Il mio sogno a stelle e strisce

Da New York a Los Angeles. Tre settimane indimenticabili.
Scritto da: chris_87
il mio sogno a stelle e strisce
Partenza il: 24/07/2010
Ritorno il: 14/08/2010
Viaggiatori: 5
Spesa: 3000 €
Questa non è una storia che inizia con ‘c’era una volta’, perché parla di un sogno che in fondo c’è sempre stato. Perché raccontare un viaggio è un po’ come raccontare un sogno. La differenza è che un sogno, dopo essersi svegliati, c’è qualche difficoltà a ricordarlo, mentre quando capita di ripensare ad un viaggio spesso si colgono alcuni sfumature e particolari che sul momento l’eccitazione e l’adrenalina avevano declassato in secondo piano. Seduta davanti al mio computer portatile, in un grigio e uggioso pomeriggio di ottobre, penso alle altezze mozzafiato di New York, all’aria da film western del South Dakota, alla maestosità della Route 66 e al sole che bacia Sunset Boulevard, e fatico a credere che quella fosse in tutto e per tutto la realtà, senza alcuna traccia di magia. Forse anche perché, rispetto all’oceano, il mio cuore è sempre stato più di là che di qua, come testimonia l’enorme bandiera a stelle e strisce appesa al muro della mia camera – uno dei regali meglio riusciti a cui le mie amiche abbiano mai pensato. Letteralmente, da una costa all’altra. Il sogno inizia a febbraio, quando mio padre arriva a casa con in mano cinque biglietti aerei, andata Milano – New York, ritorno Los Angeles – Milano. Per una studentessa universitaria, febbraio è sinonimo di freddo, cappotti ed esami, nel mio caso serviti con un contorno di nostalgia natalizia e ansie in vista di un compleanno che non ho mai voglia di festeggiare. L’estate, insomma, non è altro che un lontano e a sé stante miraggio, ma di colpo, nel più imprevedibile e piacevole dei modi, finisce per apparire vicino, raggiungibile, sempre più eccitante. In quasi sei mesi di cose ne succedono tante, e di programmi ne cambiano altrettanti. Prove da superare, fatiche sopportate e sacrifici fatti, e ogni volta lo sforzo sembra essere più leggero. Alla fine di giugno, seduta al cinema davanti a Sex and the City 2, osservo le leggendarie ‘ragazze’ correre con la loro proverbiale classe per le strade di New York, e non posso fare a meno di sorridere, ‘ci siamo quasi’, penso. Il 5 di luglio sostengo l’esame di Patologia Umana I, così impegnativo e terrificante che solo altre due folli e coraggiose martiri mi fanno compagnia al primo appello. Mentre sono seduta davanti alla professoressa che mi interroga su terapie e vaccini innovativi, atterrita di fronte ad una domanda sulla differenziazione dei monociti in cellule dendritiche, mi chiedo, disperata, cosa stia facendo lì in quel momento. Mi rispondo che sono lì perché quando ci sarà l’appello successivo mi troverò in un altro continente, ed è allora che il mio cuore ricomincia a pompare sangue al resto del corpo. E la soluzione all’enigma della prof, di colpo, finisce per apparirmi più facile ed elementare di quanto pensassi. Poi, naturale quanto inconsapevole della sua importanza, quel famigerato e tanto atteso 24 di luglio arriva.

Prima di partire, insieme al tentativo di non dimenticare nulla, ci sono la preoccupazione di riuscire a far stare l’occorrente per tre settimane in venti chili di bagaglio, la paura di volare, per chi come mio padre o mio fratello si sente più ‘temerario’, e l’ansia da metaldetector, per chi invece, come mia sorella, sale su un aereo per la prima volta. Tutte sciocchezze che quando ci si trova sul suolo newyorkese appaiono del tutto irrilevanti. Le porte scorrevoli dell’aeroporto J.F. Kennedy si aprono su una trafila di taxi gialli, in corsa o parcheggiati ai lati della strada, prevedibili da chiunque abbia visto almeno un paio di film ambientati nella Grande Mela. Ciò che ci stupisce, invece, è il caldo: da record anche per la fine di luglio. Inizia ad apparire chiaro il motivo per il quale gli americani investono così tanto in aria condizionata. A New York possiamo contare sull’ospitalità della sorella di mia mamma, nonché mia affezionatissima zia e madrina, e sull’itinerario di mia cugina che, seppur in trasferta italiana, ci ha forniti di un ricco elenco di posti da vedere e cose da fare. Con una giornata abbondante a disposizione, tuttavia, è praticamente impossibile esplorare come si deve qualcosa di così immenso, così ci dobbiamo accontentare di alcuni assaggi di una città sempre e comunque magica. Dall’Upper East Side fino a Down Town, passando per lo scintillio di Times Square, l’enorme cantiere pregno di rumori ed emozioni che è il Ground Zero, Wall Street e il Ponte di Brooklyn, dove la pioggia ci fa una sgradevole sorpresa. Siamo costretti a rintanarci in metropolitana, ma il sole torna in tempo per regalarci un tramonto in riva al fiume. Mi tocca salutare New York lasciandoci, come di consueto, un altro piccolo pezzo di cuore, ma senza troppo rammarico: inizia ufficialmente l’avventura on the road, con tanto di SUV preso in affitto. Qualche problema con il navigatore satellitare, che si risolve entro la mattinata, e poi il viaggio ha inizio. La prima grande tappa sono le imponenti Niagara Falls, dove il tanto consigliato giro in battello ‘Maid of the Mist’ non ci lascia affatto delusi; una vera e propria doccia, assaporata dal ponte di una barca a mollo in mezzo a Stati Uniti e Canada, sovrastati da uno spettacolo unico al mondo. Il sole incorona le cascate più vaste del pianeta con un arcobaleno che le rende ancora più favolose. Non facciamo in tempo a sentire la nostalgia dell’aria di città perché, salutato questo trionfo di natura e maestosità, è la volta di Chicago, una delle più grandi sorprese riservateci dal viaggio. Una piccola Svizzera con i grattacieli sulle rive del lago Michigan, che a tratti vuole sembrare una Manhattan in miniatura, meno caotica e molto più ordinata. Nei pressi del centro, vicino ad un auditorium dall’aspetto singolare e, a quanto pare, dalla fenomenale acustica, si trova The Bean, un monumentale fagiolo ricoperto di specchi, nel quale si riflette l’intera città. La strada prosegue verso Madison, capitale del Wisconsin, modesta ma graziosa città universitaria che brulica di giovani anche in piena estate. Poi, con una lunga tirata attraverso il cuore degli States, eccoci nel West. Rapid City, in South Dakota, è l’esempio emblematico di cosa accade quando un popolo, quello dei bianchi, dopo secoli di oppressioni verso i nativi americani, cerca di rendere loro la giustizia che gli è mancata per così tanto tempo; non è affatto inusuale imbattersi in statue rappresentanti personaggi Sioux, e, soprattutto, incontrarli di persona. Un particolare e assolutamente imperdibile negozio, Prairie Edge (letteralmente, ‘il confine della prateria’), pur esibendo prezzi esorbitanti, permette di esplorare appieno una cultura tanto affascinante quanto, sotto molti aspetti, sconosciuta. Rapid City ci fa da base durante due giorni passati alla scoperta delle Black Hills, dove la gente con il cappello da Cowboy non la si incontra solo a Carnevale o ad Halloween, in cui è normale che una mandria di bisonti blocchi il traffico per attraversare la strada. Abbiamo modo di ammirare il famoso monte Rushmore, nel quale sono scolpiti i volti dei presidenti americani George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln, e una scultura ancora in via di costruzione, forse meno celebre ma non per questo meno degna di nota. Si tratta di un memoriale in onore del leggendario capo indiano Crazy Horse (Cavallo Pazzo), dedicata al popolo dei pellerossa da parte di uno scultore bianco e della sua famiglia. In circa cinquant’anni, data la scarsità dei finanziamenti, è stata realizzata unicamente la faccia, grande da sola come tutti e quattro i presidenti raffigurati sul Rushmore; ci vorranno ancora anni per vederla completata, ma si tratterà della più grande scultura mai realizzata. La città di Deadwood, nella quale ogni sera viene riportata in scena la sparatoria che è costata la vita a James Hickok, dà la sensazione di trovarsi in un film, in quel West che in molti, me compresa, per tutta la vita hanno visto solo dietro uno schermo o in un parco divertimenti, ma che lì è niente meno che la realtà. A Cheyenne, capitale del Wyoming, chi è più fortunato di noi e riesce ad arrivare all’ora giusta può addirittura avere modo di assistere ad un rodeo che riempie lo stadio come una partita di football.

È quindi il turno di Denver, la capitale alta un miglio dove non sembra affatto di essere in montagna; una bella città, in cui però non ci si può fermare più di una mezza giornata. Non quando le Rocky Mountains e i parchi ci attendono. A Mesa Verde ammiriamo, costruite nella roccia rossastra, le abitazioni dei primi nativi. La Monument Valley – affiancata dall’altrettanto suggestiva Valley of Gods – è uno spettacolo di mastodontiche sculture modellate da null’altro che la natura, che insieme a nuvole di una forma che, fino ad ora, mi era capitato di vedere solo nei cartoni animati, lo rendono un paesaggio assolutamente unico. Tocca quindi al Bryce Canyon, dove chi ha voglia di farsi una camminata e non si sente spaventato dal sole o dalle salite, può addentrarsi nel cuore del Canyon e osservarlo da una prospettiva del tutto nuova. Ammirare il sole sorgere sul Grand Canyon è una delle esperienze che più mi permettono di apprezzare la disarmante immensità della natura, mi emoziono soffermandomi a guardare le rocce cambiare il loro colore man mano che il sole si alza nel cielo.

La Route 66, la Strada Madre, storico e leggendario collegamento tra Illinois e California, seppur non più percorribile per la sua intera lunghezza, ci accompagna lungo la strada verso il Nevada; e tra Harley Davidson e negozi e boutique tematici, sembra davvero di trovarsi in un romanzo di Kerouac. La tappa d’obbligo, inutile dirlo, a questo punto è Las Vegas, che forse è quanto di più indescrivibile abbia visto nel corso del viaggio. Una città che non dorme mai, dove le luci non sono mai abbastanza, dove ogni cosa è spropositata ed esagerata, facendo sembrare semplicemente giusto che sia così. Dove lungo la strada si incontrano Wedding Chapels con più frequenza dei bar. La città che si può percorrere per strada oppure passando da un hotel all’altro, attraversando i casinò più famosi del mondo. Le ambientazioni degli hotel, da New York al Lago di Como, da Parigi a Venezia, da Camelot all’Isola del Tesoro, dall’antica Roma all’Egitto, sono tanto maestose da far venire la pelle d’oca, culminando in spettacoli come battaglie tra navi pirati o le celebri fontane del Bellagio. Forse un po’ meno impressionante, ma comunque altrettanto suggestiva, è la ‘vecchia’ Las Vegas, quella un po’ più decentrata, dove si trovano i primi e più storici hotel e casinò, che hanno dato origine a tutto. Lasciata la città, eccoci diretti verso la Death Valley, California: uno dei punti più caldi della Terra e il più profondo dell’emisfero occidentale, dove vengono raggiunti i 90 metri sotto il livello del mare. In altre parole, deserto roccioso allo stato più puro, di cui l’appellativo ‘Devil’s Golf Course’ (campo da golf del Diavolo, nome dato ad uno dei punti di osservazione) rende perfettamente l’idea.

Una notte a Mammoth Lake, nella Sierra Nevada, cercando di sopravvivere al pienone e correndo il rischio di dormire in auto, e poi via verso San Francisco. Incredibilmente diversa dalla maggior parte delle altre metropoli statunitensi, fatta di salite e discese a volte tanto ripide da necessitare di curve artificiali che ammortizzino la pendenza, è una città davvero bellissima. Dalla grande e caratteristica China Town, passando per il frequentatissimo quartiere italiano, fino alla San Francisco marina del Pier 39, dei ristorantini sul molo, dei negozi e dell’acquario, dei gabbiani e dei leoni di mare. Una breve tappa in Napa Valley, prima al mondo per la produzione di vini e dall’aspetto ridente e ordinato di un paesino montano austriaco, Monterrey e poi Los Angeles. O meglio Hollywood, la città dei sogni. Dove si cammina calpestando stelle dedicate al fior fiore dello spettacolo e della musica mondiali di oggi e di ieri, davanti al teatro presso il quale, una volta all’anno, si radunano i nomi più illustri del cinema, in occasione del suo festival più importante. Ci vuole un po’ per convincere i nostri genitori a sopportare code, caldo e attese, ma alla fine ci concediamo, tra le ultime esperienze di questo viaggio, la visita agli Universal Studios: un parco divertimenti costruito nei pressi degli studi della celebre casa cinematografica, dai costi un po’ proibitivi, ma indubbiamente spettacolare. La Mummia, Waterworld, Jurassic Park e Shrek sono solo alcuni tra i film che ispirano le colossali attrazioni del parco, che comprendono docce assicurate, montagne russe da fare e rifare, spaventi da cardiopalma e innumerevoli esperienze 3D. Senza considerare, naturalmente, il giro esplorativo degli studios veri e propri. Non è soltanto l’esilerante scoperta di come vengono realizzati alcuni tra i più misteriosi effetti speciali, che si tratti di un temporale o di un uomo sgozzato da uno squalo; non è soltanto la consapevolezza di essere su un trenino che sta percorrendo i set che hanno ospitato scene che so a memoria. C’è qualcos’altro, un’emozione che, forse, chi non ha passato quasi vent’anni della sua vita saltando da una fissazione ad un’altra, innamorandosi oggi di quello, domani di quell’altro film, telefilm o attore che sia, non riesce a capire. È l’esatto momento in cui capisco che nonostante gli inconvenienti e le scomodità di una visita ad un parco divertimenti in pieno agosto, ne è assolutamente valsa la pena.

L’ultima mezza giornata la riserviamo alla baia di Santa Monica, capolinea della Route 66 e località balneare negli immediati pressi di Los Angeles, in cui se ci si aspetta il clima marittimo a cui noi italiani siamo abituati nel mese di agosto, ci si sbaglia di grosso. Pur senza buttarci a capofitto nel Pacifico, tuttavia, trascorriamo ore gradevolissime, osservando i più coraggiosi che invece ci provano, prendendo il sole, nutrendo uno stormo di gabbiani con pezzi di biscotti e passeggiando lungo il molo. Dopodiché, altro non rimane che dirigersi verso l’aeroporto di Los Angeles per poi, facendo tappa in mezzo al grigiore di una Londra bagnata dalla pioggia, ritornare al punto di partenza. All’aeroporto di Linate, a Milano, ai viaggiatori in arrivo è richiesto di disporsi in due file, una per i cittadini dell’Unione Europea e una per gli altri, ma a nessuno pare importare, e la folla si distribuisce a caso. Manca l’ordine quasi maniacale degli americani, manca persino doversi sforzare per capire cosa ci dicono al controllo passaporti e riuscire a rispondere adeguatamente. La stanchezza, comunque, è troppa per lasciarsi già sopraffare dalla malinconia. La sensazione è quella di una prepotente sveglia che mi butta giù dal letto in una fredda e impietosa mattina d’inverno, ricordandomi che c’è la scuola ad aspettarmi e interrompendo il sogno che tanto piacevolmente mi stava tenendo compagnia.

Rimane la voglia di raccontare a chiunque ogni singola esperienza o emozione, pur sapendo di non riuscire a rendere l’idea, rimane la consapevolezza di conoscere quella terra un po’ più di prima, molto più di prima, pur non avendone affatto abbastanza. Rimane il ricordo, insieme a migliaia di foto e ad un sorriso, di uno dei più bei viaggi che mi sia mai capitato di fare.



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