su ogni cartello, campeggia il nome Delaware, sulle insegne delle stazioni di servizio, sui negozi, sui take away di pizza, sulle fabbrichette di latticini. Lord Delaware, cittadino britannico, è il padrone delle terre, comprese quelle dove si trova il Parco che visiterò domani, anche se comunque le tasse di ingresso che verserò arricchiranno le casse del governo del Kenya.

Arriviamo al Mbweha Camp sotto una pioggia scrosciante. Una ragazza si precipita verso la nostra jeep con un ombrello aperto. Non sono abituata a questo genere di accoglienza e mi guardo attorno per capire se sono proprio io quella che aspetta. Mi hanno già tirato su la tenda, un piccolo igloo, con stesa sopra una tela cerata perché non entri la pioggia. Poiché sono arrivata col Capo e pensano che sia chissà chi, mi hanno preparato dentro una brandina, con tanto di lenzuola che odorano di bucato fresco, e coperte di lana. Qui siamo a quasi 2000 mt d’altitudine, e non posso che essere riconoscente.

Transitando nel corpo centrale mi rendo conto che il Mbweha Camp è un luogo elegante, con cottages di alto livello e un ristorante/bar/reception bellissimo. Accanto c’è il grande prato adibito a campeggio, dove sto io, per intenderci, con le usuali docce e toilette tipo Masai Mara. L’unica differenza è che qui c’è luce elettrica. Ci sono anche tende a 5 stelle, ossia quelle che dentro hanno tutti i conforts.

Il sopra menzionato bar/ristorante è arredato in modo gradevole in stile africano.

Mi offrono thè e biscotti fatti in casa. I bagni della reception sono tutti decorati in legno e ferro battuto, con specchi enormi, per cui decido che i denti e la faccia prima di andare a letto me li laverò qui, anziché nelle latrine del campeggio. Fra l’altro, poichè non ho portato appresso nessuna cibaria, dovrò quindi consumare i pasti al ristorante. Noto che il listino prezzi è caro, per gli standard africani, 800 ksh per la cena, 500 ksh per la colazione, e via di questo passo. Per la tenda, invece, pago soltanto 200 ksh.

Tutto attorno, regna un silenzio assoluto, rotto soltanto dal cinguettio degli uccelli.

Al calar della sera, viene acceso il fuoco in un braciere nel mezzo del bar, ed il ristorante è illuminato solo da decine di candele e lampade a petrolio. Una bella atmosfera, ovattata, romantica, sicuramente un posto da luna di miele. Abituata al casino degli ostelli, mi domando se faccia davvero per me..

Mentre sono intenta a scaldarmi ipnotizzata dal fuoco, mi si avvicina un ragazzo, Isaac, che ha ricevuto l’ordine da Robert di portarmi in giro per il parco di Nakuru l’indomani. E’ competente in biologia ed etologia. Mi fa una panoramica generale del tour, e mi dice che sarebbe meglio partire molto presto. La cena è ottima. Mi accordo per la colazione ed il pranzo al sacco, il safari lo pagherò 30 USD più altri 30 come ingresso al parco. Sarò da sola con la guida, su una Toyota Land Cruiser tutta per me. Mi addormento con il sottofondo del rumore della pioggia, dormo benissimo.

10 agosto Il lago alcalino di Nakuru è famoso perché ospita milioni di fenicotteri rosa. Oltre ad essere un santuario dell’ornitologia mondiale, accoglie una nutrita schiera di rinoceronti, giraffe Rotschild, e poi un po’ di tutto il resto, tranne ghepardi.

Ci hanno girato alcune scene di “La mia Africa” Il parco non è enorme, circa 180 km quadrati. 6 ore sono più che sufficienti per visitarlo. Mi rendo subito conto che il paesaggio ha un aspetto molto più vario del Mara, che è principalmente e soltanto savana.

Qui ci sono molti alberi di specie diverse, oltre alle acacie, una cascata, formazioni rocciose di varia natura, colline da cui si gode un panorama mozzafiato sul grande specchio d’acqua quasi completamente tinto di rosa per via dei fenicotteri.

Sulle rive è possibile scendere dalla macchina, anche se è pieno di guano, e l’odore, accentuato dalla calura, non è dei più gradevoli.

Non riesco ad avvicinarmi ai fenicotteri più di tanto, se cammino normalmente. Decido allora di procedere grado per grado, movendomi lentissimamente, un passo e mi fermo, un altro passo e mi fermo, tipo bradipo. Così va decisamente meglio..

Purtroppo, non vedo nemmeno un leone. Pazienza. Quelli del Mara possono bastare.

Il mio safari finisce verso le 13.30 e per le due sono di ritorno al campo. Decido di fermarmi ancora una notte per respirare ancora un po’ di quell’atmosfera di pace che so già che non troverò più a Nairobi. Il pomeriggio è tutto a mia disposizione, ne approfitto per riassettarmi un po’, fare il bucato, leggere spaparanzata sulle comodissime poltrone zebrate del bar. Esploro la zona dei bungalows, sono veramente belli. Immagino il lusso e le comodità al loro interno. La quiete della sera davanti al fuoco ed al ristorante viene purtroppo bruscamente interrotta dall’arrivo di una comitiva di americani caciaroni, che monopolizzano con le loro battute idiote e stupide richieste l’attenzione di tutti gli addetti sala.

11 agosto Di prima mattina, Catherine, sorella di Robert e manager/responsabile del campo, mi dà un passaggio a Nakuru. Mi lascia al terminal della Easy Coach, assicurandomi che quello è la migliore e più sicura compagnia di autobus, molto meglio di Eldoret e Kenya Bus, che sono invece quelle che io andavo cercando. Il prezzo del biglietto è 250 ksh, mi prenoto un posto per la corsa delle 11.30 e, dovendo aspettare per circa un’ora, decido di andare a fare un giro nei dintorni, dove mi pare di aver visto un mercatino di souvenirs.

La signora della biglietteria, a cui Catherine mi aveva lasciata in custodia, è di una gentilezza da guinness dei primati. Si offre di accompagnarmi al mercato. Che carina, non so se pensa che abbia paura, o cosa. Mentre sono lì ferma, ancora nel piazzale, altre persone si avvicinano per parlarmi. Alcune sono delle ragazze che lavorano in un’agenzia viaggi, ma non vogliono vendermi niente, soltanto chiacchierare, ci scambiamo qualche complimento sulle rispettive acconciature, sui vestiti. Poi è la volta di una mamma con bimbi al seguito. Che gente deliziosa. Rispetto a Nairobi, è un altro mondo. Qui c’è un’atmosfera più paesana, nessuno va di fretta. Percorro la via principale, faccio capolino all’interno di alcuni negozi per vedere i prodotti esposti. Ma il vero spettacolo sono i mestieri inventati per strada, dove si smercia di tutto, perfino dei water in ceramica, tutti lì belli allineati in un ordine geometrico impeccabile. E poi le caramelle, vendute a pezzo e non a peso, qui davvero anche le cose per noi più semplici e banali hanno ancora un valore. Giovani donne si fermano e comprano due-dico-due caramelle e le distribuiscono ai loro due figli. Una caramella deve essere un regalo importantissimo, per un bimbo. Altro che Playstation 2 e telefonino… E poi mi colpiscono i banchetti dei pittori di insegne. Mi fermo ad osservarli, io che ho una scrittura orribile ed irregolare, quasi da medico, mentre con pazienza e mano sicura pennellano caratteri alfabetici bellissimi e perfetti, come fossero stampati… Gia alla prima occhiata, mi pare che le cianfrusaglie da turista esposte al mercato turistico di Nakuru abbiano prezzi migliori che a Nairobi, chiedo informazioni qua e là memorizzando articolo ed importo, per fare paragoni con la capitale. Per il momento non voglio comprare niente e caricarmi inutilmente. Al massimo, se ne varrà la pena, ci ritorno a fine vacanza. Tuttavia, comprar niente è impossibile, circondata come sono da sciami di venditori che aspirano a fare di me la prima cliente della giornata, cosa che anche qui, come in Asia, porta fortuna agli affari. Acquisto qualche cartolina, che poi spedisco subito dall’ufficio postale. Ritorno al terminal e, seduta nella sala attesa, guardo la gente intorno a me. Dall’aspetto, paiono africani benestanti. Falling di Alicia Keys ci allieta la pausa. Qui in Kenya, si ascolta qualunque genere di musica venga proposto da artisti del momento di pelle nera, tipo Sean Paul, Outkast, Beyoncé, ecc.. E poi ovviamente le solite boybands, ed Eminem…

L’autobus della Easy Coach è dotato di poltrone morbide e spazi enormi per le gambe, l’autista guida prudentemente. Vedo l’ennesimo matatu ribaltato ai bordi della strada, attorniato da una folla di curiosi. Domando al mio vicino come funziona la macchina dei soccorsi, se ci sono ambulanze, ad esempio. Lui dice di sì, però, nel frattempo, le cure vengono prestate dai passanti.

Non so se, all’andata, Robert era più bravo ad evitare le buche, o gli ammortizzatori della sua macchina erano migliori, o io ero soltanto distratta, però ora il manto stradale mi pare terrificante. Sembra di stare in un frullatore, in certi momenti.

Arriviamo a Nairobi dopo un paio d’ore, ormai mi sento a casa. Decido di non tornare all’ostello di Ken, perché troppo distante. Voglio provare l’ebbrezza del centro e mi dirigo al Terminal Hotel, dove erano stati i miei compagni di safari. La clientela mi sembra composta prevalentemente da turisti e uomini d’affari locali, e in misura minore qualche backpacker bianco… Le stanze sono grandi, hanno la zanzariera, e l’acqua calda. Pago 1000 ksh, però non c’è colazione. La mia stanza si affaccia su un cortile interno, al terzo piano, ed è comunque rumorosissima, perché sotto c’è un ristorante.

Chiamo finalmente l’agente della Eritrean Airlines. Ovviamente (e scandalosamente, aggiungerei) del mio bagaglio non sanno niente. Butto lì la richiesta di un parziale indennizzo a copertura delle prime eventuali spese sostenute. Il tipo fa un sacco di storie, mi dice che avrei dovuto rivolgermi subito alla Eritrean in aeroporto. Gli domando se mi prende in giro o cosa, dal momento che mi sono informata e quindi sono consapevole del fatto che non ci sono uffici di questa compagnia in aeroporto. Ne segue una bella litigata, minaccio lettere di denuncia alla IATA, e il mio interlocutore mi sbatte giù il telefono in faccia. Sono furiosa.

Faccio un giro nei negozi di souvenirs del centro, e mi rendo subito conto che tutto è enormemente più caro che a Nakuru.. Passo in un supermercato a comprarmi frutta, e memorizzo i prezzi esposti, caso mai mi capitasse di comprare qualcosa per strada dagli ambulanti… Poiché, dopo che è venuto buio, girare a piedi è pericolosissimo, anche solo per pochi isolati, e si rischia lo scippo, o peggio, vado a mangiare nel ristorante cinese di fronte all’albergo, nello stesso palazzo in cui si trova anche l’ufficio di Gametrackers. Un piatto enorme di riso fritto lo pago 200 ksh.

Quando ritorno in hotel, il manager alla reception mi consegna il seguente messaggio della Eritrean Airlines “presentarsi domattina per ottenere un rimborso di 100 dollari” Dormire non mi viene granchè bene, per via del casino del ristorante/bar, e per qualche dolore di panza.

12 agosto Un inserviente del Terminal Hotel, incrociato sulle scale, saputo che mi fermo lì un’altra notte, mi chiede se voglio asciugamano e lenzuola pulite, o se deve venire a riassettarmi la camera. Un servizio impeccabile, per la miseria!! Manco fossi capitata in un 5 stelle! Fra l’altro, “abitare” in centro è tutt’altra cosa, niente taxi, niente attese per i matatu, niente maratone per andare al supermercato.

Mi reco per prima cosa al terminal della Scandinavian Express e mi prenoto per l’indomani un posto sul bus per Dar Es Salaam. Pago 3000 ksh. La partenza è alle 7.

Dopodiché mi reco alla compagnia aerea a prendermi i miei 100 dollari. Mi mangio un quarto di pollo e patatine al Chicken Inn per 230 ksh,e poi mi guardo un po’ di vetrine.

La sera ceno in un ristorante africano vicino al Terminal, il Market Restaurant. Ieri avevo notato che era pieno di gente del posto, e quindi lo provo. Non male, un filetto di pesce con verdure e riso mi costa 150 ksh.

Nei pressi ci sono anche dei fast-food di stampo africano. Il loro menù è in bella mostra su grandi tabelloni. A parte hamburger e panini offrono anche piatti più sani. Un quarto di pollo, ad esempio, in questi posti costa un terzo di quanto l’ho pagato io in centro. Anche qui è sempre strapieno di gente.

Vado a letto ma non dormo bene, di nuovo mal di pancia e, questa volta, frequenti corse in bagno. Fantastico, fra poche ore mi tocca prendere un autobus e rimanerci per 12-13 ore…

13 agosto Prima di lasciare il Terminal Hotel lascio detto al Manager che mi tenga una stanza per il 23 agosto sera, avviso che arriverò tardi ma non so bene a che ora, poiché il mio pulman arriva da Dar Es Salaam.

Un taxista anziano, che parcheggia solitamente nei paraggi mi porta sino alla stazione dei bus. Per ripararmi da ogni imprevisto, mi prendo una pastiglia di Imodium. Sul bus non c’è la toilette, infatti.

Appena partiti, inizio ad avere nausea. Stranamente, perché non soffro di cinetosi. Sono inquieta ed un po’ spaventata. Spero soltanto che il viaggio prosegua senza incidenti.. Poi mi viene in mente che la causa dei miei problemi potrebbe essere l’Imodium, che ho preso per la prima volta in vita mia, per giunta a stomaco vuoto, poiché non ho avuto tempo di far colazione.

Mi mangio un paio di banane che mi ero portata appresso, e tutto passa.

Che sollievo, accidenti..

La prima parte di tragitto la percorriamo sull’autostrada per Mombasa, dopodiché deviamo e presto ci troviamo a Namanga, al confine con la Tanzania.

Il resto del viaggio lo trovate nella sezione Tanzania, “Esplorare con lentezza”.

23/8 Il bus Scandinavian arriva a Nairobi alle 21. Mi faccio portare al Terminal Hotel in taxi, e scopro che non mi hanno tenuto la camera, come avevo chiesto invece il giorno della partenza. Avrei voluto telefonare oggi, per dare la conferma, ma purtroppo, in tutte le stazioni dove abbiamo fatto tappa o non c’erano cabine oppure non funzionavano, o la linea era occupata.

Scortata da una guardia chiamata dal Manager dell’albergo, percorro 3 o 4 isolati ed approdo all’Embassy Hotel, che mi pare più o meno dello stesso standard, con la differenza che il costo di 1000 ksh comprende anche la colazione, ed al primo piano ospita un ristorante con prezzi modici, il Simba Mbili. Qui decido di mangiare qualcosa di leggero, data l’ora tarda. Esperienza pessima. Mi portano un riso fritto immangiabile, salatissimo. Uno schifo.

24/8 La colazione al Simba Mbili è un attimino meglio della cena. Ho dormito molto bene perché in questo albergo molte stanze, la mia inclusa, sono sul lato interno, quello silenzioso.

Torno alla stazione della Easy Coach e prendo un bus per tornare al mercato di Nakuru a comprare souvenir e regali vari. Mi sputtano tutti i 100 USD del rimborso spese della Eritrean Airlines. A proposito, del mio bagaglio ancora nessuno sa niente, e domani riparto per tornare in Italia, che meraviglia… Acquisto maschere, bonghi, braccialetti, borsette in paglia decorate con conchiglie, quadri, khangas. Il khanga è secondo me un dono particolarmente appropriato. Prima di tutto, è la gonna tipica delle donne africane, e non lo si vede da altre parti. E’ generalmente tessuto in tinte molto vivaci, con decorazioni di tipo fruttato-floreale nel centro e bordi dai disegni geometrici. Si diversifica dai parei di tutte le altre parti del mondo perché, nella zona centrale, ha stampato un proverbio in swahili. Di norma, se ne comprano due uguali. Uno, appunto, funge da gonna. L’altro invece lo si annoda in testa oppure, come accade in Tanzania dove le gli abitanti sono musulmani, lo si usa come hijab. Costa poco, 100-150 ksh, non prende posto fra i bagagli, se non piace come pareo, lo si può utilizzare per stendersi in spiaggia, come tovaglia, o come copri-poltrona.

Giustamente, ai commercianti delle bancarelle devo apparire come una che ha un sacco di soldi da spendere, e quindi purtroppo tutti mi chiamano, mi tirano per le maniche, vogliono assolutamente che passi a vedere anche la loro merce, se non passo si incazzano, se non compro pure, insomma, ciò che dapprincipio era nato come un piacevole passatempo ora sta diventando uno stress. Non capiscono assolutamente il concetto che non posso acquistare tutto da tutti, che non ho tempo per contrattare all’infinito, che devo prendere un altro autobus fra poco… Insomma, mi tocca scappare.

Ma certo è che il contatto con la città di Nakuru rimarrà per me qualcosa di speciale.

Rientro nella capitale a metà pomeriggio, mi infilo in un supermercato e compro almeno una decina di scatole di thè ai più svariati aromi, compreso quello al ginger che avevo assaggiato a Zanzibar. Anche il thè è un ottimo e tipico regalo, oltrechè economico. Il Kenya è il terzo produttore al mondo, dopo India e Cina. Lo berrò questo inverno nei freddi pomeriggi domenicali e sono sicura che il sapore mi ricorderà l’atmosfera frenetica e la vitalità di Mokta Daddar Street.

Il mio aereo domani parte alle 19, ciò significa che posso lasciare la città alle 16 ed ho quindi ancora quasi una giornata intera. Facendo i conti in stanza, mi rendo conto di aver speso molto poco, in tutta la vacanza, non più di 600 dollari. Domani mattina, basta coi bus e coi matatu, farò la vera signora e mi farò accompagnare in taxi alla casa-museo di Karen Blixen, oppure al centro dove raccolgono tutti i cuccioli rimasti orfani.

Mi viene la pessima idea di chiedere in reception quanto costi un taxi verso quei posti, l’addetto mi dice circa 700 ksh, ma quella è la tariffa per gli africani, per cui credo sia da raddoppiare. Lo stesso receptionista mi dice che ha un amico che può portarmi dove voglio, gli faccio un cenno di assenso distratto e me ne torno in camera. Dopo cinque minuti, squilla il telefono, e mi si avvisa che lì sotto c’è il taxista che mi aspetta per pianificare la gita di domani. Che palle, mica glielo avevo chiesto… Per non sembrare scontrosa, scendo e mi trovo davanti una ragazza con un’agenda in mano. Non ha l’aria da taxista. Sento odor di fregatura. Mi propone un pacchetto tutto compreso tour Karen Blixen + Centro delle Giraffe + trasporto in aeroporto a 70 dollari. Mi rendo benissimo conto che quelli dell’albergo hanno un accordo con questa signora per procacciarle affari su cui incassano commissioni, e le spiego che io in realtà volevo solo un taxista. Se la corsa in taxi costa 7 dollari, anzi il doppio perché sono una mzungu, l’ingresso a ciascun centro un paio o al massimo 5 dollari, e il tragitto in aeroporto altri 10, perché mai dovrei sganciarne 70? No no, c’è un equivoco, devo andarmene via. Si sta facendo buio, e voglio ancora fare un giretto e cenare prima che sia troppo pericoloso. Sto davvero fremendo d’impazienza, e quella tizia invece insiste “my friend, I want to make business with you” ed ogni volta fa milioni di operazioni su una piccola calcolatrice tascabile, per poi scalare di 2 dollari. E’ una tortura. Poi perdo davvero le staffe, la saluto e me ne vado, così, di punto in bianco, non senza aver lanciato un’occhiataccia al receptionista.

Salgo un secondo in camera a posare il portafoglio per uscire solo con il minimo indispensabile per pagare la cena, e quando ri-scendo chi mi trovo ad aspettarmi? Un altro taxista!! Scocciata, gli dico che ho cambiato idea e, se mai ci andrò davvero, alla casa di Karen Blixen, lo farò in autobus, o in matatu.

Ritorno al Market Restaurant. Un filetto di pesce con contorno di verdure e riso, più una macedonia lo pago 210 ksh.

25/8 Dopo colazione, me ne sgattaiolo via come una ladra, sperando di non essere intercettata da nessuno. Poi mi arrabbio e penso “ma possibile che mi debba ridurre così???”. Torno davanti al Terminal Hotel e cerco l’anziano che qualche giorno fa mi aveva già portato al terminal della Scandinavian Express. Mi piacciono quelli come lui, tranquilli, che non seccano nessuno e si fanno gli affari loro. Concordiamo 1500 ksh andata e ritorno per la casa di Karen Blixen, mi dice che posso fermarmi quanto voglio, anche un’ora (??)… Una parte del tragitto che percorriamo già mi pare di averlo visto, forse è lo stesso che avevo fatto per loYaya Centre, e difatti dopo un po’ ci passiamo davanti. Quando cominciamo ad allontanarci dal centro città, il paesaggio inizia a farsi più ameno. Ai lati della strada ci sono dei mobilifici e altri laboratori en plein-air. Il distretto di Nairobi denominato “Karen” è molto carino, dolci colline in lontananza, alberi rigogliosi ed un’esplosione di fiori colorati sulle siepi.

L’autista parcheggia all’ombra e mi lascia all’ingresso del Karen Blixen Centre, riconosco la casa, che è come me la ricordavo nel film. Non mi aspettavo invece il magnifico giardino che la circonda.

L’ingresso costa 50 ksh per i residenti, 200 per i turisti. All’interno è proibito fare fotografie. Quello che mi colpisce di più sono le pelli di grossi felini, ormai spelacchiate, stese per terra, e le fotografie appese alle pareti. Sorrido sotto i baffi mentre considero che Finch Hutton in realtà è brutto, ma proprio brutto, altro che Robert Redford… Nel giardino si sta svolgendo una festa, in un’atmosfera tipicamente coloniale. All’inizio pensavo fosse un rinfresco incluso nel prezzo per quelli dei viaggi organizzati, in realtà, mi dice un inserviente, è un party privato. Gruppi di bianchi, seduti ai tavoli, sotto un gazebo, mentre i camerieri ed i membri dell’orchestra sono tutti neri, inamidati nelle loro scure livree manco avessero ingoiato dei manici di scopa. Mio Dio, che anacronismo! Rientrata in città, converso dapprima con un lustrascarpe dall’eloquio che farebbe invidia ad un presidente del consiglio, e che cerca di intortarmi per farmi lustrare con olio di cocco le mie infradito di gomma. L’azione seguente è quella di infilarmi nel City Market, situato di fronte al mio hotel, per completare gli ultimi acquisti, tanto per non dimenticare proprio nessuno. Vorrei altri khanga da regalare alle mie amiche. Quelli più economici, qui, e lo dico tanto per dare un’idea di quanto invece convenisse Nakuru, non me li danno a meno di 350 ksh, mentre io li avevo pagati 100 al supermercato senza quindi neanche contrattare.

Dopodiché, una delle esperienze più goderecce della vacanza. Mentre mi sto trastullando per Moktar Dadda Street nei pressi del Terminal Hotel con aria da sfaccendata, alcune ragazze, sulla soglia di un ristorante, mi invitano ad entrare dopo avermi mostrato il menu. Poiché è mezzogiorno, ho una discreta fame, ed i prezzi sono invitanti, 100 ksh in media per una portata, mi faccio condurre all’interno.

Le piastrelle assomigliano a quelle dei bagni delle scuole, ma il locale è stipato all’inverosimile di gente, i tavoli sono puliti e le cameriere hanno un’aria molto più ordinata di me, che quasi quasi mi vergogno.. Varie pietanze a base di carne o pesce vengono servite con contorno a scelta di riso, chapati, e ugali.

Mi scodellano davanti un pesce enorme, condito con salsa di cocco e ginger, in realtà non era quello che avevo ordinato, ma pazienza, poi un contorno di erbette tipo spinaci ed un chapati. FANTASTICO! Il sapore leggermente dolce del cocco si sposa a meraviglia con quello deciso del ginger e la polpa delicata del pesce. Mi trattano con una gentilezza che trovo imbarazzante. O forse hanno come l’imprinting che tutti i bianchi siano dei pretenziosi rompicoglioni?? Mi chiedono cosa voglio da bere. Acqua. Non hanno acqua. Una Stoney, allora. Non hanno neanche quella. A questo punto mi trovo un attimo incerta perché non avevo pronta una terza alternativa. Un signore tarchiato di mezza età segue la scena, coglie la mia indecisione interpretandola come disappunto, bisbiglia qualcosa al cameriere e lo spedisce fuori. Dopo 3 secondi 3 questo ritorna con la mia Stoney, immagino presa al bar a fianco.

L’uomo robusto si scusa in mille modi, mi dice che oggi è giorno di inaugurazione della nuova gestione, e sono ancora un po’ disorganizzati. Si presenta come il padrone del ristorante, mi dedica l’attenzione ed il riguardo che riserverebbe ad un importantissimo cliente. Gli faccio calorosi complimenti per la qualità del cibo, la rapidità del servizio, la pulizia del locale, e lui mi dà un bigliettino da visita e mi chiede se posso mettere una buona parola fra i miei connazionali che dovessero trovarsi in seguito a passare da quelle parti. Come no, se lo merita… Mi raccomando! Tutti al Soko Restaurant, che si mangia da Dio… Se nulla è cambiato in cinque mesi…

Alle 13.30 mi rendo conto ora che mi tocca proprio di andare in camera e iniziare a sbaraccare. Dietro pagamento di metà tariffa, ossia 500 ksh, mi hanno lasciato la stanza per il pomeriggio. Voglio accomiatarmi dalla città e dal paese, che mi ha ospitato così generosamente e cordialmente, con una faccia amica, per cui cerco il taxista anziano, e gli chiedo di portarmi al Jomo Kenyatta International.

Lo saluto con voce tremante, kwaheri, arrivederci! I controlli in aeroporto sono severissimi. Ancora in strada, prima di accedere all’interno, bisogna accodarsi, mostrare passaporto e biglietto, e passare il primo metal detector della serie.

Al check-in gradita sorpresa, il mio zaino!! Mitico, non manca niente!! Evviva!! Il viaggio di ritorno prosegue senza scossoni. Qualche indecisione ad Asmara con un transfer quanto mai confusionario, per via dei bagagli che, questa volta vengono riconsegnati e poi ri-registrati in un’atmosfera da bolgia dantesca, nel caos più totale. Traggo un certo vantaggio da questo marasma, infatti capito in classe business, forse c’è over-booking.

Si atterra a Milano dopo un volo eterno, tre scali.

Mentre aspetto il mio pulman per Torino sotto la pensilina, il primo sguardo che incrocio per strada appartiene ad un individuo dalla pelle scura come il carbone, che sta transitando nei pressi a bordo della sua scassatissima Peugeot 205. Per un attimo, mi illudo di essere ancora a Nairobi. Invece sono a Malpensa, Italia, di ritorno alla solita vita…

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